kengo kuma - Facoltà di Architettura

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kengo kuma - Facoltà di Architettura
leone spita
I QUADERNI DE L’INDUSTRIA DELLE COSTRUZIONI
kengo kuma
Leone Spita (Rieti 1971), architetto, vive e lavora a Roma. Collabora con il LAPEX (Laboratorio di Progettazione nei Paesi Extraeuropei) e svolge attività didattica presso l’Università di Roma,
La Sapienza. Autore di vari articoli e di saggi sull’architettura
giapponese, collabora con le riviste: Abitare la Terra, Metamorfosi. Quaderni di Architettura, Area. Attualmente è dottorando
in Composizione Architettonica presso l’Università di Roma, La
Sapienza.
€ 22,00
editrice dell’ANCE
kengo kuma
leone spita
EDIL STAMPA
Kengo Kuma (Kanagawa, 1954). Laureatosi nel 1979 alla Graduate School of Engineering dell’Università di Tokyo prosegue gli
studi a New York, presso la Columbia University e l’Asian Cultural Council negli anni 1985-1986. Nel 1987 fonda lo Spatial
Design Studio e nel 1990 il Kengo Kuma & Associates. Nel
1998-1999 è professore alla Faculty of Environmental Information e dal 2001 è professore alla Faculty of Science and Technology presso la Keio University.
Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Gran Premio dell’Istituto di architettura giapponese nel 2000 e lo Spirit of Nature Wood Architecture Award in Finlandia nel 2002.
Kengo Kuma è uno dei principali architetti giapponesi contemporanei. Tra i suoi ultimi progetti si segnalano: il Museo della Facoltà di Agraria dell’Università di Tokyo (2004), il complesso residenziale Shinonome (Tokyo, 2005), il Museo d’arte di Nagasaki (2005) e la Lotus House (Kanagawa, 2005).
EDIL STAMPA
La collana si colloca all’interno delle iniziative promosse
da “l’industria delle costruzioni”, rivista tecnica
dell’ANCE, per offrire a un pubblico più vasto di lettori
l’opportunità di approfondire le questioni centrali del
dibattito architettonico contemporaneo.
I volumi della collana sono dedicati alla produzione
architettonica degli ultimi anni, indagata attraverso
monografie volte a evidenziare sia i percorsi della
ricerca, sia le tematiche progettuali di maggior rilievo.
Carattere peculiare delle monografie è quello di
affiancare alla vasta e dettagliata documentazione
grafica e fotografica, indispensabile per comprendere
l’architettura, un commento critico volto a far luce tanto
sui processi generativi della forma, quanto sulla
complessità delle questioni inerenti il rapporto tra
progetto architettonico, uomo e ambiente.
In particolare, gran parte dei materiali illustrativi delle
monografie, comprendenti i disegni di progetto, gli
schizzi di studio, i dettagli costruttivi, sono tratti dal
patrimonio documentario fornito dai progettisti alla
redazione de “l’industria delle costruzioni”.
I QUADERNI DELL’INDUSTRIA DELLE COSTRUZIONI
collana diretta da Giuseppe Nannerini
COMITATO SCIENTIFICO
Luca Galofaro
Anna Giorgi
Domizia Mandolesi
Giuseppe Nannerini
Luigi Prestinenza Puglisi
Antonino Saggio
FOTO DI COPERTINA
Daici Ano
Edilstampa srl
Via Guattani, 24
00161 Roma
tel 0684567403
fax 0644232981
www.edilstampa.ance.it
leone spita
kengo kuma
Sommario
PREMESSA .....................................................................................
7
L’INIZIO ..........................................................................................
10
visione n. 1
IL GIARDINIERE PRIGIONIERO DEL GIARDINO...................
21
Legno
Il museo di Ando Hiroshige ............................................................
L’edificio termale Ginzan................................................................
L’edificio termale Horai ..................................................................
Edificio per gli uffici LVMH a Omotesando...................................
Fermata dell’autobus ......................................................................
visione n. 2
LE PARTICELLE............................................................................
27
Bambù
La casa di bambù ............................................................................ 136
L’edificio d’ingresso all’esposizione di Shizuoka............................ 142
visione n. 3
LA PRINCIPESSA KAGUYAHIME ..............................................
32
108
114
120
126
132
ENGLISH TEXT ............................................................................. 147
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE .................................................... 171
visione n. 4
LA PIOGGIA DISEGNATA DA ANDO HIROSHIGE ..................
36
REGESTO DELLE OPERE ........................................................... 172
IL SOGNO .......................................................................................
40
REFERENZE FOTOGRAFICHE .................................................. 175
OPERE 1995-2005 ..........................................................................
57
Pietra
Il museo della pietra .......................................................................
Il museo della Facoltà di Agraria dell’Università di Tokyo ..........
La casa dei fiori di loto....................................................................
58
64
70
Vetro
La casa di vetro e di acqua .............................................................
76
Plastica
La casa di plastica...........................................................................
Il giardino pensile Fukusaki ..........................................................
La casa del tè di Oribe ....................................................................
Il padiglione KXK............................................................................
82
88
94
98
Terra
Il museo Adobe per la statua lignea del Buddha .......................... 102
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PREMESSA
Desidero ringraziare Kengo Kuma
per la collaborazione alla
redazione del libro, per aver
fornito il materiale iconografico e
per la generosità delle sue parole
durante i nostri incontri.
Il libro è dedicato a Ines e Bruno
e ad Haruko.
Da molti anni la pubblicistica italiana è tornata ad interessarsi con
forza al mondo dell’architettura giapponese. Figure come Arata Isozaki, Kisho Kurokawa, Toyo Ito, Tadao Ando, Kazuyo Sejima, Itsuko Hasegawa, Shigeru Ban sono al centro di questo interesse.
I motivi sono diversi ma forse tra i tanti fili si possono rintracciare due
grandi insiemi che corrispondono ad altrettante ragioni di interesse.
La prima. Gli architetti giapponesi ben rappresentano quella schiera
dello star system che dilaga nelle riviste e nelle scuole di architettura
italiane e del mondo. Gli architetti star che si fanno vedere sempre di
più in pubblico, che rilasciano interviste ai giornali, che intervengono
quasi su qualsiasi argomento, che sfondano il loro campo di interesse
e di intervento e sfondano con la loro faccia, sulle pagine alla moda:
quell’insieme di arte-design-architettura-chincaglieria.
La seconda. Di fatto il Giappone rappresenta da anni un laboratorio di
architettura, la sua capitale è la metropoli del mondo che più di tutte
riesce a soddisfare quella fame ingorda del sempre più nuovo che colpisce i viaggiatori contemporanei stanchi di girare con la mappa della
città, stabilendo l’itinerario a tavolino, per poi seguirlo pedissequamente. La città di Tokyo ci chiede, al contrario, di gettare quella mappa, di immergerci dentro i suoi segni, di vivere solo le situazioni che si
presentano.
E poi non bisogna dimenticare che Tokyo è in una posizione geografica privilegiata rispetto a quelle aree dell’estremo oriente come la Cina,
la Corea, la Malesia, nelle quali gravitano oggi gli investimenti, le speculazioni, le speranze e gli occhi del mondo intero.
L’architetto giapponese Kisho Kurokawa nel suo “Each one a Hero. La
filosofia della Simbiosi”1 aveva parlato della rinascita dell’Asia. Se il
ventunesimo secolo sarà l’età della simbiosi tra natura e elettronica
(con lo sviluppo di eco-tecnologie e eco-industrie che richiedono grandi
risorse naturali) secondo le previsioni di Kurokawa, la Malesia, il
Giappone e gli altri paesi asiatici, per le loro condizioni climatiche favorevoli (risorse idriche, montagne ricoperte di foreste, fiumi, mari e
laghi), avranno uno schiacciante vantaggio.
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La città di Tokyo / Tokyo City
Il quartiere di Nakameguro a Tokyo: la stazione e, a fianco, uno scorcio
dell’interno del quartiere / The Nakameguro district in Tokyo: the railway station
and, opposite, a glimpse inside the area
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Mete come Giappone-Tokyo da attaccare magari ad uno scalo CinaShangai sono inserite sempre più spesso dai viaggiatori, anche quelli
non colpiti da esotismo. Avremo modo di parlare del Giappone e di
Tokyo per raccontare e capire il protagonista di questa monografia.
Kengo Kuma non ha ancora costruito edifici fuori dal Giappone, ad eccezione della Cina: una casa a Pechino vicino alla Grande Muraglia e
uno showroom a Shanghai. Eppure è un architetto conosciuto a livello
internazionale, spesso invitato a tenere conferenze nelle maggiori università del mondo e vincitore di molti importanti premi tra cui quello
finlandese Spirit of nature Wood Architecture 2002. E le riviste, anche
a lui, strizzano l’occhio sempre più spesso. Parleremo anche di questo.
L’INIZIO
Kengo Kuma è un architetto che racconta delle visioni, quando costruisce. E le racconta quando usa un materiale. In entrambi i casi il
risultato è un uso sapiente del materiale e un uso sapiente delle parole con cui raccontare le sue visioni.
Nato a Kanagawa nel 1954, consegue la laurea nel 1979 all’università
di Tokyo. Nel 1986, tornato in Giappone dopo un periodo di studio alla Columbia University di New York, Kuma si allinea con l’idea, condivisa a livello mondiale, che l’utilizzo del cemento armato sia l’unico
modo per realizzare un edificio economico e razionale. Sono ancora
presenti nella sua mente i ricordi (all’età di 10 anni) delle ardite strutture di Kenzo Tange per le olimpiadi di Tokyo del 1964 descritte dallo
stesso Tange alla televisione. Quell’intervista alla TV, durante la quale l’architetto spiegava la relazione tra la sua architettura e la tradizione giapponese, produsse una delle prime riflessioni di Kuma sull’architettura: «un solo individuo può disegnare un ambiente, può influenzare la gente che usa lo spazio».
Ma sono il vetro il legno la pietra la plastica la terra il bambù il vinile, i materiali che Kuma ha incontrato e per alcuni ha immaginato delle fantastiche visioni che danno corpo ai suoi edifici. Tratteremo di
questi materiali e racconteremo le sue visioni.
Il Giardino pensile Fukusaki a Osaka / Fukusaki Hanging Garden in Osaka
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Il Museo di Storia a Nasu: veduta dell’interno degli spazi espositivi
Nasu History Museum: exhibition spaces internal view
E poi c’è la parte della sua attività che si rivolge più direttamente al
sogno: una città sotto il lago, una sotto la foresta, una città sul prato.
Progetti non realizzati, speranze di un ecosistema tutto da verificare.
Ma affascinante.
La storia di Kuma, come architetto, comincia nel caos di una Tokyo fine anni ’80, ancora nella bubble economy.
È il periodo in cui si registra un’economia gonfiata come una bolla,
un’economia effimera, periodo nel quale le istituzioni giapponesi si basano sul presupposto della continua crescita economica, che costituiva
in Giappone un valore indiscutibile e scontato. C’erano i soldi per fare
quasi qualsiasi cosa, per sperimentare materiali, forme e idee.
Di quel periodo dell’economia bollente, che Kuma vive appena come
professionista – dal momento che negli anni ‘90 il Giappone entra in
un periodo di regressione economica e quel presupposto perde ogni validità – ricorda la facilità con la quale un giovane architetto aveva l’incarico di realizzare grandi edifici. E valuta la contrazione economica
successiva, come un’opportunità positiva per gli architetti: chiamati a
progettare piccoli edifici, spesso non pubblici, essi possono ora utilizzare un tempo più lungo per dedicarsi a progetti davvero sperimentali: «Sembrerà un paradosso ma quando non ci sono risorse l’architettura è migliore, perché è stimolata nella creazione di idee più grandi.
Mentre l’eccesso di denaro non necessariamente è un incentivo»2.
Della stessa idea è Fumihiko Maki, che Kuma definisce uno dei suoi
più importanti insegnanti. Durante un’intervista che ho realizzato con
Maki (premio Pritzker del 1993 ed esponente della generazione dei
“quattro grandi”3 architetti giapponesi) egli descrive così il cambiamento del modo di lavorare degli architetti allo scoppio della bolla,
quando nel 1992 l’incredibile crescita economica del Giappone si arresta: «Ovviamente la torta è diventata più piccola ma ciò significa semplicemente che la fetta di ognuno è di dimensioni più ridotte. In questo modo abbiamo il tempo di lavorare sui particolari, tempo che probabilmente non abbiamo avuto in passato. I clienti giapponesi, sia
pubblici che privati, si dimostrano più attenti al lato economico e questo consente la sperimentazione di materiali meno costosi rispetto al
passato»4.
Comunque nel 1991 in Giappone si era ancora alla ricerca di nuove
forme di investimento di capitali e gli architetti vivevano il loro momento di gloria. In quell’enorme centro di sviluppo dell’architettura
contemporanea Kuma realizza un edificio in cui una colonna ionica ridicolmente fuori scala (alta sei piani) e sproporzionati frammenti di
portali e di altri elementi simbolici, stanno a testimoniare la volontà
dell’architetto di frantumare il vocabolario dell’architettura classica
occidentale e disperdere i suoi frammenti come particelle. L’edificio
scatenerà forti reazioni da parte della critica. Il suo M2 (1991) è un
edificio arrogante, si staglia prepotente (ma ironico) nell’area di Setagaya a Tokyo e questo sorprende perché i suoi edifici d’ora in avanti
non lo saranno mai più: né arroganti, né prepotenti e neppure ironici.
Ma allora perché? Qualche «osservatore scortese»5 – come riferisce
Youichi Iijima nel saggio “Transparent Death” – sostiene che Kuma ha
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L’edificio M2 a Tokyo / M2 building in Tokyo
abbandonato il postmodernismo semplicemente quando questo è diventato fuori moda e che lo scoppio della bolla economica lo ha costretto a cambiare direzione e a cominciare a fare progetti meno scioccanti.
Ma abbandoniamo queste facili critiche. Non aiutano a capire una cultura complessa, sofisticata ed oscura. Se accettiamo di parlare di evoluzione, e non di cambiamento dello stile di Kuma dopo il 1991, ciò si
spiega con un paradosso: Kuma ha pensato che: «creando un’architettura del caos all’interno di un contesto caotico [come la città di Tokyo]
l’architettura si sarebbe mescolata con il caos circostante per poi sparire»6.
Senza voler immaginare ravvedimenti o successive scelte dettate da
un cambio di stile a livello mondiale (la fine del postmodern), mi sembra piuttosto che in un’operazione così forte come l’M2, ci sia il desiderio di un giovane architetto di porsi delle domande, «pensieri per la
meditazione – direbbe Martin Heidegger – qualcosa che provochi, ossia irriti e sconcerti, in vista di un possibile dialogo»7.
Il dialogo è quello che Kuma, sempre, cerca con la città, che non vuol
dire adottare un ambito di riferimento più vasto (la città appunto) valutando l’oggetto-architettura in un contesto urbano. Perché questo
porterebbe solo ad allargare l’ambito di riferimento, creare una gerarchia e un controllo dell’architettura che Kuma vede invece come particelle che fluttuano in una condizione di ambiguità e indeterminatezza.
È il metodo che egli usa per la dissoluzione dell’oggetto-architettura.
Dunque l’oggetto viene frantumato in particelle abbastanza piccole,
che devono essere liberamente sospese. Per evitare la loro condensazione non si può assumere un punto di vista urbano: «Ciò che bisogna
fare è suddividere gli oggetti denominati architettura in particelle ancora più minute. In questo modo, emergerà un fenomeno comparabile
a quello dell’arcobaleno»8.
Il risultato è che le particelle e il tutto sono dissociati e questa separazione è la condizione che Kuma ricerca: egli vuole progettare le particelle e il terreno sotto i suoi piedi. La città quindi è questo terreno:
«progetto il terreno creando un leggero cumulo di terra, posando ghiaia
o camminando su scarpe dalle suole spesse»9.
Il dialogo, sempre in senso heideggeriano, è anche quello che Kuma intesse con i materiali. Abbandonerà presto il cemento armato, o meglio
il «metodo calcestruzzo»10. Di questo parlerà più avanti.
Tornando all’edificio M2, e definendo gli anni dal 1986 al 1991 “il periodo del caos”, quest’opera appare fortemente rappresentativa di quel
momento. Con l’aiuto della tecnologia elettronica, uno strumento efficace per generare il caos perché dissolve qualunque territorialità e gerarchia in un istante, ogni forma viene sradicata dalla sua origine.
Non importa se il classicismo o il modernismo: in questo caso un capitello ionico, alcuni dettagli del grattacielo del costruttivista russo Ivan
Leonidov e memorie delle rovine piranesiane, sono stati manipolati ingrandendoli centinaia di volte o riproponendoli con altri materiali perché considerati «parametri indipendenti dalla forma»11. Se dunque
Tokyo rappresenta nell’immaginazione di molti una città caotica,
un’architettura del caos si mescola all’ambiente e scompare.
La sparizione sarà per Kuma un tema ricorrente.
«Voglio cancellare l’architettura! L’ho sempre voluto fare e ritengo improbabile che cambi idea! Ho sempre pensato che creando un’architettura del caos, l’architettura sarebbe scomparsa […] La tecnologia elettronica è veramente uno strumento efficace per generare il caos […] La
modernizzazione è sinonimo di un processo di deterritorializzazione.
La tecnologia elettronica ci ha costretto a riconoscere dove quel processo ci ha portato, ci consente di creare il caos con una libertà e una
velocità senza pari […] Se un’opera scompare oppure no, dipende non
solo dallo stato di caos presente nell’opera in questione, ma anche dalla direzione e dalla cornice visiva della persona che la isola. Il problema, ho scoperto, non è l’oggetto ma il soggetto»12.
Presto l’interesse di Kuma si sposta dall’oggetto al soggetto. E da qui
il suo processo progettuale lo porterà ad evitare che l’oggetto-architettura appaia, invertendo la direzione della visione.
In un articolo del 2002 su “Abitare la Terra” dal titolo “Cancellare
l’Architettura”13, cercavo di capire come lo studio del celebre teorico
dei media Derrick de Kerckhove sulle tecnologie che creano strutture
mentali (brainframes) che incorniciano il nostro cervello14, possa legarsi al lavoro di Kuma. De Kerckhove sostiene che l’alfabetizzazione
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ha portato il nostro cervello a classificare e combinare, come facciamo
con l’alfabeto privilegiando la vista sugli altri sensi. La rappresentazione occidentale dello spazio deriva dall’alfabeto: «cioè da un sistema
di organizzazione del campo visuale che prevede un orientamento dello sguardo verso destra. I nostri occhi sono divisi in due parti, sinistra
e destra. La parte sinistra cattura il mondo e la destra lo analizza. Come la mano sinistra che prende il pane e la mano destra che lo taglia,
l’organizzazione del cervello funziona in modo che la parte sinistra sia
specializzata nell’afferrare tutta la dimensione dello “spettacolo”
mentre quella destra nel “tagliare”. Dal momento in cui, con l’alfabeto, avviene questo spostamento laterale del campo visuale, che a partire dai greci fu uno spostamento verso destra, il principio del “tagliare” incomincia a dominare sul principio del “catturare”. Il principio di ordinamento dello spazio diventa un principio dominante, e corrisponde alla divisione tra il soggetto “guardante” e il mondo guardato, spettacolarizzato, che diventa “oggettivo”. Il “guardante” diventa il
soggetto, politico, sociale, psicoanalitico e tutto il resto. Per garantire
l’esistenza stessa del soggetto, lo spazio deve essere assolutamente
fisso»15. De Kerckhove sostiene che la radice profonda della prospettiva, l’analisi dello spazio e del tempo, serve a garantire la fissità dello
spazio e l’oggettività del mondo in funzione della libertà e dell’autonomia del soggetto: «Il paesaggio fa parte di questa stabilizzazione
dello spazio, così come il ritratto fa parte della stabilizzazione dell’identità privata che incomincia dopo il Rinascimento. Ciò non significa che prima di questa fase storica non ci fosse un’identità privata,
ma con il Rinascimento essere una persona privata diventa la norma»16.
Nel pensiero di de Kerckhove il mondo è un paesaggio in movimento
generato come un’illustrazione della mente dell’utente. Per gli antichi
greci il respiro era il punto di percezione della parola, dell’udito, dell’altro. Così la percezione visiva, prima dell’alfabeto, non era nel cervello ma nei ϕρενεζ (il petto), nei polmoni e si respirava l’esperienza.
Quando è stato inventato l’alfabeto c’è stata una verticalizzazione dell’esperienza che passa dal “pneuma”, il soffio, alla “psiche”, l’anima,
che è il momento di separazione tra il corpo e il mondo. Il punto di vi-
sta crea una distanza tra il soggetto della prospettiva e l’oggetto che è
la prospettiva: «Il respiro preletterario dei greci opera con l’esperienza
uno scambio, e l’interattività elettronica è un ritorno a quel tipo di dinamica. In questo modo avviene un passaggio dall’esperienza visuale
e spettacolarizzata del mondo a un’altra propriamente tattile»17.
Ora se l’esplosione del mondo della scrittura ha imposto il suo ordine
e la sua logica lineare e sequenziale, l’implosione del mondo elettronico può introdurre un’organizzazione parallela e simultanea che porta
con sé una nuova integrazione sensoriale: Kuma ci spiega che laddove
in un mondo discontinuo era in ascesa una civiltà visivamente orientata, in un mondo reso continuo dalle tecnologie digitali, questa è destinata al declino.
«Oggi viviamo nel neo-barocco» sostiene de Kerckhove perché come nel
barocco noi viviamo un cambiamento storico e sensoriale, un raddoppiamento dell’esperienza della sensorialità, «l’idea è utilizzare l’illusione per dire che la realtà è fragile, che cambia, questo è il concetto
del barocco e oggi possiamo dire che per noi è la stessa cosa»18.
Come l’artista nel barocco crea riproduzioni pittoriche di esperienze
sensoriali, così il lavoro di Kuma, senza necessariamente aumentare
tipi e numeri di cornici percettive (magari introducendo suoni, tessiture e odori), si sposta dall’oggetto al soggetto, manifesta la totalità tridimensionale che si chiama luogo che respinge qualunque descrizione.
L’oggetto perde il suo carattere ipertrofico: non va guardato dal di fuori, va vissuto dall’interno. I suoi edifici aggiungono alla sensazione visiva quella tattile, proprio come fa la realtà virtuale. E questo dà importanza alle connessioni annullando la distanza che si genera tra il
soggetto e l’oggetto, cancellando l’architettura e progettando, al suo posto, un luogo.
È quello che avviene nell’isola di Oshima (prefettura di Ehime), nel
mare Interno, con l’Osservatorio sul monte Kiro-san (1994). Una fessura nella montagna (dentro la quale è alloggiato l’osservatorio) è l’atto che permette a Kuma di non creare alcun oggetto, di non camuffare
l’oggetto per farlo scomparire, di rendere l’oggetto invisibile perché la
direzione della visione è invertita.
La montagna era stata in precedenza tagliata orizzontalmente tra-
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L’osservatorio sul monte Kiro-san: veduta aerea da nord, i due muri di contenimento
che segnano il percorso di accesso / Kiro-san Observatory: aerial view from
the north and the two containment walls which mark the access road
sformando il piano in un parco osservatorio. L’intervento di Kuma ha
prima restituito alla montagna la sua forma originale, poi la fessura è
stata ricreata ma questa volta essa affonda nel terreno. Il taglio è perciò tutto quello che si vede e i visitatori iniziano e terminano il loro
percorso da questo taglio sulla montagna. I visitatori ampliano la visione dell’ambiente attraverso la fessura che inoltre incornicia la loro
vista. Lo scopo qui è trasferire il concetto fondamentale di un oggetto
estruso in una fessura intrusa: ciò che prima era visto è adesso diventato l’atto del vedere.
Kuma dirà molto più tardi che il suo obiettivo è stato sempre quello di
«dar vira ad edifici che non fossero semplicemente oggetti indipendenti, bensì “aperture o cavità”. Se paragoniamo un edificio al corpo umano, il punto più importante sono gli organi interni, ossia le “aperture o
cavità”. Le cavità costituiscono l’interfaccia: è attraverso di esse che si
raggiunge la comunicazione tra interno e esterno. Questo spiega perché la pelle che riveste una cavità è costituita di delicate mucose che
consentono l’ingresso e la fuoriuscita soltanto alle sostanze necessarie»19.
Nell’osservatorio sono installati alcuni monitor. Guardando dentro il
monitor il visitatore si accorge di essere dentro lo schermo, controllato da una videocamera nascosta. Il congegno costringe la persona a
considerare il fatto che vedere è essere visti e viceversa. Gli osservatori
furono costruiti per realizzare il privilegio di guardare e controllare il
mondo attraverso specifici oggetti e lenti. Ma se vedere è essere visti,
guardare è essere guardati. L’individuo dotato del potere di guardare
si trova impotente mentre viene guardato attraverso le lenti di un altro. Come un esperimento che inverte ciò che un oggetto fa e ha fatto
allo spazio e all’ambiente, il progetto sfida continuamente un concetto
imbricato nella nostra vita quotidiana.
L’idea che il monumento è secondario allo spazio è stata una delle lezioni che Kuma ha imparato da un altro suo maestro, Yoshinobu Ashihara. O meglio dall’edificio per la Sony che Ashihara ha costruito nel
1966 in uno degli angoli più densi del quartiere di Ginza a Tokyo. Una
pianta quadrata a più piani – collegati da una torre che contiene scale e corpo ascensori – che ha rappresentato con il vicino Centro radio-
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L’edificio Sony di Yoshinobu Ashihara (a sinistra) e il Centro Radiotelevisivo Shizuoka
di Kenzo Tange a Tokyo / Yoshinobu Ashihara’s Sony building (left) and Kenzo Tange’s
Shizuoka Press and Broadcasting Centre in Tokyo
visione n.1
IL GIARDINIERE PRIGIONIERO DEL GIARDINO
«Il giardiniere è trattenuto nel giardino. Non è che egli non abbia punti di vista fuori dal giardino o in qualche posizione privilegiata. È sempre occupato a innaffiare, a liberare le piante dagli insetti, a seminare
e ripiantare, e il giardino cesserebbe di esistere se dovesse fermarsi. La
sua esistenza è sinonimo dell’esistenza del giardino ed egli è, in tal senso, prigioniero del giardino. Non c’è distanza tra lui e il giardino. Il
soggetto e l’oggetto sono legati e continui. Anche volendo non potrebbe
sottrarsi dal guardare il giardino. Il tempo si ferma quando ci impegniamo nell’atto di guardare o di catturare un’immagine di un oggetto. Il tempo è reso discontinuo e in quell’intervallo non scorre. Il giardiniere è tenuto prigioniero dentro il giardino e non riesce a fermare il
flusso del tempo. [...] Non c’è completamento per il giardino. Il tempo
continua a scorrere per sempre»22.
televisivo Shizuoka di Kenzo Tange (1967) uno dei landmarks del
quartiere.
Di questo edificio Kuma apprezza la volontà del progettista di lasciare una parte del lotto non costruita (nonostante l’altissimo valore del
terreno) e di realizzare una piazza. La cosa più importante è quindi
progettare spazi per la gente (human spaces).
Kuma sembra condividere la posizione di Heidegger di fare spazio:
«“Fare spazio” significa sfoltire, render libero, liberare un che di libero,
un che di aperto. Solo quando lo spazio fa spazio e rende libero un che
di libero, lo spazio accorda, grazie a questo libero, la possibilità di contrade, di vicinanze e lontananze, di direzioni e limiti, le possibilità di
distanze e di grandezze»20.
L’architettura per Kuma deve cercare di non costringere le persone a
viverci dentro. Al contrario, attraverso quello che egli chiama il garden
method21 l’architettura dovrà assomigliare ad un giardino, senza muri
o finestre che frammentano le viste.
E qui comincia la sua prima visione.
Troppo spesso il tema interno-esterno in architettura è affrontato superficialmente. Intendo, con questo termine, sulla superficie, sulla facciata sulla pelle, sull’involucro.
Di solito la questione è posta nei termini di riduzione di spessore della
facciata che, persa la monoliticità, si rinnova, con l’aiuto della tecnologia e i nuovi materiali, in spessori minimi o in un insieme a più strati.
Questi hanno la funzione di rendere l’incontro interno-esterno il punto
in cui si sviluppa una serie di interscambi. Potremmo dire il punto in
cui accadono le cose. La luce e l’ambiente esterno entrano all’interno
dell’edificio per gradi: gradi visivi, luminosi, tattili, temporali. In quel
punto, in quel pacchetto di tecnologia, si scatenano le relazioni e i conflitti tra un esterno che vuole entrare e un interno che vuole uscire.
In Giappone questo tema non si ferma solo alla facciata ma investe
l’organizzazione funzionale di tutto l’edificio. È un tema ricorrente nell’architettura giapponese, e senza differenza attraverso i secoli. A volte cambiamo i materiali, ma in molte costruzioni giapponesi è ad
esempio presente l’archetipo dell’engawa (la veranda che corre intorno
alla casa). Una piattaforma a sbalzo su supporti coperta dalla falda del
tetto: questa è l’engawa, spazio intermedio per eccellenza perché, come
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Il tempio Hongan-ji a Kyoto / The Hongan-ji temple in Kyoto
della separazione dell’uomo dalla natura, delle superfici interne e
esterne del mondo, vengono affrontati considerando la cultura cinese,
il pensiero di Lao-tzu e di Chuang-tzu, provenienti quindi dall’oriente,
e la filosofia cristiana, la psicologia e la scienza provenienti dall’occidente. Il tema del soggetto e dell’oggetto, nella poetica di Kengo Kuma,
si fa centrale nella storia raccontata da Watts. Finché la conoscenza
verrà valutata sulla base della sua oggettività, quello che riusciremo a
sapere non sarà riferito a noi stessi: «Per questo abbiamo sempre la
sensazione di conoscere le cose “dall’esterno” mai dal di dentro, e ci
sembra di confrontarci con un mondo di superfici impenetrabili, una
superficie dentro l’altra»24.
Ma il problema è che esseri umani e cose non vivono in un mondo a
parte e le divisioni tra soggetto e oggetto, spirito e natura, mente e corpo vengono sempre più percepite, a dirla con le parole di Watts, come
goffe convenzioni linguistiche. Se dunque tutti gli avvenimenti si rivelano interdipendenti, in un complesso stato di sottile equilibrio come
un nodo infinito, è inutile darsi tanto da fare cercando un capo da cui
districarlo per porlo in un presunto ordine. Importante diventa allora
un mondo di relazioni, in cui le cose sono comprensibili ad un’unica
condizione: in un’unità senza cesure.
«In un mondo siffatto è impossibile considerare l’uomo separato dalla
natura, come uno spirito in esilio che controlla il mondo affondando le
sue radici in qualche altro luogo. L’uomo è in se stesso un ganglio di
quell’infinito nodo, e mentre tira in una direzione, scopre che viene a
sua volta tirato da un’altra parte anche se non riesce a capire da dove
provenga il nuovo impulso. Ed è lo schema dei suoi pensieri che gli impedisce di capirlo. Pensa a se stesso come al soggetto e alla natura come all’oggetto e, dato che non riesce a scoprire l’origine dell’impulso in
nessuno dei due elementi, si sente confuso»25.
Nel mondo descritto da Watts, c’è il giardiniere di Kuma, imbricato nel
giardino. E se ammettiamo di aver perso la capacità di sentire la natura dal di dentro, possiamo considerare il garden method descritto da
Kuma, una possibilità per risentire l’unità, senza cesure, tra noi e il
mondo.
La pratica del giardinaggio, come metodologia non visiva, è molto di-
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ben l’ha descritta Kisho Kurokawa: «ha una copertura e dunque è interno, non ha parete e dunque è esterno»23.
Questo confine tenue e ambiguo è ancora molto presente nella cultura
costruttiva giapponese e certamente ciò è dovuto al fatto che, lungo la
sua storia, l’uomo plasmato dalla cultura orientale non si è allontanato da se stesso e neppure dall’ambiente naturale a cui appartiene. Nell’emozionante testo di Alan W. Watts “Natura Uomo Donna”, i temi
versa dal landscaping26: una metodologia nella quale il progettista sta
fuori dal paesaggio, osserva e manipola visivamente la scena. Viceversa nel giardinaggio non esiste alcuna posizione privilegiata dalla
quale osservare la scena.
Quella del giardiniere corrisponde alla contemplazione silenziosa
kuan, di cui è ancora Watts a parlarci. Ossia il guardare la natura senza pensarci: «…le cose non vengono inserite in un ordine contemplandole da un punto di vista limitato dell’Io, dato che il loro li, o disegno,
non può essere osservato nel suo complesso mentre se ne osserva o se
ne pensa un solo frammento, né quando le si guarda come oggetti separati l’uno dall’altro»27.
Kuan è il modo di osservare in silenzio, apertamente, senza un particolare risultato. L’airone, descritto da Watts, che se ne sta completamente immobile, sul bordo dello stagno, a guardare l’acqua, «non sembra affatto in cerca di pesci, eppure nel momento in cui il pesce si muove, l’uccello si tuffa e lo cattura»28, è a mio avviso il giardiniere descritto da Kuma anche se quest’ultimo, al contrario dell’airone, è in
un’attività senza sosta. La similitudine sta nel fatto che in entrambi i
casi il loro modo di osservare è privo di quella dualità tra chi osserva
e chi è osservato: c’è solo il vedere. E questo perché non c’è nessuna
scena da guardare, il giardiniere è la scena, egli è il giardino. E mentre osserva, l’airone è lo stagno.
Forse così riusciamo a capire meglio quando Kuma sostiene che vogliamo essere sempre più coinvolti, che desideriamo stare all’interno.
In un nuovo mondo, il giardinaggio dimostrerà grandi poteri. Ma Kuma si spinge anche più oltre, immaginando un’architettura che «prenderà ordini»29 dalle tecniche artigianali del giardinaggio.
Egli vagheggia un mondo in cui tutto sarà continuo e in cui sarà dunque difficile progettare l’architettura come continuiamo a pensarla, facendola cioè coincidere con un oggetto. «Non ci sarà motivo di creare
un oggetto isolato e di comunicare la sua originalità al mondo intero e
un architetto dovrà fare la fatica di coltivare il suo piccolo orto in un
continuum sottile e onnicomprensivo. Il nostro compito immediato è di
adattare le tecniche pastorali e artigianali del giardinaggio a quel
mondo complesso e difficile»30.
La tecnologia elettronica sarà una fonte di grande energia. Perciò il
garden method diventa digital gardening: ad indicare che l’architetto
coltiverà il suo piccolo orto digitale. La parola digital definisce infatti
la possibilità data dalle tecnologie elettroniche che, come già detto,
hanno reso continuo un mondo discontinuo, di espandere l’approccio
rappresentato dal giardinaggio.
Le tecnologie digitali suggeriscono una organizzazione diversa, parallela e simultanea, e de Kerckhove ci ha spiegato che l’ordine e la logica lineare-sequenziale del mondo della scrittura verranno superati.
Gli edifici di Kuma sono fatti non per essere guardati dal di fuori: dobbiamo stare dentro all’Osservatorio sul monte Kiro-san, la Villa sull’acqua e il Padiglione giapponese alla Biennale di Venezia 1995.
Proprio nel Padiglione giapponese a Venezia, Kuma enfatizza a tal
punto la qualità tattile che l’architettura stessa sembra essere subordinata ai sentimenti della gente e all’esperienza. E in un certo qual
modo, l’approccio progettuale di Kuma rende l’architetto dubbioso del
fatto che un occidentale possa comprenderlo: «Il giorno dell’inaugura-
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Il padiglione giapponese alla Biennale di Venezia del 1995
The Japanese pavilion at the 1995 Venice Biennale
zione del Padiglione giapponese alla Biennale di Venezia, le persone si
lamentavano di dover entrare senza le scarpe! E questo creò un po’ di
confusione. Gli organizzatori della Biennale mi chiesero di permettere
ai visitatori di tenere le scarpe e questa mi sembrò una sostanziale differenza tra la cultura occidentale e quella giapponese. Camminare
scalzi dà una sensazione più profonda, che è un’esperienza dell’architettura fuori o oltre l’architettura stessa. La gente occidentale sembra
comprendere la cultura giapponese solo come uno stile ad esempio
quello dell’uso delle stuoie a terra, i tatami. Ma l’uso del tatami cambia la percezione dello spazio e questo mette in discussione le certezze
basilari di un occidentale. Quando vivevo in America con molta difficoltà sono riuscito a procurarmi due tatami e ogniqualvolta gli amici
venivano nel mio appartamento ci sedevamo per prima cosa sui tatami: ho presto capito che questo era lo spazio migliore per avere un confronto tra culture differenti. Inoltre penso che guardare da una posizione bassa sia molto importante per l’architettura. Ho un legame speciale con il pavimento: quando ti siedi sul pavimento il corpo e il pavimento si toccano costantemente e quindi il pavimento diventa per me
l’elemento più importante dell’architettura. Tocchiamo solo talvolta i
muri, ma siamo sempre legati al pavimento»31.
Dalle sue parole comprendiamo l’attenzione che Kuma rivolge al piano
orizzontale. Una volta abbandonata l’idea dell’architettura come oggetto, gli strumenti del suo lavoro si concentrano essenzialmente sull’uomo e sul progetto del piano orizzontale sul quale il corpo si trova.
«Il corpo deve poggiare su un piano orizzontale; lo spazio deve essere
completamente attaccato alla terra e possedere solo vedute interne. Solo così è possibile progettare un giardino, che sia dentro o fuori […] Un
giardino trascende ogni confine. Vorrei progettare qualsiasi cosa come
un giardino sopra il quale il corpo si muove e le particelle fluttuano»32.
Le particelle che fluttuano… qui comincia la sua seconda visione.
visione n.2
LE PARTICELLE
«Immagina leggere particelle che fluttuano sopra la terra […] La cosa
più vicina a una tale condizione è l’arcobaleno. L’arcobaleno non è un
oggetto concreto e questo è ciò che lo rende attraente. Una certa relazione che si stabilisce tra le particelle di vapore acqueo, il sole e l’osservatore (il soggetto) produce il fenomeno che chiamiamo arcobaleno […]
dobbiamo rompere gli oggetti chiamati architettura in particelle sempre più piccole. In tal modo, emergerà un fenomeno come l’arcobaleno
[…] Le particelle devono perciò essere piccole, liberamente disperse e
molto reattive»33.
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Tutte le cose che percepiamo sono fenomeni. Non sono oggetti ma fenomeni. Kuma sostiene che tuttavia siamo ancora sotto l’illusione che
la percezione dipenda dall’esistenza dell’oggetto, col risultato che consideriamo il mondo come una collezione di oggetti. E ci sforziamo inoltre di produrre quella finzione chiamata oggetto al fine di ricreare il
mondo. Oggi, comunque, non è facile dissolvere l’oggetto. Per portarci
a comprendere le sue parole e il motivo per cui desidera frammentare
l’oggetto in fini particelle, Kuma ci parla del caso del tempio scintoista
Ise Shrine. Esempio spesso citato dai giapponesi per dimostrare l’assoluto non attaccamento di questo popolo all’oggetto materiale e l’importanza data più che all’oggetto, al processo attraverso il quale questo si realizza.
Kakuzo Okakura, poeta e grande studioso dell’Oriente, scrisse “The
Book of Tea” nel 1906, in inglese, per far conoscere agli occidentali gli
aspetti della tradizione nipponica e per spiegare i caratteri dell’orientalità, attraverso il simbolo del tè. Nel suo libro, necessario a chi volesse avvicinarsi alla cultura giapponese, ci spiega, tra le altre cose, come la concezione taoista, secondo la quale l’immortalità risiede nel
continuo mutamento, permeava tutte le forme del pensiero: «È importante il processo non l’atto. Realmente vitale è l’azione del compiere
non ciò che viene compiuto»34
Per noi occidentali è quasi incomprensibile pensare alla regolare demolizione e ricostruzione di un capolavoro, come il tempio di Ise, che
avviene in Giappone ogni 20 anni e ancora di più sorprende che la ricostruzione non avvenga sullo stesso lotto di terra. Ma l’ambiente costruito giapponese è sempre in movimento. Se all’origine di questa ricostruzione c’era la deperibilità dei materiali, più tardi l’abitudine ha
assunto un significato simbolico, all’interno dello scintoismo. Il tempo
è rappresentato attraverso il movimento.
Kuma usa quest’esempio per dimostrare come lo shrine esista solo come fenomeno: nell’atto della sua ricostruzione. La cerimonia di ricostruzione mostra che ciò che appare come una raccolta di oggetti è in
effetti solo un’illusione. Ma Kuma ci mette in guardia sul fatto che oggi non è per niente facile dissolvere l’oggetto dal momento che siamo
circondati da sistemi sociali e istituzioni che si fondano sull’oggetto. La
funzione della cerimonia di ricostruzione dell’Ise Shrine ogni venti anni è un modo di ricordarci che ci dobbiamo allontanare dall’illusione
chiamata oggetto.
«La materia esercita una formidabile influenza sulla coscienza assumendo la forma tangibile chiamata oggetti. Quando questa forma viene rifiutata, materia e coscienza si liberano, come un aquilone il cui filo è stato tagliato. Alla coscienza, la materia, le droghe, le illusioni e
l’informazione digitale risultano tutte vere allo stesso modo»35.
Questa separazione (tra materia e coscienza) non gli dispiace affatto.
Le illusioni, le immagini e l’arcobaleno sono, come la materia, strumenti del suo lavoro. La divisione porta questa libertà.
La Villa sull’acqua (1995) è certo uno dei lavori più noti di Kuma e segna una svolta dall’uso del calcestruzzo ad una struttura con ossatura
in acciaio. Ed è uno dei primi nei quali adotta, oltre al tema dell’in-
Il Grande Santuario di Ise, sull’isola di Honshu / Ise Shrine on Honshu island
La Villa sull’acqua presso la baia di Atami / Water/Glass near Atami bay
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versione della visione (già affrontato nell’Osservatorio sul monte Kirosan) un processo progettuale che lo porta a realizzare un manufatto
che è sensore della luce. Lo fa utilizzando lamelle in acciaio inossidabile e una struttura costituita da piani orizzontali: trasforma la copertura in uno schermo digitale per la luce del sole. Di giorno, la luce che
attraversa lo schermo rimbalza sulle superfici verticali di vetro e su
quelle orizzontali di vetro e di pietra con riflessioni e rifrazioni sempre
diverse che contribuiscono a immergere l’edificio in quello che Greg
Lynn definisce: «uno spazio digitale liquido»36:
Di notte i pavimenti sembrano illuminati della luce catturata nel giorno e sembrano cederla alle oscure profondità dell’oceano.
La casa galleggia su una vasca riempita dall’acqua che scende a cascata dal tetto, cancellando il bordo della vasca che si dissolve nell’acqua dell’oceano.
L’acqua e la luce si fondono in un continuum che sfuma i contorni: il
bordo diventa vago e ambiguo.
Nella Villa sull’acqua Kuma realizza un ambiente formato da due piani orizzontali, lo specchio d’acqua e le lamelle del soffitto: tra di essi,
uno spazio-tempo fluido e trasparente. Mutuando dalla tradizione
giapponese il sistema dei piani orizzontali come dispositivi dominanti
dello spazio, nella Villa sull’acqua il soggetto e l’oggetto coesistono in
uno spazio continuo. Non ci sono muri e finestre che frappongono una
cornice tra soggetto e oggetto, congelando lo spazio. Al contrario, introducendo nell’edificio oltre al parametro spazio quello del tempo, si
produce una sequenza e una velocità in uno spazio continuo: «Progettare non significa limitarsi a suddividere gli spazi in base ad una precisa richiesta di superfici; questo è solo progettare spazi attraverso i
quali il tempo non scorrerà mai. Disegnare un piano orizzontale, significa intervenire nell’azione del soggetto che si muove sopra il piano;
lo si fa per mezzo di livelli, pendenze, attriti. Questo rende possibile
progettare lo spazio e il tempo simultaneamente»37.
In un saggio dedicato all’opera di Kuma, Greg Lynn sottolinea come in
questo progetto gli effetti spaziali vengano raggiunti non attraverso le
singole proprietà dei materiali ma con una combinazione di riflessi,
traslucentezza e filtraggio tra i materiali. Sono questi schermi multi-
pli che trasformano la volta luminosa del sole in una griglia di punti.
Secondo Lynn gli schermi di Kuma: fessurati, perforati, tagliati, trasformano la chiarezza e la distinzione delle superfici e dei piani, tipiche dell’architettura moderna e della corrente minimalista, in un intreccio o tessitura che è vicina alla sensibilità del periodo neo-impressionista definito puntinismo38.
L’architettura di Kuma, certamente ispirata dalle conoscenze informatiche applicate alla disciplina, cercando di replicare gli effetti delle
tecnologie digitali, non rimane intrappolata nel dominio del digitale
ma traduce lo spazio liquido, citato da Lynn, in materiali concreti.
Nei lavori successivi, come l’edificio One Omotesando per la multinazionale del lusso LVMH, il museo dedicato al pittore Ando Hiroshige,
il bagno termale Ginzan, il museo della pietra, cercherà sempre di trasformare il materiale solido in una sostanza simile ad una nuvola che
disperde come particelle.
La frantumazione dell’oggetto, la produzione di particelle che si muovono liberamente e in diverse direzioni, mostrano la relazione tra i primi edifici di Kuma e i lavori successivi. Perché già nel citato M2 Kuma
cercava di frantumare la massa del calcestruzzo, introducendo immagini dell’architettura classica per poi disarticolarle e disperderle come
particelle: una ulteriore dimostrazione della inutilità di quella critica
sul suo periodo del caos di cui si parlava all’inizio di questo testo.
Viceversa nell’umorismo di quel gigante capitello ionico del 1991 ci sono i pezzi di cultura esplosa, di cui è ancora de Kerckhove a parlarci,
pezzi che:«si mescolano poi nell’architettura e nel design ed entrano a
far parte della vita artistica e stilistica del nostro tempo. Il postmodernismo è la caduta di pezzi di cultura senza un ordine, seguendo il
senso del gioco e della leggerezza…»39.
Quello che dell’edificio M2 Kuma abbandonerà presto è l’uso prevalente del calcestruzzo. Già nella Villa sull’acqua sono la luce, la pietra,
l’oceano Pacifico davanti alla baia di Atami, l’acciaio inossidabile ad
avere il sopravvento sul calcestruzzo.
Altri materiali: amati, voluti o non cercati, saranno pronti ad essere
tagliuzzati o piegati o intrecciati. Materiali che sotto le sue mani diventano strumenti delle sue visioni.
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visione n.3
LA PRINCIPESSA KAGUYAHIME
«In Giappone una favola racconta di come la principessa Kaguyahime,
la dea della Luna, sia nata dentro uno stelo di bambù. La gente credeva alla storia che ella nacque dentro uno stelo di bambù perché il bambù ha un particolare tipo di pelle e possiede un’anima»40.
La favola di cui parla Kuma è contenuta in “Storia di un tagliabambù”,
un testo di un autore anonimo del 909 circa. Racconta di un vecchio boscaiolo che, camminando in mezzo ai bambù, scorge un bagliore tra le
canne e vede una creatura di appena tre pollici. La raccoglie e con la
moglie la alleva come una figlia. La bimba, in soli tre mesi (chiaro il riferimento al bambù che cresce molto velocemente) diventa una splendida donna corteggiata da tutti. Ma è scesa sulla terra per espiare una
precedente colpa e data la sua natura non terrena, ella non potrà condividere il suo destino con un umano, non potrà essere vinta da nessuno. Si libera degli ultimi pretendenti lanciando sfide impossibili da
risolvere. Finalmente libera da ogni legame Kaguyahime tornerà sulla Luna. Testimone del suo passaggio terreno solo «quel fumo che ancora oggi sale alle nuvole»41, il monte Fuji.
Nel suo primo lavoro in Cina, una residenza per il personale dell’ambasciata a Pechino vicino alla Grande Muraglia, che ha coinvolto tredici architetti asiatici per tredici abitazioni-foresterie, il bambù è usato in tutto l’edificio. Molti architetti giapponesi amano e impiegano
questo materiale: Shoei Yoh realizza splendide coperture che sono generate dall’intreccio del bambù: una superficie tridimensionale curva
coperta da un sottile strato di cemento si smaterializza fino ad assumere la leggerezza di un lenzuolo.
Kisho Kurokawa vagheggia una Eco Media City, una città concepita
come un network, un sistema di città a piccola scala altamente avanzate, attraversato da foreste di bambù che consentono una relazione
simbiotica tra l’ambiente, l’uomo e la tecnologia.
In uno dei nostri incontri Kuma mi racconta che tra le motivazioni per
cui ha scelto questo materiale c’è il fatto che esso rappresenta uno
scambio culturale e biologico tra Giappone e Cina.
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Il Centro comunitario Uchino per anziani e bambini di Shoei Yoh a Chikuho nell’isola di Kyushu
Shoei Yoh’s Uchino Community center for elderly people and children in Chikuho on Kyushu island
Schizzo della Eco Media City di Kisho Kurokawa / Sketch of Kisho Kurokawa’s Eco Media City
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Ma è soprattutto il segno forte della Grande Muraglia ad ispirarlo, anche nella scelta del nome del progetto. Nella Casa di bambù (2002) l’uso del termine “muro” al posto di “casa”, denuncia l’interesse di Kuma
per quella colossale lingua che si srotola, quasi senza fine, lungo i crinali dell’immenso paesaggio della Cina. Un muro, quello di Kuma, che
in questo caso non è costruito per dividere due popoli ma al contrario
per unire la cultura cinese e quella giapponese.
Ancora una volta sceglie di non realizzare un’architettura-oggetto nel
paesaggio. Al suo posto uno schermo (muro) disposto lungo la pendenza del luogo.
La storia della principessa Kaguyahime è importante per comprendere la passione di Kuma per un materiale delicato e semplice che possiede una pelle, al contrario del cemento che possiede una superficie
esterna. È da questa considerazione, la differenza cioè tra pelle e superficie esterna, che si intravede la modalità con la quale Kuma decide di usare il materiale. Nella Bamboo House 1, realizzata in Giappone, aveva usato le canne di bambù come casseri a perdere (al cui interno era stato gettato il cemento) ed è stata quindi importante la preparazione e la lavorazione del materiale. In quest’ultimo progetto in-
vece (dove la canna, opportunamente liberata al suo interno, diventa
la pelle che ricopre barre di acciaio) va soprattutto preso in considerazione il modo in cui il materiale viene disposto: il ritmo delle canne in
relazione al loro diametro, l’uso in verticale e in orizzontale. Comunque in entrambi i casi è all’interno del bambù che egli trova la soluzione per l’impiego del materiale. In quell’interno, va alla ricerca dell’anima del bambù.
C’è sempre un oggetto o un luogo a suggestionare l’immaginazione di
Kuma: in Cina è la Grande Muraglia. Nell’edificio di ingresso all’Esposizione di Shizuoka (2004) è una passeggiata attraverso una foresta di bambù.
Nell’edificio, una porta d’accesso ad una mostra temporanea di fiori, Kuma realizza un’entrata vaga e indefinita. Laddove l’ingresso di una
esposizione è di solito considerato uno strumento che separa nettamente lo spazio espositivo interno dall’esterno, al contrario, in questo progetto, Kuma realizza un’entrata che mette in relazione l’edificio, lo spazio naturale che lo circonda e il lago Hamana. Lo spazio, reso continuo
dall’assenza dei muri, è occupato da una pioggia di canne di bambù.
La pioggia che scende… qui comincia la sua quarta visione.
La Casa di bambù realizzata in Cina nei pressi della Grande Muraglia
Great (Bamboo) Wall built near the Great Wall of China
L’edificio di ingresso all’Esposizione di Shizuoka
Shizuoka Expo Gate Building
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visione n.4
LA PIOGGIA DISEGNATA DA ANDO HIROSHIGE
«Un improvviso e violento acquazzone sorprende dei viaggiatori e portatori di palanchino che risalgono la collina, e un contadino, con la
zappa sulla spalla, che scende lungo il pendio accompagnato da un
personaggio che si ripara sotto un ombrello. La pioggia oscura le fila di
alberi di bambù che si piegano sotto le raffiche di vento e d’acqua»42.
45° Stazione: Shôno,
di Ando Hiroshige
(tratto dalla serie:
Cinquantatrè stazioni della
Tokaidô 1833-34)
45th station: Shôno,
by Ando Hiroshige
(from the series: Fiftythree
Tokaidô stations 1833-34)
sentare la natura fornendo un’unica visualizzazione di fenomeni variabili. Hiroshige è riuscito ad esprimere con successo la mutevolezza
in qualcosa di materiale, scegliendo elementi naturali con chiare caratteristiche, combinandone i colori»44; Hiroshige ha pensato a qualcosa molto vicino alla natura ma al tempo stesso creato dall’uomo: linee
molto sottili.
Sono le linee del disegno a china “Rain on Travellers” di Hiroshige ad
ispirare Kuma. Egli ha voluto tradurre nello spazio il metodo e la filosofia di un artista che ha fortemente influenzato i maestri dell’Impressionismo. Il Museo di Ando Hiroshige (2000), realizzato per contenere ed esporre le stampe dell’artista, si sviluppa in funzione del
paesaggio circostante: l’ingresso e la galleria si aprono verso il paesaggio reso suggestivo dalle vedute panoramiche delle montagne.
Il museo è composto da una serie di schermi realizzati da listelli di legno, collocati sia sulla copertura a falda del tetto che alle pareti. Al
cambiare della luce, che filtra all’interno, anche questa griglia cambia
il suo modo di essere. A volte gli schermi si trasformano in superfici solide traslucide, altre volte in superfici trasparenti. Progettando un’ar-
Andô Hiroshige (1797-1858) è tra gli artisti più importanti dell’arte
dell’ukiyo-e. Il termine che si può tradurre come “transitorietà del tutto” o “mondo fluttuante” descrive un’arte che segna il passaggio dall’epoca feudale, caratterizzata dai valori cavallereschi e formali dell’obbedienza, alla società moderna intrisa di componenti edonistiche. La
natura rappresenta un fattore di godimento mondano: i paesaggi, i
ponti, i fiumi di Hiroshige sono immersioni fisicamente e sensualmente partecipi del creato. L’artista realizza le sue composizioni attraverso una prospettiva naturale (la prospettiva occidentale non era ancora conosciuta in Giappone) che nasce, come riferisce Gisèle Lambert:
«da un gioco di strutture orizzontali, verticali, diagonali, laterali, di
piani che si sovrappongono, si distribuiscono in profondità, si combattono, si urtano fino al disequilibrio»43.
Kuma racconta che nelle sue opere Hiroshige Andô: «ha messo nero su
bianco cose quali la luce e il vento, la neve e la pioggia. Rappresenta la
pioggia facendo delle righe verticali […] È un compito arduo rappre-
Il Museo di Ando Hiroshige a Nasu / Ando Hiroshige Museum in Nasu
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Nel progetto One Omotesando (2003) il fronte vetrato su una delle più
note strade alla moda di Tokyo (la Omotesando Dori) è schermato da
elementi lamellari in legno che stabiliscono un dialogo tra la strada e
i filari di alberi di zelkova45. Passeggiando al lato dell’edificio, le sotti-
chitettura basata interamente su un sistema di schermi, Kuma ha voluto che l’edificio fosse, come nella Villa sull’acqua, un sensore della luce. Espressione del modo di Hiroshige di descrivere la mutevolezza degli elementi naturali. Gli schermi di legno di cedro giapponese avvolgono l’edificio come particelle che si addensano allo scopo di generare
una nuvola fluttuante nel paesaggio. Altri schermi, ancora in legno,
realizzano spazi di comunicazione tra il fiume, la strada e un bagno
termale (onsen) presso una sorgente naturale di acqua calda in uno
storico distretto lungo il fiume Ginza nella prefettura di Yamagata.
Nell’edificio termale Ginzan (2001) lo spazio della strada e quello dell’edificio avrebbero
perso il loro carattere di profondità
se l’edificio fosse
stato chiuso da un
muro. Ancora una
volta la sensibilità
giapponese che rifiuta la separazione
interno-esterno ha
consentito a quegli
spazi di interagire e
influenzarsi reciprocamente.
Quando l’edificio
lascia i suggestivi
paesaggi giapponesi dei progetti appena descritti, e si
trasferisce nel denso agglomerato urbano di Tokyo, Kuma non rinuncia a
L’edificio termale Ginzan a Obanazawa: particolare della
tagliuzzare il mateparete in legno dell’ingresso / Ginzan Bath House in
Obanazawa: detail of the entrance wooden wall
riale.
li linee verticali in laminato di larice, sembrano galleggiare e vibrare
sotto gli effetti della luce. Anche in questo edificio Kuma realizza una
condizione ambigua e dissolve il semplice volume geometrico spargendo ovunque la sostanza-legno. Come con forza ha affermato, non realizza un’architettura particellare ma crea una condizione particellare:
«Ciò che vedo qui in termini di potenziale futuro non è architettura.
Più e prima ancora di definire uno stile, ciò che desidero è realizzare
un certo tipo di luogo e un certo tipo di condizione che può essere sperimentata dal corpo umano. Partendo dalla sensazione umana, voglio
pervenire ad un’architettura che utilizzi tutto, dalle tecniche tradizionali alla tecnologia più avanzata»46.
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L’edificio One Omotesando della multinazionale della moda LVMH a Tokyo
One Omotesando in Tokyo Louis Vuitton Japan Headquarter
IL SOGNO
«Quando ero ancora uno studente universitario, ebbi la possibilità di visitare una casa progettata da un architetto e realizzata in calcestruzzo a
vista. La conoscevo attraverso le fotografie di una rivista e mi pareva bellissima, affascinante. Non appena misi piede al suo interno, però, sentii
istintivamente che qualcosa non andava. Senza dubbio qualcosa non era
come avrebbe dovuto essere. Quando entravo in scatole come quella, non
riuscivo a respirare, mi si irrigidivano i muscoli e la mia temperatura
corporea si abbassava repentinamente. Non so cosa scatenasse reazioni
di quel tipo. Forse erano dovute al fatto che sono nato e cresciuto in una
casa giapponese in legno costruita prima della guerra. […] Era semplice, molto ventilata; per di più sia mio nonno che mio padre odiavano a tal
punto la texture artificiale dei serramenti in alluminio per le finestre che
quando si trattò di ampliare o ristrutturare la casa consentirono esclusivamente l’uso di serramenti in legno, che lasciavano passare gli spifferi d’aria. Naturalmente il calcestruzzo era abbastanza gradevole alla vista ma gli altri miei sensi, abituati alla casa nella quale ero cresciuto,
non riuscivano ad adattarsi all’idea della scatola in calcestruzzo a vista.
Avevo voglia di scappare da quello spazio, più in fretta possibile per respirare a pieni polmoni all’aria aperta»47
Il museo della pietra a Nasu: particolare della parete di pietra con tasselli di marmo di Carrara
Stone Museum in Nasu: detail of the stone wall with Carrara marble insertions
Tochigi, dove Kuma si è trovato a trattare due temi insoliti
per il Giappone: la pietra e il
restauro.
Laddove l’uso della pietra genera un edificio-massa, come
espresso nel concetto occidentale della materia, in questo museo la pietra locale (Ashino) si
fa interprete della leggerezza
degli edifici tradizionali giapponesi, producendo una continuità tra interno ed esterno. Con la
stretta collaborazione del committente e degli operai della
sua fabbrica (in cui si lavora la
pietra), riesce a realizzare un
sistema di sottili lamelle di pietra (40x150 mm per una lunghezza di 1,5 m.) sviluppando,
La misurazione analitica della natura non ci porta da nessuna parte se
resta l’unico modo di vederla. La percezione del mondo, serialmente,
un pensiero dopo l’altro, non serve più. La separazione spazio-tempo ci
rende prigionieri di uno spazio bloccato.
A conclusione di questo viaggio attraverso la poetica di Kengo Kuma
mi sembra che una frase sia centrale nel lavoro svolto finora, così immagino nei suoi sviluppi successivi: «la possibilità più interessante in
architettura è vivere a contatto con i materiali»48.
Perché questa frase vuol dire due cose: Kuma incontra i materiali e incontra la gente.
I materiali sotto le sue mani diventano teneri: perfino la pietra si trasforma in una nuvola. Dal marmo di Carrara, tagliato di uno spessore
di 6 mm, riesce ad estrarre effetti di trasparenza.
È quello che accade nel Museo della pietra (2000) nella prefettura di
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nei tre edifici che con quelli preesistenti compongono l’intervento, un
nuovo possibile impiego del materiale. Attraverso tecniche sperimentate per la prima volta, in questo progetto realizza una muratura alla quale toglie un terzo delle lamelle, alleggerendo il muro e frantumando la
tradizionale solidità e pesantezza di una parete in pietra. Tale metodo
gli consente di evitare che la pietra venga utilizzata come finitura, e spostare quindi l’uso del materiale da quello che egli definisce: “il metodo
del calcestruzzo”. Questo metodo ignora il materiale, la sua sostanza:
«In un mondo dominato da questo metodo, il materiale non è altro che
una modalità di mappatura della texture applicata alla superficie, è solo una pelle spessa circa 20 mm, una finitura sovrapposta al calcestruzzo. In simili condizioni, sostenere con entusiasmo l’importanza del materiale in sé non ha alcun senso»49.
In questo progetto, come in sostanza in tutta la sua esperienza professionale, ha cercato di evitare l’uso del calcestruzzo. Un materiale che
governa il mondo e domina l’architettura mondiale, secondo Kuma,
non perché è bello, ma perché è universale: per usarlo basta conoscere
il sistema di costruzione delle casseforme.
Il grande terremoto di Kanto del 1923 e le distruzioni della seconda
guerra mondiale, hanno cancellato le città in legno dal Giappone, e favorito il prevalere delle costruzioni in calcestruzzo: «Questa decisione
non ha soltanto modificato l’aspetto della città, ha anche distrutto la
cultura e minato lo spirito dei giapponesi. Edifici in ruvido e pesante
calcestruzzo hanno sopraffatto le delicate sensibilità giapponesi determinando condizioni di conflitto sempre più aperto con l’ambiente naturale. La nozione di rispetto per la natura è andata perduta quando questa è diventata un semplice oggetto da conquistare e trasformare»50.
L’aria che proveniva dalle fessure degli infissi, il vento che soffiava sotto le case leggermente sollevate dal terreno, l’odore del legno nella città sono scomparsi. È come se in un certo qual modo, in una città realizzata interamente di legno e di carta, attraversata da una buona distribuzione del vento, le porte e le finestre fossero state chiuse per sempre. E la sottile brezza avesse smesso di soffiare.
La frantumazione dell’oggetto, le particelle che si muovono liberamente, le lamelle di Kuma, cercano di riportare l’aria a circolare.
In questo senso va letto il concetto di “onestà del materiale” che egli
La distruzione provocata dal terremoto di Kanto a Tokyo nel 1923
The destruction following the Kanto earthquake in Tokyo in 1923
Il Museo della Facoltà di Agraria all’Università di Tokyo
The “Food and Agriculture” Museum at the Tokyo University of Agricolture
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propone. Onestà della pietra, ad esempio, che, mentre rompe la distinzione tra struttura (calcestruzzo) e materiale (finitura), torna a diventare sostanza.
Tale concetto è ispiratore del Museo della Facoltà di Agraria all’Università di Tokyo (2004), una grande istituzione che ospita spazi espositivi, laboratori e impianti per la fertilizzazione. Di fronte all’edificio
c’è uno dei più bei filari di alberi zelkova di Tokyo. Il proposito iniziale è stato quello di sincronizzare architettura e natura posizionando
frangisole in pietra tra gli alberi e l’edificio. I frangisole in pietra di
Shirakawa sono posti nella facciata a sud in modo tale da controllare
la luce naturale e di conseguenza la conservazione dell’energia. Kuma
impiega ancora lastre di pietra di 35 mm di spessore fissate su un piatto di acciaio inossidabile dello spessore di 36 mm utilizzando bulloni
inossidabili per distanziarli. Ogni giunto, ogni dettaglio del sistema costruttivo del frangisole è a vista e consente di vedere il vetro, il cemento e gli altri strati. La trasparenza, raggiunta con l’utilizzo di materiali naturali in modo “onesto”, è lo scopo del progetto.
Stessa aspirazione nel Museo d’arte a Nagasaki (2005) affacciato sul
porto della città: un edificio interfaccia tra Nagasaki e la gente che visita la città. Un ponte tra la terra e il mare, l’edificio e il parco (il tetto è trasformato in un parco), la trasparenza e l’opacità. La congiunzione di elementi antitetici è qui ottenuta attraverso l’uso di frangisole di granito brasiliano dello spessore di 30 mm fissati a colonne di acciaio. Anche in questo progetto Kuma evita “il metodo del calcestruzzo”: per sfruttare nell’edificio tutta la forza della pietra, decide di non
usarla come rivestimento ma di farla galleggiare a mezz’aria disgiunta dal corpo strutturale leggero in acciaio: «Grazie a questo dettaglio la
vigorosa presenza della pietra può coesistere con la trasparenza dello
spazio»51.
Dalla pietra alla terra. Nel Museo Adobe (2002), realizzato per alloggiare ed esporre la statua scolpita nel legno del periodo Hein52 di Timber Amida (parte importante del patrimonio culturale del Giappone),
realizza una costruzione naturale pura.
Attraverso la tecnica Hanchiku53 (uno dei sistemi costruttivi più anti-
Il Museo d’Arte a Nagasaki / Nagasaki Art Museum
Il Museo Adobe per la statua lignea del Buddha a Toyoura
Adobe Museum for Wooden Buddha in Toyoura
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chi del Giappone) il dialogo stavolta è tra la forma costruita e la forma
naturale. Progetta una semi-architettura.
Utilizza tale tecnica in una forma semplificata, che ha chiamato Hanchiku block: parcellizzando il materiale naturale (la terra sulla quale
posa l’edificio) in piccoli blocchi, si costruisce il muro. Il risultato è
un’architettura leggera, fatta di un materiale debole e tenero prelevato dal sito e perciò così fortemente legato a quella terra e a quel luogo
da rifiutare qualsiasi carattere di universalità di cui viceversa il calcestruzzo si ammanta. L’architettura che ne scaturisce nasce dal terreno,
come l’erba; o per meglio dire, il terreno è stato convertito in architettura: «Dentro a questa scatola fatta di terriccio ogni premessa e presupposto moderno è stato rovesciato e infranto. In primo luogo, il terriccio costituiva la struttura oltre che la finitura, con il conseguente
dissolvimento della separazione tra le due. Inoltre, gli elementi dell’edificio […] che controllano gli effetti della temperatura e dell’umidità
del corpo umano, sono stati anch’essi affidati alla sostanza del terreno,
che grazie alla sua capacità di regolare la temperatura e l’umidità funziona da climatizzatore. Sarebbe forse più corretto dire che questi elementi diversi non sono “infilzati” ma stratificati. Il termine “infilzare”
contiene l’immagine di una stratificazione verticale e gerarchica, mentre ciò che considero ideale è una stratificazione orizzontale su un piano unico privo di gerarchia. Il corpo è in attesa di una forma di stratificazione come questa: la stratificazione orizzontale consente finalmente al corpo di essere libero. L’“ordine” secondo cui si stabilisce prima la struttura, poi si predispongono gli impianti e le attrezzature e infine si scelgono le finiture, perde totalmente di senso. Esiste soltanto la
materialità della sostanza che è presente di fronte al corpo»54.
Certo si potrebbe obiettare che ad una scala così piccola come nell’edificio sopra descritto (una pianta rettangolare di 8,10x7,20 m, e 7,75 m
di altezza) è facile controllare tali sistemi. E che il materiale del sito
del Museo Adobe consentiva ciò che in altri luoghi non sarebbe stato
possibile.
Ma il punto non è questo. Non si tratta di stigmatizzare il calcestruzzo a favore di materiali cosiddetti “ecocompatibili”. Su questo punto
Kuma è chiaro: «Non mi fido affatto della retorica sulla quale si fon-
dano i promotori dei materiali “naturali” o “ecocompatibili” […] non
me la sento di affidare l’etichetta di “ecocompatibile” a 20 mm di materiale superficiale applicato sopra il calcestruzzo»55.
È su una visione nuova del materiale che bisogna puntare, per prendere le distanze dal pensiero del Moderno sviluppatosi con il “metodo
del calcestruzzo”.
Kuma spiega come il concetto di ecocompatibile sia assolutamente relativo: al variare dell’ambito di riferimento un materiale può essere
ecocompatibile o dannoso.
In uno degli incontri con l’architetto giapponese Shigeru Ban, (parlando del suo impegno umanitario come consulente delle Nazioni Unite per l’utilizzo e la costruzione di ripari per i rifugiati utilizzando la
tecnologia della sua architettura di carta56) egli mi raccontava il caso
del Ruanda nel 1994. A
quelle popolazioni le Nazioni Unite avevano fornito solo teli di plastica
di 4x6 m con cui coprirsi:
la popolazione per costruire i ripari con quei
teli, continuava a tagliare gli alberi delle foreste,
e questo, su una scala di
due milioni di rifugiati,
Una fase del montaggio dei ripari realizzati con tubi di
carta nel 1994 da Shigeru Ban in Ruanda
avrebbe ulteriormente
An assembly phase of the cardboard tubes shelters
aggravato il problema
made by Shigeru Ban in Rwanda in 1994
della deforestazione di
molte aree. Per ovviare a questo disastro naturale, che coinvolgeva la
sopravvivenza di un già precario equilibrio, Ban è intervenuto realizzando tre tipi di ripari provvisori utilizzando tubi di carta.
Con la sperimentazione di nuove tecniche e nuovi materiali, in cui gli
architetti giapponesi da anni si stanno misurando, ci si può forse avvicinare a quel rinnovato recupero dello spirito del rispetto per la natura vagheggiato da Kuma: «Dobbiamo scoprire nuovi materiali che
sostituiscano il calcestruzzo ed utilizzarli per costruire edifici, creare
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città, riformare la sensibilità delle persone. È una sfida che non riguarda solo il Giappone ma tutto il pianeta, che deve raccoglierla coralmente. Perché? Perché credo che senza un rispetto istintivo per la
natura l’umanità non possa sperare di sopravvivere nel XXI secolo.
Dobbiamo trovare qualcosa che sostituisca il calcestruzzo: gli esseri
umani ne hanno bisogno, sia fisicamente che spiritualmente»57.
Le opere presentate in questo volume sono state raccolte differenziandole per il materiale utilizzato. Progetti che usano il vetro il legno la
pietra la plastica la terra il bambù il vinile: negli edifici di Kuma il calcestruzzo non è stato abolito ma certamente è stato annullato il suo carattere ipertrofico e proposto solo ove necessario.
I progetti, tutti realizzati, coprono 15 anni del suo lavoro, il cui inizio
coincide con l’apertura dello studio Kengo Kuma & Associates nel
1990.
Prima di passare alle schede dei progetti, vorrei terminare con due lavori non costruiti che trasferiscono, ad una scala totalmente diversa da
quella dell’edificio, le sue visioni per un ecosistema possibile e la tecnica di sminuzzare la materia fino a ridurla in frammenti minuti.
Anche quando la materia è la città. Nella quale Kuma applica un’infinità di fori per far passare l’aria attraverso, per far respirare la gente.
Nell’isola tropicale di Miyako (nella Prefettura di Okinawa, l’estremo
sud dell’arcipelago giapponese) prende vita una nuova forma urbana
che costruisce una “interfaccia” tra l’uomo e la natura per le generazioni future.
È il progetto Eco particle (1996), infinite particelle nate dalla esplosione dell’architettura che si poggiano su quello che Greg Lynn definisce: «un altro tipo di tappeto di architettura che è stato “parcellizzato”
in una maglia di punti […] che si aggregano lungo le superfici flessibili per costruire tessuti di varia densità»58. Nel progetto Eco particle, da
un lato la superficie del bosco è trattata come un velo ondulato di stoffa sul quale sono lasciati cadere come dei granelli (che non hanno significato da soli ma nel loro legame con il resto) che animano “la città
sotto gli alberi”59: dall’altro un velo di superficie d’acqua copre per intero la città in “fondo al lago”60.
Nella città sotto gli alberi le strutture sono trattate come grane di fini
- 48 -
Il progetto Eco-Particle: la città sotto gli alberi / Eco-Particle: the city below the trees
Il progetto Eco-Particle: la città sotto il lago / Eco-Particle: the city below the lake
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Sezione della città sotto gli alberi e della città sotto il lago
Sections of the city below the trees and of the city below the lake
particelle che acquistano significato nella loro interdipendenza con le
altre. I granelli vengono lasciati cadere nel bosco arricchendo di significato l’intorno e favorendo la mediazione con la natura.
Il paesaggio non è quindi visto come una serie di elementi insoliti o eccezionali ma, attraverso un approccio topologico, diventa un tessuto a
trame diverse.
Nella città sotto il lago l’intervento si concentra sul fondo dello specchio d’acqua dove viene portata nuova terra. La parte superiore è coperta d’acqua come se la porzione di terra artificiale avesse una origine naturale.
Il progetto Grass Net (esposto alla Triennale di Milano del 1996), consiste in una rete di parchi all’interno di un denso distretto residenziale di Tokyo. In tempi di disastri i parchi possono funzionare come una
rete di rifugi, proteggendo la gente, provvedendo al cibo e all’alloggio
per coloro che ne hanno bisogno. Come è stato provato nel terremoto di
Kobe61, un riparo (architettura) nonostante la sua solidità non protegge completamente il benessere fisico degli uomini. La natura è una
fonte di vita nella storia giapponese sulla quale la gente può contare
per cibo e riparo, se necessario. La percezione della natura è riprodotta in forma contemporanea nel progetto.
Kuma, separandosi da quell’estetica della visione che nell’Europa del
diciannovesimo secolo proponeva la progettazione dei parchi con l’unico scopo del godimento visivo, pensa a parchi che funzionino come risorsa alimentare, come centri di emergenza nelle evacuazioni. Insomma un parco con un ruolo integrale nel proteggere il benessere fisico
della gente che abita nelle sue vicinanze.
Il progetto Grass Net è una rete di parchi che come la rete di internet
è senza forma ma sta ovunque. Come internet espande la capacità di
pensare attraverso il collegamento di molti cervelli, così Grass Net
espande la capacità fisica collegando molti corpi.
Il progetto realizza una forma costruita simile all’internet network. Lo
ripeto: senza forma ma che sta dovunque. L’elevato grado di avanzamento della tecnologia (come internet) ha dimostrato la sua efficienza
nella protezione dei bisogni umani. L’edificio, per Kuma, perde la sua
funzione di riparo a favore dell’espansione del territorio cibernetico
che egli considera la fonte della protezione umana del ventunesimo se-
- 50 -
- 51 -
Il progetto Grass Net / Grass Net
colo e che lo porta a predire: «gli esseri umani cominceranno a vivere
non dentro gli edifici, ma nei giardini»62.
Le tecniche artigianali del giardinaggio diventano ancora gli strumenti per progettare un luogo.
Il suo modo di tessere un tappeto di architettura e di far nascere l’edificio dalla terra come fili d’erba, dà significato al grido: «voglio cancellare l’architettura!».
Si è visto che anche il materiale più duro viene reso morbido. Tagliuzzato in sottili lamelle per accentuarne le qualità tattili. Per sentirlo vibrare.
Ma le sue lamelle non sono coltelli affilati perché, come ci ricorda Alan
- 52 -
Watt, l’uomo non è destinato ad essere un istrice intellettuale che affronta l’ambiente che lo circonda con una pelle ricoperta di spine.
Il lavoro di Kuma, l’idea di architettura, il senso di onestà che scaturisce dai materiali che lavora e la partecipazione che chiede agli abitanti dei suoi prodotti, parlano di un uomo che: «va incontro al mondo
che lo circonda con una pelle morbida, bulbi oculari e timpani delicati;
entra in comunione con esso attraverso un tocco caldo, morbido, definito in modo vago, un tocco carezzevole, attraverso il quale il mondo
non viene posto a distanza, come un nemico da tenere sotto tiro, ma
viene abbracciato e diventa una carne sola, come un’amata consorte»63.
Le visioni di Kuma: il giardiniere intento a curare il giardino, il fenomeno dell’arcobaleno, la principessa Kaguyahime che esce dal bambù,
la pioggia di fili sottili del pittore Hiroshige, sono opinioni. Immagini
di un mondo che non crede più agli unificanti racconti della modernità, alla sua rassicurante oggettività, in cui l’astrazione sopprime la
concretezza. Gli strumenti diventano vaghi nebulosi e sfuggenti come
il bordo dell’engawa della Casa sull’acqua che sfuma nell’acqua dell’oceano.
Kuma sembra aver imparato dalla tecnica pittorica ukiyo-e: «che ci sono paesaggi che si lasciano contemplare meglio a occhi socchiusi, montagne più affascinanti se velate dalla foschia e acque più profonde
quando si smarrisce l’orizzonte e la loro linea si fonde con quella del
cielo»64.
Sopra quelle acque fa galleggiare l’edificio. Sotto quelle acque dà vita
a una nuova forma urbana.
Kengo Kuma sa cogliere la differenza tra superficie e profondità.
- 53 -
Kisho, Kurokawa, Each one a Hero. The Philosophy of Symbiosis, Kodansha International, Tokyo, 1997.
2
Da un’intervista a Kengo Kuma realizzata da Irene Maria Scalise: http://www.repubblica.it:80/supplementi/af/2004/10/11modaedesign/025kengo.html
3
Definisco la generazione dei “quattro grandi” gli architetti Fumihiko Maki, Arata
Isozaki, Kisho Kurokawa, Kazuo Shinohara: nati intorno al 1930 sono stati tutti allievi di Kenzo Tange.
4
Leone Spita (a cura di) “Trentadue domande a Fumihiko Maki”, Saper credere in
architettura, Clean, Napoli, 2003, pp. 57-60.
5
Youichi Iijima, Transparent Death, in «SD Space Design», 1997, 11, p. 88.
6
Kengo Kuma, Digital Gardening, in «SD Space Design», 1997, 11, p. 6.
7
Da una conferenza tenuta da Martin Heidegger il 3 ottobre 1964 in occasione del
vernissage delle opere di Bernhard Heiliger pubblicata nel volume: Martin Heidegger, Bemerkungen zu Kunst - Plastik - Raum, Ed. Erker Verlag, 1996; (tr. it.
Corpo e Spazio, il melangolo, Genova, 2000, p. 17).
8
Kengo Kuma, Dissolution of objects and evasion of the city, in «JA The Japan Architect», 2000, 38, p. 58.
9
Ibidem.
10
Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma. Opere e Progetti, Mondadori Electa spa, Milano, 2005, p. 18.
11
Kengo Kuma, Digital Gardening… cit., pag. 6.
12
Ibidem.
13
Leone Spita, Cancellare l’Architettura, in «Abitare la Terra», 2002, 2, pp. 30-39.
14
Derrick de Kerckhove, Brainframes, Bologna, Baskerville, 1993.
15
http://www.undo.net/cgi-bin/openframe.pl?x=/Pinto/gene5/kerk.htm
16
Ibidem.
17
Ibidem.
18
Ibidem.
19
Nicola Marzot, Dialogo con Kengo Kuma, in: «OP/3 Opera Progetto», anno II,
2005, 1, p. 25.
20
Martin Heidegger, Bemerkungen zu Kunst… cit., p. 33.
21
Kengo Kuma, Particle on horizontal plane, in «JA The Japan Architect», 2000, 38,
p. 120.
22
Kengo Kuma, Digital…, cit. pp. 8-9.
23
Da un’intervista realizzata dall’autore a Kisho Kurokawa nel Febbraio 2004 a
Tokyo.
24
Alan W. Watts, Nature, Man, and Woman, Pantheon, New York, 1958; (tr. it. Natura Uomo Donna, U. E. Feltrinelli, Milano, 2004, p. 15.
Alan W. Watts, Nature… cit., p. 16.
Come la parola scape indica, il landscaping è un’arte scenica e una metodologia
visiva.
27
Alan W. Watts, Nature… cit., p. 80.
28
Ibidem.
29
Kengo Kuma, Digital Gardening... cit., p. 9.
30
Ibidem.
31
Knabe, C., J. Rainer Noenning, Shaking the Foundations. Japanese Architects in
Dialogue, Prestel Verlag, Munich-London-New York, 1999, p. 68.
32
Kengo Kuma, Particle… cit., p. 120.
33
Kengo Kuma, Dissolution of objects... cit., p. 58.
34
Kakuzo Okakura, The Book of Tea, s. l., 1906; (tr. it. Lo zen e la cerimonia del tè,
U. E. Feltrinelli, Milano, 1997, p. 25).
35
Kengo Kuma, Dissolution…cit., p. 58.
36
Greg Lynn, Pointillism, in «SD Space Design», 1997, 11, p. 47.
37
Kengo Kuma, Particle… cit., p. 120.
38
Nella tecnica del puntinismo, che nasce nel 1883, è importante la stesura del colore che viene fatta a tratti o sotto forma di punto. Vengono utilizzati solo i colori
primari: tanti minuscoli punti sovrapposti danno il colore scelto, i contrasti per chi
osserva si fondono dando l’impressione di sfumature e toni che in realtà sono la sovrapposizione dei colori primari. Il puntinismo, riprende il pensiero impressionista,
considerando importante lo studio della luce dei chiaro scuri, la percezione della
materia, la teoria del colore e la fisiologia della visione.
39
http://www.undo.net/cgi-bin/openframe.pl?x=/Pinto/gene5/kerk.htm
40
Kengo Kuma, The Skin Of Bamboo, The Spirit of Bamboo, s.l., s.d.
41
Anonimo, Storia di un tagliabambù, Adriana Boscaro (a cura di), Marsilio Editori, Venezia, 1994, p. 87. Il testo risale al 909 ca.
42
LA TOKAIDÔ di Hiroshige. Prefazione di Gisèle Lambert. Note esplicative e commenti per ogni stampa: Jocelyn Bouquillard, Bibliothèque de l’Image, 2002, Paris,
p. 78.
43
LA TOKAIDÔ di Hiroshige…, cit., p. 8.
44
Da un’intervista realizzata dall’autore a Kengo Kuma nel Gennaio 2000 a Tokyo,
pubblicata in «Abitare la Terra», 2002, 2, p. 39.
45
Alto 21 metri largo 17 metri, dalla chioma di forma a vaso, è un albero molto amato dalla gente. Riesce a vivere molto bene in città perché è un’essenza che tollera
l’inquinamento e i livelli variabili di pH. Ha una corteccia molto ornamentale e una
crescita rapida.
46
Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 28.
47
Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 15.
48
http://www.kateigaho.com/int/mar04/architect-kuma.html
- 54 -
- 55 -
25
NOTE
26
1
Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 18.
Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 16.
51
Nicola Marzot, Dialogo con Kengo Kuma…, cit., p. 30.
52
La cultura Heian (IX-XII sec.) sviluppatasi intorno alla corte imperiale di Kyoto,
si caratterizza per i suoi tratti originalissimi, tipicamente nipponici ed estremamente raffinati.
53
Un sistema per costruire una parete stabile versando un conglomerato di terra e
paglia in una cassaforma di tavole di legno.
54
Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 19.
55
Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 18.
56
Shigeru Ban, prima coinvolto come consulente per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), ha fondato, nel 1995, l’organizzazione non governativa VAN, la Rete di Architetti Volontari.
57
Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 16.
58
Greg Lynn, Pointillism… cit. p. 47.
59
Il nome deriva dalla istituzione religiosa presente nell’isola, collocata in mezzo al
bosco, chiamata utaki. Invece di pensarla come un pezzo architettonico è più appropriato pensare questo spazio come un giardino, un luogo segnato dagli alberi sacri dove l’erba viene appositamente tagliata e nel quale occasionalmente è officiata una cerimonia.
60
Anche in questo caso il nome deriva da un secondo luogo dell’isola considerato sacro, gaa, che è una grotta dove l’acqua sotterranea sgorga da una crepa negli strati di tufo.
61
Il terremoto che colpì il 17 gennaio 1995 la città di Kobe provocando 6.432 vittime è stato il peggiore disastro naturale dal dopoguerra a oggi. I danni materiali sono stati incalcolabili, trattandosi di una regione ad alto valore storico e a forte intensità industriale.
62
Kengo Kuma, Grass Net, in «SD Space Design», 1997, 11, p. 100.
63
Alan W. Watts, Nature... cit., p. 86.
64
Ibidem.
49
50
OPERE, 1995-2005
PIETRA
Il museo della pietra
Il museo della Facoltà di Agraria
dell’Università di Tokyo
La casa dei fiori di loto
VETRO
La casa di vetro e di acqua
PLASTICA
La casa di plastica
Il giardino pensile Fukusaki
La casa del tè di Oribe
Il padiglione KXK
TERRA
Il museo Adobe per la statua lignea del
Buddha
LEGNO
Il museo di Ando Hiroshige
L’edificio termale Ginzan
L’edificio termale Horai
Edificio per gli uffici LVMH a Omotesando
Fermata dell’autobus
BAMBÙ
La casa di bambù
L’edificio d’ingresso all’esposizione
di Shizuoka
- 56 -
- 57 -
Il museo della pietra, 2000
Stone museum
Il progetto intende recuperare tre antichi magazzini della città di Nasu costruiti in pietra
nella regione Ashino (Prefettura di Tochigi). Il
nuovo programma dello Stone Museum ha
come obiettivo un recupero che si basa sull’introduzione di nuovi passaggi in modo da
ripristinare l’unificazione tra gli spazi interni
e l’immediato intorno. I passaggi sono costruiti con due tipi di pareti “morbide”.
Il primo tipo realizza la “morbidezza” attraverso una serie di listelli di pietra. (Il progetto è il proseguimento della ricerca iniziata col Padiglione giapponese alla Biennale di Venezia del 1995 che introduceva,
tra l’altro, un passaggio che collegava interno ed esterno, includendo l’intorno). La
pietra è tipicamente un materiale pesante
che implica una sfida nel processo di lavorazione. Un senso di leggerezza, di ambi-
ANNO:
guità e di morbidezza può comunque essere ottenuto attraverso la desolidificazione
del materiale, lavorandolo a lamelle. Questo è stato per molti aspetti un esperimento
per provare il livello di realtà dell’essenza
della materia.
Il secondo tipo di parete realizza la “morbidezza” attraverso numerose e piccole
aperture che perforano un muro di pietra.
La durezza può essere ridotta scavando
porzioni della parete solida. Con ciò si ottiene l’ambiguità del confine del lotto e la
diffusione della luce che si separa in infinite particelle. Attraverso il semplice contrasto tra i trattamenti della pietra descritti e il
trattamento del materiale esistente, una
nuova qualità di “morbidezza” può essere
ricordata, risentita e ri-esperita.
dalla relazione di progetto
PROGETTO 1996 - REALIZZAZIONE 2000
LUOGO:
NASU, PREFETTURA DI TOCHIGI, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
MUSEO
SUPERFICIE DELL’AREA: 1382.60 MQ
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 527.57 MQ
PARTE NUOVA: 280.86 MQ - PARTE ANTICA: 246.71 MQ
- 58 -
Il museo della pietra
Stone Museum
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- 61 -
Il museo della Facoltà di Agraria dell’Università di Tokyo, 2004
The “Food and Agriculture” Museum
La Tokyo University of Agriculture è un’estesa istituzione che ospita musei, laboratori e
servizi per la fertilizzazione. Di fronte all’edificio c’è uno dei più bei filari di alberi zelkova di Tokyo. Il proposito iniziale è stato
quello di sincronizzare l’architettura e la
natura posizionando brise-soleil in pietra
tra gli alberi e l’edificio. I brise-soleil in pietra sono collocati sulla facciata a sud in modo da controllare la luce naturale e, di conseguenza, la conservazione dell’energia.
Nell’architettura moderna la pietra è tagliata in spessori sottili e applicata, nella
computer grafica, come mappatura della
texture (texture mapping). Gli elementi
ANNO:
strutturali sono nascosti. Per questo progetto ho impiegato materiali naturali; la pietra
che si basa sul concetto di “onestà” perché
credo che l’onestà sia il concetto più importante della natura. Lastre di pietra, spesse
35 mm, sono fissate su solide placche di
acciaio dello spessore di 36 mm utilizzando bulloni inossidabili per distanziarle.
Ogni giunto e ogni dettaglio del brise-soleil
vengono esibiti cosicché il vetro, il cemento
e tutti gli schermi sono a vista. Lo scopo del
progetto è la trasparenza che è raggiunta
utilizzando materiali naturali trattati in modo “onesto”.
dalla relazione di progetto
PROGETTO 2002 - REALIZZAZIONE 2004
LUOGO:
SETAGAYA-KU, TOKYO, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
CENTRO UNIVERSITARIO DI RICERCA
SUPERFICIE DELL’AREA: 3.544,09 MQ
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 3.465,15 MQ
- 64 -
- 65 -
Il museo della Facoltà di Agraria dell’Università di Tokyo
The “Food and Agriculture” Museum
- 66 -
- 67 -
Il museo della Facoltà di Agraria dell’Università di Tokyo
The “Food and Agriculture” Museum
- 68 -
- 69 -
La casa dei fiori di loto, 2005
Lotus house
La casa è vicina ad un tranquillo fiume, immerso nelle montagne. Ho pensato di riempire d’acqua lo spazio tra la casa, il fiume e
i fiori di loto così che l’abitazione venisse
portata, per mezzo dei fiori di loto, verso il
fiume e potesse continuare nei boschi sull’altro lato del fiume. L’architettura stessa è
fondamentalmente composta di vuoti. È divisa in due ali, con in mezzo una terrazza,
un vuoto coperto, che mette in comunicazione il bosco sul retro della casa con i boschi nella sponda opposta. Anche le superfici delle pareti sono pensate come innumerevoli vuoti. Nonostante l’uso di un materiale massiccio come la pietra, ho voluto creare pareti di luce attraverso le quali il vento
potesse soffiare. Sono arrivato così al dettaglio del “buco”: sottili lastre di travertino
della misura di 20 cm x 600 cm, spesse 30
mm, sono sospese a delle barre piatte di acciaio inossidabile (6mm x 18 mm) e costi-
ANNO:
tuiscono il disegno di una scacchiera permeabile. La leggera superficie porosa della
parete, che approfitta della texture della
pietra, è un approccio che ho avuto in passato nello Stone Museum (2000). Nel progetto qui descritto è stato possibile realizzare un dettaglio ancora più leggero usando
una “struttura a catena di barre piatte”: una
barra piatta di acciaio inossidabile è unita,
alle sue estremità, alle due barre di sotto e
di sopra, come un sandwich. Il sistema consente allo schermo di rispondere alla forze
esterne e al movimento. La lastra di travertino è legata a questo sistema a catena. Dal
momento che lo spessore della struttura è
più piccolo di quello del pannello di pietra,
l’elemento sospeso quasi scompare e la pietra sembra fluttuare nell’aria. La leggerezza
della pietra è un’espressione della delicatezza dei petali dei fiori di loto.
dalla relazione di progetto
PROGETTO 2003 - REALIZZAZIONE 2005
LUOGO:
KANAGAWA, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
CASA DI VILLEGGIATURA
SUPERFICIE DELL’AREA: 2,300.66 MQ
SUPERFICIE DELL’EDIFICIO: 533.00 MQ
- 70 -
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 530.27 MQ
- 71 -
La casa dei fiori di loto
South elevation
North elevation
BATH
COURT
COURT
GRG
BR
BR
LR
K/D
Second Floor S=1:200
COURT
WATER
BTH
sauna
Second Floor S=1:200
COURTYARD
GRG
K/D
BR
BR
First Floor
- 72 -
LR
La casa dei fiori di loto
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La casa di vetro e di acqua, 1995
Water/Glass
Il progetto è stato fortemente influenzato
dalla villa “Hyuga”, la sola costruzione che
Bruno Taut abbia lasciato in Giappone. Il
progetto si è sviluppato attraverso l’influenza della filosofia di Taut. Il soggiorno di Taut
in Giappone è durato dal 1933 al 1936.
Ma il suo apprezzamento del Katsura Palace durerà per sempre. Il motivo del suo elogio risiede nel fatto che la villa incornicia la
natura e la incornicia pur essendo una sola
cosa con la natura. Taut prestò attenzione in
modo particolare ai meccanismi del Katsura
Palace che provocano l’incorniciatura della
natura con la natura: la proiezione del tetto
e le verande di bambù. Così, nel mio pro-
ANNO:
getto, uno strato di acqua, che copre gentilmente i bordi dell’edificio, rappresenta le
verande di bambù del Katsura. Inoltre, un
brise-soleil di acciaio, che aggetta sull’acqua, indica la proiezione del tetto. La superficie d’acqua si spinge oltre l’esterno e si
unisce all’Oceano Pacifico. E su questa superficie galleggia un involucro di vetro. Dal
momento che l’involucro è sovraesposto, la
rifrazione dei materiali produce svariate riflessioni. La relazione tra il soggetto e l’ambiente è indagata in vario modo ridefinendo
e riformando la filosofia del Katsura, pur
mantenendo la sua essenza fondamentale.
dalla relazione di progetto
PROGETTO 1992 - REALIZZAZIONE 1995
LUOGO:
ATAMI, PREFETTURA DI SHIZUOKA, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
RESIDENZA PRIVATA
SUPERFICIE DELL’AREA: 1281.21 MQ
SUPERFICIE DELL’EDIFICIO: 568.89 MQ
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SUPERFICIE UTILE TOTALE: 1125.19 MQ
La casa di vetro e di acqua
Water/Glass
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La casa di vetro e di acqua
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La casa di plastica, 2002
Plastic House
Come fuggiamo dalla solidità di una scatola
di cemento? Questa è stata la mia ricerca
negli anni passati. Se dovessi definire l’architettura del ventesimo secolo in una sola
parola, questa potrebbe essere: “cemento”.
La sua “libertà” e la sua “universalità” si sono adattate a tal punto che sono stati abbandonati altri metodi locali di costruzione.
Inoltre la “forza” della massa solida, nella
improvvisa trasformazione dalla spessa sostanza liquida, ben si adattava al periodo in
cui si desiderava la monumentalità e la sicurezza della privacy. Perciò la ricerca di un
sostituto (materiale) non è una mera proposta formale ma il tentativo di suggerire un
“principio del vivere” che sostituisca i fondamenti del ventesimo secolo: “libertà” (ovviamente nel senso dell’epoca), “forza” e “sicurezza”. In questo progetto ho utilizzato la
plastica. L’edificio è l’abitazione di una scrittrice e del figlio fotografo. La casa si trova
nel centro della città e varie parti in cui si
svolge la vita sono aperte alla condizione urbana. La stanza della madre è un piccolo
museo antico e c’è un costante flusso di persone dentro e fuori lo studio. Lo spazio aperto al piano terreno è una “stanza del tè” senza copertura dove la proprietaria compie il
rituale della cerimonia del tè per i suoi ami-
ANNO:
ci. La terrazza sul tetto è il suo studio e lo
spazio per le feste all’aperto. Ho voluto realizzare una certa relazione con la città attraverso l’uso di plastica fibrorinforzata (FRP, Fibre Reinforced Product). Nel periodo Edo, il
legno faceva sì che l’abitazione contribuisse
alla creazione del paesaggio urbano. Il sistema di relazioni non deve essere descritto=realizzato in pianta. Deve essere realizzato per mezzo della materialità. L’FRP è un
materiale (spesso 4 mm) di varie forme che
derivano dalla estrusione. Combinando queste forme ho creato relazioni di differenti
qualità. È un materiale davvero unico che
talvolta appare come la carta di riso, altre
volte come il bambù proprio grazie alla qualità delle fibre che esso contiene. Ho progettato dettagli con particolari trattamenti per
non sminuire questa qualità. Invece di usare
la modanatura nei giunti, per la costruzione
sono state selezionate la gomma butilica e le
viti di plastica. Con l’uso di questi dettagli si
mantiene intatta la materialità della plastica
che appare come una “creatura vivente”: e il
materiale comincia a comunicare con il nostro corpo. In questo progetto ho pensato al
“vivere” non attraverso il disegno della pianta, ma attraverso il materiale.
PROGETTO 2002 - REALIZZAZIONE 2002
LUOGO:
MEGURO-KU, TOKYO, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
RESIDENZA
SUPERFICIE DELL’AREA: 151,30 MQ
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 172,75 MQ
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dalla relazione di progetto
La casa di plastica
Plastic House
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La casa di plastica
Plastic House
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Il giardino pensile Fukusaki, 2005
Fukusaki Hanging Garden
Il Vertical Graden, collocato nell’area del litorale di Osaka, è stato progettato come un
terreno tridimensionale temporaneo di gioco per i bambini. Questo giardino è capace di unire varie attività: incontri, concerti e
giochi accanto alla gara podistica e al
chiapparello dei bambini.
Per ottenere la flessibilità di uno spazio che
fosse in grado di ospitare diverse funzioni,
ho utilizzato tende di vinile al posto di spesse pareti di cemento. Le tende di vinile sono
comunemente usate nei magazzini e nelle
fattorie. L’unicità della tenda risiede nel fatto che questa ha una morbidezza che è differente sia dal cemento che dal vetro. Le
tende di vinile sono un materiale morbido
ANNO:
perciò i bambini, attraversandole in corsa,
non possono farsi male. È il motivo per cui
ho sentito di voler realizzare l’edificio con
materiali morbidi e leggeri. Inoltre le tende
di vinile non sono come le pareti o le porte:
ogni punto può diventare un ingresso. Se la
gente vuole entrare all’interno, deve solo
dare una spinta alla tende di vinile. Fino ad
ora si sono realizzati edifici fatti di pareti e
di porte, di muri e di finestre. Ma l’uso della tenda di vinile sta aumentando la possibilità di nuovi tipi di edifici e implica nuove
pareti leggere e vaghe. Ho sentito che il carattere di questa parete e i bambini erano
fatti l’uno per l’altro.
PROGETTO 2002 - REALIZZAZIONE 2005
LUOGO:
MINATO-KU, OSAKA, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
PIAZZA, UFFICI
SUPERFICIE DELL’AREA: 2.450,62 MQ
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 981,90 MQ
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dalla relazione di progetto
Il giardino pensile Fukusaki
Fukusaki Hanging Garden
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Il giardino pensile Fukusaki
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Fukusaki Hanging Garden
La casa del tè di Oribe, 2005
Oribe Tea House
Una stanza del tè temporanea e mobile.
Fogli di plastica corrugata, di 5 mm di
spessore, sono schierati ad un intervallo di
65 mm e collegati tra loro con un certo numero di bende. Una volta che queste vengono sciolte, la stanza del tè torna ad esse-
ANNO:
re un assemblaggio di semplici elementi
che si muovono agevolmente. La forma assomiglia ad un bozzolo, ed è un omaggio
alla forma irregolare della tazza della cerimonia del tè di Furuta Oribe.
dalla relazione di progetto
PROGETTO 2005 - REALIZZAZIONE 2005
LUOGO:
CERAMIC PARK MINO, TAJIMI, PREFETTURA DI GIFU, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
PADIGLIONE DEL TÈ
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 8 MQ
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La casa del tè di Oribe
Oribe Tea House
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Il padiglione KXK, 2005
KXK pavilion
Un padiglione temporaneo, che viaggerà
per il mondo, progettato per un evento presentato da un produttore di champagne.
Cercando di prendere le distanze dall’immagine dell’architettura come qualcosa di
fermo, con una forma invariabile, ho selezionato una membrana estremamente morbida di un materiale chiamato EVA: un foglio di resina intrecciata (di 2 mm di diametro) che è poi sostenuto da una struttura
metallica shape-memory (che ricorda la
sua geometria).
Anche questa ha un diametro di 2 mm: è
più simile ad una membrana che ad una
ANNO:
struttura, intesa a neutralizzare al massimo
grado la dicotomia membrana-struttura.
Poiché il metallo si modifica al variare della temperatura, anche il profilo della cupola è variabile. Il modo in cui la forma si trasforma è più vicino all’essere biologico che
a quello architettonico.
In definitiva il raffreddamento elimina la rigidità della lega metallica, rendendo possibile ripiegare la cupola che si adatta così
ad un piccolo container: questa caratteristica permette al padiglione di viaggiare per
il mondo.
PROGETTO 2005 - REALIZZAZIONE 2005
LUOGO:
HARA MUSEUM, SHINAGAWA-KU, TOKYO, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
PADIGLIONE
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 4 MQ
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dalla relazione di progetto
Il padiglione KXK
KXK pavilion
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Il museo Adobe per la statua lignea del Buddha, 2002
Adobe Museum for Wooden Buddha
L’edificio serve ad alloggiare ed esporre la
statua scolpita nel legno di Timber Amida
(Amidabha) Tathagata, un importante patrimonio culturale del Giappone, del periodo Hein. Poiché i muri di confine del sito sono costruiti in un modo chiamato hanchiku,
ho deciso di utilizzare questa tecnica. Hanchiku è il sistema per costruire una parete
stabile versando un conglomerato di terra e
paglia in una cassaforma di legno. Hanchiku è considerato uno dei più antichi sistemi costruttivi della nostra civiltà. Utilizzando la tecnica semplificata chiamata
“hanchiku block” si prepara un conglomerato con la terra del sito a formare un blocco. Il sistema di impilare tali blocchi rimanda ad uno dei primi metodi di fabbricazione industriale. La dimensione del blocco
(360 x 325 x 275 mm), permette che questo possa essere preso con una mano. Dal
momento che l’illuminazione e la ventilazione sono un tema essenziale, il muro, fatto di blocchi di terra, è progettato in modo
ANNO:
da lasciare una fessura attraverso cui la luce e il vento possano entrare nell’edificio.
Inoltre, il blocco prefabbricato regola l’umidità interna senza bisogno degli impianti
meccanici tipici dei nostri tempi. In questo
modo sono garantite all’interno le condizioni climatiche più adatte alla presenza di
una statua di legno, come quella di Timber
Amida. Parcellizzando il materiale naturale, volevo ottenere un’architettura debole,
morbida e soprattutto leggera. Questa architettura è il risultato del metodo di parcellizzare la terra sulla quale si posa l’architettura. Hanchiku, una costruzione naturale
pura, è perciò considerata una tecnica adeguata a costruire una semi-architettura,
un’architettura che consente la comunicazione tra l’edificio e il paesaggio. Utilizzando i mezzi dell’ambiente in cui ci si trova, non solo contestualizziamo il materiale
ma creiamo un dialogo tra la forma costruita e la forma naturale.
PROGETTO 2001 - REALIZZAZIONE 2002
LUOGO:
SHIMONOSEKI, PREFETTURA DI YAMAGUCHI, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
TEMPIO
SUPERFICIE DELL’AREA: 2.036,75 MQ
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 63,23 MQ
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dalla relazione di progetto
Il museo Adobe per la statua lignea del Buddha
Adobe Museum for Wooden Buddha
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Il museo Adobe per la statua lignea del Buddha
Adobe Museum for Wooden Buddha
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Il museo di Ando Hiroshige, 2000
Bato-machi Hiroshige Museum
Un museo dedicato al lavoro di Ando Hiroshige, un artista dell’Ukiyo-e. Un tentativo di materializzare in architettura l’eccezionale struttura spaziale realizzata nelle
sue stampe. Egli ha cercato di esprimere lo
spazio tridimensionale attraverso la sovrapposizione di layer. Tale metodo contrasta con la prospettiva che si osserva nelle
pitture occidentali e ha avuto una forte in-
ANNO:
fluenza sugli Impressionisti e sull’architettura di Frank Lloyd Wright. In questo progetto vengono usati brise-soleil di legno di cedro del luogo per materializzare tale metodo di sovrapposizione. Il legno di cedro ha
subito un trattamento di resistenza al fuoco
e all’umidità in modo da poterlo utilizzare
per la copertura.
PROGETTO 1998 - REALIZZAZIONE 2000
LUOGO:
NASU, PREFETTURA DI TOCHIGI, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
MUSEO
SUPERFICIE DELL’AREA: 5.586,84 MQ
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 1.962,43 MQ
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dalla relazione di progetto
Il museo di Ando Hiroshige
Bato-machi Hiroshige Museum
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Il museo di Ando Hiroshige
Bato-machi Hiroshige Museum
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L’edificio termale Ginzan, 2001
Ginzan Bath House
L’edificio è un piccolo stabilimento termale
pubblico per i residenti e per i visitatori, in
uno storico distretto lungo il fiume Ginzan,
in una valle profonda dove si trovano venti
ryokan di legno. Dal momento che l’area è
limitata da edifici in legno di tre o quattro
piani, lo scenario è assolutamente unico se
paragonato alle altre regioni del Giappone
in cui predomina l’architettura orizzontale
lignea solitamente ad un piano. Il lotto dell’edificio è molto stretto. La larghezza del
fronte strada misura da due a sei metri. Per
questo motivo ho progettato degli spazi di
comunicazione tra il fiume, la strada e l’attuale onsen. Se l’architettura fosse stata separata dalla strada con una spessa muratura sia lo spazio della strada che quello
dell’edificio avrebbero perduto il senso di
profondità dell‘insieme, creando un’atmosfera oppressiva. Era chiaro che una separazione tra l’architettura e la natura doveva
essere quanto più ambigua possibile consentendo a quegli spazi di interagire e di
ANNO:
influenzarsi reciprocamente, segnando, al
tempo stesso, il confine tra le due funzioni.
È stato proposto uno schermo costituito di
listelli di legno tra l’edificio, la strada e il
fiume, che li fa sfumare l’uno nell’altro. Lo
schermo mobile crea varie relazioni tra la
strada e l’architettura. Altri schermi sovrapposti, che scorrono con un funzionamento
meccanico, aumentano la variabilità delle
condizioni. Oltre alla parete di legno, un richiamo all’architettura tradizionale giapponese, ho utilizzato dei pannelli di acrilico
per garantire la separazione necessaria e
la trasparenza. Il mio obiettivo era quello di
creare un’architettura non attraverso i muri
ma per mezzo di varie soluzioni di apertura. Gli schermi, facilmente apribili, producono qualità sensuali e spaziali. Quando
sono circondato da pareti fisse e pesanti ho
difficoltà a respirare mentre in un ambiente progettato con pannelli mobili mi sento
innalzato e potenziato.
dalla relazione di progetto
PROGETTO 2000 - REALIZZAZIONE 2001
LUOGO:
OBANAZAWA, PREFETTURA DI YAMAGATA, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
BAGNO TERMALE
SUPERFICIE DELL’AREA: 71,53 MQ
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 63,24 MQ
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L’edificio termale Ginzan
Ginzan Bath House
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L’edificio termale Ginzan
Ginzan Bath House
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L’edificio termale Horai, 2003
Horai Onsen Bath House
L’edificio termale si trova in una stretta porzione di terra presso un declivio all’interno
della proprietà dell’Horai (un tradizionale e
prestigioso albergo giapponese). Il lotto è
così stretto che sembra quasi impossibile
costruire qualcosa. Il progetto intende approfittare di questa limitazione per caratterizzare l’architettura. Quando c’è una limitazione di spazio ci si avvicina all’intorno
mentre la “profondità” genera distanza. Il
progetto ha cercato di ridurre il confine in
modo da avvicinarsi il più possibile all’intorno.
Nel processo progettuale anche le pareti
sono state ridotte e sono rimasti solo i due
ANNO:
piani orizzontali: tetto e pavimento. A mio
avviso il pavimento realizza il comfort tra il
corpo e l’esterno.
Ho scelto, per il tetto, fogli corrugati di policarbonato opaco, che non sono forse molto appropriati per un albergo così lussuoso
come l’Horai, ma consentono di restituire il
cielo per mezzo di una struttura effimera
come una tenda. Avendo fatto sparire le
pareti, ho voluto far scomparire anche i sostegni verticali: i pilastri di acciaio a sezione quadrata (60 mm), verniciati di grigio
zincato, si mimetizzano con la natura circostante.
PROGETTO 2000 - REALIZZAZIONE 2003
LUOGO:
ATAMI, TOKYO, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
BAGNO TERMALE
SUPERFICIE DELL’AREA: 7.451,14 MQ
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 58,5 MQ
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dalla relazione di progetto
L’edificio termale Horai
Horai Onsen Bath House
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L’edificio termale Horai
Horai Onsen Bath House
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Edificio per gli uffici LVMH a Omotesando, 2003
One Omotesando
Il progetto, la sede dell’ufficio centrale di
una multinazionale della moda, si trova all’inizio della Omotesando Dori, spesso definita la strada più esclusiva di Tokyo. Omotesando è un pittoresco viale fiancheggiato,
su entrambi i lati, da grandi alberi di zelkova che sottolineano il percorso al santuario Meiji, il più grande tempio scintoista di
Tokyo. Il mio scopo era fare eco a questi alberi e non porli in conflitto con l’edificio. Ho
realizzato una serie di montanti; elementi
verticali di legno lamellare di larice, larghi
45 cm. Il fusto potrebbe fare eco al legno e
le linee verticali dei montanti alle linee verticali degli alberi. Il montante di legno richiama l’architettura lignea del santuario
Meiji. Il sistema a lamelle (di legno) contribuisce alla conservazione dell’energia perché scherma l’interno dalla luce diretta del
sole e riduce l’effetto serra limitando le
ANNO:
emissioni di anidride carbonica. Sebbene
la normativa edilizia giapponese proibisca,
nelle grandi aree urbane, l’uso del legno in
facciata, ho ottenuto un permesso speciale
installando gli sprinklers del sistema antincendio sulla parete esterna.
In passato Tokyo era la città dell’architettura lignea. La scala umana degli edifici in legno, il calore e la delicatezza di questo materiale naturale avevano reso Tokyo eccezionalmente attraente.
Ma dopo la seconda guerra mondiale, Tokyo è stata invasa da grandi edifici di cemento che hanno distrutto il suo fascino. Il
mio desiderio è stato quello di restituire l’attrattiva di Tokyo usando il potere che ha il
legno e di ricostruire una città più “umana”. Spero che questo progetto su Omotesando sia un inizio.
PROGETTO 2001 - REALIZZAZIONE 2003
LUOGO:
MINATO-KU, TOKYO, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
NEGOZI, UFFICI, RESIDENZE
SUPERFICIE DELL’AREA: 1.208,69 MQ
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 7.690,1 MQ
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dalla relazione di progetto
Edificio per gli uffici LVMH a Omotesando
One Omotesando
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Fermata dell’autobus, 2005
Bus stop in Finland
Questo lavoro è il primo della serie di un
progetto nel quale ogni vincitore del premio
per l’architettura del legno “Spirit of Nature”
realizza una folly in legno in Finlandia, nella città di Lahti, nota per il largo impiego del
ANNO:
legno nello sviluppo della città. Questo oggetto è fatto di abete lamellare di 50 mm x
150 mm. La costruzione è stata realizzata
dagli studenti di un istituto politecnico locale.
dalla relazione di progetto
PROGETTO 2002 - REALIZZAZIONE 2005
LUOGO:
LATHI, FINLANDIA
DESTINAZIONE D’USO:
BUS STOP
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 9,8 MQ
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Fermata dell’autobus
Bus stop in Finland
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La casa di bambú, 2002
Great (Bamboo) Wall
Il mio primo scopo era imparare dalla qualità formale della Grande Muraglia. Ero costantemente attratto dal fatto che la Grande
Muraglia non fosse mai stata un oggetto
isolato. Essa corre, quasi interminabilmente, lungo i crinali ondulati senza rimanere
isolata dal paesaggio circostante, dalla natura da cui ero attratto.
Questo mi ha colpito ed ha costituito una
critica alla forma convenzionale dell’architettura che tende ad essere un oggetto isolato in mezzo al paesaggio.
Perciò il mio intento è stato quello di applicare, al tema abitativo, la natura della
ANNO:
Grande Muraglia. È per questo che per il
nome dell’edificio ho suggerito il termine
“muro” al posto di “casa”.
Riguardo ai materiali, ho usato quasi esclusivamente il bambù, data l’importanza che
riveste nelle culture cinese e giapponese. A
seconda della densità e del diametro, il
bambù offre una varietà di modi di dividere lo spazio. Cercando di mantenere il più
possibile tali caratteristiche, ho collocato un
muro di bambù, una parete di bambù che
segue l’inclinazione del terreno, proprio come fa la Grande Muraglia.
PROGETTO 2000 - REALIZZAZIONE 2002
LUOGO:
BEIJING, CINA
DESTINAZIONE D’USO:
FORESTERIA
SUPERFICIE DELL’AREA: 1.931,57 MQ
SUPERFICIE UTILE TOTALE: 528,25 MQ
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dalla relazione di progetto
Great (Bamboo) Wall
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La casa di bambú
Great (Bamboo) Wall
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L’edificio d’ingresso all’esposizione di Shizuoka, 2004
Shizuoka Expo Gate Building
Ho pensato di realizzare un ingresso indistinto. Normalmente gli ingressi delle esposizioni vengono considerati dispositivi che
separano nettamente l’interno dello spazio
espositivo dall’esterno. Ma nel caso di questa esposizione ho creduto che fosse preferibile realizzare un ingresso in continuità
con la bellezza della natura intorno al lago
Hamana. Ho progettato un’entrata che rappresenta una foresta di bambù. Con la
creazione di uno spazio senza pareti, aspiravo a realizzare un ingresso che non
ostruisse la continuità interno-esterno; un
“ingresso sequenziale”, che fosse come
passare impercettibilmente attraverso una
ANNO:
foresta. Ho collocato canne di bambù del
diametro di 60 mm, alte 6 m, su una griglia
di 200 mm x 1500 mm, fasciate con un rete traslucida da serra. Sebbene il bambù sia
un materiale leggero e sottile, quando il colore e la silhouette del bambù sfumano attraverso la rete traslucida, la sua sottigliezza viene amplificata. Durante le mie passeggiate nelle foreste, avevo sempre pensato che fosse impossibile paragonare l’architettura alla particolarità che possiede una
foresta naturale. Ma questa volta, ho sentito di essere andato vicino ad ottenere, nel
progetto, le stesse qualità di una foresta.
dalla relazione di progetto
PROGETTO 2001 - REALIZZAZIONE 2003
LUOGO:
HAMAMATSU, SHIZUOKA, GIAPPONE
DESTINAZIONE D’USO:
INGRESSO TEMPORANEO
SUPERFICIE DELL’AREA: 211,611.83 MQ
SUPERFICIE DELL’EDIFICIO: 2,522.43 MQ
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SUPERFICIE UTILE TOTALE: 2,445.62 MQ
L’edificio d’ingresso all’esposizione di Shizuoka
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ENGLISH TEXT
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PREMISE
In recent years the world of Italian publishing has once again been demonstrating
a strong interest in the world of Japanese architecture. Figures such as Arata
Isozaki, Kisho Kurokawa, Toyo Ito, Tadao Ando, Kazuyo Sejima, Itsuko Hasegawa
and Shigeru Ban lay at the centre of this interest.
There are many reasons, though perhaps amongst the many threads we may be
able to trace two significant circumstances, corresponding to an equal number of
reasons for interest.
Firstly, Japanese architects well represent that element of the star system that is
found in the pages of magazines and in schools of architecture in Italy and around
the globe. These star architects continue to appear in public, providing interviews
to newspapers, intervening in any argument and stepping outside of their fields of
expertise and intervention, ensuring that their faces continue to appear in
fashionable magazines: a combination of art, design, architecture and knick
knacks.
Secondly, it is a fact that Japan, for some years, has come to represent a laboratory
for the development of architecture. Its capital city is the global metropolis that,
more than any other, manages to satisfy that voracious hunger for the new that
stuns cotemporary visitors who are tired of travelling around with a map of the city,
establishing their itinerary while seated at the table in order to slavishly study it.
On the contrary, the city of Tokyo asks us to discard the map and to immerse
ourselves within its meanings, to live only those situations that present
themselves.
Neither must we forget that Tokyo is located in a privileged geographic position
with respect to those areas of the extreme Orient, such as China, Korea and
Malaysia, which have become the focus of investments, speculations, the hopes and
eyes of the entire world.
In his book “Each one a Hero. The Philosophy of Symbiosis”1 the Japanese architect
Kisho Kurokawa spoke of the rebirth of Asia. If the 21st-century is to be the era of
symbiosis between nature and electronics (with the development of ecotechnologies and eco-industries that will require significant natural resources),
based on Kurokawa’s forecasts, Malaysia, Japan and other Asian countries, due to
their favourable climatic conditions (water resources, forest covered mountains,
rivers, seas and lakes) will have a crushing advantage.
Destinations such as Japan-Tokyo, combined perhaps with a stopover in ChinaShanghai are continually more popular with travellers, even those not affected by
the bug of exoticism. We will talk more about Japan and Tokyo in order to discuss
and understand the protagonist of this monograph.
Kengo Kuma has not yet built anything outside of Japan, with the exception of
China, where he has completed one house in Beijing near the Great Wall and a
showroom in Shanghai.
Yet he is a recognised architect at the international level, often invited to hold
conferences in important universities around the world, in addition to being the
winner of numerous prizes, including the Finnish Spirit of Nature Wood
Architecture Award 2002. Magazines also pay more and more attention to him. We
will also speak about this.
- 149 -
THE BEGINNING
Kengo Kuma is an architect who speaks about his visions when he builds. He tells
their story through the use of material. In both cases the result is an intelligent
use of material and an intelligent use of the words with which he speaks of his
visions.
Born in Kanagawa in 1954, he completed his degree in 1979 at the University of
Tokyo. In 1986, following his return to Japan after a period of study at Columbia
University in New York, Kuma aligned himself with the idea, shared at the global
level, that the use of reinforced concrete was the only means of realising an
economic and rational building. He can still remember (since the age of 10) the
daring structures of Kenzo Tange for the 1964 Tokyo Olympics, described by Tange
himself on television. That television interview, during which the architect
explained the relationship between his architecture and traditional Japanese
architecture, produced one of Kuma’s first reflections on architecture: «a single
individual can design an environment and influence those who use the space».
However, glass, wood, plastic, earth, bamboo and vinyl are the materials that Kuma
has discovered and for many he has conceived of fantastic visions that give rise to his
buildings. We will speak of these materials and his visions.
There is also a portion of his activities that is focused more directly on dreams: a city
under a lake, another beneath a forest and a city on a lawn. They are unbuilt
projects tied to hopes for an ecosystem that must be verified, though they remain
fascinating.
Kuma’s history as an architect begins in the chaos of late 1980’s Tokyo, still trapped
in the bubble economy.
This period was influenced by an economy that had inflated like a bubble, creating
an ephemeral economy and a period during which Japanese institutions were based
on the presupposition of continuous economic growth. It was an indisputable value
that was taken entirely for granted. There was enough money to do almost anything
and to experiment with forms and ideas.
From this period of such a driving economy, which Kuma experienced at the very
beginning of his career – up to the moment in the 1990’s when Japan entered a
period of economic recession and the aforementioned presupposition lost any
validity – he easily remembers how a young architect was able to build large
buildings. He evaluated the successive economic contraction as a positive
opportunity for architects: called upon to design smaller buildings, often nonpublic, they can now dedicate more of their time to truly experimental projects: «It
appears to be a paradox, but architecture is better when there are no resources
because it is stimulated to create greater ideas. An excess of money does not
necessarily provide an incentive»2.
Fumihiko Maki, whom Kuma defines as one of his most important teachers, is of
the same opinion. During an interview that I held with Maki (1993 Pritzker Prize
and exponent of the generation of the “great four”3 Japanese architects) he
described the change in the world of work for architects following the bursting of
the bubble, when Japan’s incredible economic growth came to a halt in 1992, as
follows: «Obviously the pie has become much smaller, but this simply means that
everyone’s slice is smaller. In this way we have the time to work on details, time
that we would probably not have had in the past. Japanese clients, whether public
or private, are more attentive to economic issues and, with respect to the past, this
allows for experimentation with less costly materials»4.
In any case, in 1991 in Japan the search was still on for a new form of capital
investment and architects were living their moment of glory. During this enormous
development of contemporary architecture Kuma built a building with an ionic
column that is ridiculously out of scale (it is six stories tall) and fragments of portals
and other symbolic elements as a representation of the architect’s desire to fracture
the vocabulary of classical Western architecture and disperse it’s fragments like
particles. The building generated strong reactions from critics. The M2 (1991) is an
arrogant building that stands out in a domineering (though ironic) manner in the
midst of the Tokyo’s Setagaya district and this is surprising because, from this
moment onwards, his buildings are never again like this: neither arrogant nor
domineering and not even ironic. But why? A particular «unkind observer»5 - these
are the words of Youichi Iijima from his essay “Transparent Death” – stated that
Kuma had simply abandoned post-modernism when it went out of fashion and that
the bursting of the economic had bubble forced him to change direction and begin to
make less shocking projects.
However, we will leave these simple criticisms aside. They do not help us to
understand a complex, sophisticated and obscure culture. If we are willing to speak
of evolution, and not a change in style by Kuma after 1991, this can be explained
with a paradox: Kuma felt that by creating «an architecture of chaos placed in such
a context (as the city of Tokyo) would blend in with the surrounding chaos and
disappear»6.
Without wishing to imagine repentances or successive choices dictated by a change
of style at the global level (the end of the post-modern period), it appears to me to
that a work as strong as the M2 represents a young architect’s desire to ask himself
questions, «thoughts for meditation – as Martin Heidegger would say – something
that provokes, or irritates and upsets, with an aim towards possible dialogue»7.
It is this dialogue that Kuma has always sought to create with the city, without
adopting a vaster environment of reference (precisely the city), and evaluating the
object-work of architecture within an urban context. This is because it would only
enlarge the environment of reference, creating a hierarchy and a control of
architecture that Kuma instead sees as particles that fluctuate in a condition of
ambiguity and indeterminacy. It is the method that he employs to dissolve the
object-work of architecture. The object is thus fractured into relatively small
particles, which must be freely suspended. In order to avoid their condensation it is
not possible to assume an urban point of view: «What we need to do is to break up
the objects called architecture into even finer particles. In this way, a rainbow-like
phenomenon will emerge»8.
The result is that the particles and the whole are disassociated. This separation is
the condition that Kuma searches for: he wishes to design the particles and the
terrain beneath our feet. The city is thus this terrain: «I design the ground by
creating a slight mound of earth, laying gravel or walking on thick soles»9.
Dialogue, once again in a Heideggerian manner, is also what Kuma intends to
establish with his materials. He quickly abandoned reinforced concrete, or better yet
the «concrete method»10, about which more will be said later.
Returning to the M2, if we define the years from 1986 to 1991 as the “period of
chaos”, this work appears to be highly representative of this period. With the help of
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electronic technologies, an effective instrument for generating chaos given that it
dissolves any territoriality or hierarchy in an instant, every form is uprooted from its
origin. It does not matter if it is classicism or modernism: in this case the ionic
capital, details from the skyscraper by the Russian constructivist Ivan Leonidov and
memories of Piranesian ruins are all manipulated, enlarged some hundred times or
re-proposed using other materials because they are considered as «independent
parameters of form»11. Thus if Tokyo represents the image a chaotic city in the minds
of many, an architecture of chaos mixes with this environment and disappears.
For Kuma disappearance is a recurring theme.
«I want to erase architecture. I have always wanted to do so, and I am not likely to
ever change my mind. How then can architecture be erased? I used to think that if
I created an architecture of chaos, architecture would disappear... Electronic
technology is quite an effective tool in generating chaos... Modernization is
synonymous with a process of deterritorialization. Electronic technology merely
forces us to acknowledge where that process has taken us. Electronic technology
enables us to create chaos with unparalleled freedom and speed... Wheter or not a
work disappears depends, not on the state of chaos of the work in question, but on
the direction and frame of vision of the person doing the extracting. The problem, I
discovered, was not the object but the subject»12.
Kuma’s interest would soon move from the object to the subject. From here his
design process would lead him to avoiding the possibility that the object-work of
architecture appears, inverting the direction of his vision.
In a 2002 article in “Abitare la Terra” entitled “Erasing Architecture”13, I sought to
understand how the study of the technologies that create the mental structures
(brainframes) that frame our brain14, made by the celebrated media theoretician
Derrick de Kerckhove, could be tied to Kuma’s work. De Kerckhove maintained
that alphabetisation led our brain to classify and combine, as we do with the
alphabet, privileging sight over the other senses. The Western representation of
space derives from the alphabet: «that is, a system of organising the visual field
that calls for an orientation of our view towards the right. Our eyes are divided into
two parts, left and right. The left side captures the world and the right side
analyses it. As our left hand picks up a loaf of bread and the right hand cuts it, the
organisation of the brain functions in such a way that the left portion is specialised
in capturing the entire dimension of the “spectacle”, while the right side is
specialised in “cutting”. From the moment in which this lateral movement in the
visual field takes place through the alphabet and beginning with the Greeks, there
is a movement towards the right, the principle of “cutting” begins to become
dominant over the principle of “capturing”. The ordering of space thus becomes a
dominant principle and corresponds with the division between the subject that
“watches” and the world that is being watched and made spectacular and which
becomes an “object”. The “observer” becomes the political, social and psychoanalytic
subject, and everything that goes along with this. In order to guarantee the very
existence of the object, space must be absolutely fixed…»15. De Kerckhove
maintains that the deep roots of perspective and the analysis of space and time
serve to guarantee the fixed nature of space and the objectivity of the world, based
on the liberty and autonomy of the subject: «The landscape is part of this stabilising
of space, in the same way that the portrait is part of the stabilising of the private
identity that begins after the Renaissance. This does not mean before this historical
phase there was no private identity, but with the Renaissance being a private
person became the norm»16.
According to de Kerckhove the world is a landscape in movement, generated as an
illustration of the mind of the user. For the ancient Greeks, a breath was the point
of perception of the word, of listening, of the other. The same is true of visual
perception, before the alphabet, it was not in the mind but in the ϕρενεζ (the chest)
and in the lungs and we breathed experience. When the alphabet was invented there
was a verticalisation of experience that passed from the “pneuma”, the breath, to the
“psyche”, the soul. This is the moment of separation between the body and the mind.
The point of view creates a distance between the subject of the perspective and the
object that is the perspective: «The pre-literary breath of the Greeks works with the
experience of an exchange, and electronic interactivity is a return to this type of
dynamic. In this way a passage takes place from the visual and spectacular
experience of the world to another experience that is entirely tactile»17.
Today, if the explosion of the world of writing has imposed its order and linear and
sequential logic, the implosion of the electronic world may introduce a parallel and
simultaneous organisation that brings with it a new sensorial integration: Kuma
explains that in a discontinuous world a visibly oriented civilization was on the rise,
while in a world rendered continuous by digital technologies, this is destined to
decline.
«Today we live in the neo-baroque» in the opinion of de Kerckhove because, as in the
baroque we live in a moment of historical and sensorial change, a doubling of the
experience of the senses, «the idea is that of using illusion to state that reality is
fragile, that it changes, this is the concept of the baroque and today we can say that
for us it is the same thing»18.
As the baroque artist sought to create pictorial reproductions of sensory experiences,
the work of Kuma, without necessarily increasing types and numbers of perceptive
frames (perhaps by introducing sounds, textures and smells), shifts from the object
to the subject, manifesting the three-dimensional totality that is know as space, and
which refuses any description. The object loses its hypertrophic nature: it is not to
be observed from the outside, but experienced from the inside. His buildings add the
tactile sensation to the visual one, similar to the effects of virtual reality. This gives
importance to the connections, cancelling the distance that is generated between the
subject and the object, cancelling architecture and designing, in its place, a space.
This is what happens on the island of Oshima (prefecture of Ehime), in the internal
sea, with the Kiro-san Observatory (1994). A fissure in the mountain (within which
the observatory is lodged) is the act that permits Kuma to not create any object, to
not camouflage the object in order to make it disappear, to render the object invisible
because the direction of the vision is inverted.
The mountain had previously been cut horizontally, transforming the plane into an
observatory park. Kuma’s intervention first restored the mountain to its original
form. The fissure was then recreated, but this time it drops down into the earth. The
cut is thus the only thing that one sees and visitors begin and end their journey
within this cut in the mountain. Visitors broaden their vision of the environment
through the cut, which also frames their view. The aim here is that of transferring
the fundamental concept of an extruded object into an intrusive fissure: that which
was once observed has now become the act of observing.
Much later Kuma will say that his objective had always been that of «giving life to
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buildings that were not simply independent objects, but rather “openings or
cavities”. If we compare a building to the human body, the most important elements
are the internal organs: the “openings or cavities”. The cavities constitute the
interfaces: it is through them that we achieve communication between the interior
and the exterior. This explains why the skin that wraps a cavity is made up of
delicate membranes that allow for the entrance and exiting of only the most
necessary substances»19.
The observatory also contains a series of monitors. Looking inside the monitor the
visitor becomes aware of being inside the screen, controlled by a hidden video
camera. This device forces the visitor to consider the fact that seeing is being seen
and vice versa. The observatories were built to create the privilege of observing and
controlling the world through specific objects and lenses. However, if seeing is being
seen, observing is being observed. The individual equipped with the power to
observe finds himself to be impotent while he/she is observed through another’s lens.
As an experiment that inverts the role of an object and which turns space into
environment, the project continually challenges a concept that is imbricate in our
everyday lives.
The idea that the monument is secondary to the space was one of the lessons that
Kuma learned from his other master, Yoshinobu Ashihara. Or better yet, from the
building for Sony that Ashihara built in 1966 in one of the densest corners of Tokyo’s
Ginza neighbourhood. This building, with its square plan on multiple levels –
connected by a tower that contains stairs and elevators – together with the nearby
Shizuoka Press and Broadcasting Centre by Kenzo Tange (1967), was one of the
landmarks in this neighbourhood.
With regards to this building, Kuma appreciates the designer’s intention to leave a
part of the site unbuilt, (notwithstanding the incredibly high value of the land), and
to create a public square. The most important thing is thus the design of space for
people (human spaces).
Kuma appears to share Heidegger’s position about making space: «“Making space”
means culling, to make free, to free up something, to create something open. Only
when space makes space and renders open that which is open, space grants, thanks
to this openness, the possibility of creating a neighbourhood, of nearness and
detachment, of directions and limits, the possibilities of distance and the large
scale»20.
For Kuma architecture must not seek to force people to live inside. On the contrary,
through that which he calls the “garden method”21 architecture must resemble a
garden, without walls or windows that divide up the views.
This is where his first vision begins.
vision n.1
THE GARDENER IS A PRISONER IN THE GARDEN
«The gardener is forever detained in the garden. It is not simply that he has no
viewpoint outside the garden or in some privileged position: He is forever occupied
with watering, ridding plants of bugs, weeding and replanting, and the garden
would cease to exist if he stopped: His existence is synonymous with the existence of
the garden, and in that sense he is a captive of the garden. There is no distance
between him and the garden. The subject and object are joined and continuos. He
could not steal a glance at the garden even if he tried. Time stops while we engage in
the act of looking at or taking an image of an object. Time is made discontinuos and
does not flow in that interval. On the other hand, the gardener is held captive inside
the garden and is unable to stop the flow of time. There is no completion for a garden.
Time continues to flow forever»22.
All too often the theme of interior-exterior is dealt with superficially in the world of
architecture. What I intend is that it is dealt through the surface, the façade, the
skin and the envelope.
In most cases the question is posed in terms of the reduction of the thickness of the
façade that, stripped of its monolithic nature, is renewed, with the help of new
technologies and materials, through minimum thicknesses or a collection of multiple
layers. These have the function of rendering the meeting point between interior and
exterior the point at which a series of exchanges are developed. We can say that it is
the point at which these things take place. Light and the exterior environment enter
the interior of the building by degrees: visual degrees, levels of luminosity, tactility
and temporality. At this point, within this package of technology, relationships and
conflicts are created between an exterior that wishes to enter and an interior that
wishes to exit. In Japan this theme does not stop at the façade, but deals with the
functional organisation of the entire building. It is a recurring theme in Japanese
architecture that has remained unchanged throughout the centuries. In some cases
the materials change, though, for example, many Japanese constructions continue to
feature the archetype of the engawa (the veranda that runs around the house). It is
a cantilevered platform on supports, covered by the slope of the roof: this is the
engawa, the intermediate space par excellence, so well described by Kisho Kurokawa:
“it has a roof and thus it is interior, it is without walls and thus it is exterior»23.
This tenuous and ambiguous edge is even more present in the culture of
construction in Japan, certainly a result of the fact that, throughout its history, the
figure of man that has been modelled by Oriental culture has not moved away from
himself or from the natural environment to which he belongs. In the inspiring text
by Alan W. Watts, “Nature, Man and Woman”, the theme of the separation between
man and nature, of the internal and external surfaces of the world are dealt with
through a consideration of Chinese culture, the idea of Lao-tzu and Chang-tzu, thus
with oriental origins, and Christian philosophy and the psychology and sciences of
the Western world. The theme of the subject and the object, in the poetics of Kengo
Kuma, become a central focus in the story told by Watts. Until awareness is
evaluated based on its objectivity, that which we will be able to understand will not
be in reference to ourselves: «Thus we have the feeling of knowing things only from
the outside, never from within, of being confronted eternally with a word of
impenetrable surfaces within surfaces within surface»24.
However, the problem is that human beings and objects do not live in a separate
world and the divisions between subject and object, sprit and nature, mind and body
are perceived to an ever-greater degree, in the words of Watts, as clumsy linguistic
conventions. Thus, if all actions reveal themselves to be interdependent, in a
complex state of a subtle equilibrium like an infinite node, it is useless to make so
much effort to seek a point from which to unravel it and place it in some presumed
order. What becomes important then is a world of relationships, where things are
understandable under a single condition: as part of an uninterrupted unit.
«In such a word it is impossible to consider man apart from nature, as an exiled
spirit which controls this world by having its roots in another. Man is himself a loop
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in the endless knot, and as he pulls in one direction he finds that he is pulled from
another and cannot find the origin of the impulse. For the mould of his thoughts
prevents him. He has an idea of himself, the subject, and of nature, the object. If he
cannot find the source of the impulse in either, he is confused»25.
In the world described by Watts, there is Kuma’s gardener, imbricate within the
garden. If we admit to have lost the ability to feel nature from the inside, we can
consider the garden method described by Kuma as a possibility for rediscovering an
uninterrupted unity between ourselves and the world.
The practice of gardening, as a non-visual methodology, is very different than
landscaping26: a methodology where the designer is outside of the landscape,
visually observing and manipulating the scene. Vice versa, in gardening there is no
privileged position from which to observe the scene.
The story of the gardener corresponds with the silent contemplation of kuan, about
which it is once again Watts who speaks. This is the thoughtless observation of
nature «…things are brought into order regarding them from a viewpoint
unrestricted by the ego, since their li or pattern cannot be observed while looking
and thinking piecemeal, nor when regarding them as objects apart from oneself, the
subject»27.
Kuan is the means of observing in silence, openly and without any particular result.
The heron described by Watts, entirely immobile and looking at the water from the
edge of a pond, «it does not seem to be looking for fish, and yet the moment a fish
moves it dives»28 is, in my opinion, the gardener described by Kuma, even if the
latter, unlike the heron, is part of an endless activity. The similarity lies in the fact
that in both cases their means of observing is devoid of that duality between the
observer and the observed: there is only watching. This is true because there is no
scene to observe, the gardener is the scene, he is the garden. While he observes, the
heron is the pond.
Perhaps in this way it is easier for us to understand when Kuma states that we wish
to be ever more involved, that we wish to be on the inside. In a new world gardening
will demonstrate significant powers. However, Kuma pushes us even further,
imagining an architecture that «will take orders»29 from the artisan techniques of
gardening.
He lovingly contemplates a world in which everything will be continuous and in
which it will thus be difficult to design architecture as we continue to conceive of it,
that is by making it coincide with an object. «There will no longer be any reason to
perform the simple act of creating an isolated object (i.e. the work of architecture)
and communicating its originality to the world at large, and an architect will have
to go to the trouble of cultivating his own little patch in an allencompassing and
subtle continuum. Our immediate task is to adopt the pastoral and craftsmanly
techniques of gardening to that complex and difficult world»30.
Electronic technology will be a source of great energy. For this reason the garden
method becomes digital gardening: it indicates that the architect will cultivate his
small digital garden. The word digital defines the possibilities offered by electronic
technologies that, as has been said, have rendered a discontinuous world
continuous, expanding the approach represented by gardening.
Digital technologies suggest a different organisation that is parallel and
simultaneous, and de Kerckhove has explained that the linear-sequential order and
logic of the written world will be surpassed.
Kuma’s buildings are not made to be looked at from outside: we must be inside the
Kiro-san Observatory, the Water/Glass and the Japanese Pavilion at the 1995
Venice Biennale.
In the specific case of the Japanese Pavilion in Venice, Kuma emphasises tactile
quality to such a point that the architecture itself appears to be subordinated to the
sentiments of people and experience. In some way, Kuma’s design approach makes
him unsure of whether or not a Westerner can understand it: «The day of the
inauguration of the Japanese Pavilion at the Venice Biennale, people were
complaining that they had to take off their shoes to go inside! This created some
confusion. The organisers at the Biennale asked me to allow visitors to keep their
shoes on and this to me to represents a substantial difference between Western and
Japanese culture. Walking barefoot offers a more profound sensation, an experience
of architecture that is outside of or beyond architecture itself. Westerners appear to
understand Japanese culture only as a style, for example the use of floor mats, the
tatami. However, the use of the tatami changes the perception of space and this
places the basic certainties of a Westerner in discussion. When I lived in America, it
was only with great difficulty that I managed to find two tatamis and every time my
friends came to my apartment the first thing we did was sit on these tatami: I
quickly understood that this was the best space for a confrontation between different
cultures. Furthermore I believe that observation from a lower position is very
important for architecture. I have a special connection with the floor: when you sit
on the floor, the body and the floor come into constant contact and thus the floor for
me is the most important element of architecture. Only rarely do we touch walls, but
we are constantly in contact with the floor»31.
From Kuma’s words we can understand the attention he pays to the horizontal
plane. Once he has abandoned the idea of architecture as an object, the instruments
of his work are concentrated essentially on man and the design of the horizontal
plane upon which the body is placed.
«The body must be placed on a horizontal plane; the space must be thoroughly
grounded and possess only internal views. Only then is it possible to plan a garden,
be it indoors or outdoors…A garden transcends every boundary. I would like to plan
everything as a garden over which the body moves and particles drift»32.
The particles that fluctuate…and here we begin the second vision.
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vision n.2
THE PARTICLES
«Imagine fine particles floating over the earth…The closest thing to such a condition
is a rainbow. A rainbow is not an actual object, and that is what makes it attractive.
A certain relationship established between particles of water vapour, the sun and the
observer (i.e. the subject) generates the phenomenon we call rainbow…What we need
to do is to break up the objects called architecture into even finer particles. In this
way, a rainbow-like phenomenon will emerge…The particles must therefore be small,
freely scattered and responsive»33.
Everything that we perceive are phenomena. They are not objects but phenomena.
Kuma maintains that, nonetheless, we are still under the illusion that perception
depends upon the existence of the object, with the result that we consider the world
to be a collection of objects and that we force ourselves to produce that fiction that
we call the object, in order to recreate the world. Today, however, dissolving the
object is no easy feat. In order to come to an understanding of his words and the
reason why he wishes to fragment the object into fine particles, Kuma uses the
example of the Ise Shrine Shinto Temple. This Japanese example is often mentioned
in order to demonstrate this population’s absolute lack of attachment to the material
object and the importance that is given more so than to the object, to the process
through which it is realised.
Kakuzo Okakura, a poet and Oriental scholar, wrote the “Book of Tea” in 1906, in
English, in order to present Westerners with aspects of Japanese traditions and in
order to explain the nature of Oriental culture through the symbol of tea. In his
book, necessary reading for anyone who wishes to understand Japanese culture, he
explains, amongst other things, how the Taoist conception, based on which
immortality lies in continual change, permeated all forms of thought: «It was the
process, not the deed, which was interesting. It was the completing, not the
completion, which was really vital»34.
For those of use who live in the Western world, it is almost incomprehensible to
imagine the regular demolition and reconstruction of a masterpiece, such as the Ise
Temple, something that took place in Japan every 20 years. Even more surprising
is that the reconstruction did not take place on the same site. The world of Japanese
construction is in constant movement. If the origin of this reconstruction is based on
the decay of materials, later this habit took on a symbolic meaning within
Shintoism. Time is represented through movement.
Kuma uses this example to demonstrate how the shrine exists only as a phenomenon:
through the act of its reconstruction. The reconstruction ceremony demonstrates that
what appears to be a collection of objects is, in fact, only an illusion. However, Kuma
tells us to beware of how difficult it is to dissolve the object toady, as surrounded as
we are by social systems and institutions based on the object. The function of the Ise
Shrine reconstruction ceremony every twenty years is a means of remembering that
we must step away form the illusion known as the object.
«Matter exerts a powerful influence on consciousness by taking on the tangible form
called objects. When that form is rejected, matter and consciousness become free,
like a kite whose string has been cut. To the consciousness, matter, drugs, illusions
and digital information all seem equally true»35.
This separation (between matter and consciousness) does not cause him any
problems. The illusions, the images and the rainbow are, as matter, instruments of
his work. Separation offers this liberty.
The Water/Glass (1995) is certainly one the most well known of Kuma’s works,
marking a shift in the use of reinforced concrete to the use of a structural steel
skeleton. It is one of the first works where he adopts, other than the theme of the
inversion of vision (already dealt with in the Kiro-san Observatory) a design process
that leads him to design a building that is a light sensor. He does this by using
stainless steel fins and a structure made up of horizontal planes: he transforms the
roof into a digital screen for filtering sunlight. By day the light that passes through
the screen bounces onto the vertical and glass surfaces and the horizontal surfaces
in glass and stone, with ever changing reflections and refractions that contribute to
immersing the building in what Greg Lynn calls: «a liquid digital space»36.
At night the same paved surfaces appear to be illuminated by the light captured
during the day, giving the sensation that they release it into the darkest depths of
the ocean.
The house floats above a pool of water that cascades down from the roof, eliminating
the edge of the pool that dissolves with the water of the ocean.
Water and light form a continuum that blurs the edges: the edge becomes vague and
ambiguous.
In the Water/Glass, Kuma creates a space composed of two horizontal planes, the
pool of water and the fins of the roof: between them lies a fluid and transparent
space-time. Mutating the Japanese tradition of a system of horizontal planes as an
instrument that dominates space, in the Water/Glass the subject and the object coexist within a continuous space. There are no walls and windows to create a frame
between the subject and the object, freezing space. On the contrary, by introducing
the parameter of time within the building, in addition to that of space, Kuma
produces a sequence and a velocity within a continuous space: «Planning is not a
matter of simply partitioning off spaces in accordance with a prescribed schedule of
floor areas. That is only the planning of spaces; time will never flow through such
spaces. By planning a floor, however, one intervenes in the action of the subject
moving over the floor; one does so by means of levels, slopes, and frictional
resistance. That makes it possible to plan simultaneously both space and time»37.
In an essay dedicated to the work of Kuma, Greg Lynn underlines how, in this
project, the special effects are achieved not through the single properties of
materials, but through a combination of reflections, translucency and filtering
between materials. These are the multiple screens that transform the luminous face
of the sun into a grid of points.
According to Lynn, Kuma’s screens, which are split, perforated and cut, transform
the clarity and the distinction of the surfaces and the planes, typical of modern
architecture and the minimalist approach, into an intertwining or weaving that is
closer to the sensibility of the neo-Impressionist period know as pointillism38.
In seeking to replicate the effects of digital technologies, Kuma’s architecture,
certainly inspired by an awareness of information technologies applied to the
discipline does not remain trapped in the domain of the digital, but translates the
liquid space mentioned by Lynn into concrete materials.
In his successive works (such as the One Omotesando building for the luxury
multinational LVMH, the museum dedicated to the painter Ando Hiroshige, the
Ginzan thermal baths and the museum of stone), he will continually seek to
transform solid material into a substance that is closer to a cloud that dissolves into
particles.
The fragmentation of the object and the production of particles that move freely
and in different directions demonstrate the relationships between Kuma’s first
buildings and his later works. Already, in the aforementioned M2 Kuma sought to
fragment the concrete mass, introducing images of classical architecture in order to
disarticulate and disperse them like particles: a further demonstration of the
uselessness of that criticism of his period of chaos discussed at beginning of this
text.
Vice versa, the playfulness of that gigantic ionic capital in 1991 contains pieces of
exploded culture, about which it is once again de Kerckhove who speaks when he
says that they are pieces that: «mix with architecture and design and become part
of the artistic and stylistic life in our era. Postmodernism is the fall of the pieces of
culture without order, based on a sense of play and lightness…»39.
One element of the M2 that Kuma was quick to abandon was the use of concrete. We
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already see in the Water/Glass that it is light, stone, the Pacific Ocean in front of the
Atami Bay and stainless steel that surpass this use of concrete.
There are other materials: loved, deliberate or not sought out, that are ready to be
cut or folded or woven. They are materials that, in his hands, become instruments
for his visions.
opposite of concrete that possesses only an external surface. It is from this
consideration, that is the difference between skin and external surface, which we
can begin to understand Kuma’s method of selecting materials. For the Bamboo
House 1 in Japan he had used bamboo stalks as disposable formwork (for the
pouring of cement) and it was thus important to properly prepare and work this
material. For the latter project, however, (where the stalks, once they had been
hollowed out, became the skin that covers steel bars) it was important to consider,
above all, the method in which the material was placed: the rhythm of the stalks, in
relationship to their diameter and their vertical and horizontal placement. In both
cases it is within the bamboo that he finds the solution for the use of this material.
In that interior, he searches for the soul of the bamboo.
There is always an object or a site that stimulates Kuma’s imagination: in China it
was the Great Wall. For the Shizuoka Expo Gate Building (2004) it is a walk
through a bamboo forest.
For this building, a gateway to a temporary flower exhibition, Kuma creates a vague
and undefined entrance. While the entrance to an exhibition is generally considered
an instrument that clearly separates the interior exhibition space from the exterior,
in this project, on the contrary, Kuma designed an entrance that creates a
relationship between the building, the natural space that surrounds it and Lake
Hamana. The space, rendered continuous by the absence of walls, is occupied by a
shower of bamboo stalks.
The rain that falls…this is the beginning of his fourth vision.
vision n.3
PRINCESS KAGUYAHIME
«In Japan there is a famous children’s tale about how Princess Kaguyahime, the
Moon Goddess, was born inside a stalk of bamboo. People believed the story that she
was born inside a stalk of bamboo because bamboo has a particular type of skin and
possesses a soul»40.
The fable that Kuma speaks about is contained in “The Tale of the Bamboo Cutter”,
a text by an anonymous author from some time around 909. It speaks of an old
woodcutter who, while walking in the midst of a forest of bamboo, catches sight of a
flash between the stalks and notices a creature no taller than three inches. He and
his wife take the creature in and raise her as their daughter. In only three months,
(a clear reference to the rapid growth of bamboo) the child becomes a splendid
woman, courted by every eligible suitor. However, she has come to earth to atone for
a preceding crime and, given her non-terrestrial nature, she cannot share her
destiny with a human, she cannot be won over by anyone. She frees herself from her
suitors by creating challenges that are impossible to solve. Finally free from any ties,
Kaguyahime returns to the moon. The only testimonial to her passage on earth
remains «that smoke that still rises to the clouds today»41: Mount Fuji.
In his first work in China, a residence for employees of the Embassy in Beijing, near
the Great Wall, involving thirteen Asian architects to build thirteen residencehostels, bamboo is used throughout the building.
Many Japanese architects have a special passion for this material and its use: Shoei
Yoh creates splendid roofs that are generated by weaving bamboo: a curved threedimensional surface, covered by a layer of concrete that dematerialises until it
becomes as light as a bed sheet.
Kisho Kurokawa longs for an Eco Media City, a city that is conceived of like a
network, a system of small scale, though highly advanced cities, crossed by forests
of bamboo that allow for a symbiotic relationship between the environment, man
and technology.
During one of our meetings Kuma explained to me that one of his motivations for
choosing this material is that it represents a cultural and biological exchange
between Japan and China.
However, it is above all the strength of the Great Wall that inspired him, even in the
choice of the name of the project. For the Great (Bamboo) Wall (2002), the use of the
word “wall” instead of “house” denounces Kuma’s interest for that colossal tongue
that unrolls, almost endlessly, along the ridges of the immense Chinese landscape.
A wall, this time created by Kuma, that in this case is not constructed to divide two
populations, but on the contrary to unite Chinese and Japanese culture.
Once again he chooses not to realise a work of architecture-object within the
landscape. In its place he designs a screen (wall) along the slope of the site.
The story of the Princess Kaguyahime is important for understanding the passion
that Kuma has for such a delicate and simple material that features a skin, the
vision n.4
THE RAIN AS DRAWN BY ANDO HIROSHIGE
«A sudden and violent downpour surprises the travellers and the palanquin bearers
who are climbing up the hill, and a peasant, with his hoe on his shoulder, who walks
along the slope, accompanied by a figure who takes shelter beneath his umbrella. The
rain obscures the rows of bamboo trees that bend beneath the force of the wind and
water»42.
Andô Hiroshige (1797–1858) is one of the most important artists of ukiyo-e. This
term, which can be translated as the “transitory nature of everything” or the
“fluctuating world”, describes an art that marked the passage from the feudal era,
characterized by the formal values of chivalry and obedience, to a modern society,
steeped in hedonism. Nature represents a factor of worldly enjoyment: Hiroshighe’s
landscapes, bridges and rivers are immersions that physically and sensually
partake in creation. The artist created his compositions using a natural perspective,
(Western perspective was not yet know in Japan) that is born, as Gisèle Lambert
tells us: «from a play with of horizontal, vertical, diagonal and lateral structures, of
planes that overlap and spread in depth, battling and knocking against one another
until they create a form of imbalance»43.
Kuma states that Hiroshige Andô’s works: «place things in black and white,
including light and wind, snow and rain. He represents the rain using vertical
lines… It is an arduous role to represent nature, providing a singular visualisation
of variable phenomena. Hiroshige managed to express, with success, its changing
into something material, choosing natural elements with clear characteristics,
combining colours»44; Hiroshige thought of something that was very close to nature,
but at the same time created by man: very thin lines.
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It is the lines in India ink drawing “Rain on Travellers” by Hiroshige that inspire
Kuma. He wished to translate the method and the philosophy of an artist that
strongly influenced the masters of Impressionism into space. The Bato-machi
Hiroshige Museum (2000), built to house and display the artist’s prints, is developed
based on the surrounding landscape: the entrance and the gallery open towards the
landscape that is rendered suggestive by the panoramic views of the mountains.
The museum is made up of a series of screens of wooden slats, located on the sloping
roof and the walls. Based on the changing light, which filters towards the interior,
the screen also changes it’s appearance. In some cases the screens transform into
solid, translucent surfaces, other times into transparent ones. By designing an
architecture based entirely on a system of screens, Kuma wished that the building,
as with the Water/Glass, would become a light sensor. An expression of the way in
which Hiroshige described the mutability of the natural elements.
The wooden screens in Japanese cedar wrap the building like particles that densify,
with the aim of creating a cloud that fluctuates in the landscape.
Other screens, again in wood, create spaces of communication between the river, the
road and a thermal bath (onsen), sited near a natural spring of hot water located in
a historical district along the Ginza River in the prefecture of Yamagata.
In the Ginzan Bath House (2001), the space of the road and that of the building
would lose their depth if the building were not closed in by a wall. Once again the
Japanese sensibility that refuses the separation between interior and exterior has
allowed for these spaces to interact and reciprocally influence one another.
When his buildings leave behind the suggestive Japanese landscapes of the recently
described projects and moves into the dense urban agglomerate of Tokyo, Kuma
does not give up on cutting up material.
For the One Omotesando (2003), the glazed façade along one of the most fashionable
streets in Tokyo (the Omotesando Dori) is screened by wooden slats that establish a
dialogue between the road and the rows of zelkova45 trees. Walking alongside the
building, the subtle vertical lines in laminated larch wood appear to float and
vibrate under the effects of natural light. Again in this building Kuma creates an
ambiguous condition and dissolves the simple geometric volume by spreading the
substance-wood everywhere. As he has forcefully stated, he does not create an
architecture of particles, but a condition of particles: «That which I see in terms of
future potential is not architecture. Before defining a style, what I want to do is to
create a certain type of site and a certain type of condition that can be experimented
with the human body. Beginning with a human sensation, I want to arrive at an
architecture that uses everything, from traditional techniques to the most advanced
technologies»46.
Conclusion
THE DREAM
«When I was a university student, I had the opportunity to visit a house designed by
an architect and built in exposed concrete. I knew it from photographs in a magazine
and I thought it was beautiful and fascinating. As soon as I set foot inside, however,
I instantly felt that something was not right. Without a doubt something was not as
it should have been. When I entered boxes like these, I could not breathe, my muscles
tightened and my body temperature dropped suddenly. I do not know what caused
these types of reactions. Perhaps they were caused by the fact that I was born and
raised in a Japanese house made of wood, built before the war. […] It was simple and
well ventilated; what is more, both my grandfather and my father so hated the
artificial texture of the aluminium windows that when the time came to increase the
size or renovate the house, they permitted only the use of wooden fixtures, that
allowed for the passage of drafts of air. Naturally reinforced concrete was pleasant
enough to the eye, but my other senses, used to the house in which I grew up, could not
manage adapting themselves to the idea of the box in exposed concrete. I wanted to
escape from that space, as quickly as possible, in order to fill my lungs in the open
air»47.
The analytical measurement of nature does not lead us anywhere if it remains the
only means of looking at it. The serial perception of the world, one thought after
another, is no longer of any use. The space-time separation renders us prisoners of
a blocked space.
To conclude this trip through the poetics of Kengo Kuma it appears to me that one
phrase is central in the work he has completed to date as, I imagine, can be said for
his future works: «the most interesting architectural possibility is living in contact
with materials»48.
This sentence wishes to say two things: Kuma meets materials and meets with
people.
In his hands materials become soft: even stone is transformed into a cloud. He even
manages to extract effects of transparency from 6 mm thick Carrara marble.
This happens in the Stone Museum (2000), located in the prefecture of Tochigi,
where Kuma had to deal with two unusual themes for Japanese architecture: stone
and restoration.
While the use of stone generates a building-mass, as expressed in the Western
concept of matter, in this museum the local (Ashino) stone becomes the
interpretation of the lightness of traditional Japanese buildings, producing
continuity between the interior and exterior. In close collaboration with the client
and the workers from his factory (where the stone is worked), Kuma managed to
create a system of subtle stone fins (40 x 150 mm, and 1.5 m long), developing, in the
three buildings that, together with the existing ones, make up the project, a new
possible use of this material. Through techniques that have been experimented for
the first time with this project, he created a wall where he removes one third of the
fins, lightening the wall and fragmenting the traditional solidity and heaviness of a
wall of stone.
This method allows him to ensure that the stone is not used as a finish, thus shifting
the use of this material from what he calls “the concrete method”.
This method ignores the material and its substance: «In a world dominated by this
method, the material is nothing other than a means of mapping the texture applied
to a surface, it is only a skin of some 20 mm, a finish applied to concrete. In similar
conditions stating, with enthusiasm, the “importance of the material in itself” has no
meaning»49.
In this project, as substantially in all of his professional experience, he has sought
to avoid the use of concrete. A material that governs the world and dominates
architecture around the globe, according to Kuma, not because it is beautiful, but
because it is universal: in order to use it, it is enough to be familiar with the system
of constructing formwork.
The great Kanto earthquake of 1923 and the destruction caused by the Second
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World War erased the Japanese city in wood, favouring the prevalence of concrete
constructions: «This decision not only modified the appearance of the city, it also
destroyed the culture and undermined the spirit of the Japanese people. Buildings
in rough and heavy concrete overcame the delicate Japanese sensibilities created by
conditions of conflict that were ever more open to the natural environment. The idea
of respect for nature was lost when it became a simple object to be conquered and
transformed»50.
The air that came through the cracks in the windows, the wind that blew beneath
the houses that were slightly raised above the ground, the smell of wood in the city
have all disappeared. It is as if, in a certain way, in a city built entirely of wood and
paper, crossed by a good distribution of wind, that the doors and windows were
closed forever. The subtle breeze has ceased to blow.
The fragmentation of the object, the particles that move freely, Kuma’s fins, all seek
to cause the air to circulate once again.
This is the means of reading the “honesty of material” that he proposes.
The honesty of stone, for example, while it breaks the distinction between structure
(concrete) and material (finish), returns to being a substance.
This concept is what inspires the “Food and Agriculture” Museum at the Tokyo
University of Agriculture (2004) in Tokyo, a large institution that contains exhibition
spaces, laboratories and facilities for fertilisation. In front of this building lies one of
the most beautiful rows of zelkova trees in all of Tokyo. The initial proposal was that
of synchronising architecture and nature by placing stone brise-soleil between the
trees and the building. The brise-soleil in Shirakawa stone were placed along the
southern façade in order to control natural light and, as a consequence, the
conservation of energy. Kuma also used 35 mm stone slabs, fixed to a 36 mm
stainless steel plate with stainless steel bolts to distance the two materials. Every
joint, every detail of the construction system of the brise-soleil is exposed and allows
for a glimpse of glass, concrete and other layers. The aim of the project is that of
achieving transparency using natural materials, employed in an “honest” way.
The Nagasaki Prefectural Art Museum (2005) has the same aspirations. It faces the
city’s port: an interface building between Nagasaki and those who visit the city. It is
a bridge between land and sea, building and park (the roof has been transformed
into a park) and transparency and opacity. The union between the antithetic
elements is achieved through the use of 30 mm thick Brazilian granite brise-soleil
fixed to steel columns. Once again Kuma avoids the “concrete method”: in order to
take advantage of the force of the stone in the building, he decided not to use it as
cladding, but to make it float in mid air, separated from the structure in lightweight
steel. «This detail allows the powerful presence of stone to coexist with the
transparency of space»51.
From stone to earth.
In the Adobe Museum for Wooden Buddha (2002) building, created to house and
exhibit the carved wooden statute from the Hein52 period by Timber Amida (an
important part of the Japanese cultural patrimony), he creates a purely natural
building.
Through the technique of Hanchiku53 (one of the most ancient building systems in
Japan), this time he creates a dialogue between the built form and the natural form.
He designs a semi-architecture.
He uses this technique in a simplified form, which he calls Hanchiku block: by
dividing up the natural material (the earth on which the building sits) into small
blocks, he creates a wall. The result is a lightweight architecture, made of soft and
tender materials taken from the site and, for this reason, so strongly tied to the
earth and the site as to refuse any character of universality, which, on the other
hand, would be masked by the use of concrete. The work of architecture is thus born
of the earth, like grass; or, better yet, the terrain is converted into architecture:
«Inside this box made of earth, every modern premise and supposition is overturned
and fragmented. In the first place, the earth is both structure and finish, with the
resulting dissolution of the separation between the two. Furthermore, the elements
of the building… that control the effects of temperature and humidity of the human
body are also entrusted to the earth that, thanks to its ability to regulate
temperature and humidity, functions as a regulator of climate. It would perhaps be
more correct to state that these different elements are not “strung together”, but
layered. The term “string together” contains the image of vertical and hierarchical
layering, while that which I see as ideal is a horizontal layering along a single plane
that is devoid of hierarchy. The body awaits a form of this type of layering:
horizontal layering finally allows the human body to be free. The “order” based on
which the strutture is established first, followed by the building systems and the
equipment, and later followed by the choice of finishes, totally loses meaning. There
exists only the materiality of the substance that is present before the body»54.
We could certainly object that in such a small box as the building described above (a
rectangular plan of 8.1 x 7.2 m, with a height of 7.75 m) it is easy to control these
systems. We could also state that the material of the Adobe Museum for Wooden
Buddha site allowed for that which would be impossible elsewhere.
However, this is not the point. We are not dealing with the stigmatisation of concrete
in favour of so-called “eco-compatible” materials. Kuma is very clear about this
point: «I do not in any way use the rhetoric upon which the promoters of “natural”
or “eco-compatible” materials base themselves… I do not feel I should place the label
of “eco-compatible” on 20 mm of superficial material applied on top of concrete»55.
We must focus on a new vision of material, in order to take some distance from the
idea of the Modern that was developed using the “concrete method”.
Kuma explains how the concept of eco-compatible is absolutely relative: based on the
variation of the environment of reference, a material can be either eco-compatible or
damaging.
During a meeting with the Japanese architect Shigeru Ban (speaking about his
humanitarian efforts as a consultant to the Untied Nations for the use and the
construction of shelters for refugees by making use of technologies of his cardboard
tube architecture56), he spoke to me about Rwanda in 1994. The United Nations had
provided only 4 x 6 m plastic sheets to this population, to be used as shelter: to make
use of these sheets to build shelters they were required to cut down trees and this,
at a scale of millions of refugees, would have further aggravated the problem of
deforestation. To avoid this natural disaster, which also involved the survival of an
already precarious balance, Ban intervened to create three types of temporary
shelters using cardboard tubes.
Through experimentation with new techniques and materials, a field where
Japanese architects have been active for years, it is perhaps possible to come close
to that renewed recovery of the spirit of respect for nature that is longed for by
Kuma: «We must discover new materials that substitute concrete and which can be
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used to build buildings, to create cities, to reform people’s sensibilities. It is a
challenge faced not only by Japan, but also by the entire planet, which must accept
it together. Why? Because I feel that without an instinctive respect for nature,
humanity cannot hope to survive the 21st-century. We must find something that
substitutes concrete: human beings need this, both physically and spiritually»57.
The works presented in this book have been collected by differentiating them in
terms of the materials used. Projects that use glass, wood, stone, plastic, earth,
bamboo and vinyl: in Kuma’s buildings concrete has not been abolished, but its
hypertrophic nature has certainly been cancelled and proposed only where
necessary.
The projects, all of which have been built, represent 15 years of his work, whose
beginning coincides with the creation of the office of Kengo Kuma & Associates in
1990.
Before moving on to the description of the projects, I wish to end with two unbuilt
works that, at a totally different scale than that of the building, present his visions
for a possible eco-system and the technique of minimising material, reducing them
to minute fragments.
Even when matter is the city. Where Kuma creates an infinity of holes in order to
permit the flow of air, in order to help people breathe.
On the tropical island of Miyako, (in the prefecture of Okinawa, the extreme south
of the Japanese archipelago), a new urban from is taking shape, constituting an
“interface” between man and nature for future generations.
This is the Eco-Particle project (1996). Infinite particles born of the explosion of
architecture, that rest on what Greg Lynn calls: «another kind of carpet of
architecture that has “particle-ized” into a mesh of points... points collect along
flexible surfaces to makes meshworks of varying densities»58. In the Eco Particle
project, one the one hand the surface of the forest is treated as an undulating veil of
material upon which to drop grains (that have no meaning on their own, but only in
their ties to the whole) that animate the “city below the trees” 59: on the other hand,
a veil of watery surfaces covers the entire city at the “bottom of the lake”60.
In the city below the trees, the structures are treated as grains of fine particles that
acquire meaning in their interdependence with the others. The grains are left to fall
in the forest, enriching the surroundings with meaning and favouring mediation
with nature.
The landscape is thus not seen as a series of unusual or exceptional elements but,
through a topological approach it becomes a fabric of varying patterns.
In the city below the lake, the intervention concentrates on the bottom of the pool of
water and a new layer of earth. The upper portion is covered with water, as if the
portion of artificial earth were of a natural origin.
The Grass Net project, presented at the Milan Triennale in 1996, consisted of a
network of parks within a dense residential district in Tokyo. In times of disasters,
parks can function as a network of refuges, protecting people, providing food and
lodging for those who are without. As proven during the Kobe61 earthquake, a refuge
(architecture), notwithstanding its solidity, does not completely protect the physical
well being of man. Nature is a source of life in Japanese history, upon which people
can rely for food and shelter, if necessary. The perception of nature is reproduced in
a contemporary form in the project.
Kuma, separating himself from that aesthetic of the vision which, in 19th-century
Europe proposed the design of parks with the singular aim of visual pleasure, thinks
of parks that function as resources for food, as emergency centres during
evacuations. A park that plays an integral role in the physical well-being of those
who live nearby.
The Grass Net is a network of parks that, like the internet network, is without form
but which is everywhere. As internet expands the capacity to think through the
connection of multiple minds, the Grass Net expands physical capacity by
connecting multiple bodies.
The project creates a form similar to the internet network. I repeat: without form,
but which is everywhere. The elevated degree of technological advancement (like the
internet) has demonstrated its efficiency in the protection of human needs. The
building, for Kuma, loses its function as refuge in favour of the expansion of the
cybernetic landscape that he sees as the source of human protection in the 21stcentury, and which leads him to predict: «Human beings will begin to live not within
a building, but in a garden instead»62.
The artisan techniques of gardening, once again become the instruments for
designing space.
His method of weaving a carpet of architecture and creating a building from the
earth, like blades of grass, gives meaning to the cry: “I want to erase architecture»!
We have seen how the hardest material can be rendered soft. Cut up into thin fins,
in order to accentuate its tactile qualities. In order to feel it vibrate.
However, his fins are not sharpened knives because, as Alan Watt reminds us, man
is not destined to be an intellectual porcupine that deals with the environment that
surrounds him by wearing a skin covered with spikes.
Kuma’s work, the idea of architecture, the sense of honesty that is set off by the
materials he uses and the participation that he asks of those who inhabit his works,
speak of a man who: «Meets the world outside with a soft skin, with a delicate
eyeball and eardrum, and finds communion with it through a warm, melting,
vaguely defined, and caressing touch whereby the world is not set a distance like an
enemy to be shot, but embraced to become one flesh, like a beloved wife»63.
There are also Kuma’s visions: the gardener who is intent on taking care of the
garden, the phenomena of the rainbow, the Princess Kaguyahime who springs forth
from the bamboo and the rain of thin lines by the painter Hiroshige are all opinions.
Images of a world that no longer believes in the unifying tales of modernity, in its
reassuring objectivity, where abstraction suppresses concreteness. The instruments
become vague, cloudy and slippery, like the edge of the engawa in the Water/Glass
that blurs with the waters of the ocean.
Kuma appears to have learned the painting technique of ukiyo-e: «There are
landscapes which are best viewed through half-closed eyes, mountains which are
most alluring when partially veiled in mist, and waters which are most profound
when the horizon is lost, and they are merged with the sky»64.
He makes his building float above these waters. Beneath these waters he gives life
to a new urban form.
Kengo Kuma knows how to take advantage of the difference between surface and
depth.
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Within the technique of pointillism, created in 1883, the importance lays in the application
of colour which is treated in portions or as a point. Only primary colours are employed:
numerous minuscule points overlap to create the desired colour. The contrast for the observer
give the impression of blends and tones that are, in reality, the overlapping of primary colours.
Pointillism picks up on the impressionist approach, considering the importance of the study of
light that is chiaroscuro, the perception of matter, the theory of colour and the physiology of
vision.
39 http://www.undo.net/cgi-bin/openframe.pl?x=/Pinto/gene5/kerk.htm
40 Kengo Kuma, The Skin Of Bamboo, The Spirit of Bamboo, s.l., s.d.
41 Anonymous, The Tale of the Bamboo Cutter, Adriana Boscaro (edited by), Marsilio Editori,
Venice, 1994, p. 87. The text dates back to 909.
42 LA TOKAIDÔ di Hiroshige. Preface by Gisèle Lambert. Explanatory notes and comments for
each print: Jocelyn Bouquillard, Bibliothèque de l’Image, 2002, Paris, p. 78.
43 LA TOKAIDÔ di Hiroshige… cit., p. 8.
44 From an interview between Kengo Kuma and the author in January 2000 in Tokyo, published
in «Abitare la Terra», 2002, 2, p. 39.
45 21 metres high and 17 metres wide, from the tip with its vase-like form, it is a tree that is
much loved by the population. It manages to survive well in the city because it is an essence
that tolerates pollution and variable pH levels. Its bark is highly decorated and it grows very
quickly.
46 Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 28.
47 Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 15.
48 http://www.kateigaho.com/int/mar04/architect-kuma.html
49 Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 18.
50 Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 16.
51 Nicola Marzot, Dialogo con Kengo Kuma… cit., p. 30.
52 The Heian culture (9th to 12th-century), developed around the Imperial Court of Kyoto, is
characterized for its highly original traits, typically Japanese and extremely refined.
53 This is a system of building a stable wall by placing a mixture of earth and straw in a wooden
formwork.
54 Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 19.
55 Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 18.
56 Shigeru Ban, initially involved as a consultant for the United Nations Refugee Agency
(UNHCR), later founded, in 1995, the non-government organisation VAN, the Volunteer
Architects Network.
57 Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma… cit., p. 16.
58 Greg Lynn, Pointillism… cit. p. 47.
59 The name derives from the religious institution present on the island, located in the middle
of the forest, and known as utaki. Instead of conceiving of it like a piece of architecture, it is
more appropriate to think of this space like a garden, a space marked by sacred trees, where the
grass is specially cut and where ceremonies occasionally take place.
60 Once again the name is derived from a second spot on the island that is considered to be
sacred, gaa. It is a grotto on the island where the subterranean water springs from a crack in
the layers of tufa stone.
61 The earthquake that hit the city of Kobe on January 17, 1995 caused 6,432 victims and was
the worst natural disaster since the end of the Second World War. The material damages are
incalculable, giving that it took place in a region of significant historical value and industrial
intensity.
62 Kengo Kuma, Grass Net, in «SD Space Design», 1997, 11, p. 100.
63 Alan W. Watts, Nature… cit., p. 86.
64 Ibid.
38
NOTES
Kisho, Kurokawa, Each one a Hero. The Philosophy of Symbiosis, Kodansha International,
Tokyo, 1997.
2 From an interview between Kengo Kuma and Irene Maria Scalise: http://www.repubblica.it:
80/supplementi/af/2004/10/11modaedesign/025kengo.html
3 I would define the generation of the “great four” as the architects Fumihiko Maki, Arata
Isozaki, Kisho Kurokawa and Kazuo Shinohara: born some time around 1931, they were all
pupils of Kenzo Tange.
4 Leone Spita (editor) “Trentadue domande a Fumihiko Maki”, Saper credere in architettura,
Clean, Naples, 2003, pp. 57-60.
5 Youichi Iijima, Transparent Death, in «SD Space Design», 1997, 11, p. 88.
6 Kengo Kuma, Digital Gardening, in «SD Space Design», 1997, 11, p. 6.
7 From a conference held by Martin Heidegger on October 3, 1964 for the inauguration of the
works of Bernhard Heiliger published in: Martin Heidegger, Bemerkungen zu Kunst - Plastik Raum, Ed. Erker Verlag, 1996; (Italian translation Corpo e Spazio, il melangolo, Genoa, 2000,
p. 17.
8 Kengo Kuma, Dissolution of objects and evasion of the city, in «JA The Japan Architect», 2000,
38, p. 58.
9 Ibid.
10 Kengo Kuma, Ritorno ai materiali, in: Luigi Alini, Kengo Kuma. Opere e Progetti, Mondadori
Electa spa, Milan, 2005, p. 18.
11 Kengo Kuma, Digital Gardening… cit., p. 6.
12 Ibid.
13 Leone Spita, Cancellare l’Architettura, in «Abitare la Terra», 2002, 2, pp. 30-39.
14 Derrick de Kerckhove, Brainframes, Bologna, Baskerville, 1993.
15 http://www.undo.net/cgi-bin/openframe.pl?x=/Pinto/gene5/kerk.htm
16 Ibid.
17 Ibid.
18 Ibid.
19 Nicola Marzot, Dialogo con Kengo Kuma, in: «OP/3 Opera Progetto», year II, 2005, 1, p. 25.
20 Martin Heidegger, Bemerkungen zu Kunst… cit., p. 33.
21 Kengo Kuma, Particle on horizontal plane, in «JA The Japan Architect», 2000, 38, p. 120.
22 Kengo Kuma, Digital…, cit. pp. 8-9.
23 From an interview between the author and Kisho Kurokawa in February 2004 in Tokyo.
24 Alan W. Watts, Nature, Man, and Woman, Pantheon, New York, 1958.
25 Alan W. Watts, Nature… cit., p. 16.
26 As indicated by the word scape, landscaping is a scenic art and a visual methodology.
27 Alan W. Watts, Nature… cit., p. 80.
28 Ibid.
29 Kengo Kuma, Digital Gardening… cit., p. 9.
30 Ibid.
31 Knabe, C., J. Rainer Noenning, Shaking the Foundations. Japanese Architects in Dialogue,
Prestel Verlag, Munich-London-New York, 1999, p. 68.
32 Kengo Kuma, Particle… cit., p. 120.
33 Kengo Kuma, Dissolution of objects… cit., p. 58.
34 Kakuzo Okakura, The Book of Tea, s. l., 1906.
35 Kengo Kuma, Dissolution… cit., p. 58.
36 Greg Lynn, Pointillism, in «SD Space Design», 1997, 11, p. 47.
37 Kengo Kuma, Particle… cit., p. 120.
1
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Kengo Kuma, 10 Houses, Toso Publishing, Tokyo, 1986 (ed. economica.: Chikuma
Publishing, Tokyo, 1990).
Kengo Kuma: Digital Gardening, numero monografico Space Design, n. 398, novembre 1997.
Kengo Kuma: Geometries of Nature, L’Arca Edizioni, Milano, 1999.
Kengo Kuma, numero monografico JA The Japan Architect, 38, summer, 2000.
Andrea Maffei, Leggerezza e gravità: due musei di Kengo Kuma, in «Casabella», LXV, 689,
maggio 2001.
Leone Spita, Cancellare l’Architettura, in «Abitare la Terra», n. 4, autunno 2002.
Jacopo Maria Giagnoni, Great (Bamboo) Wall, in «Materia», 42, settembre-dicembre, 2003.
Filippo Nicotra, Plastic House, in «Materia», 42, settembre-dicembre, 2003.
Kengo Kuma. Materials, Structures, Details, Birkuhäuser Verlag, Basel, 2004.
Kengo Kuma, Defeated Architecture, Iwanami Shoten, Tokyo, 2004.
Botond Bognar, Realtà e (im)materialità: la magia nell'architettura di Kengo Kuma, in:
«OP/3 Opera Progetto», anno II, 2005.
Luigi Alini, Kengo Kuma. Opere e Progetti, Mondadori Electa, Milano, 2005.
Botond Bognar, Kengo Kuma. Selected Works, Princeton Architectural Press, New York,
2005.
Kengo Kuma, GA Architect, n. 19, 2005.
- 171 -
REGESTO DELLE OPERE
Opere e progetti
1988
Kyodo Grating in collaborazione con Satoko
Shinohara / Spatial Design Studio
A Small Bathhouse in Izu in collaborazione
con Satoko Shinohara / Spatial Design
Studio
1989
GT-M in collaborazione con il CAD Institute
for Planning
RUSTIC
Maiton Resort in collaborazione con lo
Spatial Design Studio, Consultants of
Technology
Doric
M2
Kinojo Golf Club
Japan Museum (progetto)
1994
MAN-JU
Yusuhara Visitor’s Center
Kiro-san Observatory
1995
Water/ Glass
Space Design al Padiglione giapponese
della Biennale di Venezia
Glass/ Shadow
Noh Stage in the Forest
River/ Filter
Eco Particle (progetto)
Reverse Theater
Memorial Park (progetto)
Awaji S.A.
EXPO 2005 Basic Conception (progetto)
Seaside Subcenter (progetto)
Wood/ Slats
Kitakami Canal Museum
Super Street (progetto)
2000
Bato-machi Hiroshige Museum
Takayanagi Community Center
Sakushin Gakuin University
Makuhari Housing Complex
Nasu History Museum
Stone Museum
2001
Porous House - Kurakuen Project (progetto)
Institute of Disaster Prevention
Parking Building Takasaki
Sea/Filter
Ginzan Bath House
Bamboo House II - Kurakuen Project (progetto)
The Skin That Filters The River (progetto
urbano)
2002
Great (Bamboo) Wall
Plastic House
Adobe Museum for Wooden Buddha
ADK Shochiku Square
2003
Housing Exhibition Center
Horai Onsen Bath House
Forest/Floor
Soba Restaurant at Togakushi Shine
Baiso Buddhist Temple
JR Shibuya Station Renovation Project
One Omotesando
Great (BAMBOO) WALL - Phase 2
Shizuoka Expo Gate Building
2004
Waketokuyama
Shinonome Apartment Building
The “Food and Agriculture” Museum
Murai Masanari Art Museum
NTT Aoyama Building Renovation Project
LVMH Osaka
COCON Karasuma
2005
Fukusaki Hanging Garden
Nagasaki Prefectural Art Museum
Bus Stop in Finland
Lotus House
Oribe Tea House
KXK
2006
Zhongati Box (progetto)
Takanezawa Plaza (progetto)
Suntory Museum (progetto)
- 172 -
Premi e riconoscimenti
Esposizioni
1994
Good Design Architecture per il “Yusuhara
Visitor’s Center”, selezionato dal Ministero
giapponese del Commercio Internazionale e
dell’Industria.
1992
Solo Exhibition “Tokyo Columns” (M2,
Setagayaku, Tokyo).
1995
Grand Prize for JCD Design Award 1995
Cultural/ Public Institutions per il “Kirosan Observatory”.
1997
Architectural Institute of Japan Award per
il “Noh Stage in the Forest”.
Primo classificato all’AIA DuPONT
Benedictus Award per la “Water/ Glass”.
Grand Prize, Regional Design Award
(Prefettura di Kochi) per il “Yusuhara
Visitor’s Center”.
1999
Menzione d’Onore, Boston Society of
Architecture Unbuilt Architecture Design
Award 2000.
2000
Grand Prize, Prize of AIJ, Tohoku Chapter
for Design per il “River/ Filter”.
Grand Prize, INTER INTRA SPACE design
selection per il “Kitakami Canal Museum”.
Director General of Forestry Agency Prize
per il “Bato-machi Hiroshige Museum”.
2001
Togo Murano Award and Architectural
institute Award per il “Bato-machi
Hiroshige Museum”.
International Stone Architecture Award
per lo “Stone Museum”, Italy.
2002
Spirit of Nature Wood Architecture Award,
Finlandia.
2005
The Marble Architecture Award 2005 East
Asia External Facings Primo Premio.
1993
City of Labyrinth (Sezon Museum of Art,
Toshimaku, Tokyo/Tsukashin Hall.
Amagasaki, Prefettura di Hyogo).
1995
Solo Exhibition “Velocity of Transmission”
(Gallery MA, Minatoku, Tokyo).
La Biennale di Venezia 1995 (Venezia,
Italia).
1996
La Triennale di Milano (Milano, Italia).
1997
Virtual Architecture (The University
Museum, The University of Tokyo,
Bunkyoku, Tokyo).
2000
La Biennale di Venezia 2000 (Venezia,
Italia).
ARCHI LAB 2000 (Orleans, Francia).
2001
Japanese Avant-Garde / Reality Projection,
16 Young Japanese Architects (RIBA,
London, Regno Unito).
2002
ARCHI LAB 2002 (Orleans, Francia).
La Biennale di Venezia 2002, (Venezia,
Italia).
2004
Takeo Paper Show 2004 “HAPTIC” (Spiral,
Minatoku, Tokyo).
La Biennale di Venezia 2004 (Venezia,
Italia).
New Trends of Architecture in Europe and
Asia-Pacific 2004-2005 (Lille, Francia).
Solo Exhibition “Kengo Kuma: Defeated
Architecture” (Matsuya Ginza, Tyuoku,
Tokyo).
NIWA; WHERE THE PARTICLE
RESPONCES (Hotel New Otani Garden
Court, Chiyodaku, Tokyo)
The “3_2_1_New architecture in Japan and
Poland” exhibition (Center of Japanese and
Technology “Manggha”, Crocovia, Polonia).
- 173 -
Concorsi
REFERENZE FOTOGRAFICHE
2002
Tokyo University of Agricultural,
Exhibition Center Competition (Setagaya,
Prefettura di Tokyo); primo premio.
Mori Building Corporation Odaiba Museum
Competition (Minatoku, Tokyo); primo premio.
1993
Niigata City Performing Arts
Center Competition
(Niigata, Prefettura di Niigata);
secondo premio.
Abashiri Urban Planning Competition
(Abashiri, Prefettura di Hokkaido);
secondo premio.
2003
San Jose University School of Art Museum
(California, USA); menzione d’onore.
The Hepworth Gallery, Wakefield, RIBA
competition (Wakefield, Regno Unito);
finalista.
European Central Bank Urban Planning
and Architectural Design Competition
(Francoforte, Germania);
selezionato per la seconda fase.
Kuamgusu Minakata Research Center
Competition (Tanabe, Prefettura di
Wakayama); menzione d’onore.
1996
Kansai-kan of the National Diet Library
Competition (Kyoto, Kyoto Prefecture);
menzione d’onore.
Concorso di idee per il Nagaoka Culture
Forum Design Competition
(Nagaoka, Prefettura di Niigata);
terzo premio.
2001
Managed Workspace, RIBA competition
(Yorkshire, Regno unito);
selezionato per la seconda fase.
KENGO KUMA
& ASSOCIATES
Staff
Kengo Kuma
Minoru Yokoo
Toshio Yada
Akiko Shintsubo
Kenji Miyahara
Makoto Shirahama
Shuji Achiha
Teppei Fujiwara
Kazuhiko Miyazawa
Katinka Temme
Yuki Ikeguchi
Hidemi Baba
Eishi Sakamoto
Shin Ohba
Hiroaki Akiyama
Tsuyoshi Kanda
Sayaka Mizuno
Masamichi
Hirabayashi
Luke Yohsuke Willis
2004
National Palace Museum Southern Branch
International Design Competition,
(Chiayi, Taiwan); finalista.
Takumi Saikawa
Toshiki Meijo
Javier Villar Ruiz
Yoshihiro Kurita
Atsushi Kawanishi
Junpei Matsushima
Suguru Watanabe
Satoshi Adachi
Guillaume Pelletier
Takeyuki Saita
Yuichirou Minato
Ryukichi Tatsuki
Tomokazu
Hayakawa
Emiko Noguchi
Yuko Shimizu
Ex collaboratori
Takaaki Ando
Akira Aoyama
Yohsuke Asako
Misao Baba
Budi Pradono
Ryusuke Fujieda
Nami Fujikake
Keita Goto
Takeshi Goto
Tetsuo Goto
Masahiro Harada
Kenichi Hosomura
Teppei Ishibashi
Yutaka Ishigami
Masaki Iwamoto
Kyoko Iwasaka
Katsuhiko Izumi
Takaoki Kanehara
Taiko Kasai
Masaki Katoh
Chizuko Kawarada
Tetsuji Kuroda
Sakiko Marui
Shinobu
Matsushima
Tatsu Matsuda
Kuniko Mihara
Masami Miyakawa
Hiroshi Nakamura
Ryotaro Obata
- 174 -
Tatsuya Oda
Hironaka Ogawa
Santa Ohno
Hidetoshi Ohta
Naomi Ootsuki
Shoji Oshio
Jun-Florian Peine
Nozomi Saito
Yoshinori Sakano
Mikako Sato
Yukako Sato
Marin Sawa
Yoshihisa Sawada
Hiroshige Seki
Shigeyoshi Sugai
Yoshikazu
Takahashi
Yoshitaka Takeishi
Hideyuki Tanaka
Mariko Touno
Koji Toyoshima
Tsue Tsukuno
Koji Yamada
Susumu Yasukouchi
Satoshi Asakawa
pag. 34, 137, 138, 140, 141.
Daici Ano
pag. 11 (in basso), 35, 44, 45, 89, 91, 92, 93, 95, 96, 97, 103, 104,
106, 107, 121, 123, 124, 125, 143, 144, 145.
Shigeru Ban Architects
pag. 47.
Rossana Battistacci
pag. 20.
Dana Buntrock
pag. 71, 73, 74, 75.
Mitsumasa Fujitsuka
pag. 11 (in alto), 13, 18, 29, 37, 38, 41 (in alto), 43, 59, 60, 61, 62,63,
65, 66, 67, 68, 69, 77, 79, 80, 81, 83, 85, 86, 87, 109, 111, 112, 113,
115, 117, 118, 119, 127, 129, 130, 131.
Kengo Kuma & Associates
pag. 25, 49, 50, 51, 52.
Nacasa & Partners Inc.
pag. 99, 100, 101.
Kisho Kurokawa architect & associates
pag. 33 (in basso).
Shinkenchiku-sha
pag. 18 (in basso), 39, 41 (in basso).
Leone Spita
pag. 8, 9, 22.
Shoei Yoh + Architects
pag. 33 (in alto).
- 175 -
Finito di stampare nel mese di marzo 2006
Stampa: Editall srl - Roma