Acquario E` curioso che uno dei poemi sinfonici più belli che siano

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Acquario E` curioso che uno dei poemi sinfonici più belli che siano
Acquario
E’ curioso che uno dei poemi sinfonici più belli che siano mai stati composti non sia l’opera di un
musicista professionista, ma del direttore di un acquario. Ed è forse ancora più strano che questa
sinfonia, che quando sarà pubblicata verrà acclamata come una tra le maggiori di questo secolo,
sia la sola composizione che quest’uomo abbia mai scritto. Per questo la sua scomparsa mi rattrista
due volte: allo sgomento per una morte così orribile si aggiunge il dolore per la perdita di un
musicista geniale che, sebbene non più giovane, avrebbe potuto dare alla storia della musica
contributi di portata inimmaginabile.
Quel musicista si chiamava Seamus Jacobs. Purtroppo non ho avuto la fortuna di conoscerlo.
Solo ora, dopo la sua morte, scopro nelle gelide formule degli atti giudiziari che era un uomo
basso e magro, dalla corporatura esile, con i capelli radi ma ancora biondissimi. Credo che i suoi
occhi, di un azzurro sbiadito, emanassero una strana luce, come se stessero galoppando nei
territori del sogno (ma questo dai resoconti di polizia non risulta).
Jacobs era stato uno studente molto brillante e si era laureato giovanissimo in biologia marina. Lo
avevano subito assunto come ricercatore nel più importante Acquario del paese. Presto, senza
fatica, ne era divenuto il direttore e tale era rimasto fino alla sua incredibile morte. In tutti quegli
anni s’era sempre prodigato nel suo lavoro; lo aveva fatto con impegno e amore, rivelandosi un
funzionario eccellente e un ottimo amministratore.
Mi è difficile comprendere come l’uomo che in seguito avrebbe prodotto un simile capolavoro,
per molti anni non avesse mai rivelato il minimo interesse per la musica. Dalle testimonianze della
sorella Linda, dei suoi collaboratori e dei pochi amici risulta infatti che Jacobs non aveva mai
posseduto un giradischi, una radio o un qualsiasi altro apparecchio di riproduzione musicale. Non
solo, ma le rare volte che qualcuno era riuscito a strapparlo ai suoi libri per trascinarlo a un
concerto, lui si era addormentato quasi subito.
Anche dai suoi numerosi scritti, vergati in una calligrafia minuta e puntigliosa, assai difficile da
decifrare, non traspare alcun interesse per la musica, almeno fino al giorno in cui Jacobs si recò
a Baltimora per il XXXVI° Congresso Malacologico Mondiale.
In quell’occasione il suo vecchio amico Douglas Macbeth gli mostrò una strana conchiglia e
Jacobs fu folgorato da una vera e propria illuminazione. Certo ne aveva sentito parlare varie
volte, ma non aveva mai avuto l’occasione di vederla: la Voluta musica è una conchiglia che
proviene dai Caraibi sudorientali, d’un color avorio simile a quello di una vecchia pergamena.
La sua peculiarietà consiste nel disegno che ricorda moltissimo una antica scrittura musicale; il
guscio infatti è percorso da una spirale di quattro righe scandita di quadrati e puntini neri
proporzionati e ordinati tra di loro come se fossero delle note. Macbeth fece osservare a Jacobs
che il disegno sul dorso della conchiglia era straordinariamente simile agli spartiti corali
antecedenti all’undicesimo secolo, quando le righe erano solo quattro e le note erano ancora
indicate con dei quadratini neri.
Quella stessa sera, in albergo, Jacobs annotò nel suo diario, con parole forse troppo
entusiastiche, che la Voluta musica avrebbe potuto riaccendere nei suoi pesci malinconici la
scintilla della gioia. Sì, perché a questo punto è necessario ricordare come negli ultimi anni
Jacobs fosse stato assalito da una sorta d’infantile ossessione. Una fissazione che i suoi colleghi
non potevano condividere, ma che non ostacolavano, ritenendola innocua: il brillante direttore
dell’Acquario era convinto che i suoi pesci stessero diventando malinconici. Dopo l’orario di
chiusura, quando se n’erano andati tutti, rimaneva a osservarli mentre nuotavano nelle grandi
vasche e quell’esame non faceva che rafforzare la sua convinzione. Ogni tanto i pesci spingevano
i musi fluorescenti contro il cristallo e sembravano ricambiare le sue attenzioni. Chissà quali
suppliche Jacobs credeva di riconoscere nelle loro occhiate!
Il fatto è che Jacobs, come testimonia la mole dei suoi appunti, s’era convinto che la cattività
fosse nefasta per i pesci perché li faceva diventare malinconici. Si trattava, secondo le sue curiose
teorie, d’una malinconia subdola, impalpabile, che cominciava ad assalirli dopo un certo tempo
di permanenza nell’acquario. Da quel momento i pesci diventavano sempre più indolenti fino a
cadere in uno stato di composta prostrazione. Ciò creava i problemi di riproduzione ed
affrettava la loro morte.
Jacobs aveva anche escogitato una soluzione per risolvere il problema: negli acquari era
necessario assicurare un continuo ricambio d’animali, liberandone periodicamente alcuni per
catturarne di nuovi.
Questa teoria, del tutto infondata sul piano scientifico (non è necessario essere degli scienziati per
sapere che i pesci non provano sentimenti), rappresentava l’unica incongruenza di un uomo
coltissimo e molto capace. La stima e la considerazione che Jacobs si era guadagnata in molti anni
di lavoro facevano sì che sia il Ministero che i colleghi gli perdonassero una ingenuità che
ritenevano dovuta al suo profondo senso di umanità. Pensavano che si piccasse di voler ravvisare
un’umanità anche nei pesci, gli animali che amava sopra ogni altra cosa e con i quali trascorreva la
maggior parte del suo tempo.
Conoscendo questa sua eccentrica convinzione, non meraviglia troppo che Jacobs, non
appena vista la Voluta musica, si fosse entusiasmato sentendo di aver trovato un rimedio per
impedire che i pesci languissero nelle vasche asettiche del suo Acquario.
Immediatamente sentì l’urgenza di decifrare i segni incisi sul dorso delle conchiglie e di trascriverli
in una partitura eseguibile. In questo modo avrebbe potuto restituire ai pesci in cattività, la loro
felicità originaria. Ma siccome era digiuno di nozioni musicali, si rese conto che avrebbe dovuto
studiare i rudimenti di quell’arte.
Ci si potrebbe chiedere perché Jacobs non fosse ricorso alla collaborazione di un musicista: ciò
avrebbe semplificato l’impresa. Ebbene un brano dei suoi diari spiega, in modo alquanto
farraginoso, che l’opera di trascrizione doveva essere eseguita da un sensibile ed esperto ittiologo
perché solo così la sinfonia sarebbe stata creata aderendo alla natura dei pesci. In realtà credo che
Jacobs volesse avere il massimo controllo sull’iniziativa.
Persuaso di questa necessità, acquistò una gran quantità di manuali e di libri e si immerse
nell’avventura armato di grande risolutezza. Con una pazienza lenta e segreta, iniziò a dedicarsi
allo studio della scrittura musicale e divorò innumerevoli volumi di teoria della composizione,
prendendo continui e minuziosissimi appunti. In seguito si procurò un computer attrezzato con
un programma di editing musicale e un avveniristico sintetizzatore. Dopo aver preso numerose
lezioni sul loro funzionamento, trascorse lunghe, frementi notti a esercitarsi. Solo quando
credette di aver acquisito padronanza nell’arte della composizione, si accinse all’opera di
trascrizione dei segni sulle conchiglie. Per meglio decifrare la musica che, secondo lui, era incisa
da secoli sui preziosi gusci, si procurò più di trecento esemplari di Voluta musica. Fu necessario
perché su ciascuna conchiglia la disposizione delle note appariva diversa ed era quindi essenziale
scoprire l’ordine di successione dei vari gruppi di note.
Alcune pagine di Jacobs, marchiate dalle bocche velenose di certi studiosi come le farneticazioni
di un folle, sono illuminanti per comprendere il percorso creativo di questo musicista così atipico.
In queste pagine, brulicanti di annotazioni, Jacobs scrive di essersi reso conto, nel corso del lavoro
di trascrizione, di trovarsi di fronte a qualcosa di enorme, molto più grande di una musica degli
oceani: le antiche note incise sulle conchiglie avevano assistito alla creazione del mondo, quando
la furia degli elementi dissolse il buio che aveva regnato nei secoli e generò le terre e i mari, gli
animali e gli uomini. In quelle note viveva ancora, sopita da migliaia di secoli, la potenza
primigenia degli elementi che modellarono il mondo. Se lui fosse riuscito a farle nuovamente
cantare, la creazione sarebbe rivissuta, la terra si sarebbe ricongiunta all’assoluto e il tempo avrebbe
abbracciato l’eternità.
Non posso nascondere l’amarezza che mi ha assalito quando ho dovuto costatare che questa
convinzione è stata beffeggiata da molti accademici che si sono permessi di giudicarla una lirica,
patetica impudenza. Così facendo questi uomini frettolosi hanno dimostrato di non aver afferrato
la portata epocale della Sinfonia degli oceani.
Il lavoro di trascrizione delle note incise sulle conchiglie richiese a Jacobs due anni d’impegno.
Solo i suoi diari possono dare un’idea di come fosse stato risucchiato da quest’impresa e di come
vi si impegnasse con una caparbietà sconcertante. Quelle pagine testimoniano che la sua vita
cambiò radicalmente: l’opera di trascrizione rovesciò il rotolare delle piccole abitudini
quotidiane e vi sostituì un’ansia inestinguibile di ricostruire quella musica; un’ansia assillata
dalla perfezione che fluiva impetuosa come un fiume in piena.
Gli piaceva lavorare all’Acquario, di notte, quando rimaneva solo nel vasto edificio appollaiato
come una fortezza su uno scoglio roccioso, vicinissimo alla costa. Non stupisce che Jacobs amasse
quel luogo tuffato nel vento della baia: si trattava di una costruzione razionalista voluta da un
magnate dell’editoria negli anni trenta e costruita da un famoso architetto olandese. Era un
edificio aerodinamico a pianta circolare, un abbagliante cilindro bianco che spuntava dal mare.
Balconi curvilinei movimentavano il piano continuo della facciata e le enormi vetrate ne
alleggerivano i volumi. Una terrazza sospesa svettava ovale alla sua sommità, come la torretta di
un incrociatore e un lungo pontile collegava l’Acquario alla terra ferma.
Non appena finiva la giornata, quando il personale se ne era andato e lui aveva assolto a tutte le
incombenze che la sua posizione gli imponeva, si chiudeva nel suo studio, colmo di carte, libri e
apparecchi elettronici e iniziava a lavorare cullato dal rumore delle maree. Il suo carattere, già
chiuso per natura, appariva ora ancora più impenetrabile. Nonostante i suoi collaboratori si
rendessero conto che si stava logorando su qualcosa di enormemente complesso e importante,
Jacobs non fece mai parola con nessuno del suo impegno né dei progressi che ne segnavano il
cammino. Era geloso della sua impresa e non poteva tollerare che qualcuno vi si immischiasse.
La curiosità dei suoi assistenti fu soddisfatta troppo tardi, quando per lui non c’era più nulla da
fare.
Un giorno sua sorella Linda, meravigliata della sua scomparsa, decise di andarlo a trovare
all’Acquario. Le visite domenicali del fratello si erano interrotte da alcuni mesi e le mancavano
quegli incontri pudichi, avari di parole eppure così affettuosi, di fronte a una tazza di tè, nel bow
window invaso dal sole.
La Domenica in cui gli fu annunciato l’arrivo di Linda, Jacobs si turbò. Perché sua sorella non
aveva telefonato prima? Pensava che non avesse nulla da fare? Perché veniva a disturbarlo
proprio in un periodo in cui non aveva un minuto da perdere?
Quando furono uno di fronte all’altra, Jacobs si sforzò di nascondere il suo disappunto. Ma
Linda, che lo conosceva bene, se ne accorse subito. Non riuscì a dire nulla delle mille cose che
aveva portato con sé; si sentiva sulle spine e rimase solo pochi minuti. Non che fosse offesa, era
solo molto triste: non riusciva a capire suo fratello. Non tornò più all’Acquario.
Intanto il tenace lavoro di Jacobs procedeva a tappe forzate e presto avrebbe dato i suoi
magnifici frutti: oggi, anche se la Sinfonia degli oceani è ancora poco conosciuta, tutti gli
studiosi che, come me, hanno avuto la fortuna di leggerne la partitura e di ascoltarne almeno
una parte, sono d'accordo nel sostenere che si tratta di uno dei lavori più importanti di questo
secolo.
Fino ad adesso non si sono ancora avute esecuzioni pubbliche della Sinfonia, oltre a quella
tragica e segreta a cui assistettero solamente Jacobs e i suoi pesci. E’ inutile nascondere che sono
molto lusingato di essere stato scelto dal Ministero per l’esame e la valutazione delle partiture e
dei nastri che si sono salvati dal disastro. Tuttavia ho voluto far circolare una quindicina di
copie di una cassetta della Sinfonia tra alcuni esperti; prima della pubblicazione ufficiale di
un’opera così peculiare volevo avere il conforto dei pochi eminenti musicologi e musicisti nei
quali ripongo una stima incondizionata.
Sono certo che si tratta solo di una di quelle beffarde coincidenze che accompagnano spesso gli
eventi inconsueti, ma sarebbe scorretto non menzionare un fatto, riferitomi da alcuni di questi
studiosi: durante l’audizione delle cassette, al quarto movimento, si sono verificati incidenti che
in molti casi hanno reso impossibile la prosecuzione dell’ascolto. Si è trattato per lo più di
semplici guasti agli apparecchi di riproduzione; il Prof. Dereck Lunquist, persona della cui
buona fede non è possibile dubitare, afferma che durante l’ascolto del quarto movimento della
Sinfonia degli oceani, la sua piastra di registrazione è letteralmente esplosa, andando in mille
pezzi.
Io stesso ho penato non poco nel corso dell’ascolto della Sinfonia. Tra i vari inconvenienti da
me subiti devo ricordare la ripetuta rottura del nastro proprio poco dopo l’inizio del quarto
movimento: La creazione. A causa di questi problemi, non ho ancora potuto valutare
compiutamente questo movimento. Tuttavia posso dire di conoscerlo per averne studiata con
attenzione la partitura.
Il mio giudizio complessivo sulla Sinfonia è tuttora dominato da un senso di sorpresa: non posso
negare di non essere ancora riuscito ad accostarmi alla composizione con la lucidità che il mio
compito impone e a razionalizzare i miei pensieri in proposito. Le parole sono inadeguate a
descrivere quello che sento; chi non ha ascoltato non può capire, ma io che quel privilegio l’ho
avuto, posso e devo dire che la Sinfonia degli oceani è un capolavoro assoluto, una gemma di
arditezza compositiva e intensità lirica, autenticamente spregiudicata, del tutto estranea a ogni
nozione di armonia e abbandono melodico; libera da ogni obbligo di modulazioni regolari;
lontanissima da ogni precostituito valore formale e da ogni regola di composizione. Sin dai suoi
primi accordi si ha la netta certezza di essere di fronte a un linguaggio incandescente, traboccante
di tensione, che esige d’essere decifrato e tradotto nella lingua delle sensazioni.
All’inizio si è invasi da una impressione di disagio come se ci trovassimo di fronte a un bagliore
accecante, di fronte al pudore dell’immacolato. Poi, piano piano, il disagio si tramuta in un senso
di potenza che invade l’anima e la trascina in una danza sfrenata, pervasa dalla sensualità di un
atto generativo. Grazie alla musica si materializzano nelle nostre orecchie, in modo flagrante e
violento, gli eventi fantastici dell’alba dei tempi.
I primi tre movimenti della sinfonia sono strabilianti.
Il primo tempo, Il concetto è intriso di flussi sincopati e sfalsati, incessanti piani politonali che si
moltiplicano e s’incrociano in una partitura ossessiva, sofferente, grumosa di pause, le quali si
emulsionano, con le loro liquide suggestioni, al magmatico sottofondo sonoro.
Il secondo movimento, La volontà, è un gioco mobilissimo di vividi cromatismi, di luminosi e
cangianti contrappunti ritmici il cui intreccio dissonante è scosso a tratti dalle ondate e, subito
dopo dalla risacca, di una melodia rauca e sfilacciata, intrisa di un’ansia estatica di trascendenza.
Il terzo tempo, L’energia, è un prodigioso impasto timbrico privo di melodie, composto da
accordi spezzati, da sonorità furiose e modulazioni saettanti. Fin dalle prime battute l’incalzare
della musica riesce ad evocare il fragore remoto dei sommovimenti della natura; poi, senza
possibilità di scampo, si è sopraffatti da una sensazione d’ebbrezza, in un crescendo di volumi ed
energie che prelude alla formidabile tempesta creativa che sarà sviluppata dal quarto tempo.
Per quanto riguarda il movimento finale, La Creazione, voglio rimandare ogni giudizio al
momento in cui l’avrò potuto ascoltare in modo approfondito e completo. Non che me ne sia
oscuro il contenuto (la partitura è esauriente), ma questo è il primo caso in cui l’ascolto della
musica mi produce sensazioni che erano inimmaginabili alla semplice lettura delle note. Forse
ho bisogno di tempo; ho bisogno che si plachi l’ansia che provo di fronte a quelle note. Allora,
forse, potrò valutare La creazione con la necessaria lucidità. Per il momento posso solo
anticipare che ci troviamo di fronte a qualcosa di incredibile. Il suono assume terrificanti
capacità evocative e fa rivivere all’ascoltatore il momento in cui le acque nuove del mondo
incominciarono a gorgogliare inquiete in alcune valli profonde; si ha l’impressione di assistere
alla loro crescita; si sentono turbinare tra le rive rocciose, affannate dall’alito dei venti, finché,
montando implacabili, non esplodono in altre valli, invadendo con violenza le confinate distese
che saranno poi gli oceani.
A giudicare dal risultato, il lavoro di Jacobs è stato immane. Un impegno assoluto che in quei due
anni deve aver assorbito ogni istante della sua esistenza. D’altra parte non poteva fare altrimenti
poiché non aveva pace: doveva infondere nella musica la potenza che appartenne alla creazione del
mare e la realizzazione di una Sinfonia per i suoi pesci era divenuto l’unico scopo della sua vita.
Da tempo non andava più nell’appartamento in città e rimaneva a dormire nel suo studio, nel
punto più alto dell’Acquario. Probabilmente lavorava tutta la notte perché, a detta di chi gli stava
intorno, al mattino aveva un aspetto disfatto. Però i suoi occhi continuavano a scintillare,
vivissimi, inquieti, intrisi d’euforia.
La testimonianza del custode dell’Acquario, resa agli investigatori nel corso delle indagini, riesce a
darci un’idea dell’eccitazione che possedeva Jacobs. L’uomo riferì che una mattina, poco prima
dell’alba, era stato svegliato dall’allarme che segnalava il blocco del motore della vasca principale.
Subito aveva provato a telefonare al direttore per avvertirlo e avere disposizioni in proposito;
sapeva che dormiva lì. Non avendo avuto nessuna risposta, allarmato, aveva attraversato il
pontile, che separava la sua casetta dall’acquario, ed era salito fino all’ufficio del suo capo. La
porta era socchiusa e faceva scivolare una lama di luce gialla nel buio del corridoio. Il custode
aveva bussato un paio di volte, poi, non avendo ottenuto risposta, aveva infilato la testa nella
stanza. Jacobs era di spalle, seduto di fronte a un lampeggiante totem di apparecchi elettronici,
con i capelli arruffati e la camicia sgualcita, e sobbalzava sulla sedia dimenandosi come un
ossesso. Pile di tazze vuote ingombravano il tavolino accanto a lui, insieme a una quantità di fogli
e foglietti sparsi. Non aveva sentito il telefono e il suo bussare alla porta, perché aveva sulle
orecchie due enormi cuffie ed era immerso nell’ascolto di qualcosa di travolgente. Mentre
ascoltava contraeva la bocca in paurose smorfie, ruotava le braccia nell’aria e faceva schioccare le
dita; tirava gran pestate per terra e, a tratti, rovesciava la testa all’indietro mugolando brani di una
musica che al custode parve un lamento spettrale. Poi si fermava, si piegava su uno dei tavolini e
scarabocchiava convulsamente qualcosa. Subito dopo s’immergeva di nuovo in quell’ascolto
appassionato. L’uomo si ricordava d’aver fatto non poca fatica a distogliere Jacobs dalla musica
per esporgli il problema.
Questo era lo stato d’animo di Jacobs in quei lunghi mesi di frenetico impegno. Poi, via via che si
avvicinava la data dell’esecuzione, una felicità nascosta aveva preso a scorrere nelle sue vene. Presto
i pesci avrebbero potuto godere di nuovo della sterminata libertà originaria e avrebbero rivissuto il
momento possente della creazione.
Arrivò il giorno in cui tutto fu pronto. Jacobs aveva fatto installare nella vasca principale delle
sofisticate casse acustiche subacquee collegate al potentissimo amplificatore che troneggiava nel
suo ufficio. Aveva organizzato tutto senza dare la minima spiegazione ai suoi assistenti. Nel
pomeriggio che precedette la notte del disastro, all’Acquario il clima fu di elettrica attesa; un
attesa di qualcosa di cui, a parte Jacobs, nessuno era al corrente, ma che si avvertiva, palpabile,
nell’aria.
Alcuni giorni dopo la catastrofe, quando trovai, sepolto tra le rovine, il quaderno del diario di
Jacobs che ancora mi mancava, non fui sorpreso di scoprire che le sue ultime annotazioni, dilavate
dall’acqua ma ancora leggibili, registrassero la trionfante conclusione dell’ansia che lo divorava.
Quella sera, quando finalmente gli impiegati se ne furono andati, lui rimase solo con i suoi pesci.
Dalla grande vetrata vide che la notte era serena e sul mare galleggiavano i riflessi della luna.
Pochissimo tempo lo separava dal momento che aspettava da anni.
Quel che accadde quella notte non possiamo ricostruirlo che da un esame dello scenario
apocalittico che si presentò agli occhi del custode (e poco dopo della squadra di soccorso) nella
luce livida dell’alba. Tuttavia la mia conoscenza della Sinfonia degli oceani, il fatto che io ne
sappia più di chiunque altro, mi autorizza ad avanzare alcune congetture. Credo che le mie
ipotesi, che sicuramente saranno scartate dalle autorità, siano le uniche in grado di dare una
spiegazione agli eventi che sconvolsero l’Acquario.
Posso immaginare in modo quasi tangibile, l’emozione che si impossessò di Jacobs nell’istante in
cui fece partire il nastro e le sue note stupefacenti cominciarono a galleggiare sull’Acquario. In
quel momento dovette avere la piena consapevolezza della suprema importanza del suo gesto:
stava per restituire ai pesci la musica che apparteneva loro dai primordi del mondo.
Durante il primo tempo, i pesci devono aver accolto con sorpresa la musica che si diffondeva
nell’acqua, rallentando i movimenti, storditi da una nebbia sonora, memori dell’istante del loro
turbolento concepimento. Jacobs se ne stava nel buio e li scrutava con attenzione.
Durante il secondo movimento i pesci devono aver cominciato a vagolare nell’acqua in modo
fremente, seguendo misteriose traiettorie, avvertendo nel crepitare delle note la determinazione
del volere che assistette alla loro nascita.
Poi, nel terzo movimento, il fluttuare dei pesci, animato dall’energia della musica, deve essersi
trasformato in una vera e propria danza, satura di attese, gioiosa e scintillante. Immagino Jacobs,
con il cuore colmo di felicità, osservare l’incanto di quella danza mentre la musica gli galoppava
nelle orecchie.
All’inizio del movimento La creazione, Jacobs deve essersi fatto prendere la mano e deve aver
dato tutto volume al suo poderoso amplificatore1. Insieme al volume della musica, credo che sia
montato anche un vento turbinoso; l’acqua calma della grande vasca deve essere stata agitata da
mulinelli e gorghi. Immagino la superficie della vasca mentre si increspa di una miriade di onde.
Allora la danza dei pesci si dev’esser fatta travolgente, imbevuta d’euforia. Poi, in un rapido
crescendo, il vento dev’essere rafforzato in raffiche violentissime mentre l’acqua mugghiava,
candida di schiuma, squassata dai cavalloni. Nella bufera, la danza dei pesci deve essere diventata
folle. In quel momento Jacobs non può non essere rimasto esterrefatto, combattuto tra l’estasi
della violenza e la più cieca delle paure. E se solo i suoi occhi farfuglianti si fossero affacciati
fuori dalle grandi vetrate, avrebbero visto che il mare era pacifico poiché quella notte, per la
prima volta, la tempesta era avvenuta dentro l’Acquario.
Poi, le infinite energie della creazione, imprigionate per secoli, impazienti di erompere di
nuovo, si devono esser fuse all’uragano che faceva urlare la massa liquida. Forse un turbine di
sibili ha annunziato la furia che s’impossessava della vasca e l’acquario è esploso con un boato
lacerante. E’ stato a quel punto che i cristalli sono andati in mille pezzi, lasciando che le acque
inondassero i corridoi circolari e sconquassassero l’edificio con un fragore assordante. I pesci,
trascinati dalla furia della corrente, si sono sparsi ovunque guizzando tra i muri spaccati in un
pulviscolo d’acqua iridescente.
Il boato dell’esplosione arrivò fin sulla terra ferma, e fece trasalire il custode aggomitolato nel
sonno. Si mise addosso qualcosa e attraversò il pontile di corsa. Quando entrò trafelato
nell’Acquario, vide che l’edificio era sventrato e l’acqua stava defluendo dalle mille vie di fuga. I
pesci agonizzanti si dibattevano nelle pozze rimaste tra le macerie, ma la sua attenzione fu tutta
per il direttore. Si chinò sul suo corpo e con un gesto pietoso cercò di ricomporlo tentando di
far aderire al collo la testa, che era stata quasi staccata da una scheggia di cristallo. Nonostante la
mutilazione, il volto di Jacobs aveva un’espressione di serena soddisfazione.
Il resto è cronaca. La cronaca di una lunga operazione di raccolta di esamini corpi sguscianti e
della loro distruzione in un inceneritore, prima che si putrefacessero.
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Alcuni scienziati sostengono che la musica della creazione è esistita veramente ed è consistita nel rumore delle onde d’urto
della materia in via di formazione. In questi primi stadi, l’universo era un coacervo di luce e materia allo stato primigenio.
Questi elementi, in cerca di una forma e d’un assestamento, si comprimevano e dilatavano violentemente producendo suoni
lacerante simile a quello, sostengono i ricercatori, di un’immensa tromba.
Anche se so bene che quanto ho scritto verrà ritenuto dalle autorità e da certi accademici come lo
sproloquio di un visionario, devo ricordare che le testimonianze raccolte subito dopo la tragedia,
non fanno che avvalorare le mie congetture. Di queste testimonianze, che furono rese da vari
volontari delle squadre di soccorso, diranno invece, più diplomaticamente, che si tratta di una
suggestione collettiva dovuta allo sfinimento. Eppure questi uomini generosi, una volta terminato
il loro compito penoso nell’Acquario dilaniato dall’esplosione, dovettero redigere un verbale
d’intervento che è stato messo a disposizione delle autorità. E nessuno può negare che almeno
otto soccorritori furono concordi nel riferire di aver riscontrato sul muso dei pesci morti
un’espressione anomala; un’espressione che non seppero definire altro che con un termine
inadeguato, ma tuttavia significativo: la parola sorriso.
D.N.