La psicoanalisi senza cura - Lacan-con

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La psicoanalisi senza cura - Lacan-con
LA PSICOANALISI SENZA CURA
L’OCCASIONE STORICA OFFERTA DALLA “LEGGE OSSICINI” AGLI
PSICOANALISTI DI DISFARSI DEL CLICHÉ MEDICO
di Moreno Manghi
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INCIPIT
L’affermazione di Freud che “tra paziente e analista non accade nulla, se non
che parlano tra loro”, è spesso invocata dagli psicoanalisti che non si sono posti sotto la tutela della legge dello Stato (diventando così degli psicoterapeuti) per attenuare la responsabilità dell’atto psicoanalitico; in questo modo essi indulgono a non so
quale fantasma di clemenza a cui potersi appellare in caso di imputazione per “abuso di professione” psicoterapeutica. Ma così facendo, forniscono il pretesto per ridurre la psicoanalisi a chiacchiera; infatti, se “sono solo parole” (e non fatti) allora si
giungerà ben presto alla conclusione che è nelle stesse analisi che in definitiva “non
accade nulla”. Ecco perché dobbiamo attribuire alla parola, e per eccellenza a quella
dell’analista, tutto il peso del detto biblico secondo cui “ne uccide più la parola della
spada”. In effetti, l’affermazione di Freud non va intesa nel suo mero senso descrittivo, ma nel senso che ogni altro accadere deve venire eliminato proprio perché in
questo “nulla” la parola ritrovi il suo terribile potere di “far accadere”. Se la parola
non avesse il potere di uccidere più della spada, e se l’atto psicoanalitico non traesse
il suo potere proprio da ciò, ci si domanda in che modo potrebbe cambiare la vita di
chi ha intrapreso un’analisi personale.
Non solo l’analista non si esime dalla responsabilità di sapere certamente che la
parola uccide più della spada, ma tutto il suo desiderio è, in ciascuna seduta, di riu-
scirvi.
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Sommario
INCIPIT……………………………………………………………………………………………………………2
SITUAZIONE DELLA PSICOANALISI IN ITALIA DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE OSSICINI....... 4
QUALE PSICOTERAPIA? “LA” PSICOTERAPIA, IN QUANTO CATEGORIA, NON ESISTE ........................ 6
IL VERO SCOPO DELLA REGOLAMENTAZIONE GIURIDICA DELLA PSICOTERAPIA È, PRIMA ANCORA CHE
ECONOMICO, POLITICO. DIETRO LA MASCHERA DEMAGOGICA DELLA “TUTELA DELL’UTENZA” E DELLA
“PUBBLICA SALUTE” SONO GLI INTERESSI DELL’ETICA DEL PADRONE A ESSERE TUTELATI. COSA
INSEGNA LA PSICOANALISI IN PROPOSITO ............................................................................... 9
L’occasione storica, offerta dalla legge Ossicini agli psicoanalisti, di disfarsi del
cliché medico. La politica della psicoanalisi ................................................................. 10
La questione politica dell’isteria .................................................................................. 11
PERCHÉ LA PSICOANALISI NON È UNA CURA .......................................................................... 13
LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE: I BENEFICI CHE LA PSICOANALISI NE PUÒ TRARRE ..................... 14
La psicoanalisi non ha nulla a che fare con i “disturbi mentali, emotivi,
comportamentali. ....................................................................................................... 15
Non esistono il colloquio o il dialogo in psicoanalisi
Nessuna azione diretta viene esercitata sull’analizzante, nemmeno quella verbale......... 16
L’UNICO ATTO DELL’ANALISTA È L’INTERPRETAZIONE, MA DI CHE GENERE? ................................. 17
APPENDICE:
PSICOTERAPIA E PSICOANALISI A CONFRONTO SUL CASO DELL’ «UOMO DELLE CERVELLA FRESCHE» .. 21
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SITUAZIONE DELLA PSICOANALISI IN ITALIA DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE OSSICINI
Quello che è accaduto e sta accadendo in Italia, dopo quasi un quarto di secolo
dall’avvento della legge Ossicini, e le ragioni stesse per cui è potuto accadere che
l’intera popolazione di uno Stato tolleri una legge interamente fondata sull’arbitrio (e
dunque sulla violenza), richiederebbe delle considerazioni che vanno ben aldilà di
questo scritto, come pure delle nostre forze. Come un inarrestabile maelstrom conformista, parole d’ordine, comandi, imperativi categorici, quali la “difesa della salute
pubblica”, la “sicurezza del cittadino”, travolgono e risucchiano la facoltà di pensare, e di desiderare, facendo scattare tutti sull’attenti “come un solo uomo”. Rinunciando a ogni spirito critico, a ogni dibattito, all’insegnamento della storia e della
tradizione, e perfino alla semplice osservazione dei dati di fatto, non si intendono
più ragioni e sulla base della mera demagogia una legge, che qualcuno non ha esitato a definire incostituzionale, viene approvata per “tutelare l’utenza”. Dopo di che, i
giudici che la devono applicare, semplicemente la applicano senza sapere quello che
fanno, senza conoscere minimamente la materia che sono chiamati a giudicare, affidandosi unicamente alle argomentazioni degli Ordini degli psicologi (a cui viene riconosciuto il diritto di giudicare che cos’è la psicoanalisi) 1 e al fatto irrefutabile che
“questa legge ormai esiste”. D’altra parte, quelle istituzioni psicoanalitiche che per
storia, tradizione, forza politica, avrebbero dovuto intervenire, scandalosamente tacciono e acconsentono. Così, coloro che hanno votato la loro vita, tutte le loro risorse
materiali, spirituali, sessuali, a quel discorso che prende il nome di “psicoanalisi” −
seguendo un percorso di formazione che una volta iniziato non può avere mai fine,
per vie che sono quelle tracciate da Freud e dalla storia della psicoanalisi (l’analisi
personale, l’analisi di controllo o la supervisione, l’elaborazione teorica, il rendere
pubblica la propria attività attraverso scritti, seminari, conferenze, traduzioni, il
“transfert di lavoro” con altri psicoanalisti e con tutti quelli che si appassionano al
discorso psicoanalitico, e soprattutto il mettersi in questione giorno per giorno, seduta dopo seduta) – si sono trovati di colpo a essere fuorilegge, da quando la psicoanalisi non ha più diritto di esistere. Così, se un giudice, facendo valere la legge Ossicini, afferma che la psicoanalisi è psicoterapia, il semplice dato di osservazione che
non solo l’atto psicoanalitico non è psico-terapeutico, ma nemmeno “cura”, quanto
meno nell’accezione medica, non ha più alcuna rilevanza.
1
È davvero penoso vedere un giudice accontentarsi di qualche piccola meschineria, per esempio il
citare le affermazioni di Freud sulla psicoanalisi come “principale e più importante tra le psicoterapie”, per
tirare delle conclusioni che avrebbero un valore probatorio.
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Ma tutto questo ha poca importanza rispetto al fatto che le stesse psicoterapie
non possono essere regolamentate giuridicamente: non solo perché ciascuno degli
orientamenti psicoterapici esistenti ha proprie peculiarità, completamente differenti
le une dalle altre, che rendono impossibile la loro unificazione nella categoria “la
psicoterapia ”; quanto perché “la psicoterapia è solo un caso particolare della vita
relazionale quotidiana”; da qui il paradosso, fatto notare da Giacomo Contri, che
l’intera cittadinanza dovrebbe essere abilitata per legge a esercitarla.
Dimostrare che c’è atto psicoanalitico ma non atto psicoterapeutico – dimostrazione che comporta la definizione di che cosa è effettivamente un atto (qualcosa di
talmente eccezionale nella nostra vita da essere scambiato, quando si realizza, per
un miracolo) − esula dagli intenti di questo scritto. Ciò non toglie che qualsiasi psicoterapeuta possa compiere un atto, nel momento in cui esso non riposa più sulla
sua competenza tecnico-professionale ma su quello che Sadi Marhaba chiama, come
vedremo, “il prerequisito ‘dimensione etica’ come fattore terapeutico”. Da qui la
domanda: è possibile regolamentare giuridicamente la dimensione etica? Uno Stato
ha il diritto di regolamentare giuridicamente ciò che compete esclusivamente a ciascun soggetto nella sua singolarità? Basta questa domanda a far sentire che la legge
Ossicini non è semplicemente una questione di regolamentazione giuridica di una
professione, ma pone un interrogativo sulle prerogative del diritto, e sul suo possibile condizionamento, che riguarda tutti.
La mancanza pressoché totale di dibattito sulla Laienanalyse, la terribile banalizzazione di tutto ciò che riguarda la psicoanalisi, l’inerzia (per tacere altro) della
Società Psicoanalitica Italiana che non ha mai voluto o potuto mettere la psicoanalisi
in relazione alla freudiana Kultur , lo smussamento e l’edulcorazione dello stile caustico, amaro e tranciante del testo freudiano nella traduzione italiana delle Opere,
tutta intessuta di eufemismi, l’ignoranza, e ancora peggio l’ignoranza dotta di Lacan
nella cultura italiana, la scomparsa dei libri e delle riviste di psicoanalisi dall’editoria
e, last but not least, l’impossibilità di formare degli psicoanalisti non-psicoterapeuti –
ecco il quadro catastrofico della situazione della psicoanalisi in Italia oggi, dopo più
di due decenni dall’entrata in vigore della legge Ossicini.
Questo sfogo era necessario per far sentire i rischi a cui va incontro, “come se
niente fosse”, cioè a forza di rimozioni, una società che accetta che lo psicoanalista
sia messo di fronte all’alternativa tra diventare psicoterapeuta o operare nell’illegalità,
il che equivale ad abolire quel discorso psicoanalitico che, dopo il fallimento del
marxismo (nei cui confronti è debitore della scoperta del sintomo e del plusvaloreplusgodere), finora è stato il solo a proporre un altro legame sociale e un’altra idea di
civiltà rispetto a quella in cui viviamo, hegelianamente presunta come “il compimento
della Storia”.
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Spero che la lettura di queste pagine aiuti almeno un po’ ad uscire
dall’ingannevole, subdola, ristrettissima prospettiva dell’ “abuso di professione”2,
perché ciascuno si senta coinvolto a meditare su due, differenti e avverse, idee di civiltà; una delle quali – e vedremo quale − è rappresentata dalla psicoanalisi, e l’altra,
quella vittoriosa e inconfutabile in cui ci troviamo a vivere, dalla parola “utenza”, a
cui potrebbe bene adattarsi questa definizione: “il governo degli uomini attraverso il
solo astratto gioco delle regole impersonali su cui nessuno, chiunque esso sia, ha
presa alcuna” 3.
QUALE PSICOTERAPIA? “LA” PSICOTERAPIA, IN QUANTO CATEGORIA, NON ESISTE
Innanzitutto ci tengo a precisare che non intendo contestare l’orientamento teorico, la validità tecnica, l’efficacia terapeutica di ciascuna singola psicoterapia, ma
mettere in evidenza l’assoluta mancanza di un criterio che permetta di unificare le
centinaia di psicoterapie esistenti nella classe o ordine o genere o categoria psicoterapia ; a meno che non si voglia accomunarle, come pure non si è mancato di fare,
con un atto che trascende le loro radicali differenze, sotto la vuota e irrisoria definizione di “terapia della psiche” 4.
La mancanza di un criterio unificatore non permette in alcun modo di decidere
quali psicoterapie possono essere accreditate di un riconoscimento legale e quali non
possono esserlo, quali sono e quali non sono quelle “terapie della psiche” che possono fregiarsi del titolo di “psicoterapia”. A meno che, in mancanza di un qualsiasi
criterio epistemologico che le unifichi, tale criterio non sia il seguente: le (“vere”)
psicoterapie, e dunque le (“vere”) scuole di formazione psicoterapica, sono quelle
riconosciute per legge, e il “vero” psicoterapeuta è quello abilitato dalla legge a esercitare la psicoterapia.
Vedremo che, in primo luogo, la psicoanalisi non può essere una “professione”; e, in secondo luogo, che “lo psicoanalista” non esiste. A molti sembra inaudito che la psicoanalisi oggi, all’interno di uno
Stato moderno, possa rimanere estranea al concetto del professionismo modernamente inteso, essere appresa al di fuori dell’università, sfuggire alla specializzazione, non essere sottoposta a scuole di abilitazione e corsi di formazione, non avere una propria categoria professionale protetta e un proprio Albo. Si
giunge allora alla conclusione, veramente paradossale, che la psicoanalisi non operi nella legge, quando
essa opera esclusivamente nella e con la legge, e non attraverso la mera competenza tecnicoprofessionale. D’altronde, preda del maelstrom conformista che travolge e sradica il pensiero, la stragrande
maggioranza delle persone è assolutamente convinta che chi istituisce relazioni pubbliche basate su un
onorario senza essere inquadrato né inquadrabile (se non a forza) in un Albo professionale, sia necessariamente un ciarlatano e un farabutto.
3
L. J. Hume, Bentham and Bureaucracy, Cambridge University Press, 1981.
4
È noto che ciascuna delle psicoterapie è in disaccordo su tutto con le altre: teorie della malattia e
dell'eziologia, nosografia, diagnosi, teoria del sintomo, concetto di trattabilità, criterio o giudizio di guarigione, tecnica, training o formazione, ecc.
2
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È esattamente quello che è avvenuto in Italia grazie alla legge 18 febbraio 1989
(“legge Ossicini”, dal nome del suo promotore) sull’ordinamento della professione
di psicologo, che stabilisce, per di più, o meglio inopinatamente, all’interno di essa
legge, all’articolo 3 5, le condizioni di esercizio dell’attività psicoterapeutica, senza
peraltro definirla in alcun modo6. E questo per la semplice ragione che non può farlo,
dato che non è possibile “ordinare e rendere prevedibile e ripetibile l’azione terapeutica che il curante può esercitare sul paziente tramite la propria persona ” 7.
Su questo punto mi limiterò a menzionare, oltre ai testi di Giacomo Contri 8, la
fondamentale introduzione di Sadi Marhaba, professore ordinario di Psicologia gene“L'esercizio dell'attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale,
da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di
specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162, presso scuole di
specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con le procedure di cui all'articolo 3
del citato decreto del Presidente della Repubblica.” Il testo di legge è disponibile a questa pagina:
http://www.salusaccessibile.it/Laienanalyse/56_1989.pdf.
6
Come osserva F. Galgano (professore ordinario di diritto civile all’università di Bologna) nel suo
Parere pro veritate sull’applicazione della legge 56 del 1989: http://www.salusaccessibile.it/Laienanalyse/parere.pdf:
“Appare sin d’ora opportuno precisare che la legge n. 56/1989 non ha né istituito l’ordine professionale degli psicoterapeuti, né istituito l’albo professionale degli psicoterapeuti, né ha tanto meno definito chi è psicoterapeuta ai fini della stessa legge. La non definita attività psicoterapeutica è stata impropriamente collocata dalla predetta legge Ossicini all’interno della neo professione di psicologo, nonché
all’interno della professione medica. Gli psicoterapeuti risultano essere suddivisi in due elenchi inseriti
l’uno nell’albo professionale degli psicologi e l’altro in quello dei medici e degli odontoiatri. Viene così suscitata la falsa impressione che l’esercizio dell’attività psicoterapeutica sia sempre e comunque subordinato al conseguimento della laurea in psicologia o medicina e chirurgia, e alla iscrizione all’ordine degli psicologi o dei medici e degli odontoiatri. Un’ attività professionale storicamente autonoma per natura, funzione e struttura (quella psicoterapeutica), viene collocata dalla legge Ossicini all’interno di altre professioni, quelle di psicologo e di medico, che hanno poco o nulla a che vedere con la psicoterapia.” (p. 4)
7
Dizionario di storia della salute, a cura di G. Cosmacini, G. Gaudenzi, R. Satolli, Einaudi, Torino
1996, voce “psicoterapia”. D’altronde, se così non fosse, vorrebbe dire che la soggettività sarebbe diventata interamente calcolabile, predicibile, inquadrabile in una relazione di causa-effetto, ossia inumana.
Inversamente, disponiamo di un criterio comune – il criterio della scientificità – giuridicamente sussumibile, che permette di riunire le (plurale) medicine nella (singolare) Medicina, la quale, in quanto categoria, diventa così Medicina di Stato. Questo criterio è definito dal fatto che la medicina procede secondo
la legge di causalità (o di causa-effetto), che è predicibile. Ciò significa che tutte quelle pratiche mediche
che sono predicibili – ossia operano secondo la legge di causalità – rientrano di diritto nella categoria
“Medicina”, potendo essere distinte da tutte quelle pratiche mediche che non sono predicibili e che dunque
sono giuridicamente escluse dalla categoria “Medicina”.
8
Cfr. AA.VV., La questione laica. Ragione legislatrice freudiana e ordini civili:
http://www.salusaccessibile.it/Laienanalyse/quelaica.pdf [Sic, Milano 1991]; G. B. Contri, Libertà di psicologia. Costituzione e
incostituzionalità. Psicologia. "Psicoterapia". Psicoanalisi: http://www.salusaccessibile.it/Laienanalyse/liberpsi.pdf [Sic,
Milano 1999,]; G. B. Contri, La fuorilegge. La 56/89 o “legge Ossicini” il reato di leso diritto:
http://www.salusaccessibile.it/Laienanalyse/gbc_FUORILEGGE.pdf [2011]. Per altri contributi cfr. tutta la sezione “Laienanalyse” del sito: http://www.salusaccessibile.it/Laien1.htm.
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rale all’Università di Padova, al libro, scritto in collaborazione con Maria Armezzani,
Quale psicoterapia? Gli indirizzi psicoterapici in Italia: confronto e analisi (Liviana
Editrice, Padova, 1988, pp. 3-40): “Riflessioni di un non-psicoterapeuta sulla psicoterapia” 9.
Per situare il contesto storico del libro, edito nel 1988 (ma il progetto iniziale,
come afferma lo stesso Autore, risale al 1983), è opportuno ricordare ancora che la
legge n. 56 sull’ordinamento della professione di Psicologo e la regolamentazione
giuridica delle psicoterapie data 1989. Questa precisazione non vuole affatto sottolineare che il testo è “datato”, ma, al contrario, vuole rimarcare tutta l’attualità
dell’affermazione posta al suo centro: l’«appartenenza di diritto a tutti di un qualsiasi discorso sulla psicoterapia »; affermazione – che suona come un appello – che
dobbiamo correlare a quest’altra: «la psicoterapia è solo un caso particolare della vi-
ta relazionale quotidiana, mentre molti vorrebbero che la vita relazionale quotidiana
o fosse del tutto estranea alle specifiche modalità relazionali concettualizzate
all’interno del loro orientamento psicoterapico, o addirittura obbedisse a queste ultime».
Come l’Autore dimostra dopo anni di ricerche, non solo non esiste alcun criterio scientifico che sia stato finora in grado di unificare – nemmeno a livello dei cosiddetti “contenuti minimi” – le psicoterapie storicamente esistenti; ma l’estensione
della definizione di “psicoterapia” e del suo campo di applicazione è talmente vasta
e generica da coincidere con ogni rapporto umano in cui un soggetto dotato di sufficiente “tensione etica” è capace di procurare dei “benefici psichici” a un altro: «la
questione essenziale che qui m’interessa, può essere espress[a] in questi termini: per
molte persone (fra cui il sottoscritto) in certi campi (fra cui la psicoterapia) la dimensione etica è così importante da vincere il confronto con la competenza ».
Tale questione essenziale, se l’affrontiamo radicalmente, rivela un paradosso
sconcertante: da un lato, esiste ormai da oltre un ventennio una regolamentazione
giuridica delle psicoterapie 10; d’altro lato, la categoria “psicoterapia ” non ha fattispecie giuridica, poiché è dote di chiunque abbia “tensione etica” in grado elevato.
Infatti, nel ribadire la «centralità del prerequisito imponderabile “tensione etica” come
fattore terapeutico», l’Autore giunge a questa conclusione: «Se l’ipotesi è vera, qual-
siasi persona capace di una estrema tensione etica è necessariamente un buon psicoIl saggio di Sadi Marhaba, con una nuova prefazione dell’Autore scritta per l’occasione, è di prossima pubblicazione su http://www.lacan-con-freud.it in edizione PDF. Le righe che seguono sono tratte
dalla nostra Nota editoriale al saggio.
10
In Italia, caso unico al mondo, ammontano finora a 304 le Scuole di specializzazione in psicoterapia riconosciute dal Ministero, a cui continuamente se ne aggiungono altre. [Cfr.
http://scuoledipsicoterapia.opsonline.it/]. La ragione di un simile numero, tendente a divenire illimitato, è
ovvia: con quale criterio si può loro rifiutargli tale riconoscimento? Non potendo esistere tale criterio, basta che esse rientrino nelle condizioni di esercizio stabilite dall’art. 3: “corsi di specializzazione almeno
quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia”.
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terapeuta ». E inversamente: «la mancanza della dimensione etica vanifica la presenza di qualsiasi altro fattore presumibilmente terapeutico, mentre non vi è fattore
presumibilmente terapeutico la cui mancanza possa mai vanificare la presenza della
dimensione etica ».
All’Autore non è sfuggita l’enormità – lo scandalo epistemologico, se così possiamo dire – della sua ipotesi, che, larvatus prodeo, arriva a definire «mistica», ma
che in effetti è tanto coraggiosa quanto inaudita: «mi rendo conto che quest’ipotesi
rimane difficile da accettare, soprattutto per il carattere estremo e persino paradossale delle sue implicazioni».
Psicologi, psicoterapeuti, psicoanalisti, come ha osservato Contri, “hanno in
comune il fatto di fare, o non fare, qualcosa che per definizione non è inscrivibile in
alcun quadro professionale giuridicamente configurato e configurabile: e proprio
perché non lo è, non perché non lo è ancora ” 11.
E tuttavia, la fattispecie “psicoterapia” per il diritto esiste. Per quali motivi?
IL VERO SCOPO DELLA REGOLAMENTAZIONE GIURIDICA DELLA PSICOTERAPIA È, PRIMA ANCORA
CHE ECONOMICO, POLITICO. DIETRO LA MASCHERA DEMAGOGICA DELLA “TUTELA
DELL’UTENZA” E DELLA “PUBBLICA SALUTE” SONO GLI INTERESSI DELL’ETICA DEL PADRONE A ESSERE TUTELATI. COSA INSEGNA LA PSICOANALISI IN PROPOSITO
Sotto la maschera demagogica della “tutela dell’utenza”, della “salute pubblica”, della “sicurezza” (argomenti oggi irresistibili, ipnotici oso dire, di fronte ai quali
la ragione cede), l’obiettivo da realizzare è duplice.
Da un lato, come scrive Eugenio Calvi: “Si potrebbe ritenere che il comune cit-
tadino sia così accorto e così acculturato e competente da poter scegliere liberamente
il suo ‘curante’ tra qualsiasi cittadino, di più, tra qualsiasi essere umano. Ma evidentemente il Legislatore − non solo quello italiano − è di diverso avviso, se stabilisce
che la ‘cura’ debba essere affidata soltanto a chi possiede determinati requisiti. Non
ci stupiamo davvero se consideriamo che non chiunque ma solo chi ha una laurea in
medicina ed è abilitato a esercitare una professione possa somministrare farmaci e
usare il bisturi, e crederemmo poco utile socialmente che venisse data via libera a
improvvisati ‘guaritori’; né penso che tali limiti siano posti ad esclusiva tutela dei
medici, quanto piuttosto della pubblica salute. ecc.” 12.
Insomma, Calvi afferma candidamente che noi “comuni” cittadini non siamo liberi di sceglierci uno psicoterapeuta tra un qualsiasi essere umano, perché per il LeCfr. i testi di Contri citati.
Lettera di E.Calvi a E. Perrella del 18/11/97. Testo integrale in M. Manghi [1999], Un esempio di
degenerazione del diritto: la “legge Ossicini”, http://www.salusaccessibile.it/Laienanalyse/degenera.pdf.
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gislatore non siamo in grado di farlo; allora sarà Lui, per tutelarci dalla nostra incompetenza, a prescriverci chi sono coloro che hanno i requisiti adatti: le lauree e i
corsi di formazione appositi saranno di per sé la garanzia che la nostra fiducia è ben
riposta!
Sorvolo sull’equiparazione surrettizia “del medico, dell’avvocato, dell’architetto,
ecc.” allo psicoterapeuta, come se la “competenza” di questo si sostenesse sugli
stessi fondamenti epistemologici di quelli; come se l’atto dello psicoterapeuta potesse fondarsi sulla certezza di una legge che dice che a tale causa deve necessariamente e universalmente corrispondere tale effetto, o che a tale illecito si deve necessariamente comminare tale sanzione; come se un intervento psicoterapico potesse
predire i suoi effetti su un soggetto, proprio come avviene per gli oggetti della biologia, della chimica, della giurisprudenza, della fisica, ecc. Eppure questi argomenti puramente demagogici, triti e ritriti, hanno un effetto di persuasione magico, ed è strano che finora gli psicoanalisti non ne abbiano indagato le cause, il fondo mitico che
li sostiene.
D’altro lato – ed è questo secondo obiettivo quello di gran lunga più importante
− viene perseguita la completa riduzione del sintomo all’ambito medico. È ciò che
ora prenderemo in esame.
L’occasione storica, offerta dalla legge Ossicini agli psicoanalisti, di disfarsi del
cliché medico. La politica della psicoanalisi
Chi è tormentato da un sintomo che lo fa soffrire e lo ostacola fino a impedirgli
di realizzare quelle che sono le mete comuni della vita, può decidersi a chiedere aiuto a uno psicoterapeuta, nella speranza di guarire. Cosa c’è di più ragionevole? Eppure la psicoanalisi ha scoperto che quella sofferenza gli è cara più di se stesso, che egli
rimane tenacemente attaccato alla malattia e che questo attaccamento nasconde un
“beneficio secondario” della malattia che tende a conservarla. La psicoanalisi ha
scoperto che non si rinuncia facilmente al sintomo (al di là delle svariate forme in cui
può tramutarsi e risorgere), perché esso è il punto prezioso di individuazione mediante cui il soggetto, fin da bambino, ha resistito alle identificazioni alienanti che i
genitori, gli educatori, gli insegnanti, i dottori, gli avevano designato. Nonostante la
sofferenza, il sintomo è stato il custode di una segreta ribellione, apertamente inconfessabile, che ha salvato il soggetto da un “tu devi essere questo” 13.
Solo con questi pochi cenni, siamo già completamente al di fuori della prospettiva medica della salute, della cura, della guarigione. E difatti, dopo poche sedute,
per il solo fatto di aver incontrato qualcuno che non tratta più il sintomo medical13
Il § IV. del Seminario “Schegge” 2007-2010 di Gabriella Ripa di Meana, intitolato appunto “Sintomo”, è una eccellente introduzione a questa concezione radicalmente non-medica del sintomo:
http://www.lacan-con-freud.it/aiuti/seminari/grm_seminario_schegge_2007-2010.pdf.
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mente – come qualcosa da ridurre o da guarire –, ma come l’involucro che ha preservato la facoltà di desiderare, come un appello dal linguaggio sconosciuto e enigmatico, dopo poche sedute, dicevo, il sintomo (quanto meno il sintomo isterico) si dissolve, perché ha raggiunto il suo scopo: farsi ascoltare, e non: curare. Questo dissolversi del sintomo non è uno scomparire tout-court, ma il suo aprirsi a una nuova dimensione che non si può definire altrimenti che politica.
Prima di essere un “disturbo mentale, comportamentale, emotivo”, il sintomo
disturba un certo funzionamento sociale. Riferire il sintomo alla malattia, inquadrarlo
nel discorso medico della cura e della guarigione, ha lo scopo di occultare la sua istanza politica, di mettere il bavaglio al suo inconfessato potere di contestazione.
Ecco perché, se esiste una politica della psicoanalisi, essa non consiste
nell’interessamento dello psicoanalista alla “politica” 14, ma nel fatto che ciò che
chiamiamo “clinica”, ciò che chiamiamo “nevrosi”, è già , in quanto tale, discorso
politico. La “politica della psicoanalisi” è interna, e non esterna, alla sua stessa “clinica”, come mostra la concezione stessa dell’isteria secondo Freud. Ma allora, perché continuare a parlare di “clinica”? La legge Ossicini ha dato alla psicoanalisi
l’occasione storica di disfarsi del modello medico che, per ragioni altrettanto storiche,
la opprime fin dalle origini.
La questione politica dell’isteria
L’origine della psicoanalisi, è la scoperta, fatta da Freud, che l’isterica conduce
una lotta, un combattimento contro l’ordine stabilito, contro lo status quo ante bellum, di cui non rispetta le regole di convenienza, i ruoli e le funzioni che competono
da sempre al sesso femminile.
“Ed ecco che oggi, davanti a queste isteriche che ci si dà tanta pena per rendere docili e obbedienti, risorge il termine di ‘perverso’ (non nel senso della “perversione” ma della “perversità” del
XVIII e XIX secolo). Essere perverso, significa non rispettare l’ordine stabilito, si sarebbe tentati di dire. L’isteria minaccia. L’isteria fa paura. L’isterica è cattiva. Non si può fare affidamento su di lei, che
mentisce, che delude le aspettative del medico, dello sposo, dell’amante, dei genitori, ecc.” 15
Si usa dire che l’isterica “resiste” alla guarigione. Sì, ma quale? A quella che le
chiede: di adattarsi al “principio di realtà” (e dunque al “principio di piacere”)? di
È in amichevole dissenso che ci rivolgiamo qui alla via intrapresa da Ettore Perrella, pur condividendone le ragioni.
15
L. Isräel, L'hystérique, le sexe et le médecin, Masson, Parigi 1976, p. 52. Cfr. M. Manghi, Todo
sobre la hystérica - Resoconto di L'isterica, il sesso e il medico, di L. Israel:
http://www.lacan-con-freud.it/clinica/nevrosi/israel_l_isterica_il_sesso_il_medico.pdf.
14
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rassegnarsi alla sessualità ridotta alla genitalità? di concepire e allevare figli? di confondere il desiderio femminile con la funzione materna?
Ciò contro cui combatte l’isterica, ciò a cui essa resiste, è “l’etica del padrone”
– l’etica del lavoro, della distribuzione dei beni, dell’accumulo del profitto, dei bisogni e dei desideri soddisfatti su scala industriale, del benessere sociale di cui tutti
oggi possono assaggiare una briciola –, etica di cui il sintomo isterico mostra il definitivo fallimento.
L’isterica segnala che qualcosa “non funziona”, che c’è qualcosa che continua a
non funzionare quando tutto funziona perfettamente, quando “è tutto O.K.”, quando per ciascun bisogno è stato prodotto l’apposito bene che lo soddisfa. Dopo che le
si sono assicurati tutti i beni, l’isterica continua a chiedere altra cosa, è sempre ugualmente scontenta, sempre insoddisfatta, proprio e soprattutto quando “non le
manca niente”, come se nessun oggetto adatto a soddisfare il bisogno, e nessun bene prodotto per soddisfare la domanda, potesse bastarle.
Il sintomo isterico mette in crisi i principi dell’etica del padrone, sconvolge la vita felice che egli credeva di avere assicurato alla bourgeoise, lo esaspera e lo dispera:
“Non ti ho forse dato tutto quello che volevi? I figli, la casa, le macchine, i soldi, i
viaggi, il benessere, la bella vita − non contano nulla per te?” È allora che il padrone,
che si occupa solo di far funzionare tutto, e che tutto continui a funzionare senza
inciampi e sia sotto il suo controllo, scopre che, proprio nella donna con cui ha scelto di vivere, qualcosa “non va”. E questo qualcosa che “non va”, di cui nessuno ci
capisce niente, rischia di mandare in pezzi tutta l’industria della felicità.
Non è nemmeno il caso qui di ricorrere alla psicoanalisi, è sufficiente guardare
un film di Michelangelo Antonioni − Deserto rosso piuttosto che L’eclissi. Negli anni
in cui l’Italia era all’apice del boom, le “isteriche”, quando non si gettavano dalle finestre, o impazzivano, o si davano al crimine, facevano fallire i matrimoni “senza
motivo”.
Ora, questo “senza motivo”, questo qualcosa che “non va” – il sintomo
dell’isterica – di che cosa è il sintomo? È appunto la domanda che il padrone non
vuole porsi, la domanda che nella sua forma più ingenua può formularsi così: “perché tutta la mia potenza non riesce a soddisfare la mia donna?” O nella sua forma
più radicale: “perché tutto l’efficiente apparato di produzione di beni a cui mi sono
votato per soddisfare ogni domanda, per colmare la domanda in quanto tale, e mediante cui accelero il Progresso, procuro posti di lavoro, faccio guadagnare i miei operai, esporto la democrazia e sfamo il Terzo mondo, ha per risultato la catastrofe
dell’amore?”
Domande che devono subito essere messe a tacere: un tempo in qualche clinica
“di lusso”, oggi semplicemente con l’abolizione della stessa parola “isteria”, perché
la questione del desiderio femminile, di cui il sintomo isterico è l’emblema, venga
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tumulata sotto la lapide di qualche classificazione nosografica. E non importa se oggi
l’isteria ha preso altre forme e altri nomi, se, nella disperazione di un sintomo che
non trova più nessuno ad ascoltarlo, essa finisce per marcire nella “depressione”,
che non è altro che l’isteria andata a male, l’isteria trattata pervicacemente ed esclusivamente in modo medico, in modo omicida.
“Se la felicità è accordo senza rottura del soggetto con la sua vita (…) è chiaro
che essa si rifiuta a chi non rinuncia alla via del desiderio.” 16
PERCHÉ LA PSICOANALISI NON È UNA CURA
La specificità della psicoanalisi è costituita dal fatto di ritrovare necessariamente
e universalmente, al centro di ogni soggetto umano, ciò che Freud ha chiamato
“complesso di Edipo” 17. Se non si ha questa certezza, se non si ritrova immancabilmente in qualunque analisi il complesso di Edipo, se non si opera a partire da esso
come un punto di riferimento imprescindibile, non si è più nella psicoanalisi.
Che cos’è e a cosa serve l’Edipo? L’Edipo è una struttura simbolica che ha la
funzione di supplire alla completa mancanza di un istinto sessuale nell’uomo. La ragione dell’esistenza del complesso di Edipo, dipende proprio dal fatto che non vi è
nell’uomo una meta genitale naturalmente preordinata all’unione sessuale, né alcuna
evoluzione naturale della sessualità che possa realizzarla. La funzione del complesso
di Edipo è di fare in modo che la sessualità umana non consista semplicemente
nell’accoppiamento e nella riproduzione, ma nel desiderare in quanto uomo o in
quanto donna (che sono tutt’altro da maschio e femmina), nel fare all’amore e
nell’avere dei figli come frutto di quell’amore. L’operazione del complesso di Edipo è
dunque di rendere umana la sessualità , ossia di conferirgli un destino che è quello
del desiderio: che la sessualità sia rappresentata nell’essere umano dalla facoltà di
desiderare, costituisce la sua differenza irriducibile dalla sessualità animale. Ma perché il desiderio possa effettivamente esistere e definirsi in quanto tale, è necessario
che vada al di là dei confini del proprio corpo preso come meta sessuale e investa un
Altro essere umano, assolutamente differente da sé, che non sia semplicemente un
riflesso speculare di se stessi. Ora, l’incontro con questo Altro assolutamente differente da sé può realizzarsi solo attraverso il rapporto con un altro dell’altro sesso e
J. Lacan, Kant con Sade, in Scritti, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 785-786.
Le relazioni tra gli elementi che compongono il complesso di Edipo,e le loro funzioni, possono
variare nei legami sociali tribali o comunque diversi da quelli occidentali, ma questo non mette in questione la necessità e l’universalità del complesso di Edipo. D’altronde, Freud ha potuto scoprirlo proprio quando storicamente esso manifestava, nei soggetti “nevrotici”, i suoi effetti di congiuntura.
16
17
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M o r e n o M a n g h i | 14
con quel limite alla propria onnipotenza narcisistica e alla propria immortalità costituito dalla Morte.
L’acquisizione della differenza sessuale nel suo rapporto con l’esperienza del
limite della morte, ovvero la perdita dell’asessualità e dell’immortalità: ecco la funzione del complesso di Edipo, il suo fine essendo la costituzione di una realtà umanizzata 18.
La psicoanalisi dà la possibilità di rivivere, di riattraversare il complesso di Edipo
e di portarlo a compimento là dove qualcosa ha fatto ostacolo alla sua risoluzione,
che coincide con la sua distruzione. Ecco perché l’ultimo Freud, sbarazzatosi del retaggio medico che inevitabilmente aveva connotato – e non poteva essere diversamente − gli inizi della psicoanalisi, non definisce più quest’ultima una cura ma un
Kulturarbeit, un “lavoro di civiltà”.
LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE: I BENEFICI CHE LA PSICOANALISI NE PUÒ TRARRE
La psicoanalisi è stata giudicata, da una recente sentenza della Cassazione
(l’istituzione giuridica più alta dopo la Corte d’Appello), una psicoterapia. Quali inveterati pregiudizi possono aver spinto un giudice a condannare uno psicoanalista
per “abuso di professione”, dato che non può esistere, al contrario di quello che pensa
M.A. Trasforini19, la “professione di psicoanalista”?
[Anticipiamo questo punto decisivo: “lo psicoanalista” non esiste, tranne che per un momento
in cui, prendendo la parola nell’ambito di particolari circostanze, oppure stando in silenzio là dove la
sua parola è attesa, crea per un soggetto l’occasione per desiderare. Non di “decifrare il suo desiderio
rimosso” ma proprio di desiderare hic et nunc, di realizzare il suo desiderio. Al di fuori di questo
momento, “lo psicoanalista” non esiste, meno che mai in quanto persona. Nessuno psicoanalista, al
di fuori del momento speciale appena descritto, può dirsi “psicoanalista” (quando ciò avviene, quando lo psicoanalista si trova per qualche motivo a dover dichiarare la sua “professione”, non può che
sentirsi in imbarazzo). Infatti, su che cosa si può sostenere una simile affermazione? Su di un titolo?
Sull’iscrizione a un’Associazione? A un Albo professionale? Sulla propria esperienza? Sulla propria
competenza? Sui libri pubblicati? Al di fuori di quel momento in cui, parlando o rimanendo in silenzio, crea la possibilità di realizzare nell’altro il desiderio inconscio, “lo psicoanalista” non è altro che
un “soggetto supposto sapere” qualcosa che l’analizzante ignora, e di cui anch’egli non sa e non può
Nell’ “autismo”, che non ha potuto incontrare il complesso di Edipo, e nella psicosi, dove per la
mancanza di un elemento della struttura edipica non si è potuta costituire la differenza sessuale, la morte,
in quanto limite umano, è sconosciuta, e la realtà in cui questi soggetti vivono è disumana.
19
Maria Antonietta Trasforini, La professione di psicoanalista, Boringhieri, Torino 1991. Nella quarta di copertina, si può cogliere questa perla: “Lo psicoanalista sembra oggi aver acquisito una legittimità
sociale: è l’esperto del più immateriale degli ambiti, quello della soggettività e delle sofferenze”.
18
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sapere niente. Ne deriva che è solo nel momento in cui l’analizzante realizza un desiderio, che lo psi-
coanalista esiste.]
Riprendiamo. La sentenza della Cassazione ha la più grande importanza perché, per la prima volta, finalmente il giudice ha affermato per quali motivi la psicoanalisi sarebbe una psicoterapia.
Citiamo:
“Ciò posto, la psicanalisi […] è pur sempre una psicoterapia che si distingue
dalle altre per i metodi usati per rimuovere disturbi mentali, emotivi e comportamentali.
Né può ritenersi che il metodo “del colloquio” non rientri in una vera e propria
forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che non v'è dubbio
che tale metodica, collegata funzionalmente alla cennata psicoanalisi, rappresenti
un'attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l'anoressia) il
che la inquadra nella professione medica, con conseguente configurabilità del contestato reato”20.
Smonteremo ora pezzo per pezzo queste grossolane falsità, che, vogliamo sperare, siano da imputare alla disinformazione, alla superficialità, alla negligenza, ai
pregiudizi del giudice.
La psicoanalisi non ha nulla a che fare con i “disturbi mentali, emotivi,
comportamentali”.
Niente è più estraneo alla psicoanalisi della “mente”, o della “psiche”, così come niente le è più estraneo dei “disturbi mentali, emotivi, comportamentali”; in nessun momento, della teoria o della pratica, lo psicoanalista si trova ad avere a che fare, anche solo lessicalmente, con queste nozioni. Perfino la diagnosi, bastione inespugnabile del discorso medico e principale fonte della sua autorità, è un intralcio al
lavoro psicoanalitico21. Dopo avere imparato a saperla fare con precisione “tra sé e
sé” (senza doverla necessariamente comunicare, soprattutto nel caso dei bambini o
degli adolescenti), è opportuno, anzi indispensabile disfarsene, come non hanno
mancato di insegnare alcuni grandi “clinici” della psicoanalisi, come J. Clavreul, L.
Sulla sentenza della Cassazione, leggibile in appendice alla nostra Confutazione,
http://www.lacan-con-freud.it/aiuti/dossier1/mm_sentenza.pdf, possono essere utili i testi raccolti
in questa pagina: http://www.lacan-con-freud.it/Dossiern1.html,
21
Come osserva S. Puiatti: “Non pronunciare una diagnosi significa poter trattare il bambino e maltrattare l’autismo, non crederci, smascherare la fatuità di tutto il lavorìo, attaccare l’opposizione radicale al
desiderio.(…) In fondo, risparmiare sulla diagnosi permette di guadagnare sul desiderio del bambino, ma
anche dei genitori, permette di mobilizzare il pensiero che rimarrebbe, diversamente, fissato alla categoria
diagnostica. Permette di rompere dei nessi patologici per proporne degli altri, normali.”Cfr. Alcune buone
ragioni per non fare diagnosi al bambino: http://www.salusaccessibile.it/Child/diagnosi.pdf p. 5.
20
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Isräel, M. Safouan e tanti altri “maestri” 22. Si tratta di emulare il gesto dei pittori moderni, che dopo aver imparato a rifare alla perfezione i grandi classici, si sono completamente disfatti di ogni metodo e tecnica.
Non esistono il colloquio o il dialogo in psicoanalisi.
Nessuna azione diretta viene esercitata sull’analizzante, nemmeno quella verbale.
Esaminiamo adesso l’affermazione secondo cui l’analisi procederebbe mediante
“il metodo del colloquio”.
Il colloquio, o il dialogo psicoterapeutico, è incentrato sul discorso di due soggetti che cercano di intendersi, e che procedono, in accordo o in opposizione, verso
un senso, un obiettivo, un fine (per esempio: la guarigione).
Tutto al contrario, lo psicoanalista non dialoga, non conversa, non colloquia; al
pari dell’analizzante 23, che parla per associazioni libere, ossia a sua volta non dialoga e non colloquia, ma nemmeno monologa. Lo psicoanalista non interviene mai sui
contenuti del discorso dell’analizzante, e a sua volta non ha nessun discorso da fare 24, sia esso in accordo o in disaccordo: si disinteressa del senso, dei significati, dei
fini del discorso, per interessarsi unicamente ai suoi significanti. Benché questo atteggiamento sia stato chiamato da Freud tecnica dell’ “attenzione fluttuante”, non si
tratta di una vera e propria tecnica. Semplicemente, certi significanti – non tutti, ma
alcuni − si impongono all’ascolto dell’analista – a cui tutto si può perdonare tranne
che manchi di “orecchio” – in quanto esorbitano dall’enunciato. Questi significanti
si fanno riconoscere proprio perché non appartengono al discorso che il soggetto è
intento a proferire, al discorso in cui comunque si ritrova sempre, al discorso di cui è
signore e padrone. Una volta che tali significanti “esorbitanti” sono stati riconosciuti, vengono punteggiati, sottolineati, a volte ripetuti, echeggiati; insomma, vengono
restituiti al mittente.
Non c’è dunque nessuna azione diretta che dall’esterno agisce sul “paziente”
(sul suo enunciato), con frasi del tipo: tu devi o tu non devi, hai fatto bene o hai fatto male, hai ragione o hai torto, ti devi comportare o non ti devi comportare, ecco il
significato del tuo sintomo, del tuo sogno, del tuo lapsus, devi astenerti, non devi
Siamo pronti in qualsiasi momento a fornire i testi di riferimento.
In un recente incontro a Torino tra “psicoanalisti laici”, Giovanni Sias ha affermato che per lui il
più importante contributo di Lacan alla psicoanalisi è l’invenzione della parola “analizzante”, nella sua
differenza da “analizzato” e da “analizzando”; questo per sottolineare (in opposizione frontale a quanto
afferma Calvi, e chiunque voglia giustificare la legge Ossicini sui presupposti di cui egli si fa il portavoce)
chi è il vero competente in un’analisi.
24
Quando si parla di “discorso psicoanalitico” si intende una particolare forma di legame tra soggetti, che non è più centrata sulla rimozione, e tiene in considerazione la divisione soggettiva di ciascuno
(l’inconscio), e non il discorso tenuto da qualcuno, fosse pure lo psicoanalista. Al contrario, se c’è qualcosa che connota l’analista, è che non fa alcun discorso.
22
23
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reagire in questo modo, devi reagire in questo modo, non devi lasciarti andare, devi
rafforzare la sua autostima, comprendo la tua sofferenza, ecc. Insomma, l’analista
non fornisce nessuna istruzione, giudizio, dettame, norma, regola, precetto, disposizione, consiglio, suggerimento, prescrizione, proibizione, commento 25.
L’UNICO ATTO DELL’ANALISTA È L’INTERPRETAZIONE, MA DI CHE GENERE?
Tutti sono concordi nell’asserire che l’unico atto dello psicoanalista è
l’interpretazione. Ora, in psicoanalisi esistono due generi di interpretazione:
(A) l’interpretazione che si applica all’enunciato, che ha per oggetto l’enunciato
(per esempio il racconto di un sogno), e allora ogni interpretazione ne vale un’altra,
(per esempio, un sogno può essere interpretato in tanti modi diversi e perfino opposti, quanti sono gli orientamenti teorici di riferimento). Questo genere
d’interpretazione punta a rendere cosciente il significato nascosto, inconscio, che
viene comunicato dall’analista all’analizzante. L’inconscio è qui oggetto di conoscenza;
(B) l’interpretazione che non si applica all’enunciato ma all’enunciazione, cioè
all’atto di produzione dell’enunciato. Freud ha chiamato questo genere di interpretazione, che lo ha portato addirittura a interessarsi di telepatia, “comunicazione da inconscio a inconscio”.
Tenteremo ora di chiarire la distinzione tra questi due generi di interpretazione
con degli esempi.
L’interpretazione (A) è un atto diretto mediante cui l’analista comunica i fantasmi (fantasie) inconsci che sostengono le formazioni dell’inconscio dell’analizzante
(per esempio, la fantasia sessuale che, rimossa dalla coscienza, si ripresenta, trasfigurata e irriconoscibile, in un sintomo organico di “conversione”, come nel più classico processo isterico). Questa interpretazione implica un concetto dell’inconscio in
quanto “sapere che non si sa”, un sapere che è già “lì” e che aspetta che qualcuno,
un Maître, uno che “sa”, o che è “supposto sapere”, lo riveli.
A questo proposito, ricordo che a uno dei primi “salotti” televisivi di Maurizio
Costanzo era presente Cesare Musatti, considerato a quel tempo in Italia non tanto
uno psicoanalista, quanto la psicoanalisi in persona 26. Una giovane attrice, recitando
Quando accade – e sicuramente può accadere, a volte solo per stanchezza −, decade dalla sua
funzione di analista e fa della “psicoterapia”.
26
Questa considerazione vuole mettere in rilievo il valore esemplare che la parola di Musatti , “il padre della psicoanalisi italiana”, aveva, o poteva avere, per gli psicoanalisti italiani non meno che per il “mondo
culturale”, a quell’epoca (anni ’80).
25
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volentieri per la platea il ruolo dell’alunna, chiese al Professore come mai, in determinate circostanze che si ripetevano, ella era disturbata da una inspiegabile quanto
momentanea sordità all’orecchio destro. Ebbene, il Professore si mise a spiegare: “Da
bambina Lei deve avere ascoltato certi discorsi sessuali ecc., che a quel tempo ecc.,
l’esperienza traumatica ecc., pertanto ha convertito in un sintomo ecc.” Il Professore, insomma, con il suo sapere, le ha interpretato d’emblée il fantasma che sosteneva
il sintomo isterico, il suo “significato profondo”. Non ci si aspetta proprio questo
dallo psicoanalista? Non dico che si trattasse di un’interpretazione sbagliata: Musatti
poteva benissimo averci azzeccato: quien sabe? Ma non è questo il punto. È proprio
perché ce la si aspetta , che l’interpretazione – quell’interpretazione (A) che consiste
nella presa di coscienza di un desiderio in precedenza “rimosso”– non smuove niente.
L’interpretazione (B) è un atto indiretto, perché non agisce sul senso, sul significato, sul contenuto dell’enunciato per rivelare i fantasmi inconsci, ma si limita a richiamare l’attenzione sul significante (al limite, semplicemente ripetendolo) lasciando all’analizzante il compito dell’elaborazione. Il caso del lapsus è esemplare, perché
è l’analizzante stesso che, dopo aver detto, per esempio, “mi sono imputato”, invece di “mi sono impuntato”, comincerà a meditare di che cosa si è imputato senza
nemmeno sapere di esserlo. Nel caso dovesse “tirar innanz”, tutto ciò che farà
l’analista sarà di richiamarlo (ossia, impu[n]tarlo): “Attenzione: hai fatto un lapsus”.
Prendiamo adesso un sogno. Un’analizzante, le cui preoccupazioni ruotano intorno a un evento aspettato con trepidazione, ma che, dopo più di due anni di matrimonio non si è ancora realizzato, sogna di “non riuscire mai a completare il muro
di cinta della sua casa”. L’interpretazione sarà: “(muro) d’incinta?”. Starà poi
all’analizzante – se vuole – mettere in relazione il sogno con lo stato di rabbia “immotivata” provata, come dichiara, tutto il fine settimana nei confronti di suo marito.
Ho preso ad esempio un lapsus, ma per essere più “clinico” mi riferirò ora a un
sintomo.
Un’analizzante passa improvvisamente da un atteggiamento brioso, spontaneo,
perfino caustico (anche quando si rivolge all’analista), a una “fase depressiva”
−
come si autodiagnostica− opaca, lamentosa, ristagnante, accomodante, e ser -vile.
Dopo molte sedute penose in cui non si smuove niente, si lamenta di uno strano
compiacimento a cui ultimamente indulge nel lasciarsi trattare come un poppante. In
effetti, le dico, è un pezzo che non ha più la sua mordacità . La notte stessa
l’analizzante sogna che i genitori, abbigliati da dentisti, cavano i denti a un bambino: potenza del transfert! Ciò che si era ripetuto, dopo essere stata severamente redarguita dal marito a causa della sua ironia, era la capitolazione della sua verve mediante il senso di colpa, inculcatole fin da bambina, per i morsi che non risparmiava
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nemmeno a coloro che “la amavano”. Ma di questa spiegazione l’analizzante non
aveva alcun bisogno: la conosceva già perfettamente. Quello che importa è che la
parola “mordacità ” ha ridato voce all’antica spregiudicatezza, che ora può ritornare
a dire: non mi farò scrupolo di sputare nel piatto di chi mi dà da mangiare (il marito
che non perde occasione di rammentarle che “la mantiene”) e di mordere la mano
chi mi vuole curare (l’analista, quando vuole “guarirla”). Ma questi ultimi sono i
pensieri che, a livello dell’enunciato, l’analista fa bene a tenersi per sé, a costo di…
mordersi la lingua. L’arte dell’analista dovrebbe infatti essere quella di tacere
l’interpretazione (A), ma è un’ arte difficile a cui non sempre riesce a tenere fede.
Un’analizzante mi sfinisce con il racconto prolisso e interminabile di un tale
che ha finito per ridursi a vivere da barbone. Giunto, dopo parecchio tempo, al limite
della sopportazione, erompo: Che barba! Immediatamente, invece di risentirsi, mi
dice che la domenica i suoceri avevano invitato a pranzo lei e suo marito il quale,
cinque minuti prima di partire da casa, come accade immancabilmente, si era premurato di tagliarsi la barba , in omaggio all’immagine di “sbarbatello” che il bravo ragazzo deve sempre offrire ai genitori. La scomparsa del connotato della virilità dal
circuito coniugale, ha riaperto le piaghe isteriche dell’analizzante: non sapendo più
reperirsi come donna, si divide tra una insopportabile frustrazione e la tentazione di
essere lei a farsi crescere il barbone.
Potrei fornire tanti altri esempi, ma ritengo che questi siano sufficienti a
mostrare che, in nessun caso, in un’analisi, si tratta di atti diretti a modificare il
comportamento, a rifiutarlo, ad approvarlo, a correggerlo, in nessun caso si tratta di
dialogare o colloquiare, di intervenire sugli enunciati, di dare spiegazioni, di fare discorsi,
di rendere cosciente l’inconscio. Infatti, dopo un po’ di esperienza dell’analisi, ci si accorge che l’interpretazione che consiste nella presa di coscienza di un desiderio in
precedenza “rimosso”, non smuove niente. Il venire a conoscere il desiderio, il far
diventare cosciente ciò che è inconscio, nel migliore dei casi fa diventare
l’analizzante più consapevole, più “colto”, ma nello stesso tempo anche più “scaltro” nel sottrarsi alla verità dell’inconscio, che può essere colta solo a livello del soggetto dell’enunciazione.
Concluderò con due citazioni, che si riferiscono ai due generi di interpretazione,
(A) e (B). La prima è di M. Safouan, che ci racconta un momento fondamentale della
sua analisi con Marc Schlumberger:
“La certezza che connota spesso queste interpretazioni” [quelle che ho designato come il primo genere di interpretazione (A)] “rappresenta, in realtà, un posto (poste) dove l’io si accampa, un
arresto dove il soggetto si fissa. Per rompere questo genere di certezze abbiamo i nostri metodi. Il più
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famigliare, è che l’analista dia loro in cambio, quanto meno, il suo silenzio. Ma Schlumberger aveva
altre frecce al suo arco. Un giorno, l’ho messo a parte dell’interpretazione di un simbolo onirico che
avevo scovato. Mi ha risposto domandandomi: «E perché non quest’altra interpretazione?», la quale
aveva un significato opposto. Era un modo di significarmi che, a quel prezzo, le interpretazioni non
costavano caro.” 27
La seconda è di J. Sédat: “Tutti gli analisti possono riconoscersi nella definizione seguente: La seduta di analisi è uno spazio extraterritoriale di enunciazione e non
di enunciati” 28.
Con ciò, abbiamo individuato il “minimo comune denominatore”, il principio che unifica tutti gli analisti, come già era avvenuto per il complesso di Edipo.
In base a quanto detto, possiamo anche concludere che la sbrigativa sentenza
della Cassazione è fondata unicamente su dei pregiudizi, e che in nessun caso viene
fornita la minima prova che la psicoanalisi rientri nella “psicoterapia”. Se tale sentenza non dovesse costituire quantomeno oggetto di dubbio e di discussione, ma
dovesse costituire un precedente irrefutabile, stabilendo una fattispecie, e dunque il
Giudice perseverasse ad accreditare imputazioni da parte degli Ordini degli Psicologi
che non contemplano nessun altro “reato” che quello di esercitare la psicoanalisi,
allora dovremmo inevitabilmente formarci noi, come cittadini, un dubbio
sull’esercizio del diritto, di cui il meno che si possa dire è che è atroce.
Maggio 2012
M. Safouan “L’analyste ne s’autorise que de lui-même”. Sens de ce principe et ses répercussions
institutionnelles, «Figures de la psychanalyse», 20, p. 8, corsivi miei.
28
Jacques Sédat, La psychanalyse et l’État, «Figures de la psychanalyse», 5, érès, Tolosa 2001, p.
200, corsivi miei.
27
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APPENDICE:
PSICOTERAPIA E PSICOANALISI A CONFRONTO SUL CASO
DELL’ «UOMO DELLE CERVELLA FRESCHE»
In una recente sentenza della Cassazione il giudice, devoto al pregiudizio medico, nel riferirsi a
“vere e proprie malattie” cita tra parentesi l’anoressia29. Egli crede che l’anoressia sia una malattia vera
perché le contrappone implicitamente una malattia falsa , “simulata”, fabbricata per ingannare il medico: l’isteria30. Di fatto, in questo modo rinnega tutta l’opera di Freud. Il giudice è convinto che le
condizioni in cui l’anoressica riduce il proprio corpo, il ricovero coatto in ospedale che a volte si rende
necessario, il rischio di morte, fanno dell’anoressia una malattia irrefutabile, che come tale deve essere
curata dal medico.
Ma a dispetto del suo tragico peso di realtà, non vi è “malattia” più puramente simbolica
dell’anoressia. Se si tratta l’anoressica sul piano della realtà, cercando di persuaderla o addirittura costringendola con la forza a nutrirsi, la si condanna, perché essa non vuole nutrirsi di cibo reale ma di
cibo simbolico: vuole “pascersi di cibo celeste”.
Come ha osservato Lacan, non è che l’anoressica non mangia niente: è che mangia niente. Pertanto, nell'avversione per il cibo dell'anoressica non dobbiamo vedere solo l'aspetto medico, ma un
“rifiuto simbolicamente motivato” della pretesa materna di ridurre l'oggetto del desiderio all'oggetto
del bisogno. La conseguenza di questa pretesa, sarà nella figlia il disgusto per il corpo biologico e i
suoi bisogni, e la volontà implacabile di ricrearsi autonomamente, autarchicamente, un corpo libidico
o erotico, nella sua differenza irriducibile dal corpo biologico materno.
Proprio perché è una malattia puramente simbolica, Lacan ha potuto riconoscere, insospettabilmente nascosta in un sintomo di plagiarismo, l’anoressia mentale31.
Si tratta di un trentenne in piena carriera universitaria, che rischia la rovina perché, accusandosi
immaginariamente di plagiare le idee degli altri, non si permette di pubblicare le sue ricerche, come la
professione accademica gli impone. Ernest Kris, con il quale il giovane universitario è in analisi, fa della “psicoterapia più primaria”, dice Lacan, quando gli dimostra, con prove inconfutabili, che non è
affatto un plagiario. Kris si era infatti dato la pena di leggere attentamente da cima a fondo lo scritto
La sentenza, che condanna uno psicoanalista per “abuso di professione” psicoterapica, è leggibile
in appendice alla nostra Confutazione: http://www.lacan-con-freud.it/aiuti/dossier1/mm_sentenza.pdf.
Qui è sufficiente riportare le motivazioni del giudice: “Né può ritenersi che il metodo “del colloquio” non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che
non v'è dubbio che tale metodica, collegata funzionalmente alla cennata psicoanalisi, rappresenti un'attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l'anoressia) il che la inquadra nella professione medica, con conseguente configurabilità del contestato reato”.
30
Ma basta documentarsi un po’ per scoprire che di isteria, si muore quanto e ben più che di anoressia, e che si muore soprattutto per mano del medico completamente impreparato a incontrarla e a trattarla, ma implacabilmente ostinato a non mollarla. Sempre che non si voglia sostenere la tesi, comunque
da discutere, che la seconda sia solo una variante aggiornata e radicalizzata della prima.
31
J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, Scritti, Einaudi, Torino 1974. Cfr.
anche il nostro “L’acting-out secondo Lacan”, tutto il capitolo “Il ‘match’ Kris-Lacan: il caso dell’ ‘uomo
delle cervella fresche’ ”: http://www.lacan-con-freud.it/aiuti/dossier4_acting_out/mm_acting_out.pdf.
29
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che il suo paziente aveva dichiarato essere nient’altro che un plagio inconsapevole delle idee di un
suo brillante collega universitario e amico, con il quale era avvezzo conversare quotidianamente dei
propri e altrui progetti. “Lei non è un plagiario!” sentenzia Kris, che gli dimostra, confrontando i testi
e le date di redazione dell’uno e dell’altro, che è invece proprio l’amico e collega ad aver plagiato le
sue idee.
Animato dal desiderio di guarire il suo “paziente” dal sintomo del plagiarismo che gli sta rovinando la carriera e la vita, Kris non agisce da analista, ma da psicoterapeuta, quando tratta quel sintomo nei termini di un accertamento della verità o falsità di un atto: “Poiché ti ho dimostrato che non
sei un plagiario – dice al “paziente” con tutto il peso della sua autorità – ti autorizzo a prendere senza più timore le idee degli altri, perché non c’è proprietà simbolica, non può esistere il furto delle idee,
non si possono rubare dei simboli, che appartengono a tutti (almeno fino a quando non hanno un
copyright)”.
Dopo queste parole, da quel giorno il paziente, tutte le volte che, terminata la seduta, verso
mezzogiorno, esce dallo studio dell’analista, si reca in un ristorantino poco distante dove si abbuffa
del “suo piatto preferito”: cervella fresche. Lacan conclude che si tratta di un acting out con cui invita
il proprio analista – a cui egli non manca mai di raccontare il suo acting – a rinfrescarsi il cervello.
Kris interpreta il sintomo del plagiarismo sul piano della realtà, che è il piano in cui opera, con le
migliori intenzioni, la psicoterapia, mentre si tratta invece di interpretarlo sul piano simbolico, come
un plagiarismo fantasmatico. L’oggetto del plagio non è dunque reale ma simbolico, e poiché non può
esistere proprietà simbolica, la questione diventa appunto: se il simbolo è di tutti, perché le cose
dell'ordine del simbolo hanno assunto per il soggetto questo accento, questo peso? Se il plagio non
esiste, che cosa ruba dunque, dato che non c’è niente da rubare? Perché non può avere un’idea sua,
senza che immediatamente si senta costretto a privarsene con l’alibi di prenderla a un altro? Ecco
l’enigma del suo desiderio.
È a questo punto che Lacan introduce audacemente il riferimento all’anoressia mentale. In effetti, non si tratta del fatto che il paziente non ruba niente, al contrario, tutta la questione consiste proprio nel fatto che egli ruba niente, ed è proprio mediante questo nutrirsi di niente che – come
l’anoressica – egli può preservare il desiderio (“tutto il suo desiderio – osserva Lacan – consiste in
questo plagiarismo”), costringendosi a rimanere affamato di idee. Per quale motivo?
Quando il paziente, a causa dell’intervento di Kris, che lo spinge a una “simbolizzazione prematura”, viene autorizzato a nutrirsi delle idee dell’altro, la sua pulsione orale – come direbbero gli
analisti della prima generazione –“regredisce al cannibalismo”, e tra l’incorporazione simbolica e
l’incorporazione reale non c’è più differenza: per lui nutrirsi delle idee di un altro vuol dire letteralmente mangiargli le cervella.
Il sintomo del plagiarismo − l’avversione anoressica per il nutrimento intellettuale − lo difendeva
dalla mancata separazione tra il simbolo e la realtà, tra il nutrirsi delle idee dell’altro e il nutrirsi del
suo cervello, benché questo digiuno intellettuale, protrattosi troppo a lungo, stesse ormai rovinando
la sua professione e la sua vita.
Quando Kris lo guarisce dal sintomo, dimostrandogli che non è un plagiario, gli toglie nello
stesso tempo la difesa anoressica che gli assicurava la separazione dal godimento reale della pulsione
orale; a questo punto, il paziente dopo ogni seduta realizza un acting out − non mancando peraltro di
informarne il proprio analista alla seduta successiva, perché potesse interpretarglielo. Rimane dunque
in attesa che l’Altro, l’analista, simbolizzi, verbalizzi, il reale del suo godimento pulsionale orale, riconvertendo il “pasto nudo” di cervella fresche in nutrimento simbolico di idee originali da pubblicare, senza più dovere ricorrere al sintomo del plagiarismo.
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