Presenza e assenza di Dio nel mondo contemporaneo

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Presenza e assenza di Dio nel mondo contemporaneo
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Presenza e assenza di Dio
nel mondo contemporaneo
Dialogo tra
il cardinale Gianfranco Ravasi
e Giuseppe Zaccaria
Introduzione e conclusioni
di Armando Torno
PADOVA UNIVERSITY PRESS
Gianfranco Ravasi
Biblista, dal 1989 al 2007 è stato
prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana. Autore di circa 150 volumi, da anni collabora
regolarmente con giornali e televisioni. Creato cardinale nel 2010,
è presidente del Pontificio Consiglio della cultura e della Pontificia Commissione di archeologia
sacra.
Armando Torno
Giornalista e scrittore, collabora
con il Corriere della sera e Radio
24. Specializzato in cultura e musica, si è occupato a più riprese
del tema della fede; tra i suoi libri:
Senza Dio? (1994), Piccolo manuale per perdere la fede (1995),
La scommessa. Puntare tutto
su Cristo? (2010).
Giuseppe Zaccaria
Allievo di Enrico Opocher, è professore ordinario di Teoria generale del diritto e dal 2009 rettore
dell’Università di Padova. Nei suoi
studi si è occupato in particolare
dell’ermeneutica giuridica. Il suo
ultimo libro, La comprensione del
diritto, è stato pubblicato nel 2012.
Occasional Papers
Parole che lasciano il segno
©2013 Padova University Press
Università degli Studi di Padova
via VIII Febbraio, 2 - Padova
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Editing e realizzazione
Relazioni pubbliche Università di Padova
Immagine copertina
elaborazione grafica di Franca Cecchinato
Fotografie
Massimo Pistore
Stampa
Tipografia Nuova Jolly - Rubano (PD)
nel mese di dicembre 2013
ISBN 978-88-97385-83-7
Tutti i diritti riservati
Presenza e assenza di Dio
nel mondo contemporaneo
Dialogo tra
il cardinale Gianfranco Ravasi
e Giuseppe Zaccaria
Introduzione e conclusioni
di Armando Torno
Università degli Studi di Padova
Palazzo Bo, 11 giugno 2013
PADOVA UNIVERSITY PRESS
Gianfranco Ravasi,
Giuseppe Zaccaria e Armando Torno
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Prefazione
Tra le illustri figure che nel corso di quasi otto secoli
hanno studiato o insegnato a Padova, molte hanno
avuto un ruolo importante sia nella storia della Chiesa cattolica, sia in quella del pensiero laico. Quanto
alle prime, basterà ricordare insigni teologi e intellettuali come Alberto Magno, Niccolò Cusano, Gaetano
da Thiene, Francesco di Sales e Antonio Rosmini o protagonisti di spicco nel campo sociale come quelle di
Giuseppe Toniolo e più di recente Giovanni Nervo.
Padova è stata però anche l’università di Marsilio,
il primo nel medioevo a teorizzare la separazione tra
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stato e chiesa, e di Fra Paolo Sarpi, che per la sua strenua opposizione alla curia romana vide i suoi scritti
condannati all’indice. La patavina libertas è poi conosciuta in tutto il mondo per l’opera di Galileo, che pur
senza mai rinnegare la sua fede, per la sua fedeltà al
rigore scientifico fu processato dall’inquisizione romana. Del resto qui aveva studiato anche il suo oppositore: il cardinale Roberto Bellarmino, con cui peraltro
Galileo mantenne sempre rapporti cordiali.
È in questo intrecciarsi di storie e di significati che
vanno individuate le ragioni di questo incontro fra
il rettore dell’Università di Padova e Sua Eminenza il
cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio
Consiglio della cultura, tenutosi lo scorso 11 giugno
nell’aula magna dell’Ateneo con la collaborazione di
un intellettuale e giornalista della levatura di Armando
Torno.
L’intuizione di un “cortile dei gentili”, come spazio
aperto di confronto con la cultura laica – inaugurato
da Benedetto XVI e tuttora proseguito e sviluppato nel
pontificato di Francesco – vede nel cardinale Ravasi
la mente ispiratrice e l’infaticabile animatore. Come la
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Chiesa avverte il bisogno di misurarsi con la modernità
e le sue diverse manifestazioni, così anche una grande istituzione laica, quale è oggi l’Università di Padova,
sente l’opportunità, o addirittura l’urgenza, di misurarsi
con le tematiche proprie della prospettiva religiosa.
Due mondi, quello della ricerca scientifica e della fede, distinti, ma che non possono fare a meno di
dialogare. Se è vero che la civiltà in cui viviamo non
può essere compresa senza il cristianesimo, allo stesso
modo anche i credenti oggi non possono più ignorare, nel loro percorso personale e collettivo, le conquiste del pensiero laico. Del resto, nella stessa visione
cristiana Dio si fa in qualche modo nascosto (il Deus
absconditus della tradizione) per rispettare la libertà
dell’uomo. Una libertà etica, ma anche spirituale e intellettuale, che trova una delle sue massime espressioni nella ricerca scientifica. Se c’è qualcosa che questo
dialogo vuole in qualche misura significare è che, al
di là delle etichette, ogni dialogo sincero poggia innanzitutto sul riconoscimento della matrice di umanità
che ci accomuna. Noi tutti continuamente interpellati,
quali che siano le spiegazioni che troviamo, da quel-
Gianfranco Ravasi,
Giuseppe Zaccaria
e Armando Torno
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le che Immanuel Kant indicava come le due grandi
meraviglie per lo spirito umano: il cielo stellato sopra
e la legge morale dentro di noi.
Giuseppe Zaccaria
Rettore dell’Università di Padova
Presenza e assenza di Dio
nel mondo contemporaneo
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Introduzione di Armando Torno
“Presenza e assenza di Dio nel mondo contemporaneo” è un argomento che forse potrà sembrare largo,
forse potrà sembrare immenso, però è un argomento di
grande attualità, perché ci siamo lasciati alle spalle un
secolo che pensava di poter fare a meno di Dio e che,
chiudendosi, si è accorto che senza Dio non si poteva
capire la storia, non si poteva capire la filosofia, forse
non si poteva capire nemmeno l’uomo stesso. La grande assenza di Dio, invocata da molti, è diventata una
presenza che ha coinvolto tutti gli uomini, e in questo
secolo il discorso continua attraverso la filosofia, attra-
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verso le diverse discipline, attraverso la stessa scienza.
A ogni domanda abbiamo scoperto che dietro molte
questioni, proprio dietro anche alla stessa incertezza o
alla stessa certezza dell’uomo, c’è sempre qualcosa
che riguarda e collega l’uomo con il trascendente.
Oggi, a dibattere su questi temi, è con noi il cardinale Gianfranco Ravasi, noto oltre che per la sua cultura,
anche per essere un biblista e per aver avviato il “Cortile
dei Gentili”. Era il 12 febbraio del 2011 e a Bologna si
apriva l’incontro tra credenti e non credenti: gli uni, per
capire le ragioni degli altri, hanno cominciato un dialogo che sta continuando nel mondo intero. Il cardinal
Ravasi è appena arrivato da Marsiglia, dove si è aperto
un ideale dialogo, per interposta persona, tra Camus e
Ricoeur: dialogo che ora è richiesto negli Stati Uniti, in
America del Sud, in Asia e in tutta Europa e sta continuando a mietere successi proprio perché la domanda
su Dio, la domanda di Dio, la domanda intorno a Dio è
una delle questioni centrali del nostro tempo.
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Giuseppe Zaccaria
Vorrei partire dalla storia dell’Università di Padova,
per dire che sempre nella sua storia, un’università che
vanta ottocento anni di storia, è stata spazio, crocevia
di dialogo, di intreccio pluralistico tra diverse esperienze,
scientifiche naturalmente, ma anche esistenziali, anche
culturali, anche intellettuali. Un luogo, cioè, che è stato
in grado di fecondare efficacemente un confronto tra
ragioni diverse, nel reciproco rispetto tra diverse visioni,
tra diverse prospettive. In questa storia plurisecolare credo che molto i credenti siano stati debitori nei confronti
del pensiero critico: in particolare al pensiero della rivo-
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luzione scientifica, al Cinquecento – l’anno d’oro della
cultura in questo Ateneo – improntata appunto dal sapere scientifico. Ma credo anche, per la verità, che molto i non credenti siano stati debitori della storia e dell’esperienza cristiana.
E allora penso che, indubbiamente, si debba partire da questo. Con Benedetto Croce non possiamo
non dirci cristiani, se è vero che l’esperienza, la cultura
dell’occidente è completamente e profondamente
impregnata dai principi ebraici e cristiani, ma altrettanto indubbiamente non possiamo non dirci laici,
almeno nel senso di Claudio Magris quando sostiene
che la laicità è la capacità di distinguere ciò che è
dimostrabile razionalmente da ciò che è, invece, oggetto di fede. O anche nel senso di Galileo o di Fra
Paolo Sarpi, di cui mi piace ricordare un’affermazione,
la prima di Galileo, molto nota, cioè «La Bibbia insegna
ad andare in cielo e non com’è fatto il cielo», e l’altra,
quella di Paolo Sarpi, meno nota, che dice «Non si possono incontrare e urtarsi, se non quei che camminano
per la medesima via, ma quei che vanno per diverse
strade non possono né urtarsi, né incomodarsi. Il regno
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di Cristo non è di questo mondo, ma in cielo, però la
religione cammina per via celeste e il Governo di Stato per via mondana e però non puoi mai incomodare
l’altro». Quindi una distinzione di piani, che è il presupposto della laicità. Ma anche questo reciproco arricchirsi di fede e di laicità, che è avvenuto in passato e
che avviene anche oggi e che presuppone, implica
sia per i credenti, sia per i non credenti, di abbandonare l’arroganza di formule dogmatiche, di rigidità ideologiche, di semplificazioni propagandistiche che poi,
alla fine, si rivelano zelanti e non di più, che tendono
a far erigere muri, a far erigere barriere divisorie, ad
assumere invece un atteggiamento diverso, un atteggiamento che deve essere di onestà intellettuale, di
umiltà, sempre essenzialmente consapevole del fatto
che il credere e non credere rientrano nell’ambito di
una libera scelta personale. Da questo punto di vista
è chiaro che la verità imposta è inconciliabile con il
rispetto delle singole identità e della libertà che è propria alle singole identità.
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Il sottile confine tra credere e non credere
La fede religiosa, così come l’atto di incredulità, non
sono mai dovuti, sono sempre scelte libere. D’altra parte, possiamo anche dire che la crescita delle interrogazioni, la crescita dell’ascolto, lo sforzo del comprendere,
ma anche del comprendersi, implicano appunto di non
assolutizzare le proprie convinzioni nel confronto con gli
altri. E qui allora forse dobbiamo dire che su questo terreno di dialogo che accomuna credenti e non credenti,
questo confine presunto tra credenti e non credenti si
rivela come un confine che non è mai rigido, che non
è mai invalicabile, che non è mai dotato, per così dire,
di cippi definitivi, ma è uno spazio in cui possiamo riconoscere la compresenza di fede e di non credenza, di
adesione esistenziale, ma anche di dubbio.
Una compresenza, mi piace ricordarlo, di cui d’altronde si trova ampia traccia in alcuni testi biblici, basti
ricordare l’esempio del Libro di Giobbe, credente di forza straordinaria, ma che propone in termini molto radicali la domanda sul dolore, sul male, sulla giustizia e che,
soprattutto, è ripetutamente attraversato dal dubbio,
dalle lacerazioni dell’oscurità e del non senso. Ma negli
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stessi racconti evangelici si parla di Cristo stesso che, inchiodato sulla croce, pochi istanti prima di morire viene
colto da un sentimento di smarrimento e di dubbio e, citando il salmo 22, grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?». Ci sono, quindi, precedenti importanti
anche nel momento dello smarrimento e del dubbio.
Vorrei anche ricordare che all’Assemblea Costituente il nostro Concetto Marchesi, che fu rettore di questo
ateneo, disse questa frase molto forte: «Ho sempre respinto, nella mia coscienza, l’ipotesi atea. Dio è nella
luce della rivelazione per chi crede, nell’inconoscibile e
nell’ignoto per chi non è stato toccato da questo lume
di grazia». Con questo voglio sottolineare che di fronte
all’insondabilità del mistero che attraversa ogni vita, ma
anche la storia e il cosmo, ogni coscienza che pensi non
può non avvertire un senso di fragilità, un senso di insufficienza. Ma ciò implica, una volta di più e a maggior
ragione, di prendere sul serio tanto le ragioni del credere, quanto le ragioni dell’incredulità. Non soltanto: vorrei
approfondire ancora questo punto, perché se si adotta
il metodo di ricercare ciò che unisce e non ciò che divide, cioè di reperire gli elementi di convergenza e non
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gli elementi di contrapposizione, possiamo forse riconoscere che ciò che accomuna davvero credente e non
credente è precisamente la questione del senso, cioè
una base comune che interpella tutte le nostre coscienze e ci induce a sollevare lo sguardo dall’indifferenza,
dall’immediatezza di una società come quella attuale,
che tende sempre di più a ripiegarsi su se stessa, ad appiattirsi sul presente, ad appiattirsi sull’effimero, per aprirsi
invece a interrogazioni che siano un po’ più profonde,
cioè a istituire un confronto con un oltre, con un altrove
e, in definitiva, non perdere la categoria, il concetto e la
speranza stessa del futuro.
Voglio anche sottolineare che è una speranza, quella del futuro, che in effetti attraversa tutta l’esperienza
dell’ebraismo e la tradizione ebraica, nei confronti del
quale la nostra tradizione, la nostra cultura, la nostra civiltà, direi la nostra stessa vita democratica, sono permanentemente debitrici, a partire dal radicamento di quella tradizione ebraica nel modello dell’esodo, evento di
liberazione dalla schiavitù, trasmesso di generazione in
generazione e come elemento fondativo della stessa
identità ebraica, ma anche come richiamo e paradig-
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ma duraturo, per non dire perenne, per tutte le istanze di
liberazione da ogni forma di asservimento.
Tutto questo per dire che l’uomo, sia esso credente, sia esso non credente, si alimenta costantemente di
dubbi. E ha scritto a questo riguardo Norberto Bobbio,
che dalla parte laica è certamente autore tra i più profondi e che si è più interrogato su questo tema: «Se fede
laica vuol dire fede nell’uomo, mi domando se questa
non sia altrettanto soggetta al dubbio quanto quella
religiosa. Allora non resta che il senso del mistero, che
può essere angoscioso, ma è l’ultimo termine cui giunge
la nostra ragione. Non è forse questo senso del mistero
che unisce profondamente e indissolubilmente gli uomini della fede nell’uomo e quelli della fede religiosa?».
Che cosa aggiungere a queste parole di Bobbio?
Aggiungerei che ciascuno, sia il credente, sia il non credente, può – sia pure in termini diversissimi – rivolgere a
Dio un interrogativo, e l’interrogativo è: esisti? In questo senso ricordo quanto sostiene un grande pensatore
ebraico, Franz Rosenzweig, secondo cui la domanda relativa all’esistenza di Dio è la domanda per eccellenza.
Forse, almeno da un punto di vista esistenziale, Dio esiste
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solo se lo cerchiamo, indipendentemente dal fatto di
trovarlo. Ma ciò che caratterizza l’essere umano è più
ampiamente un’interrogazione, un’interrogazione sorgiva, sia questa religiosa, ma anche scientifica, anche
filosofica, anche poetica, anche artistica. Per tutti gli uomini questo aspetto dell’interrogare e dell’interrogarsi è
un terreno di impegno comune: il gusto del conoscere,
del cercare il non conosciuto e di interrogarsi su questo.
Infine, la prima lettera di Giovanni ha un passaggio molto noto, «nessuno ha mai visto Dio», per riferirsi
a un’assenza, l’assenza di Dio, che diviene condizione
della sua possibile presenza da cui deriva tutta la tematica del deus absconditus, ma che è anche una necessaria difesa da qualunque indebita riduzione di Dio, da
qualunque indebita entificazione di Dio o identificazione di Dio con qualche cosa di specifico e storicamente
determinato.
Credo che in questo spazio di assenza di Dio, nel senso di una sua non visibilità materiale, si possa attingere
a Il Piccolo Principe di Saint-Exupéry che diceva: però
si può vedere solo con il cuore. Teniamolo presente. In
questo spazio possono benissimo convivere sia coloro
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che hanno Dio nel loro orizzonte, sia coloro che non lo
hanno. Naturalmente i dubbi che si ricollegano a questa
assenza, a questa non evidenza di Dio, possono avere
un carattere molto diverso, di una fede-fiducia costantemente da cercare, da riconquistare per il credente e,
invece, di una tensione all’apertura verso l’altro e alla
riflessione conseguente per il non credente, ma in realtà
si può dire che entrambi, credente e non credente, si
interroghino su come vivere, su come la vita vada affrontata per essere vissuta in modo degno. Ed è un’idea,
questa, che credo non possa essere meglio espressa di
quanto fece Dietrich Bonhoeffer nel luglio del 1944 nella
sua cella nel campo di concentramento di Flossenbürg,
quando dice: «il nostro diventare adulti ci riconduce a
riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione
davanti a Dio. Dio ci fa conoscere che dobbiamo vivere
come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio».
Il ritorno del religioso e e il multiculturalismo
Vorrei poi provare a focalizzare un po’ di più la nostra
attenzione spostandoci sulla situazione culturale che
caratterizza le società post industriali dell’occidente.
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Certamente esiste la banalizzazione, l’indifferenza, certamente ci sono fenomeni come quelli che abbiamo
ricordato, ma c’è un dato forse più strutturale, più di
fondo, cioè queste società si connotano anche per l’espandersi irreversibile di un processo di secolarizzazione,
un processo che viene da lontano (ricordo a tal proposito, alla metà degli anni Sessanta, Harvey Cox, con il
famoso e fortunato volume su La città secolare), che ha
comportato in tutti i settori della vita sociale, oltre che
nel mondo delle idee, la progressiva emancipazione del
pensiero religioso, a partire dal postulato dell’autonomia
della soggettività dell’individuo.
Vorrei dire che alcuni secoli dopo si è paradossalmente realizzata quella che possiamo dire una profezia,
in qualche misura, di Ugo Grozio, quando diceva che
dovevamo prevedere l’autonomia dei diritti degli individui anche se ammettessimo che Dio non esistesse, la
famosa formula etsi deus non daretur. Questa formula, concepita addirittura nel Seicento, può sintetizzare
molto bene il fenomeno contemporaneo della secolarizzazione: quindi c’è un dato strutturale con cui, sia il
modello del credente, sia il modello del non credente,
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in tutte le sue tipologie, si deve misurare, ed è il dato
della società post religiosa, che in qualche misura è
un dato strutturale.
Poi il Novecento, o meglio l’ultimo scorcio del Novecento, ha visto l’emergere di forti fenomeni di segno
apparentemente opposto: da una parte il ritorno delle
religioni, fenomeno ancora da approfondire, ma mi limito a dire che è di non facile interpretazione perché
ha forme molteplici e anche, talora, sfuggenti. Perché
in quello che è lo smarrimento della crisi delle ideologie, delle grandi narrazioni del Novecento (ricordiamo il
marxismo), il secolo della negazione di Dio, dei totalitarismi, si sono però poi, nell’ultima parte del Novecento,
sviluppati orientamenti ideali, orientamenti di gruppo
individuali volti a un recupero della centralità del fatto
religioso, ma in forma molto ambigua, molto sfuggente, molto difficile da definire, perché molto spesso questo ritorno alle religioni non è necessariamente vissuto
come un ritorno alle forme religiose tradizionali, custodite cioè dalle religioni e dalle istituzioni religiose storiche.
E qui abbiamo una serie di filoni diversi, cioè istanze di
risveglio religioso, probabilmente autentico, ma anche
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rinnovamento carismatico, ma anche una forte presenza di forme di fondamentalismo che rivendicano un ruolo egemonico del religioso nella vita civile.
Sarebbe molto interessante anche riflettere sull’idea
che banalmente viene definita degli “atei devoti”, ossia
quella componente non credente che vuole però imporre in maniera fondamentalistica una presenza nella
vita sociale. È interessante che a quel laicismo, diciamo
pure rozzo, di certe forme di negazionismo provocatorio come quelle di Dawkins, si vadano sostituendo forme più raffinate che rivendicano ateismo, ma dicono in
qualche modo che comunque la religione può essere
una risorsa di coesione sociale e di solidarietà.
Un ultimo punto, infine, è certamente rappresentato
dal fatto che, anche per le tendenze migratorie, per tutti
questi fenomeni che conosciamo e che in parte sono
amplificati da strumentali azioni propagandistiche, certamente c’è però un panorama attuale strutturale che
è di grande pluralismo delle fedi e delle credenze che
sono presenti in uno stesso contesto geografico. Il punto che mi interessa sottolineare è che molto raramente queste fedi diverse auspicano di porsi in dialogo tra
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loro; raramente lo fanno e riescono a porsi in dialogo,
per cui il rischio è quello della Babele contemporanea,
dove ciascuno sta al suo posto secondo il modello del
multiculturalismo inglese, che peraltro è un modello relativistico, cioè un modello che relativizza ogni verità.
Direi che da questo punto di vista non siamo più in
presenza di un’idea univoca di Dio, perché queste fedi
diverse evocano e invocano diverse idee di Dio e forse dovremmo interrogarci su un tema: una maggiore
presenza del religioso, una maggiore presenza delle
fedi, può in qualche misura facilitare il dialogo sul fatto religioso? Il contesto di oggi appare estremamente
più complesso, perché in passato avevamo una maggiore semplificazione dei soggetti presenti e coinvolti e
anche una maggiore omogeneità. Oggi questi modelli del passato agiscono in un contesto profondamente
modificato,che rende semmai più difficile il confronto e
la chiarificazione.
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Gianfranco Ravasi
«In ginocchio! Suona la campanella: si stanno portando i sacramenti a un Dio che muore». Così, in modo
paradossale, il poeta tedesco dell’Ottocento Heinrich
Heine rappresentava l’avanzata della “morte di Dio”
che, in forma ancor più drammatica, avrebbe poi descritto il suo connazionale e contemporaneo Friedrich
Nietzsche con la celebre scena della Gaia scienza, in
cui un uomo grida per le strade l’annunzio ferale: «Dio è
morto! Noi lo abbiamo ucciso e le nostre mani grondano del suo sangue!». Ebbene, questo ateismo dramma-
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tico – che, per altro, ha sollecitato persino una “teologia
della morte di Dio” – attualmente si rivela piuttosto raro.
Incredulità, idolatria, assenza
Vorremmo a questo punto proporre – sulla scia di
quel grande codice della nostra cultura che è pur sempre la Bibbia – tre modelli di anti-religiosità che talora paradossalmente si racchiudono o persino si ammantano
di religiosità.
Il primo è quello dell’incredulità: essa nega la presenza di Dio nella storia e, quindi, si rifiuta di accettarne
la norma etica trascendente e di adeguarsi a una sua
volontà. In questa linea va il noto grido dello “stolto” del
Salmo 14/53: «Non c’è Dio!». Il senso dell’affermazione
non è quello di una negazione teorica e programmatica, quanto piuttosto quello sconcertante della scoperta
della mancanza di una presenza divina da rispettare e
temere qui e ora, nelle vicende della storia umana.
Sotto questo schema potremmo rubricare oggi la
più consistente tipologia dello pseudo-ateismo attuale, quella della cosiddetta indifferenza religiosa. Essa si
basa su una lettura della storia nella cui superficie Dio
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è assente. La sua figura risulta del tutto irrilevante, non
genera drammi, non è principio di scelte morali esigenti,
è lasciato nel limbo delle presenze eteree. Non lo si combatte, ma lo si ignora perché considerato come un dato
“disturbante” e inattuale. Come scriveva ironicamente
il filosofo canadese Charles Taylor, nel suo saggio sulla
Secular Age contemporanea, se Dio dovesse entrare
nella nostra società, al massimo gli si chiederebbero
i documenti.
Il secondo modello è quello dell’idolatria: esso più si
avvicina al vero concetto “drammatico” e forte di ateismo. Non c’è bisogno di illustrarne le caratteristiche tanto è costante nelle Scritture, da un lato, la tentazione di
sostituire a Dio un oggetto o se stessi e, d’altro lato, la critica e la polemica anti-idolatrica dei profeti, dei sapienti,
dei testimoni di Dio. È in pratica la sostituzione della trascendenza con un dato storico immanente. San Paolo
ne bolla con veemenza la contraddizione nel capitolo 1
della Lettera ai Romani, quando accusa i pagani di aver
scambiato la verità divina con un comodo sistema che
genera alla fine libertinismo e degradazione morale.
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In forma nobile l’idolatria moderna è l’identificazione di principi costitutivi e dinamici interni all’essere e alla
storia stessa come unica ragione esplicativa: si pensi al
materialismo dialettico di stampo marxiano, ma persino
anche allo Spirito immanente nell’essere stesso, motore
della storia, secondo la concezione idealistica hegeliana apparentemente “religiosa”, oppure si consideri l’umanesimo ateo che pone l’uomo come misura e senso
di tutto l’essere. Non è, quindi, solo l’auto-adorazione
dell’uomo autosufficiente o la banale venerazione di
oggetti simbolici, come accade nell’idolatria folcloristica o nel consumismo secolaristico. Sotto questa categoria si possono classificare anche tanti modi elaborati e
sofisticati contemporanei che escludono la trascendenza divina.
Ma c’è una terza proposta che si rivela sorprendente
e persino “religiosa”. È l’assenza provocatoria di Dio, il
suo silenzio che genera la domanda capitale: «Dov’è
Dio?», come attestano spesso le suppliche dei Salmi biblici: «Le lacrime sono mio pane giorno e notte, mentre
mi dicono tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio?» (42,4): «Perché i popoli dovrebbero dire: Dov’è il loro Dio?» (79, 10).
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Questa domanda apparentemente “atea” nasce sia
nella persona in crisi di fede, sia nel credente autentico
che rimane sconcertato di fronte al Dio muto e assente, soprattutto quando incombe lo scandalo del trionfo
del male.
La Bibbia è, al riguardo, molto significativa. C’è, infatti, una figura come il Qohelet che incarna la crisi di
un uomo che si trova davanti a un mondo indecifrabile, spoglio di un senso percepibile, scandito dal vuoto
(habel, “vanità, fumo, vuoto”), con domande che salgono verso un cielo muto e che ricadono su chi le lancia. Ma c’è anche il credente puro come Giobbe, che
ribadisce la sua volontà di avere una risposta dal vero
Dio, taciturno e indifferente, e non una ricetta apologetica preconfezionata dagli amici teologi, stanchi difensori d’ufficio della religione. E invece: «Io grido verso di
te e tu non rispondi!». Eppure, alla fine, questa assenza
si rivela feconda e si trasforma in una presenza e in un
incontro (42,5: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei
occhi ti vedono»). È paradossale, ma anche Gesù Cristo,
il Figlio di Dio, per essere veramente uomo, passa attraverso questa stessa esperienza del silenzio del Padre, sia
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nel Getsemani, sia sulla croce, svelandone perciò la misteriosa positività.
È, allora, necessario, quando si affronta il tema
dell’ateismo, operare una serie di distinzioni: l’incredulità
è l’indifferenza agnostica, l’idolatria è l’ateismo sistematico, l’assenza è il mistero del divino “incomprensibile”.
Proprio attraverso questa schematizzazione si può intuire
quanto complessi siano i problemi teorici e pratici per il
credente che ne derivano. Un conto, infatti, è entrare in
un confronto serrato – ideale e argomentato – con un
ateismo coerente e cosciente, capace anche di una
sua etica autonoma, come avveniva nell’Ottocento col
marxismo e il razionalismo illuministico e idealistico. Da
questo confronto-scontro nessuno dei due contendenti,
allora, ne era uscito indenne e gli esiti erano stati preziosi
per entrambi.
Solo per fare un esempio, nell’Otto-Novecento attraverso il duello col marxismo, la Chiesa ha maturato
la coscienza dell’importanza della questione sociale
(la Rerum novarum e le altre encicliche sociali), mentre il
marxismo ha visto profilarsi il post-marxismo con un filosofo come Ernst Bloch che affermava il rilievo straordinario
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dell’Esodo come testo fondante della liberazione e il
cristianesimo come seme di trasformazione della storia
(già il titolo di una sua opera era emblematico: Ateismo
nel cristianesimo) con la carica di una tensione radicale
(il Principio speranza).
Un conto è, invece, l’indifferenza–incredulità che
mette in questione sia la fede autentica e operosa, sia
l’ateismo severo e impegnato. Essa è simile a una nebbia difficile da diradare, non conosce ansietà o domande, si nutre di stereotipi e banalità, accontentandosi di
vivere in superficie, sfiorando i problemi fondamentali,
secondo l’ormai notissima immagine del Diario del filosofo danese Soeren Kierkegaard: «La nave è in mano
al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del
comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo
domani». I mezzi di comunicazione di massa ci insegnano tutto sulle mode e i modi di vivere, ma ignorano il
significato dell’esistere, l’inquietudine della ricerca interiore, le interrogazioni sull’oltre e sull’“altro” rispetto a noi
e al nostro orizzonte.
Un conto, infine, è avere a che fare con una notte
dello spirito in cui Dio è assente. Eppure se ne sente la
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mancanza: già il filosofo Martin Heidegger nei Sentieri
interrotti notava che la «vera povertà del mondo è
quando non si sente più la mancanza di Dio come mancanza». Chi avverte e soffre per il vuoto intimo, anela
alla verità, alla bellezza e all’amore, pur non possedendoli; chi obbedisce alle ingiunzioni della propria coscienza, pur avendo sopra di sé cieli apparentemente vuoti o
al massimo affollati soltanto dai satelliti della tecnica, è
come se accettasse già l’Essere assoluto di Dio, pur affermando il suo agnosticismo (si ricordi la famosa tesi del
“cristiano anonimo” suggerita dal teologo Karl Rahner).
Questa esperienza dell’assenza divina, per altro, può
appartenere non solo alla stessa fede – che è talora simultaneità di luce e di tenebra, di certezza e di dubbio – ma persino alla mistica, come è testimoniato dalle
pagine indimenticabili di S. Giovanni della Croce sulla
“notte dello spirito” o dalle riflessioni ardite di Meister
Eckhart sul rapporto tra Dio e il nulla o dai versi incandescenti di Angelo Silesio.
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Il dialogo: incontro lungo la frontiera
«Mi manca la fede e, quindi, non potrò mai essere
un uomo felice, perché un uomo felice non può avere
il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato
verso una morte certa… Non ho ereditato il ben celato
furore dello scettico, il gusto del deserto caro al razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso, allora,
gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui dubito». Aveva soltanto 31 anni ed era già al culmine del
successo; eppure il 4 novembre 1954 si era tolto la vita,
e forse la chiave di questa resa fallimentare era da cercare proprio nelle righe che abbiamo citato dalla sua
opera Il nostro bisogno di consolazione. Stiamo parlando di uno scrittore svedese di “culto”, Stig Dagerman,
che illumina in modo esplicito il senso di un dialogo tra
atei e credenti.
Interrogarsi sul significato ultimo dell’esistere non
coinvolge, certo, lo scettico sardonico e sarcastico che
ambisce solo a ridicolizzare asserti religiosi. Tra l’altro, uno
che di ateismo s’intendeva come il filosofo Nietzsche
non esitava a scrivere nel Crepuscolo degli dei (1888)
che «solo se un uomo ha una fede robusta, può indul-
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gere al lusso dello scetticismo». Neppure il razionalista,
avvolto nel manto glorioso della sua autosufficienza conoscitiva, vuole correre il rischio di inoltrarsi sui sentieri
d’altura della sapienza mistica, secondo una grammatica nuova che partecipa del linguaggio dell’amore, che
è ben diverso dalla spada di ghiaccio della pur importante ragione pura. Né è interessato a questo dialogo
l’ateo confessante che, sulla scia dello zelo ardente del
marchese de Sade della Nouvelle Justine (1797), presenta il suo petto solo al duello: «Quando l’ateismo vorrà dei
martiri, lo dica: il mio sangue è pronto!».
L’incontro tra credenti e non credenti avviene quando si lasciano alle spalle apologetiche feroci e dissacrazioni devastanti e si toglie via la coltre grigia della
superficialità e dell’indifferenza, che seppellisce l’anelito profondo alla ricerca, e si rivelano, invece, le ragioni profonde della speranza del credente e dell’attesa
dell’agnostico. Ecco perché si è voluto pensare da parte del Pontificio Consiglio della Cultura a un “Cortile dei
gentili”, sulla scia di una sollecitazione di Benedetto XVI
durante un suo discorso rivolto alla Curia Romana nel
dicembre 2009. Lasciamo da parte la denominazione
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storica che ha solo una funzione simbolica, evocando
l’atrio che nel tempio di Gerusalemme era riservato ai
“Gentili”, i non ebrei in visita alla città santa e al suo santuario. Fermiamoci, invece, sul suo aspetto tematico,
così come lo fa balenare Dagerman. Uno degli intellettuali ebrei più aperti del I secolo dopo Cristo, Filone di
Alessandria d’Egitto, artefice di un dialogo tra ebraismo
ed ellenismo – quindi secondo i canoni di allora, tra fedeli jahvisti e pagani idolatrici – definiva il sapiente con
l’aggettivo methórios, ossia colui che sta sulla frontiera.
Egli ha i piedi piantati nella sua regione, ma il suo sguardo si protende oltre il confine e il suo orecchio ascolta le
ragioni dell’altro.
Per attuare questo incontro ci si deve armare non
di spade dialettiche, come nel duello tra il gesuita e il
giansenista del film La via Lattea (1968) di Buñuel, ma
di coerenza e rispetto: coerenza con la propria visione
dell’essere e dell’esistere, senza slabbramenti sincretistici o sconfinamenti fondamentalistici o approssimazioni
propagandistiche; rispetto per la visione altrui alla quale
si riservano attenzione e verifica. Si è, invece, incapaci
di ritrovarsi su quel confine tra i due cortili simbolici del
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tempio di Sion, l’atrio dei Gentili e quello degli Israeliti,
quando ci si arrocca solo in difesa dei propri idoli. Ne
L’Adolescente (1875) Dostoevskij, sia pure con la passione del credente, li identificava con chiarezza. Da un
lato, infatti, affermava che «l’uomo non può esistere senza inchinarsi … Si inchinerà, allora, a un idolo di legno o
d’oro, o del pensiero … o di dèi senza Dio». D’altro lato,
però, riconosceva che vi sono «alcuni che sono davvero
senza Dio, solamente fanno più paura degli altri, perché
vengono col nome di Dio sulle labbra». Ecco la tipologia
comune a coloro che non si fermeranno a dialogare su
quella frontiera: chi è convinto di aver già in sé tutte le
risposte e di doverle solo imporre.
Questo, però, non significa che ci si presenta soltanto
come mendicanti, privi di qualsiasi verità o concezione
della vita. Ponendomi per congruenza sul territorio del
credere a cui appartengo, vorrei solo evocare la ricchezza che questa regione rivela nei suoi vari panorami ideali. Pensiamo al raffinato statuto epistemologico
della teologia come disciplina dotata di una sua coerenza, alla visione antropologica cristiana elaborata nei
secoli, all’investigazione sui temi ultimi della vita, della
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morte e dell’oltrevita, della trascendenza e della storia,
della morale e della verità, del male e del dolore, della
persona, dell’amore e della libertà; pensiamo anche al
contributo decisivo offerto dalla fede alle arti, alla cultura e allo stesso ethos dell’Occidente. Questo enorme
bagaglio di sapere e di storia, di fede e di vita, di speranza e di esperienza, di bellezza e di cultura è posto
sul tavolo di fronte al “Gentile” che potrà, a sua volta,
imbandire la mensa della sua ricerca e dei suoi risultati
per un confronto.
Da un simile incontro non si esce mai indenni, ma
reciprocamente arricchiti e stimolati. Sarà un po’ paradossale, ma potrebbe essere vero quello che Gesualdo
Bufalino scriveva nel suo Malpensante (1987): «Solo negli
atei sopravvive oggigiorno la passione per il divino». Una
lezione, quindi, e un monito per lo stesso fedele abitudinario, affidato a formule dogmatiche, senza lo scavo
del comprendere intelligente e vitale. Sull’altro versante
si potrebbe immaginare l’epigrafe di una delle tombe
dell’Antologia di Spoon River (1915): «Io che qui giaccio
ero l’ateo del villaggio, loquace, litigioso, versato negli
argomenti dei miscredenti. Ma in una lunga malattia
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lessi le Upanishad e il Vangelo di Gesù. Ed essi accesero
una fiaccola di speranza e di intuizione e di desiderio
che l’Ombra, guidandomi tra le caverne del buio, non
poté estinguere. Ascoltatemi, voi che vivete nei sensi
e pensate solo attraverso i sensi: l’immortalità non è un
dono ma un compimento. E solo coloro che si sforzano
molto potranno ottenerla».
L’“incredulità” del credente e la “fede” dell’ateo
Si deve, allora, affermare – sempre in questa linea e
sulla scia della metafora della frontiera – che il confine,
quando si dialoga, non è una cortina di ferro invalicabile. Non solo perché esiste una realtà che è quella della
“conversione” e qui assumiamo il termine nel suo significato etimologico generale e non nell’accezione religiosa tradizionale. Ma anche per un altro motivo. Credenti
e non credenti si trovano spesso sull’altro terreno rispetto
a quello proprio di partenza: ci sono, infatti, come si suol
dire, credenti che credono di credere, ma in realtà sono
increduli e, viceversa, non credenti che credono di non
credere, ma il loro è un percorso che si svolge in quel
momento sotto il cielo di Dio. A questo proposito vorrem-
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mo solo suggerire un paio di esempi paralleli, anche se
distribuiti sui due campi. Partiamo dal credente e dalla
componente di oscurità che la fede comporta, soprattutto quando si allarga il sudario del silenzio di Dio, come
abbiamo già avuto occasione di indicare parlando
dell’ateismo come assenza di Dio (genitivo soggettivo).
Facile è pensare ad Abramo e ai tre giorni di marcia
sull’erta del monte Moria, stringendo la mano del figlio
Isacco e custodendo nel cuore lo sconcertante imperativo divino del sacrificio (Genesi 22); oppure possiamo
ricorrere alla lacerante e fluviale interrogazione del già
citato Giobbe; o ancora al grido dello stesso Cristo in
croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
O tanto per scegliere un emblema moderno, tra i tanti
possibili, alla “notte oscura” di un mistico altissimo come
san Giovanni della Croce e, per venire a noi, al dramma
del pastore Ericsson in crisi di fede, nel film Luci d’inverno
(1962) di Ingmar Bergman. Scriveva giustamente un teologo francese, Claude Geffré: «Su un piano oggettivo
è evidentemente impossibile parlare di una non credenza nella fede. Ma sul piano esistenziale si può arrivare a
discernere una simultaneità di fede e di non credenza.
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Ciò non fa che sottolineare la natura stessa della fede
come dono gratuito di Dio e come esperienza comunitaria: il vero soggetto della fede è una comunità e non
un individuo isolato».
Spostiamoci ora sull’altro versante, quello dell’ateo
e delle sue oscillazioni. Il suo stesso anelito, testimoniato ad esempio dal citato Dagerman, è già un percorso
che s’inoltra nel mistero, a tal punto da configurarsi in
preghiera, come è testimoniato da questa invocazione
di Aleksandr Zinov’ev, l’autore di Cime abissali (1976):
«Ti supplico, mio Dio, cerca di esistere, almeno un poco,
apri i tuoi occhi, ti supplico! Non avrai da fare altro che
questo, seguire ciò che succede: è ben poco! Ma, o
Signore, sforzati di vedere, te ne prego! Vivere senza testimoni, quale inferno! Per questo, forzando la mia voce
io grido, io urlo: Padre mio, ti supplico e piango: Esisti!».
È la stessa supplica di uno dei nostri poeti contemporanei più originali, Giorgio Caproni (1912-1990): «Dio di
volontà, Dio onnipotente, cerca, / (Sforzati!), a furia di insistere, / – almeno – di esistere». È significativo che il Concilio Vaticano II abbia riconosciuto che, obbedendo alle
ingiunzioni della sua coscienza, anche il non credente
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può partecipare della risurrezione in Cristo che «vale non
solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini
di buona volontà, nel cui cuore invisibilmente lavora la
grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti… Perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di
venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero
pasquale» (Gaudium et Spes n. 22).
In ultima analisi l’ostacolo che si leva per questo dialogo-incontro è forse uno solo, quello della superficialità
che stinge la fede in una vaga spiritualità e riduce l’ateismo a una negazione banale o sarcastica. Per molti, ai
nostri giorni, il “Padre nostro” si trasforma nella caricatura
che ne ha fatto Jacques Prévert: «Padre nostro che sei
nei cieli, restaci!». O ancora nella ripresa beffarda che
il poeta francese ha escogitato della Genesi: «Dio, sorprendendo Adamo ed Eva, / disse: Continuate, ve ne
prego, / non disturbatevi di me, / fate come se io non
esistessi!». Far come se Dio non esistesse, etsi Deus non
daretur, è un po’ il motto della società del nostro tempo:
chiuso come Egli è nel cielo dorato della sua trascendenza, Dio (o la sua idea) non deve disturbare le nostre
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coscienze, non deve interferire nei nostri affari, non deve
rovinare piaceri e successi.
È questo il grande rischio che mette in difficoltà una
ricerca reciproca, lasciando il credente avvolto in una
lieve aura di religiosità, di devozione, di ritualismo tradizionale, e il non credente immerso nel realismo pesante
delle cose, dell’immediato, dell’interesse. Come annunciava già il profeta Isaia, ci si ritrova in uno stato di atonia: «Guardai, ma non c’era nessuno; tra costoro nessuno era capace di consigliare, nessuno c’era da interrogare per avere una risposta» (41,28). Il dialogo è proprio
per far crescere lo stelo delle domande, ma anche per
far sbocciare la corolla delle risposte. Almeno di alcune
risposte autentiche e profonde.
Emil Cioran, della “razza degli atei”
E ora, in questa linea del dialogo tra credenti e agnostici attorno alle domande “ultime”, com’è appunto
quella su Dio, proponiamo due esempi emblematici
contemporanei, tra i tanti possibili. Iniziamo con quello
di uno scrittore ateo di grande impatto emotivo e teorico. «Io sono uno straniero per la polizia, per Dio, per me
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stesso». È forse questa la più lapidaria e folgorante carta
d’identità di Emil Cioran, nato l’8 aprile 1911 a Răşinari,
nella Transilvania rumena. Come è noto, questo inclassificabile scrittore-pensatore nel 1937, a 26 anni, migrò a
Parigi, ove condusse il resto della sua vita fino alla morte avvenuta nel 1995. Straniero, quindi, per la sua patria d’origine, che aveva cancellato dalla sua anagrafe
personale, abbandonandone anche la lingua. Straniero
per la nazione che l’aveva ospitato, a causa del suo costante isolazionismo: «Sopprimevo dal mio vocabolario
una parola dopo l’altra. Finito il massacro, una sola rimase come superstite: Solitudine. Mi risvegliai appagato».
Straniero, infine, per Dio, lui che era figlio di un prete ortodosso. Talmente straniero da iscriversi alla «razza
degli atei», eppure con un’insonne ansia di inseguimento nei confronti del mistero divino: «Mi sono sempre
aggirato attorno a Dio come un delatore: incapace di
invocarlo, l’ho spiato». Cioran, infatti, si è appostato a
più riprese per tendere agguati a Dio costringendolo a
reagire e quindi a svelarsi. Significativo è il dialogo che
a distanza intavolò col teologo Petre Ţuţea. Costui non
aveva abbandonato la sua terra, nonostante 13 anni
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trascorsi nelle prigioni di Ceauşescu, né tanto meno la
sua fede, a tal punto da replicare a Cioran così: «Senza
Dio l’uomo rimane un povero animale, razionale e parlante, che non viene da nessuna parte, e va non si sa
dove». In realtà, il suo interlocutore non era strettamente
ateo né agnostico, tant’è vero che era giunto al punto di suggerire ai teologi una sua particolare via “estetica” per dimostrare l’esistenza di Dio. Scriveva, infatti, in
Lacrime e santi: «Quando voi ascoltate Bach vedete
nascere Dio… Dopo un oratorio, una cantata o una
“Passione”, Dio deve esistere… Pensare che tanti teologi
e filosofi hanno sprecato notti e giorni a cercare prove
dell’esistenza di Dio, dimenticando la sola!».
Cioran accusa l’occidente di un delitto estremo,
quello dell’aver estenuata e disseccata la potenza generatrice del Vangelo: «Consumato fino all’osso, il cristianesimo ha smesso di essere una fonte di stupore e
di scandalo, ha smesso di scatenare vizi e di fecondare
intelligenze e amori». Questo Qohelet-Ecclesiaste moderno si trasforma, allora, in una sorta di “mistico del Nulla”, lasciando intravedere il brivido delle “notti dell’anima” di certi grandi mistici come Giovanni della Croce o
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Angelo Silesio, risalendo fino allo sconcertante cantore
del nesso Dio-Nulla, il celebre Meister Eckhart medievale. «Ero ancora un bambino, quando conobbi per la
prima volta il sentimento del nulla, in seguito a un’illuminazione che non riuscirei a definire». Un’epifania di
luce oscura, potremmo dire con un ossimoro usato dal
Giobbe biblico.
«Si ha sempre qualcuno sopra di sé – continuava –,
al di là di Dio stesso si eleva il Nulla». Ma ecco il paradosso: «Il campo visivo del cuore è: il mondo, più Dio, più il
Nulla. Cioè tutto». E allora questa è la sua conclusione:
«E se l’esistenza fosse per noi un esilio e il Nulla una patria?». Il Nulla – sempre per ossimoro – diventa il nome di
un Dio, certamente ben diverso dal Dio cristiano, eppure
come lui pronto a raccogliere il male di vivere dell’umanità. Scriveva Cioran, evocando la “psicostasia” dell’antico Egitto, ossia la pesatura delle anime dei defunti per
la verifica della gravità delle loro colpe: «Nel giorno del
giudizio verranno pesate solo le lacrime». Nel tempo
della disperazione, infatti, certe bestemmie – dichiarava Cioran, sulla scia di Giobbe – sono “preghiere negative”, la cui virulenza è accolta da Dio più della com-
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passata lode teologica (l’idea era già stata formulata
da Lutero).
Cioran è, quindi, un ateo-credente sui generis. Il suo
pessimismo, anzi, il suo negazionismo riguarda piuttosto
l’umanità: «Se Noè avesse avuto il dono di leggere il futuro, non c’è alcun dubbio che si sarebbe fatto colare
a picco!». E qui il Nulla diventa il mero nulla, un vuoto
annientamento: «adorare la terra e dirsi che proprio essa
è il termine e la speranza dei nostri affanni, e che sarebbe vano cercare qualcosa di meglio per riposarsi e
dissolversi». L’uomo ti fa perdere ogni fede, è una sorta
di dimostrazione della non esistenza di Dio ed è in questa luce che si spiega il pessimismo radicale di Cioran
che brilla già nei titoli delle sue opere: L’inconveniente
di essere nati, La tentazione di esistere, Sulle cime della
disperazione, Squartamento, Sillogismi dell’amarezza e
così via. E qualche volta è difficile dargli torto, guardando non solo la storia dell’umanità, ma anche il vuoto di
tanti individui che non ha niente del tragico Nulla trascendente: «Di molte persone si può affermare quanto
vale per certi dipinti, cioè che la parte più preziosa è la
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cornice». Ma per fortuna – ed è questa la grande contraddizione – esiste, come si diceva, anche Bach…
Albert Camus, “santo senza Dio”
Il 7 novembre 1913 nasceva, in una cittadina dell’Algeria che reca lo stesso nome della nostra Mondovì piemontese, Albert Camus. Suo padre era un bracciante
che sarebbe morto ancor giovane di lì a poco nella battaglia della Marna; la madre una domestica di origine
spagnola costretta ad allevare da sola i figli. Sarà il maestro elementare di Albert a intuirne la genialità e a sostenerlo ottenendogli una borsa di studio nel 1924. Ma non
vogliamo ora né tracciare la biografia di questa straordinaria figura intellettuale del Novecento, né abbozzare
una mappa della sua complessa e ricca produzione letteraria e saggistica, nonostante che la sua esistenza sia
stata troncata a soli 46 anni, il 4 gennaio del 1960, in un
incidente stradale.
Nel dicembre 1946 egli fu invitato dai padri domenicani a parlare nel loro convento parigino di LatourMaubourg. Il testo di quella conversazione, pubblicato
poi nell’edizione delle sue opere nella “Pléiade”, si con-
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cludeva con queste parole molto significative: «Il mondo di oggi chiede ai cristiani di rimanere cristiani. L’altro
giorno, alla Sorbona, rivolgendosi a un oratore marxista,
un prete cattolico diceva in pubblico che anche lui era
anticlericale. Bene: non amo i preti anticlericali, come
non amo i filosofi che si vergognano di se stessi. Perciò
non cercherò di farmi cristiano davanti a voi. Spartisco
con voi lo stesso orrore del male. Ma non spartisco la
vostra speranza, pur continuando a lottare contro questo universo in cui dei bambini soffrono e muoiono».
È proprio sulla scia di tali parole che si comprende un’altra confessione di questo straordinario “Gentile”: «Come
essere santi senza Dio: è questo il solo problema concreto che io conosca».
A noi ora interessa cogliere solo qualche squarcio
della sua interrogazione, spesso tormentata, sulla trascendenza. Anni fa, quando mi dedicai all’analisi di quel
capolavoro biblico che è il libro di Giobbe, dovetti ad
esempio riferirmi necessariamente anche al più celebre
romanzo di Camus, La peste (1947): il confronto dialettico tra il gesuita padre Paneloux e il medico ateo Rieux
è un sorprendente “Cortile dei Gentili” attorno al tema
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incandescente del male sul quale, però, si affollerà in
quell’opera un piccolo mondo di altri testimoni, dalla
popolazione di Orano con le sue vittime al delinquente
ricercato Cottard, dall’aristocratico Tarrou al giornalista
Rambert e alla sua amante, da chi lotta a chi si rassegna o si stordisce, dall’approfittatore all’incosciente.
La peste è la punta di un iceberg letterario e spirituale
del mare interiore di Camus, è il suo “Giobbe” intenso e
tragico.
Infatti, la domanda sul male presente nella storia e
resistente a ogni soluzione filosofica lacererà sempre l’anima di questo scrittore. Ne L’Uomo in rivolta del 1951,
testo capitale per la sua tormentata ribellione etica
all’ingiustizia e all’assurdo della vicenda umana, si legge: «L’uomo deve riparare nella creazione tutto ciò che
è possibile. Dopo di che i bambini continueranno a morire ingiustamente, anche in una società perfetta. Col
suo più grande sforzo, l’uomo può soltanto proporsi di
diminuire aritmeticamente il dolore del mondo. Ma l’ingiustizia e la sofferenza rimarranno e, benché limitate,
non cesseranno di essere uno scandalo. Il “perché?” di
Dimitri Karamazov continuerà a risuonare».
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Anni prima, nel 1944, nel dramma Il malinteso egli
aveva messo in scena proprio il silenzio di Dio, come accadrà anche nel citato romanzo La peste attraverso le
interrogazioni inevase del protagonista, il dottor Rieux.
Nella locanda remota e isolata ove talora la padrona
uccide i viandanti per depredarli, un giorno giunge suo
figlio, fuggito di casa tanto tempo prima e irriconoscibile, con la sposa Maria. Nella notte la madre, per rapinarlo dei suoi averi, lo assassina senza la consapevolezza
di colpire suo figlio. Invano al mattino la moglie Maria
grida la sua disperazione a Dio che è simbolicamente
incarnato dal servo sordomuto della locanda: «Abbiate
pietà di me, ascoltatemi, Signore, abbiate pietà di quelli
che si amano e sono stati separati!». E il servo a fatica
biascica: «Mi avete chiamato?». Maria: «Aiutatemi, ho
bisogno d’aiuto, abbiate pietà e vogliate aiutarmi!».
Il servo: «No!». E su questo monosillabo cala il sipario. Un
Dio muto, indifferente e distante dal dramma di vivere
dell’umanità.
È per questo che ne Il Mito di Sisifo (1942) Camus considererà il suicidio come il problema fondamentale della
filosofia. E scriverà: «La levata, il tram, le quattro ore di
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ufficio o di officina, la colazione, il tram, le quattro ore di
lavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì, martedì,
mercoledì, giovedì, venerdì e sabato sullo stesso ritmo…
Soltanto che, un giorno, sorge il “perché?”…». È per questo, allora, che egli si pone la questione radicale: «O il
mondo ha un senso più alto, o nulla è vero fuori di tali
agitazioni». Si affaccia, così, la trascendenza che, però,
non è vista come un riparo all’assurdo del presente o
come una narcosi degli interrogativi: «Se c’è un peccato contro la vita, è forse non tanto disperarne, quanto sperare in un’altra vita, sottraendosi all’implacabile
grandezza di questa», scriveva in Nozze del 1938. Anzi,
come si legge in uno dei racconti de La Caduta (1956):
«Non aspettate il giudizio finale perché esso si celebra
ogni giorno».
Si fa strada, così, una ricerca di una salvezza intrastorica che conserva, tuttavia, in sé i brividi della trascendenza. È, prima, la via della “rivolta” morale espressa nel
citato testo omonimo e drammatizzata con le sue contraddizioni ne I Giusti, un’opera del 1950 che ho voluto
riproporre proprio come meditazione spirituale “laica” lo
scorso febbraio nella chiesa del Gesù a Roma. È, poi,
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la via della bellezza: «L’uomo non può fare a meno della bellezza, e la nostra epoca finge di volerlo ignorare.
Essa non vede il bello perché s’irrigidisce per raggiungere l’assoluto e il dominio», si legge nel saggio letterario L’Estate del 1948. E ne L’Uomo in rivolta continua:
«La bellezza non fa rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui
le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza».
Infine, ecco la via dell’amore. Già nel settembre 1937
nei Taccuini annotava: «Dovessi scrivere io un trattato
di morale, avrebbe cento pagine, novantanove delle
quali assolutamente bianche. Sull’ultima poi scriverei:
Conosco un solo dovere ed è quello di amare. A tutto il
resto dico no». Sì, perché «questo mondo senza amore
è un mondo morto e giunge sempre un’ora in cui ci si
stanca delle prigioni, del lavoro, del coraggio per reclamare il volto di un essere e il cuore meravigliato della
tenerezza». Potremmo o dovremmo continuare a lungo
a percorrere le pagine di Camus, scoprendo continue
iridescenze cristiane come questa, ancora nel saggio
L’Estate: «Chi non dà nulla non ha nulla. Non essere amato è una sfortuna. Non saper amare è una tragedia». In
conclusione, mi sembrerebbe, però, significativo lasciar
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serpeggiare per lui una domanda radicale che un altro autore di culto del Novecento come Robert Musil ci
ha lasciato nel suo celebre L’Uomo senza qualità: «E se
questa libertà di Dio non fosse altro che la via moderna
verso Dio?».
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Armando Torno
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Conclusioni di Armando Torno
Se volessimo tentare un riassunto di questo incontro, di questo “Cortile dei Gentili”, non dichiarato ma
effettuato all’ombra e sotto il segno di Galileo in questa
stupefacente Aula Magna, dovremmo forse prendere i
tanti registri che abbiamo sentito questa sera. Ognuno
di essi potrebbe diventare argomento di discussione,
potrebbe diventare motivo per approfondimenti, per
iniziare dei percorsi, dei confronti.
Se volessimo prendere un’immagine, io direi che
quella del volto di una persona amata può indicarci
molto più di quello che forse sospettavamo. Il cardinal
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Ravasi, ricordandoci il potere dell’amore, ci spiega ciò
che avviene di fronte al trascendente: di fronte a Dio
non possiamo utilizzare soltanto la ragione, abbiamo
altre motivazioni, altre ragioni, altri percorsi che ci portano poi a soffrire, a negare, ad affermare, a dubitare,
a essere magari diversi o uguali.
Concludendo, questo mi sembra il senso dell’incontro di oggi: il poter dire che la presenza e l’assenza
di Dio è qualcosa che riguarda tutti, nessuno escluso.
Tutti dobbiamo parteciparvi.
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Stampato nel mese di dicembre 2013
per conto della casa editrice dell’Università di Padova
Padova University Press
da Tipografia Nuova Jolly - Rubano (PD)
ISBN: 978-88-97385-83-7
Occasional Papers
Parole che lasciano il segno
Collana di saggi brevi e autorevoli
che offrono una chiave di lettura
ai temi del passato rimasti aperti,
danno un significato alle grandi
questioni sfidanti del presente,
indicano la via per disegnare gli
scenari del futuro ancora tutti da
inventare.
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Come la Chiesa avverte il bisogno di misurarsi con la modernità
e le sue diverse manifestazioni, così anche una grande istituzione
laica, quale è oggi l’Università di Padova, sente l’opportunità,
o addirittura l’urgenza, di misurarsi con le tematiche proprie della
prospettiva religiosa. Ecco una delle ragioni di questo incontro
fra il rettore dell’Università di Padova e il cardinale Gianfranco
Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura,
tenutosi l’11 giugno 2013 nell’Aula Magna dell’Ateneo con la
collaborazione di un intellettuale e giornalista della levatura
di Armando Torno.