leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

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leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri
leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri
http://www.10righedailibri.it
Ernesto Capasso
Roberto Vecchioni
Miti e parole
di un lanciatore di coltelli
La riproduzione di parti di questo testo con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma
senza autorizzazione scritta è severamente vietata,
fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi
Prima edizione: ottobre 2011
© 2011 Arcana Edizioni Srl
Via Isonzo 34, Roma
Tutti i diritti riservati
Copertina: Laura Oliva
Tutte le foto presenti nel libro
provengono dall’archivio di Roberto Vecchioni
ISBN: 978-88-6231-201-1
www.arcanaedizioni.com
a Silvia, tenero fiore del maggio odoroso
a Sandra che lo ha colto
Indice
Il lanciatore di coltelli sono io, siamo tutti noi.
I coltelli sono i pensieri, le nostre forme d’espressione.
Ci sono stati i grandi lanciatori: Raffaello, Einstein.
Poi ci sono quelli come me, gli imitatori: faccio del mio meglio,
provo a emozionare e qualche volta riesco a prendere una stella.
ROBERTO VECCHIONI
“Basta anche un niente per esser felici /
basta vivere come le cose che dici”
Incontro con Roberto Vecchioni
11
I coltelli, l’amore e le parole
Un inizio
21
Speranza
Lessico familiare
Figli
Le sentinelle del futuro
Le donne e l’amore
Voci di madre
Amici
L’altro se stesso
La poesia
La signora vestita di nero
Miti e leggende
Gli amori di carta e le storie
23
33
43
49
57
77
85
93
105
115
125
135
Il sogno
I luoghi
Le parole e gli sguardi
Le favole
Ippopotami, giudici e fantasmi
Il viaggio
Il dialogo con Dio
Il tempo
Pessoa, Catullo e le speranze,
un epilogo
145
155
167
179
189
199
209
219
APPENDICI
237
239
253
269
271
303
313
317
Il professore e i poeti
Roberto Vecchioni e l’arte della narrazione
Nota biografica
Discografia
Note
Bibliografia
Ringraziamenti
“Basta anche un niente per esser felici
basta vivere come le cose che dici”
Incontro con Roberto Vecchioni
235
Cammino per l’ampia strada che costeggia il lungomare di Napoli, la
mia città, in un pomeriggio di primavera inoltrata. Guardando il panorama, riaffiora in me un verso di Dante: “La dolcezza ancor dentro mi
suona”. Mi soffermo a guardare il castello che domina il paesaggio.
Castel dell’Ovo, chiamato così per una leggenda legata a un uovo magico appartenuto al poeta Virgilio, è il più antico della città. Sorgendo su
un isolotto roccioso, “Megaris”, il palazzo è per una metà sulla terra e
per l’altra totalmente immerso nel mare. Osservandolo, in attesa dell’incontro con Roberto, mi è sembrato una metafora appropriata del
percorso musicale e letterario di Vecchioni. Le canzoni e i libri del professore abitano in una terra di mezzo sempre in bilico tra il sogno e la
realtà, tra il desiderio e il rimpianto, fra la nostalgia del passato e la fede
in un domani migliore. “Il Castel dell’Ovo fa parte della mia infanzia,
io sono figlio di napoletani, ci sono stato tante volte”, mi dice Roberto
che, sorridente, mi accoglie nella hall di un hotel nei dintorni.
Signor Vecchioni, uno dei suoi dischi più intensi è: IL LANCIATORE DI COLpubblicato nel 2002, a cui ci siamo ispirati per il titolo di questo
TELLI,
11
libro. Che significato hanno, nel suo cammino artistico, questa figura e
questa canzone?
Storia e leggenda del lanciatore è una canzone fondamentale perché è
una storia totale. È la storia della speranza e degli ideali che si trasmettono da nonno a padre a figlio. Racconta del vero significato che hanno
i coltelli che certamente non vengono intesi come un mezzo per offendere ma rappresentano le esternazioni, i pensieri.
C’è un bersaglio non ancora raggiunto verso cui, in questo momento,
vorrebbe indirizzare un pensiero, una suggestione, “un coltello”?
In questo periodo sto facendo tantissimo, penso, anche più di quello che mi è permesso perché in realtà non è che io sia un grande politico, un sociologo o altro. C’è un’enorme differenza tra il ruolo del
poeta, qualunque tipo di poeta, anche piccolo, come lo intendo io, e
quello del pensatore, del maestro di pensiero. C’è una differenza notevole: il poeta lavora d’istinto mentre il maestro di pensiero ha a che
vedere con la scienza vera e propria. Va da sé quindi che trovare soluzioni per i problemi delle persone, degli uomini, della vita, della civiltà,
della cultura non è una cosa che posso permettermi di fare.
Per che cosa uno scrittore di canzoni può trovare soluzioni?
Quello che posso fare è trovare soluzioni per l’anima. Aiutare le persone a relazionarsi a se stesse, suggerire agli altri l’importanza dell’abitudine alla coerenza e cose di questo genere. Tutto questo ha poco a che
vedere con un’analisi politica, partitica o di parte, anche se la mia parte
è abbastanza nota, io sono più a Sinistra che a Destra. Però non è questo quello che faccio e che voglio fare, non è cercare di mettere insieme gli uomini, né far capire a uno come è l’altro e così via.
Qual è, secondo lei, oggi, il compito di uno “scrittore di parole”?
Io tento, nel mio piccolo, di far capire a ogni uomo com’è dentro,
com’è nella sua intimità, nella sua trasparenza o non trasparenza. Cerco
di spingere le persone a porsi delle domande per poi far sì che in un
secondo momento le facciano anche agli altri. Il compito di uno scrittore di parole, di sentimenti è leggermente diverso da quello di un
costruttore di idee politiche e sociali. Talvolta possono seguire strade
comuni ma si tratta comunque di un diverso modo di esprimersi.
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Che cosa le manca di più, oggi?
Mi mancano molte cose, tantissime. Mi manca vedere gli uomini
più felici, più allegri, contenti. Vedo sempre persone tristi, arrabbiate
con la propria vita, con la società in cui vivono, con la patria che non
gli dà nulla. Ecco è per gli altri che sono in pensiero, non per me.
E per se stesso, cosa insegue?
Io mi accontento di quel che ho, l’ho già scelto quello che ho. Ho
scelto di non contrabbandarmi in nessun modo, di fare anche cose
fuori dalla mia portata intellettuale, se servono e l’ho fatto partecipando a Sanremo. Non ho preoccupazioni per me, le mie preoccupazioni
sono per gli altri. Quindi tenterò con le parole, con la musica e con i
sentimenti soprattutto, di supportare i discorsi degli altri rappresentando uno stile di vita a cui non sono capace di dare una risposta.
Prima ha parlato delle parole. Nel suo romanzo Le parole non le portano le cicogne, le definisce: “Soffi dell’anima dinanzi all’ignoto per definirlo e non averne più paura”. Se dovesse scegliere due o tre parole che maggiormente le fanno compagnia e le sono care, quali sceglierebbe?
Indipendenza, carità, gioia, armonia con se stessi, queste sono le
cose per me fondamentali. Più ancora di libertà, che pure è bella come
parola, o di amore per se stessi.
Tra carità e amore, quale predilige?
Carità mi piace più di amore come concetto perché la carità è rivolta agli altri, nell’amore c’è sempre qualcosa di egoistico, invece, la carità
è rivolta agli altri.
Altre parole?
La semplicità…
E la coerenza?
La coerenza non è un concetto che mi coinvolge più di tanto.
Dipende da che cosa si intende per “coerenza”, non è mica facile stabilirlo. Io penso di avere una mia coerenza però qualche volta posso
anche travisare, andare fuori, se ne ho bisogno per arrivare a un fine
diverso.
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Quali sono dunque le parole fondamentali, oggi, per Roberto Vecchioni?
La carità, l’armonia con se stessi e con gli altri e… la pazienza.
Pazienza intesa nel suo senso etimologico, da pathos, cioè questo soffrire la vita e accettarla come gli stoici, come un fatto necessario,
importantissimo, per non abbattersi mai. Il fine è questo… non abbattersi mai di fronte alle situazioni e non dare la colpa agli altri. Questo
è un vecchio vezzo italiano, dar sempre la colpa a qualcuno quando la
colpa è anche tua.
Prima ha parlato della necessità di non abbattersi, c’è una parola che
ritorna nel suo percorso artistico ed è: speranza. Chiamami ancora amore
è stata definita dal giornalista Michele Serra sul quotidiano «la
Repubblica»: “Un manifesto della speranza”. Che valore ha per lei, oggi, la
speranza?
La speranza era una delle più belle dee dei latini. La spes era una delle
divinità che i latini amavano di più. Non è mai definitiva, è il controcanto a tutte le altre divinità. Tutto quello che succede nel commercio,
nella poesia, nel lavoro, in qualsiasi cosa, ha accanto la speranza, come
divinità che accompagna ogni cosa. È la nostra arma segreta. Dobbiamo averla sempre, dobbiamo comunicarla ai figli, alle future generazioni perché il momento in cui ti arrendi è il momento fatale, è quello della fine.
Dunque che requisiti deve avere, per lei, la spes?
La speranza deve essere la cosa che sempre e comunque ti dà il senso
di andare avanti.
E Chiamami ancora amore è una canzone di speranza?
Chiamami ancora amore è assolutamente una canzone di speranza,
d’altronde, devo dire, ha avuto anche dei risultati… perché qualcosa è
cambiato nell’immediato (sorride). Anche se non è questo il punto.
Probabilmente non è quello l’importante. Il mondo non sarà mai perfetto e questo lo sappiamo benissimo, gli uomini non saranno mai tutti
uguali, le cose non andranno mai bene per tutti, questo è normale purtroppo, però proprio per questo non bisogna mai perdere questa spes,
questa voglia di pensare che il mondo non congiura contro di noi, dobbiamo essere noi ad andare incontro al mondo.
14
Gli artisti hanno la capacità di captare, di sentire prima degli altri il
segnale di un cambiamento?
Questo non saprei stabilirlo. Me l’hanno detto in tanti che l’artista
riesce a cogliere ogni cosa prima degli altri, anche molto prima. Sì,
forse è vero, perché l’ho visto e l’ho letto in tanti autori certamente più
grandi di me. Questa forma di preveggenza esiste perché l’artista calcola in un modo infinitesimale con l’anima e con la sensibilità, non
certo con la ragione, alcune cose che stanno per avvenire, per avverarsi e che agli altri sfuggono anche perché nel vivere quotidiano degli
altri c’è forse fin troppa realtà. L’artista, invece, riesce ogni tanto a
vagheggiare e quindi riesce a captare l’evolversi delle cose.
Realtà e immaginazione, l’uomo è sempre in bilico tra due mondi e due
anime?
L’uomo è entrambe le cose: desiderio e delusione, sogno e recriminazione. Siamo sempre entrambe le cose.
Questo mi fa venire in mente il tema del doppio che è centrale nelle sue
canzoni. Lei spesso si è specchiato in personaggi storici e letterari, in poeti
e scrittori: Arthur Rimbaud, Alda Merini, Fernando Pessoa, Jorge Luis
Borges. Fra tutti questi specchi, ce n’è uno il cui riflesso le somiglia di più?
Amo molto il tema del doppio. Poeti e personaggi li ho anche cambiati un po’ per farli somigliare a me. Quello a cui mi sento più vicino è
Borges, per la sua grandezza, la sua unicità, il suo percorrere universi
improvvisamente complicati, mescolati, infiniti, ma mediabili, accettabili, a volte comprensibili, a volte no. Borges è stato un grandissimo genio.
In che cosa Roberto Vecchioni si distacca da Jorge Luis Borges?
Da lui mi distacco per alcune cose, per esempio io ho molta più
fede. Io credo nell’aldilà, credo sinceramente che non tutto finisca qui.
Qual è stata la lezione che lo scrittore argentino, di cui quest’anno ricorre il venticinquennale dalla scomparsa, ci ha lasciato?
La sua lezione agli uomini è stata fantastica. L’unico peccato è che
non abbia preso il Nobel che si meritava.
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Parlando sempre di grandi scrittori a lei cari, c’è una frase di Cesare
Pavese che dice: “Non si ricordano i giorni, si ricordano i momenti”. C’è
un momento della sua carriera che le è rimasto nel cuore?
Mamma mia… Ce ne sono due o tre. Il primo disco che ho fatto,
mi ha fatto quasi morire per l’emozione: per me era il massimo. È stato
tanto tempo fa, sto parlando del 1970-71, tantissimo tempo fa. Quello
è stato un momento molto emozionante, bellissimo, fantastico.
Il secondo momento?
Vincere il premio Tenco è stato un bel momento, con il riconoscimento alla carriera.
E Sanremo?
Sanremo non è stato meno emozionante, ma sapevo che era un’altra
cosa. Non sono andato al Festival per fare una figuretta, ci sono andato per vincere. Per me significava portare avanti un discorso sulla canzone d’autore e anche prendermi una bella responsabilità sulle spalle
per tanti altri che non se l’erano presa. La canzone d’autore non è sempre così difficile, complessa, complicata o snob come si è abituati a credere, può essere anche molto popolare.
Sanremo allora rientra tra i momenti da ricordare?
Sì, vincere Sanremo è stato un bel momento ma è venuto dopo.
Anche se avessi perso, sapevo benissimo che comunque l’operazione
era riuscita. L’avevo capito già da prima, dai giornalisti, da tutti, dai
commenti. Sapevo che dovevo farlo. Non arrivando a fare la vittima
sacrificale perché non è quello il senso anche perché non mi sono sacrificato per niente.
Quali sono state dunque le cose più belle della sua carriera?
Le cose più belle nella mia carriera sono stati alcuni concerti che mi
ricordo. Il piacere immenso di vedere gente applaudire per cinque, sei
minuti. A Roma, non più tardi di cinque o sei anni fa, ho ricevuto
dieci minuti di applausi. Sapevo che non era una cosa da prima copertina, da 500mila copie. Forse era anche un fatto un po’ elitario però di
grandissima qualità e valore e mi ha emozionato tantissimo.
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Restando sempre nell’ambito poetico, lei, nel primo racconto del libro
Scacco a Dio dal titolo L’importanza di essere Wilde, cita un aforisma dello
scrittore irlandese: “Oggi essere comprensibili equivale a essere scoperti”.
Certo, Oscar Wilde sfuggiva sempre alla comprensione.
Lei, invece, quando si è sentito veramente compreso e scoperto?
Non credo sia importante essere compresi o scoperti. Se esco fuori,
oggi, mi saltano addosso tutti, eppure non sono cambiato negli ultimi
cinque mesi. Per un motivo o per l’altro, perché ho fatto un Sanremo
e l’ho vinto, tutti mi vogliono, tutti mi cercano, ma non è che cambi
la mia vita.
Le ha fatto piacere questo tipo di popolarità?
Lo volevo. Poteva capitare a Renato Zero, a De Gregori, poteva capitare a chiunque, non è importante. Volevo che un cantautore, cioè una
persona che vede la società con un occhio un po’ più critico, un po’
diverso, meno fanciullesco e semplicistico avesse questa popolarità. Lo
volevo e sono contento di averla ottenuta.
La popolarità è quindi un modo per abbattere barriere e steccati tra il
cantautore e il pubblico?
Sì perché c’è sempre un po’ di incertezza, di dubbio, la gente non è
che capisca molto bene, al volo, quel che dicono i cantautori. Le loro
istanze, le loro canzoni sono a volte un po’ complicate, come il loro
modo di essere. Quindi bisogna trovare una via di mezzo e dire: io
adesso vi faccio ascoltare questa canzone però andate a sentire anche
altre cose che sono un po’ più complicate ma altrettanto importanti.
Rimanendo nell’ambito delle canzoni, in un altro dei racconti di
Scacco a Dio, dal titolo Voce ’e notte uno dei personaggi, a un certo
punto dice: “Gli uomini cantano quel che non riescono a dire con le parole”. C’è qualcosa che finora Roberto Vecchioni non è riuscito a esprimere
con le parole ma soltanto con la musica?
Tanto. Dipende dalle parole, dal momento, con chi parli, con chi
sei, di che cosa parli. Non è facile sempre farsi capire con le parole e
nemmeno con tutti.
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Ad esempio?
L’esempio più semplice è che quando canti per amore, quando vuoi
dire una parola d’amore a una donna è più facile cantarla che dirla.
Cantandola le arriva subito, a dirgliela, invece, è un discorso normale,
quasi scontato.
Che valore ha, secondo lei, una canzone per una donna?
Una canzone per una donna è importantissima, è come un fiore, è
sincera, è vera. Il canto imprime più sincerità al discorso parlato.
In un brano del 1997, Quest’uomo, contenuto nell’album EL BANDOLERO STANCO, lei canta la fragilità di un padre di fronte ai figli. Le canzoni possono essere viste come uno strumento per abbattere barriere e rivelare se stessi?
Penso che le canzoni abbiano sempre assolto questo compito, ottenendo anche i risultati cercati. Le barriere sono state abbattute. Molte
melodie sono arrivate nell’immaginario, nel senso di vivere la vita della
gente, sono state comprese, accettate, capite e sono state tradotte in
speranza, carità, amore.
Quale funzione deve avere per lei, oggi, una canzone?
La funzione della canzone è simile a quella del cinema d’essai, del
teatro, della bella arte. La canzone fa conoscere all’uomo la sua fragilità
ma insieme anche la sua grandezza.
Prima accennava al suo disco d’esordio, il 2011 segna i quarant’anni
dall’uscita del suo primo 33 giri, PARABOLA, al cui interno era contenuta
Luci a San Siro, composta, in realtà, due anni prima, nel 1969, lei aveva
26 anni. A distanza di oltre quarant’anni, cambierebbe qualcosa di quella canzone?
Luci a San Siro è così, deve essere così, doveva essere così e l’attimo
dopo che ho finito di scriverla, ho detto: “Questa mi resterà per sempre”, e non l’ho mai detto per nessun’altra mia canzone. Luci a San Siro
era fondamentale. Avevo capito… che c’era tutto dentro: non vendersi mai, amare fino allo spasimo, essere traditi, piangere l’amore, trovarne un altro. C’era tutto…
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A proposito di amore, c’è una frase dello Zibaldone di Giacomo
Leopardi che mi sembra si sposi perfettamente con la sua poetica. Leopardi
scrive: “Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando”. Vorrei chiederle in che misura nelle sue canzoni e nei suoi libri l’amore e la vita si
intrecciano e si sovrappongono.
Partiamo da Leopardi. Si è sempre pensato che Leopardi non amasse niente e nessuno, invece non è vero assolutamente perché aveva un
amore per la vita straordinario. È tipico dei pessimisti avere un amore
meraviglioso per la vita.
E l’amore nella vita di Roberto Vecchioni come si colloca?
Nella mia vita l’amore è il tema fondamentale. L’amore è questo miracolo straordinario che fa unire in un certo punto temporale, spaziale, spirituale e animale due cose, due persone, due oggetti, due situazioni ed è
una delle prove infinitesimali dell’esistenza di un disegno. Perché non è
possibile che esista una cosa così bella che sia soltanto un prodotto della
natura o del rapporto fisico con un’altra persona. L’amore tra gli uomini
è prima di tutto emozionale, intellettuale, di intelligenza, di sensibilità.
Si è mai chiesto perché fra tante donne un uomo ne voglia una soltanto
che magari agli occhi degli altri è meno bella di tante altre? La bellezza,
che pure è importante, non è la sola cosa che conta.
Che cos’è importante, secondo lei, nei rapporti d’amore tra le persone?
L’importante è la corrispondenza che è data dall’amore.
Ad esempio?
Io vedo molto più bella la mia compagna, ho molto più piacere ad
andare a dormire la sera con mia moglie perché sono in armonia con
lei, piuttosto che andare con una mai vista, strafiga, che però non mi
dà niente.
In una sua canzone, Piccolo amore, contenuta nell’album BEI TEMPI del
1985, lei canta: “Piccolo letto / dove puoi dormire / che è un altro modo
poi di far l’amore”, l’amore è dunque un sentimento molteplice e onnicomprensivo?
L’amore è onnicomprensivo… poi soprattutto adesso che ho la mia
età. Magari a vent’anni ti va bene tutto però dopo si bada al piacere dello
stare con la persona che si ama. Questo piacere è sacro.
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In che senso l’amore è un sentimento sacro?
Il sentimento d’amore è religioso perché è giusto fare l’amore con la
persona a cui si vuol bene e che ti illumina l’esistenza e non con un’altra che è la più strafiga del mondo ma che non ti illumina niente.
I coltelli, l’amore e le parole…
Un inizio
In conclusione, se dovesse scegliere il verso di una sua canzone che sente,
in questo momento, maggiormente la rappresenti, quale sceglierebbe?
Quello di Canzone per Alda Merini è bello. Prima lei mi ha ricordato la Merini. Quel verso che dice: “Basta vivere come le cose che dici”.
Questo verso mi prende ancora oggi tantissimo. Mi è venuto dai
discorsi con Alda naturalmente: “Basta anche un niente per esser felici
/ basta vivere come le cose che dici”. Quello è veramente il senso dell’esistenza.
Le canzoni forse non cambiano il mondo o le persone ma hanno la
capacità di spalancare porte su noi stessi e sugli altri e in particolare
quelle di Roberto Vecchioni spesso riescono nel difficile compito di
abbattere barriere e aprire serrature interiori.
Saluto Roberto, lasciandolo ai suoi impegni, portandomi dentro la
felice sensazione di aver conversato con un artista e un uomo pacificato con se stesso e con gli altri. Mai domo, lo scrittore di parole e sentimenti conserva immutata la voglia di lanciare coltelli, pensieri, idee,
esternazioni verso gli altri e verso se stesso, per continuare a vedere la
vita, la vita… davvero, perché come recita una delle strofe di Storia e
leggende del lanciatore: “E volavano su nel cielo / come ricordi, come
paure, / queste piccole cose di uomo / che sono ritorni, che sono
avventure / e anch’io ogni tanto prendevo una stella, / e illuminavo
uno sputo di cielo / e potevo finalmente vederla, la vita, / vederla,
vederla davvero!”.
Giugno 2011
20
“Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando”, scrive Giacomo Leopardi, in una pagina dello Zibaldone, datata 1819. Le canzoni di Roberto Vecchioni potrebbero racchiudersi in questo aforisma del
genio di Recanati, ossia un desiderio ostinato di vivere alimentato da
un motore inesauribile e incessante: l’amore. Se si vuol trovare un senso
a questa esistenza, l’unica strada è amare, senza smettere neanche per
un minuto: “E allora penserò che niente ha avuto un senso / a parte
questo averti amata, / amata in così poco tempo”1. Il cuore brucia di
passione come un incendio in una radura in piena notte, le scintille
inondano il cielo che si colora di luci come in un bombardamento
aereo, le stelle rimangono fisse in alto a guardare quanto sta accadendo, il sogno di un mondo migliore forse è ancora possibile. L’utopia di
un domani senza divisioni e conflitti affiora nelle parole che come lettere d’amore indirizzate al mondo affidano alla voce il canto di una
nuova nascita, di un’epifania luminosa. Tenaci e combattivi i versi di
Roberto Vecchioni sfidano i modelli fatui di una società falsamente
opulenta orientata più verso la ricerca di un risultato che di un significato. Canzoni come coltelli tesi a trafiggere la rassegnazione, l’indifferenza e le ombre della sera. Gli idoli, i potenti non sono altro che figu21
rine di cartone di fronte al flusso impetuoso dell’esistenza che spazza
via ogni cosa, solo l’amore rimane, perché: “Il mondo sarà salvato dalla
bellezza”2. Anche quella di una canzone che se pure, come sostiene
Francesco Guccini: “È il fatto di un momento”, non esita a intrecciare
le sue note ai nostri respiri, le sue armonie ai pensieri.
Forse siamo davvero tutti lanciatori di coltelli, anime alla ricerca di
un bersaglio da colpire, di un sogno da afferrare, di una mano da stringere. “I coltelli”, spiega Vecchioni, “sono i pensieri, le nostre forme di
espressione. Il lanciatore di coltelli non tira per raggiungere un risultato preciso. L’artista non è uno scienziato, non è un politico, non deve
dire una verità. L’artista deve dare sensazioni, emozioni. Le emozioni
sono i disegni dei coltelli attorno a una sagoma”3. Alla ricerca delle
traiettorie indefinite e fuggevoli che l’artista disegna indirizziamo la
rotta del viaggio lungo itinerari di musica e parole.
Percorsi, stazioni di partenza, porti dove attraccare le ancore di un
infinito viaggiare, angoli di visuali, finestre affacciate sulle distese dell’ispirazione artistica, attraverso cui far vibrare le corde di un racconto
lungo oltre quarant’anni. È il 1971 quando un giovane cantautore
milanese di origini napoletane firma il suo primo album: PARABOLA.
All’interno un brano che non passerà inosservato: Luci a San Siro.
Passano quarant’anni, suoni, parole e indecifrabili nostalgie, e il professore che sogna si presenta sul palco del teatro Ariston di Sanremo e
vince la 31esima edizione del Festival con Chiamami ancora amore,
aggiudicandosi anche il premio della Critica intitolato a Mia Martini.
“Questa è la storia di uno di noi […]”, direbbe Adriano Celentano,
anche lui nato (per caso o forse no…) nelle vie sterminate e suadenti
della musica, in quella terra senza confini né padroni dove le parole
diventano: “Soffi dell’anima dinanzi all’ignoto per definirlo e non averne più paura”4.
22
SPERANZA
La speranza è un sogno fatto da svegli.
ARISTOTELE
Chiamami ancora amore
(R. Vecchioni – C. Guidetti – R. Vecchioni)
2011
Perché le idee sono voci di madre
che credevamo di avere perso
e sono come il sorriso di Dio
in questo sputo d’universo.
L’ingenuità di un uomo considerato straniero nella propria casa, l’onestà che non vuol lasciare il campo ai miti del consumo e del facile
benessere. “La guerra non è finita!”, Gennaro lo ripete a ogni persona
che incontra: amici, conoscenti, ma soprattutto familiari. È fuggito da
un campo di concentramento, è tornato nella sua abitazione, ma non
se ne sente più parte. Il figlio fa il ladro, la moglie la borsa nera, la figlia
aspetta un bambino da un soldato americano ritornato in patria.
“Quando dissi l’ultima battuta: ‘Ha da passa’ ’a nuttata’ e scese il
pesante velario, ci fu silenzio ancora per otto, dieci secondi poi scoppiò un applauso furioso e anche un pianto irrefrenabile. Io avevo detto
il dolore di tutti”5. Eduardo De Filippo, lo sciamano capace di tirare
24
fuori dal cuore delle donne e degli uomini il dolore sopito e rimosso
della guerra, ha esorcizzato le ombre con una frase scolpita nel legno
robusto della memoria: “Ha da passa’ ’a nuttata”, un grido liberatorio,
teso a scardinare la ruggine che imprigiona le parole, la nebbia delle
coscienze. Uno schiaffo contro la paura capace di tradursi in una parola sola e audace: speranza. Da maneggiare con cura, con guanti di seta
per non sciuparla, per non lasciarla cadere nelle sabbie mobili della
banalità e della retorica.
Il professore che sogna conosce l’alchimia delle lettere che unite
insieme sono in grado di evocare mondi e memorie e così quando scrive Chiamami ancora amore firma quella che il giornalista Michele Serra
ha definito sulle pagine del quotidiano «la Repubblica»: “Un manifesto della speranza”, una canzone contro i signori del dolore, ma soprattutto una melodia per… per i ragazzi che scendono nelle piazze per
difendere un libro vero, per l’operaio che perde il suo lavoro, per le idee
che sono come il sorriso di Dio in questo sputo di universo. Lanciati
con fantasiosa precisione verso il bersaglio, i coltelli affilano la traiettoria fino a raggiungere il centro: “Che questa maledetta notte / dovrà
pur finire”, rimando implicito all’antico monito di Eduardo. Dopo
quella raccontata da De Filippo, nel 1945, un’altra notte oscura la
società con i suoi tentacoli violenti e subdoli. Raccontare il dolore non
è rassegnarsi alla sua ombra ma combatterlo, stanarlo con lo sguardo
dei poeti. “Quello che ho messo nella canzone”, spiega Vecchioni, “è di
tutti non soltanto mio. È di tutti anche quella immensa frase di
Eduardo De Filippo che è il centro di Chiamami ancora amore ossia
‘Ha da passa’ ’a nuttata’ ovvero questa maledetta notte dovrà ben finire. Non sono un profeta ma un romantico e un idealista. Finché ci
saranno quelli che hanno i nervi, il sangue e la poesia per dire queste
cose, questa nottata finirà”6. Un rimedio da contrapporre al silenzio
cupo della sera è la forza travolgente della scrittura: “E scrivere d’amore / scrivere d’amore / anche se si fa ridere / anche quando la guardi /
anche mentre la perdi / quello che conta è scrivere”7, canta Vecchioni
nel brano Le lettere d’amore. La scrittura è speranza, il canto dilegua la
tristezza provocata dal tramonto del sole proiettando lungo le superfici dell’anima squarci di infinito, ricordi assoluti e indelebili di primavere mai sfiorite, la cui fragranza ritorna a farsi sentire nelle narici. I
coltelli lanciati verso il bersaglio evocano trascendenze sognanti, in
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grado di disegnare lungo le rive della coscienza frammenti di speranza.
Forse per questo la canzone, nel corso degli ultimi cinquant’anni, si è
imposta sul silenzio della poesia senza musica. “A differenza della poesia”, scrive Donatella Bisutti, “che nella seconda metà del Novecento
sembra esprimere soprattutto una visione negativa e senza speranza
della vita, la canzone ha conservato per lo più una componente utopistica, ha interpretato una spinta combattiva verso il cambiamento, una
speranza anche ingenua in un mondo migliore dove l’ingiustizia venga
finalmente abolita e la felicità sia possibile”8. La canzone è speranza,
desiderio di un mondo possibile dove vivere in pace. “Non esaltate il
talento / che è sempre più spento / non li avviate al bel canto, al teatro, alla danza / ma se proprio volete / raccontategli il sogno di un’antica speranza”9, canta Giorgio Gaber in Non insegnate ai bambini.
“Ero a Roma quando ho scritto Chiamami ancora amore. Non riuscivo ad addormentarmi e chissà perché mi sono venuti in testa alcuni
flash di sogni. Prima di tutto, mi sono ricordato di quando, da bambino, giravo per i prati della Valle d’Aosta, dove trascorrevo le vacanze.
Mi pareva tutto bellissimo e tra me e me dicevo: ‘Com’è bella l’Italia’.
Poi altri flash di quando andavo all’università e parlavo con i miei
amici della voglia di cambiare e discutevo con loro del futuro che vedevamo roseo. Da quel momento ho imparato poco alla volta il valore
della cultura. La cultura salva da tutto. Imparavo e leggevo e non mi
bastava mai”10. Scrivere aiuta a capire, a sapere che non sei solo. L’uomo
alla ricerca del sapere, come l’Ulisse dantesco, è un individuo in cammino, mai stanco, mai piegato dalle onde e dalla burrasca, è come un
naufrago incapace di ritrovare la strada di casa. Itaca è vicina, il fuoco
è acceso, il rumore dei ceppi penetra nelle ossa con la dolcezza di un
canto di sirena, il sentiero è lungo e non ha fine perché: “Fatti non
foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza”11. Quella
conoscenza che, come il tepore di un mattino primaverile, ti fa sentire
libero di vivere, di amare e provare la dolcezza che suona dentro.
Sogna, ragazzo, sogna
(R. Vecchioni)
1999
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Copri l’amore, ragazzo,
ma non nasconderlo sotto il mantello:
a volte passa qualcuno,
a volte c’è qualcuno che deve vederlo.
Aveva un nonno poeta e una moglie a cui scrisse lettere d’amore da
un luogo ostile: il carcere. Rinchiusero la sua ispirazione ma la farfalla
può volare, come ci mostra Van Gogh, anche nel grigio cortile di una
prigione. Lui chiese asilo alla scrittura, inventando un mondo oltre le
sbarre dove la giustizia fosse ancora possibile. Nel 1948, due anni
prima di essere scarcerato, Nazim Hikmet scrisse un canto d’amore alla
vita: “Prendila sul serio / ma sul serio a tal punto / che a settant’anni,
ad esempio, pianterai degli ulivi non perché restino ai tuoi figli / ma
perché non crederai alla morte / pur temendola / e la vita peserà di più
sulla bilancia”12. La vita è un dono. Il professore lo sa, la speranza e la
vita sono una cosa sola. Il sogno è la strada da percorrere per ritrovare
l’entusiasmo perduto, una realtà parallela da attraversare con l’animo
ingenuo e stupito dei bambini. La lirica del poeta prigioniero fa breccia nell’ispirazione dell’artista che a essa attinge per scrivere Sogna,
ragazzo, sogna. Nel testo dell’autore turco è forte il richiamo alla vita,
alla forza e alla fragilità del suo incanto, l’invocazione a vivere ogni
giorno fino all’ultimo istante con tenacia e combattività. In Vecchioni,
pur conservando la risolutezza di Hikmet, il verso diventa più dolce,
poiché protagonista del brano è l’amore, il sentimento universale che
permette di sognare e di “spostare i fiumi con il pensiero”. In particolare, in un verso, è possibile cogliere buona parte del percorso poetico
del professore: “Copri l’amore ragazzo / ma non nasconderlo sotto il
mantello / a volte passa qualcuno / a volte c’è qualcuno che deve vederlo”. Nel riferimento alla vita, quale forza inarrestabile, cogliamo uno
dei punti salienti del percorso letterario di Vecchioni che nelle sue canzoni non manca mai di inserire delle vere e proprie dichiarazioni d’amore all’esistenza, vista nelle sue accezioni più ampie, dall’amore per la
propria donna a quello per i valori civili di una comunità, da quello per
le parole e le idee a quello per il sogno. Un sentimento conflittuale, a
volte burrascoso in grado però di portare dentro una tensione etica e
morale accompagnata da una costante positività di toni e contenuti.
SOGNA RAGAZZO SOGNA è il titolo del cd che l’artista pubblica, nel
1999. Sulla copertina un ragazzo sta in equilibrio su una sfera. In bili27
co tra realtà e astrazione, in una terra di mezzo, in grado di coniugare
il quotidiano e la visione. Vale sempre la pena di credere e lottare anche
se si perde perché conta più il sentiero che la meta raggiunta. “La vita
è così forte / che attraversa i muri per farsi vedere”13. Facendo suo il
messaggio catartico del poeta prigioniero, Vecchioni rivolgendosi a un
ipotetico giovane uomo, canta gli stati d’animo per cui vale la pena
vivere: l’amore, la poesia, gli ideali. L’esistenza è come una grande scatola di mogano, ciò che conta non è l’involucro ma quello che c’è dentro. “La capacità di accoppiare sogno e realtà è molto difficile”, spiega
l’autore, “e credo si acquisisca con l’età. Per i ragazzi il sogno è un rimedio perché li aiuta a superare alcune fasi difficili della loro crescita e
alcune realtà nelle quali non sempre si trovano. Per un adulto invece
credo che il sogno debba essere il compendio della realtà; bisogna avere
un grande rispetto per la realtà e avere il coraggio di affrontarla. Spesso
questo coraggio si trova dentro ai propri sogni”14.
Stagioni nel sole
(J. Brel – R. Vecchioni)
2005
Addio mio piccolo futuro
piccolo raggio in questa notte scura
dal giorno che ti ho preso in braccio:
non devi avere mai paura
io sarò sempre nel tuo viaggio.
La Francia era la sua patria spirituale, ma in realtà era nato in Belgio.
Il poeta dei “vecchi amanti” che, insieme al fratello maggiore Georges
Brassens, aveva scaldato il cuore di Fabrizio De André, con il suo canto
d’amore per la vita, attraversa l’ispirazione del professore che nel 2005
ritorna alle origini. Stanco di batterie e distorsioni si affida al silenzio
armonioso di due strumenti: contrabbasso e pianoforte, in compagnia
dei quali riaccende le luci di San Siro. Luci a San Siro di questa sera è il
titolo dello spettacolo acustico che Roberto porta in giro per i teatri italiani insieme a Patrizio Fariselli e Paolino Dalla Porta. Nasce: IL CONTASTORIE un cd live con la rivisitazione in chiave jazz di molti classici e
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un inedito: Stagioni nel sole, una cover di Le moribond di Jacques Brel,
riadattata in italiano. È la storia di un uomo che sta per morire trasformata da Vecchioni in un inno alla vita e alla speranza: “Ma tu vivile sempre / e vivile per me / le stagioni nel sole continuano con te”.
Qualche problema con la famiglia Brel affiora perché Roberto, nella
riscrittura, è solito reinventare e, questa volta, il cerchio si stringe e lui
non è così libero.
Amico, padre, compagna, figlio, quattro punti cardinali, isole a cui
aggrapparsi prima di partire a bordo di un treno pagato da Dio, interlocutori dell’anima a cui il narratore si rivolge ricordando la vita trascorsa. La primavera, le stelle nel mare, le stagioni da vivere al sole con
il sogno di un futuro luminoso, la dolce utopia capace di insinuare il
dubbio che nulla è scontato, ma che ogni cosa può essere messa in
discussione e ricostruita daccapo. “Charlot abita in quella parte della
vita costituita da quella lunghissima stagione che è l’infanzia, l’adolescenza, periodo che attraverso il filtro della memoria portiamo sempre
con noi”15. Come il Vagabondo dei Tempi moderni americani, l’artista
mette dentro le storie pezzi del suo passato. “La vita è come una scatola di cioccolatini”, ripete ossessivamente Forrest Gump. All’autore non
interessa la scatola ma i cioccolatini che la riempiono.
Stagioni nel sole chiude la prima parte dello spettacolo: Luci a San
Siro di questa sera. Quando il poeta dei vecchi amanti la scrisse non fece
presa e tredici anni dopo a interpretarla fu il cantautore canadese Terry
Jacks con il titolo di Seasons In The Sun. “Già a dieci anni”, racconta
Vecchioni, “sentivo musica americana degli anni Quaranta e le prime
chansons francesi, Piaf, Montand perché accoppiavano bellissimi concetti di parole alla musica. Jacques Brel è stato il massimo dal punto di
vista formale, aveva una capacità di renderti visiva un’immagine, Brel
è un pittore del corpo che fa sentire la fisicità delle cose”16. Una fisicità
che vive nelle parole cantate dell’artista capace di scandire il verso dandogli fiato con la voce. Brel e Vecchioni, maestri consolidati del palcoscenico, affidano all’interpretazione un ruolo fondamentale per trasmettere la propria arte. Ci risiamo con l’eterno dualismo canzone e
poesia, la prima non può prescindere dall’esecuzione e a essa si lega in
maniera indissolubile, la seconda è una voce muta in grado di risuonare nel silenzio delle stanze interiori.
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Shalom
(R. Vecchioni)
2002
Come mi pesa questo canto,
padre, tu non sai quanto!
Ma non lo senti che è più forte
la vita della morte?
È un professore che cerca la pace nella guerra, un ossimoro, una
scommessa e una sfida che vale la pena di affrontare. Insegna letteratura comparata all’università, fino a quarant’anni ha scritto soltanto racconti poi è venuto il tempo del romanzo, di una narrazione più lunga
e articolata. Due temi lo appassionano più degli altri, il rapporto tra
popoli diversi e i legami familiari: il padre e il figlio, la moglie e il marito, il nonno e il nipote, mondi che si incontrano, pianeti distanti accomunati dalla stessa orbita. Il nome del professore è Abraham Yehoshua
e vive ad Haifa. Il coltello è affilato e il lancio serrato, la circonferenza
disegnata intorno al bersaglio è quanto mai marcata, i lineamenti sono
polvere di stella. Il cantautore racconta una storia: un padre e un figlio
ne sono gli indiscussi protagonisti. Entrambi sono israeliani, sentono e
vivono il respiro incendiario della guerra fin sotto la pelle. Stanco delle
divisioni e delle lacerazioni, il ragazzo decide di partire, di andare alla
ricerca di un mondo senza odio e divisioni. Il suo canto si alza come
un’onda che vuole spazzare via il rancore: “Shalom, padre, shalom, io
vado via”17. La vita conta più della morte. Il dialogo è in realtà un
monologo del figlio che canta le proprie ragioni a un genitore rimasto
ancorato a un passato di ostilità. Non si può vincere senza gli altri, soltanto insieme possiamo sconfiggere le ombre, riscoprendo il senso di
una comunità. “Ci manca, anche se avessimo / soltanto noi ragione, /
l’umiltà di non vincere / che fa uguali le persone”18.
Gli eroi del professore non sono né i santi né i potenti, ma quelli che,
come direbbe Fabrizio De André, viaggiano in direzione ostinata e contraria. I ragazzi che trovano la forza di opporsi al mondo asfittico dei
padri, quelli che lottano per un ideale a costo di rimanere senza niente.
Il giovane israeliano grida il suo addio a un mondo di oscurità, urlando
che la vita vale più della morte. La dolce utopia di una terra senza con30
fini né padroni dove vivere in pace fa capolino nelle sue parole perché
come dice Paul Valéry: “Il modo migliore per realizzare i propri sogni è
svegliarsi”19. “Shalom”, dice Vecchioni, “parla di un ragazzo ebreo che,
per un attimo, vede la realtà con gli occhi di un altro popolo e anche se
lo ama, dice al padre: me ne devo andare. Ho pensato ai romanzi degli
scrittori israeliani, in particolare a Yehoshua, ai suoi personaggi che vivono un conflitto interiore profondo e non riescono a scegliere. Ho cercato di far capire il disagio di un popolo veramente sottomesso da un altro,
senza offendere gli ebrei”20. Il coltello viaggia nell’aria cercando di cogliere l’essenza di un dramma che da secoli affligge popoli e nazioni. Siamo
nel 2002, l’album è IL LANCIATORE DI COLTELLI, insieme a IL CIELO CAPOVOLTO, uno dei più intensi e ispirati dell’artista.
Speranza
(R. Vecchioni – R. Pareti)
1971
Ma guarda che la vita non è la vita non è
la prima porta aperta in fretta
senza bussare: è il balcone più grande
che guarda sul mare.
Come un aquilone che non interrompe il volo, guidato dalle mani
entusiaste di un bambino, la parola speranza, naviga con continuità
nelle canzoni. “Ma mi basta darti speranza, / ma mi basta darti speranza”21, canta Roberto. Se come sostiene Aristotele: “La speranza è un
sogno fatto da svegli”, la vita non può essere vissuta a pieno senza amarla. “’A vita sceglie ’a chi ’a vo’ bene”, recita un antico proverbio napoletano. Questo amore è un elemento chiave per comprendere e sentire il
mondo artistico di Vecchioni: “È vero che sono un entusiasta, che amo
la vita, che sono spesso felice, ma è anche vero che, proprio perché la
amo tanto, quando mi capita qualcosa di doloroso, mi pare che la vita
mi abbia pugnalato alla schiena, mi abbia tradito e ne soffro moltissimo. Momenti di euforia, di vera esaltazione e altri di abbattimento, di
disperazione si alternano dentro di me con estrema facilità”22.
Prodotto da Renato Pareti, PARABOLA segna l’esordio a 33 giri dell’artista. Prima di debuttare come solista, Vecchioni fa una lunga gavet31
ta, come autore, per altri. È ricca la lista delle collaborazioni con grandi nomi della musica italiana. Insieme all’amico Andrea Lo Vecchio
frequenta il mondo musicale. Nel 1968, come ricorda Sergio
Secondiano Sacchi in Voci a San Siro, si laurea con una tesi in letteratura latina sul libro terzo del Corpus Tibullianum, sulle elegie di Ligdamo
e Neera, con la votazione di 108 su 110. È l’anno in cui Roberto e
Andrea vengono scelti da una nota casa discografica per scrivere una
canzone che Gigliola Cinquetti porterà a Sanremo. Messo da parte Il
bene di luglio che sarà interpretato da Bruno Lauzi, la scelta cade su
Sera. Il Sessantotto è anche l’anno del servizio di leva in cui Roberto
incontra un nuovo amico e collaboratore: Renato Pareti. Tra i cantanti con cui lavora, in questi anni, ci sono due personaggi molto diversi
tra loro: Iva Zanicchi e Umberto Bindi. Il 1969 è l’anno di Luci a San
Siro che dopo essere stata interpretata dal cantante Rossano, sarà incisa dal suo autore, solo due anni dopo, nell’album d’esordio. Nei primi
anni Settanta c’è l’incontro con Gianni Morandi che diventerà suo
grande amico, per lui Roberto scrive: Raffaella una santa non è e
Rosabella. Per Fausto Leali, Tu non meritavi una canzone. Il grande successo come autore arriva con Donna Felicità per i Nuovi Angeli, una
melodia molto orecchiabile che strizzando l’occhio alla Signorina
Felicita della lirica di Guido Gozzano, si piazza ai primi posti delle classifiche di vendita. I consensi ottenuti come paroliere lo portano sulla
strada del disco d’esordio. È il 1971, l’album che contiene, nelle note
di copertina, una presentazione scritta dal padre Aldo, vanta al proprio
interno, tra gli altri, brani come: Luci a San Siro, Parabola ripresa, in
chiave jazz, nel 2005, nel cd IL CONTASTORIE, Io non devo andare in via
Ferrante Aporti, Povero ragazzo, cantata poi da Dori Ghezzi.
“Una sola cosa ti ammiro”, scrive Aldo Vecchioni nelle note di copertina del disco, “combatti una battaglia perduta; i tuoi valori sono stati
dimenticati da troppo tempo. Tu credi e oggi non bisogna credere, bisogna prendere, tu ami e oggi bisogna essere ‘amanti’; tu hai Dio e un desiderio infinito di ordine: oggi vince chi l’ordine lo sovverte. Ecco, forse
solo questo ti ammiro, sei controcorrente con la tua generazione e la tua
battaglia è perduta. Secondo me ti ha fatto male la laurea in lettere antiche: anche gli avvocati e i ragionieri pensano al loro mestiere e raramente si sognano di essere al centro dell’universo. Comunque, tra i tanti a me
non è capitato il più stupido”.
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LESSICO FAMILIARE
La famiglia è la patria del cuore.
GIUSEPPE MAZZINI