1 Igor era di buon umore. Per i materiali raccolti e per essere

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1 Igor era di buon umore. Per i materiali raccolti e per essere
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Igor era di buon umore. Per i materiali raccolti e per essere finalmente di nuovo solo
con sé stesso. Il vicolo, male illuminato, era pieno di cartacce e di altre immondizie
indefinibili. Una canaletta di scolo scorreva nel mezzo e dovette far attenzione a non
infangarsi, o altro, saltellando qua e là. Un minuto dopo entrava nella strada principale.
Da un alto edificio pendevano venti metri di telo con l’immagine del giovane presidente
benedicente paterno. Su un altro telo accanto l’immagine dello stesso col padre
defunto e il fratello perito in un banale incidente stradale. Era lui il delfino e tutto
era stato predisposto per garantire la successione: presenza continua, immagine
guerriera, sguardo raybanato all’orizzonte tipo “vieni in marina e girerai il mondo”. Ma
esser figlio del presidente non preservava da certi inconvenienti. Specie correndo per
la strada come un matto. E ne avevano fatto un santo. ‘Martire’ lo chiamavano i giornali
e le immagini di lui che costellavano il paese o attaccate ai lunotti posteriori dei taxi,
delle macchine militari e anche di quelle private. Martire del traffico, considerava
Igor. Questa non s’era ancora sentita. Cittadini, turisti, scolaresche, delegazioni,
anche straniere, in continuo pellegrinaggio al mausoleo. Tutto riportato fedelmente
dalla stampa.
giornali
Igor prendeva regolarmente i tre quotidiani più importanti. Ne scorreva rapidamente
le notizie politiche locali. Più o meno sempre dello stesso tenore. Sempre quello da
dieci, quindici, vent’anni. Saltava i saluti per le feste nazionali dei due o tre stati
giornalieri. I telegrammi di sostegno degli studenti, dei sindacati, dei gruppi giovanili,
delle associazioni, delle imprese, eccetera, alla “politica coraggiosa, indefettibile,
solida del presidente” nei confronti dei vari nemici esterni. Interni non ce n’erano.
Sfiorava l’usuale foto del soldato israeliano superarmato che controllava dall’alto della
sua statura la nera vecchia palestinese “che andava alla moschea” o i piccoli scolari
“spauriti alla volta della scuola”. Non che fosse refrattario alle condizioni dei
Palestinesi nei ‘territori occupati’, anzi. Ma intollerava cliché e stereotipi calcati,
anche nelle questioni che seguiva con interesse e partecipazione. Scorreva incuriosito
le notizie riguardanti l’Italia, specie quelle di costume, in particolare le relative a quel
tal presidentedelconsigliodeiministri, date sempre con un certo risalto, a sottolineare
che anche in certi paesi cosiddetti ‘occidentali e progrediti’ gli sbandierati
comportamenti ineccepibili di certi politici erano solo baggianate per il popolo bue
televisivo, quello del ‘potere sovrano’. Si soffermava invece sulle pagine culturali e
leggeva con interesse gli articoli di carattere letterario.
insofferenza… intolleranza?
Era giunto nei pressi di casa ed era quasi ora di cena. Pensò di passare in uno di quei
ristorantini ‘all’epatite’ nei pressi. Quello di fette b-semne o l’altro di hòmmos e
mutàbbal? Il primo offriva un piatto di pezzetti di pane in un brodo grasso, come da
nome. Il menù fisso del secondo era costituito dal piattino di hòmmos, il purè di ceci,
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uno di mutàbbal, idem di melanzane, i soliti cetrioli e rape sotto aceto, due mezze
cipolle, due peperoncini piccanti ‘bucastomaco’ che Igor tralasciava. Raghìf di pane a
volontà. Una cola qualsiasi, ora con cannuccia, accompagnava il lauto pasto. Quando
veniva da studente, un secolo prima – beh, diciamo un po’ più d’una ventina d’anni prima,
dai! – beveva imperterrito l’acqua dall’unico bicchiere comune che si trovava sul tavolo
del ristorante. Ora lo schifava l’idea di appoggiar le labbra anche solo vicino a dove le
aveva appena appoggiate la bocca unta e sdentata del suo sconosciuto casuale
dirimpettaio di tavolo. Quante cose erano cambiate da allora. In lui naturalmente.
L’esuberanza, l’istintività, l’incoscienza – con l’accettazione e la buona tolleranza – che
avevano guidato il suo comportamento in quel passato, la comprensione per un certo
suo prossimo e per certi modi di vivere e di fare, tutto questo s’era in buona parte
dissolto con gli anni. Ora le sue capacità di pazienza e transigenza s’erano di molto
affievolite. E in un momento di particolare disappunto aveva steso l’intollerante elenco
di quanto – secondo lui, e nell’obiettività della calma lo ammetteva che era ‘secondo lui’
– divideva questo paese ‘in via di civilizzazione’ da uno cosiddettamente civile. Anche
se, spesso, si faceva solo per dire. Poiché, quanto a civiltà, anche una certa
consistente fetta d’Italia lasciava a desiderare. Specie negli ultimi anni di malcostume
dilagante a causa di politicanti senza scrupoli.
Questo è un paese dove tutti gettano tutto per terra come la cosa più naturale. Giorni
prima aveva preso un barattolo di bibita e l’aveva bevuta passeggiando. S’era poi
diretto col barattolo vuoto verso un negozio chiedendo al proprietario seduto sulla
porta se poteva buttarlo nella sua pattumiera. “Il mio negozio non è una pattumiera –
aveva risposto il gentiluomo – buttalo nella strada”.
Un paese dove il pedone ha tutti i diritti di essere investito da per tutto. Che deve
scegliere tempi precisi nell’attraversar le zebre della strada e farlo di corsa. Che non
deve distrarsi un attimo e avere occhi davanti e dietro se cammina sull’asfalto della
carreggiata essendo i marciapiedi chiusi al traffico pedonale causa macchine
parcheggiate. Le automobili passano proterve anche in stradine come quella di
Qaymarìyye per cui il pedone, per lasciarle passare, deve accostarsi alle pareti dei
negozietti che si susseguono nei due lati, pur non sfuggendo a qualche molesto colpo di
clacson. Nei paesi civili ci sono le isole pedonali, qui ci sono solo continenti
automobilistici, dove il pedone circola a proprio rischio. Con una nuova categoria
indisciplinata di cui Igor non aveva un chiaro ricordo nel passato: quella dei giovani
ciclisti che sfrecciano silenziosi sulle loro pesanti biciclette cinesi anche nei viottoli
sfiorando la gente a piedi, urtando ogni tanto qualcuno, ed erano affari suoi. Ma
succedeva che fossero i ciclisti a essere urtati da una macchina e fatti volare. Ed
erano affari loro.
Un paese dove, anche nelle case più signorili e di presunta educazione europea, non
esiste un bagno senza la sua brava pozzetta d’acqua e – non raro – il gabinetto sozzo,
che sia alla turca o water. In quest’ultimo caso, o manca la tavoletta o è una cosa di
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una plastichetta su cui ci si siede titubanti non essendo spesso fissata. Ammesso che
non sia sporca e pisciata. Non parliamo degli odori.
Qui, grandi amori per i tendaggi a tutte le finestre – non rare coi vetri rotti – ma in
genere penzoloni. E con delle cordicelle che – se va bene – sono inutilmente bloccate e
inusufruibili. Se va male, fanno precipitar la tenda in testa al malcapitato che voleva
aprirla, tra nuvoloni di polvere giurassica. Gli era capitato l’anno prima nella sua casa
‘nuova’ al quartiere di Mezzeh, in un momento in cui la sua stanza da Michel era
occupata.
Un paese dove un ascensore, in uno stabile di dieci piani, aveva funzionato i primi tre
giorni, poi s’era guastato e tale era rimasto da un anno ormai. Raccontatagli da un
amico ch’egli era andato a trovare e per raggiungerlo s’era dovuto fare nove piani di
scale a piedi.
Un paese dove tutti fumano dappertutto. E nei taxi, nei service o negli autobus fumar
il fumo degli altri, chauffer compreso, divien spesso insopportabile. Con la
frustrazione di doverlo comunque subire se non si vuol provocare la reazione risentita
dei fumatori a una eventuale forma di protesta o anche a una semplice osservazione.
Un paese in cui si devono tenere le candele a portata di mano e i generatori a benzina
pronti all’uso. E – come cade la corrente elettrica – la zona si riempie immediatamente
del loro fastidioso strepito.
Nei film popolari arabi – quasi sempre egiziani – tutti che urlano, gesticolano, si
mettono le mani addosso. Forse – come in genere capita per tutte le trasmissioni tv
popolari – per adeguarsi ai gusti e alle richieste e propensioni dell’ascoltatore medio,
cioè di quello che fa numero. “Di quello che deve rimaner coglione – considerava Igor –
come in Italia, d’altronde”.
Paesi dove occorre sia sempre chiaro chi deve stare sull’attenti e chi può stare in
riposo, ciascuno coi propri gradi, evidenti o virtuali.
E poteva andare avanti all’infinito: un paese dove il fracasso bea le orecchie e i clacson
delle macchine sono a 200 decibell, un paese dove ogni dieci metri staziona un tizio
armato, un paese con la fobia per le borse, che vengono ispezionate a ogni pié sospinto.
Dove gente in borghese gira dappertutto con la pistola infilata nella cintura. Dove per
entrare in una stazione di autobus interurbani si passa attraverso la porta magnetica –
che in genere non funziona – e si subisce una perquisizione. Anche questa si fa per
dire, in quanto è tutto così superficiale e pigramente routinario che l’efficacia ai fini
della sicurezza appare pressoché nulla. E una volta entrati nella stazione non è finita.
Nell’autobus, al viaggiatore vengono registrati i documenti e lo straniero deve pure
passare al locale ufficio di polizia dove un ufficiale, guardando la televisione, gli pone
distrattamente i soliti “da dove vieni, dove vai, cosa fai”, prima di scarabocchiargli un
ok su un foglietto, da consegnare al bigliettaio dell’autobus.
Un paese dove tutti sputano dappertutto, con la bocca col naso e chissà con che altro.
Un paese dove, se la televisione trasmette la telenovela Cassandra, i trequarti dei suoi
abitanti si fermano.
(continua alla prossima)
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