Quattro secoli, sei travestimenti, sei donne

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Quattro secoli, sei travestimenti, sei donne
(Pubblicato su “Ricerche” a. XI n. 1 Gennaio-Giugno 2007 pp. 91-107)
Quattro secoli, sei travestimenti, sei donne
di Alvise Spadaro
travestiménto s. m. Abbigliamento speciale, completato da un particolare trucco e
talvolta dall’aggiunta di elementi posticci, allo scopo di realizzare una certa maschera o di
rendersi irriconoscibile.
Nel dizionario della lingua italiana Devoto-Oli, questo vocabolo riduce il suo significato ad
un valore quasi esclusivamente carnevalesco.
Va bene la maschera e il rendersi irriconoscibile, ma nel travestimento manca il voler
apparire altro per poter conseguire uno scopo preciso che sarebbe altrimenti precluso.
In effetti ad Itaca Ulisse non si traveste da mendicante solo per rendersi
irriconoscibile. Ricorre a questo espediente per poter entrare nel suo palazzo e riprendere
il pieno possesso del suo regno. Con un analogo geniale artificio Ulisse, dieci anni prima,
come ha detto argutamente Ninni Barresi si era già “travestito da cavallo”. Lo aveva fatto
per poter entrare nella città di Troia e porre fine ad un assedio che durava ormai da dieci
anni. Ed ancora dieci anni prima, aveva smascherato Achille che si era travestito da
donna. Travestimento voluto dalla madre per non farlo partecipare a quella guerra che
sapeva gli sarebbe stata fatale.
Questo è il mito.
Ma la storia di casa nostra non è da meno perché ci fornisce esempi di fenomeni opposti
che a volte superano la fantasia. Cioè vicende di donne coraggiose che si travestono da
uomo per sembrare tali, perché ritengono che questo travestimento sia l’unico espediente
che potrebbe consentire loro di ottenere lo scopo prefissato. E fanno questo anche a
rischio della propria vita.
A Caltagirone infatti il maestro stovigliaio Francesco Polizzi, autore di un diario
manoscritto di circa duemila pagine nelle quali aveva trascritto la cronaca cittadina dal
1692 al 1747, ci aveva offerto la testimonianza diretta della vicenda di Francisca
“masculu fora e fimmina intra”.
Purtroppo il manoscritto originale è andato in cenere in seguito ad un incendio dagli
effetti disastrosi che ha colpito la biblioteca di Caltagirone durante la notte di carnevale
del 1901. Ma, qualche anno prima, Mario Mandalari aveva ricopiato testualmente la
vicenda, affascinato dalla storia e non meno dal riconosciuto “sforzo incredibile per
adattare il suo caro dialetto alla lingua originale” compiuto dal Polizzi per redigere il
diario.
Ed a proposito dell’anno 1698 questa la prosa del maestro stovigliaio calatino: “Si notifica
di una Donna la quale andava per cita vestuta di huomo, e poi si nandava alla campagna
atravagliare con li uomini alla giornata e per far questo fu perseguita dalla giustizzia, che
la volevano charciarare, per lui essere troppo sfaciata”.
Rimasta vedova, senza figli e verosimilmente senza una famiglia di provenienza,
Francisca per non morire di fame ed essere costretta a vendersi, si traveste da contadino
dicendo di chiamarsi Francisco Miseri.
Perché abile e resistente quanto un uomo a zappare, potare le viti, a raccogliere le fave ed
in ogni altra attività agricola, riesce a trovare lavoro passando da una proprietà all’altra.
Polizzi precisa che per l’aria di campagna, per il sole e per la fatica “il suo volto era
adiventato homigno e chelui non era tanta di età, la quali era nelli tempo della gioventù, ma
però con tutto questo pareva un bellissimo giovine alli fine era faci di Donna, cachossi era
chiamata per tutta la Cità…”.
Non era quindi facile mantenere l’inganno. E poi, si sa che dopo il lavoro i contadini
mangiavano assieme, che “il vino che bevivano soperchio ci faceva gran desordini” e che
“li huomini della Campagna quando feniscino di mangiare parlando con riverenza sono
tanti porci, nò guardano a Dio”. E quindi la notizia della “manifestazione diabolica” di
questa trasformazione “che di Donna adiventava huomo, e poi di huomo adiventava
Donna” giunse a Don Bonaventura Capello, Inquisitore del Santo Uffizio.
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Preoccupato che potesse trattarsi di un fenomeno di stregoneria “non ci mise tempo,
allura… a chiamare a tutti li sbirri… e ancora tutti li gienti della sua Corte delli detti
Inquisitore per farli andare insiemi con tutti questi sbirri a pigliare questa Donna chiamata
homo fimina”. Ovviamente questo dispiego di forze, per catturare una donna soltanto,
sarà stato motivato proprio dalla certezza della presenza del demonio dentro il corpo
della povera Francisca. Infatti l’ordine era “che li havissero attaccare e strascinarla e
portarla Charciarata”.
Francisca fu preavvisata mentre stava mangiando: “perché lui aveva Amici, ci vinnero a
manifestarci il tutto, allura sapendo questo si spinse con il Morso in bocca sinne usciu dalla
casa alli cursi e vassene fuora della Cità”. Gli amici le avevano consentito di fuggire, ma
Francisca doveva fare i conti con i vicini di casa che “non la portavano troppo in biene per
quello operare che lui faceva”. Infatti furono proprio i vicini di casa a facilitarne la cattura
informando “li sbirri” con il comprensibile stuolo di curiosi al seguito, circa la direzione
presa dalla ragazza per nascondersi.
Francesco Polizzi precisa che il “27 di Aprile, Giorno di Dominica, verso a hori 17 in circa li
quali ccaminando ccaminando li andaro a trovare… e stava in menso di una bellissima
Troffa di Giomarra, misa agnuciata come il conto non avesse stato il suo”.
Fu nel letto di quel torrente, tra le foglie di quel folto cespuglio di palma nana in
mezzo al quale si era rincantucciata ed innanzi a quel pubblico di curiosi che iniziarono
un incalzante quanto imbarazzante interrogatorio. Persino un conciapelle, uno dei
portinai del Santo Uffizio, “che troppo la lusingava di molti palori intrinseci” si permise di
farle domande imbarazzanti e Polizzi, che era presente, ricorda che “eacchossi parlando
parlando, si allanzau che ci voleva ttoccare la Natura, se veramente era Donna o puro era
huomo, e poi voleva fare questo immenso di tanti Christiani che ci avevano andato tutti
appresso per vedere questa gran Curiosità conforme avete inteso, hora lui poverella
vedendossi inmenso a tanta chiurma di Christiani si vette confusa non si sapeva come
addeportarsi, e achossi la buona Donna detto chiamata li huomo femina, la quale non si
volse lassare mai toccare di quelli sbirri e lui vedendo questo che non si volse lassare
persoadere di nessuno modo, la pigliaro ellattaccaro e poi la portaro nell’iquesitore
Cappello”.
Interrogata nella sede ufficiale, Francisca dichiarò:
-“Ijo sogno persona dabbene e per tanto fazzo questa cosa che di donna adivento
huomo, che mi fazzo Campagnola, lo fazzo per travagliare, per moscarmi un tozzo di pani,
eachossi ijo per questa cosa achui nni fazzo danno, achui dugnu fastiddio, mi Patrone mi
apre a mia di fare da questo muodo perché non agio negozzij con nessuno, la quale ci
negozziava troppo sponte”.
Essendo nota la tragica crudeltà della maggior parte delle sentenze del Santo Uffizio
appaiono sorprendenti le parole conclusive pronunciate dall’Inquisitore:
- “Và figlia mia che ai ragione vattene a fai come attia ti piace, perchè aggio
conosciuto la tua liberarità che sinociente, và ti torno e dico che tu sei benedetta”.
Polizzi ci informa alla fine che Francisca riprenderà a lavorare, facendo però il mestiere di
bordonaro, occupandosi così dei trasporti con l’impiego di animali da soma. Dopo quattro
secoli, la storia della concittadina Francisca ce la farà rivivere in un romanzo la penna di
Maria Attanasio.
Ma se Achille eroe del mito si travestì da donna per non andare in guerra contro i
Troiani, al contrario nella storia italiana le donne che si travestiranno per sembrare
uomini e così poter combattere sono più di quante si possa immaginare.
Francesca Scanagatta nata a Milano nel 1776 da una nobile famiglia, sin da piccola
nell’ascoltare le favole che le raccontava la governante, invece di specchiarsi come tutte le
bambine nel personaggio della principessa preferiva, con grande compiacimento del
padre, immedesimarsi il quello del principe valoroso. E così quando il più grande dei suoi
fratelli si ammalò e contemporaneamente fu chiamato per il servizio di leva come allievo
ufficiale nell’esercito austro-ungarico, il padre fece tornare la figlia dal collegio delle suore
milanesi, e travestita da uomo la accompagnò all’Accademia Militare Teresiana di Wiener
Neustadt accolto cordialmente dal comandante del reggimento.
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L’aristocratico milanese non conosceva bene il tedesco e l’alto ufficiale austriaco
conosceva ancora meno l’italiano, per cui decisero di parlare in latino e quando lo
Scanagatta riferendosi alla recluta usava il femminile il comandante sorrideva valutando
l’errore di genere come un’altrettanta non perfetta conoscenza di quella lingua morta.
Francesca si presentava però come “Allievo Sottoluogotenente Franz Scanagatta”.
Quel damerino vagamente effeminato, sempre rasato e con i riccioli ben pettinati
che parlava pochissimo si classificherà primo del suo corso, rivelerà subito attitudine al
comando e conquisterà numerose menzioni d’onore durante i due anni trascorsi nel VI
Reggimento di Frontiera dove si rivelerà anche tiratore scelto.
Senza dare confidenza a nessuno dei suoi colleghi e incutendo una certa soggezione, era
venerato dai suoi soldati. In battaglia sembrava non conoscere dolore né paura e
gravemente ferito continuò a combattere, ottenendo poi di potersi curare da solo.
Il 9 aprile 1800 nei pressi di Genova, nella battaglia di Barbagelata di Lorsica fu
promosso sul campo Luogotenente ed insignito della menzione d’onore.
Nel mese successivo la madre inviò una lettera al Comando che però pose fine a questa
promettente carriera militare durata sei anni appena. Francesca fu congedata
dall’esercito austro-ungarico come “Fräulein Scanagatta”, ma con una pensione,
un’ulteriore menzione d’onore ed un bel mazzo di fiori.
I suoi fratelli si erano arruolati nell’esercito di Napoleone Bonaparte. Non poteva correre
il rischio di trovarsi a combattere contro di loro.
Francesca sposerà l’ufficiale bonapartista Celestino Spini di Talamona dal quale avrà
quattro figli. Nel 1852 in occasione di un anniversario, spedirà un messaggio d’auguri
alla sua Accademia Militare Teresiana di Wiener Neustadt. Si firmerà “Tenente Franz
Scanagatta vedova del Maggiore Spini”.
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Intanto dal 1850, le leggi di polizia approvate dallo Stato pontificio facevano di chi
si traveste un “sorvegliato speciale” e lo stato laico si adeguerà a questa normativa.
Questo non impedirà la fiorentina Erminia Manelli, visto tornare malato il fratello cui
assomigliava perfettamente, di indossare la divisa da bersagliere e trovare la morte, in
seguito alle ferite riportate nella battaglia di Custoza.
Ma nel maggio del
1860 a bordo del vapore
“Piemonte” diretto in Sicilia,
una
recluta
dei
Mille
garibaldini travestita da
uomo,
svelerà
la
sua
identità femminile.
Si
chiamava
Rosalia
Montmasson ed era l’unica
savoiarda della spedizione.
Rosalia sentiva di avere
tutto il diritto di combattere
G. Fattori La battaglia di Custoza. Quadrato del 49° (300x550) Firenze, Galleria d’Arte Moderna
i borbonici e di entrare con
le truppe vittoriose a Palermo, forse anche per la singolare fatalità del suo nome di
battesimo, ma principalmente perché era stata tra quelli che avevano contribuito a
creare le condizioni favorevoli per la riuscita della spedizione.
Quella sera fu costretta a travestirsi da uomo e sgattaiolare furtivamente su una delle
zattere che da Quarto imbarcavano i volontari in camicia rossa su i due vapori
dell’impresa garibaldina perché, avendo manifestata al marito la volontà di combattere,
ne aveva ricevuto una categorica proibizione. Così quando non fu più possibile farla
scendere a terra, Rosalia si rivelò proprio a lui, nominato Sottocapo di Stato Maggiore da
Garibaldi ed imbarcato sullo stesso vapore. Il marito si chiamava Francesco Crispi.
L’aveva condotta con sé a Malta dopo averla conosciuta a Torino dove esule
trentaquattrenne faceva il giornalista mentre Rosalia ventottenne da lavandaia e
stiratrice in un carcere. E durante l’esilio maltese volle sposarla contro il parere degli
amici che per lui avrebbero preferito una donna di uguale condizione sociale. Così padre
Marchetti, gesuita girovago, acconsentì a benedire quelle nozze. Senza pubblicazioni e
senza inginocchiatoio gli sposi pronunciarono il loro “sì” genuflessi sul cuscino che il
celebrante aveva tolto per l’occasione dal proprio letto.
Purtroppo la vicenda della savoiarda Rosalia non è a lieto fine come quella della
siciliana Francisca e viene il sospetto che Crispi abbia deciso di sposarla solo quando
ebbe la certezza che il governatore non gli avrebbe revocato l’ordine d’espulsione. Come
avrebbe potuto fare a meno, nel suo esilio londinese, di questa donna generosa dal
carattere forte ed impulsivo? Una popolana sì, ma una donna che sembrava non sentire
né fatica né dolore e che passo dopo passo lo aveva seguito per due anni aiutandolo nelle
sue cospirazioni e condividendone i pericoli.
Rosalia infatti fu con lui anche a Londra e fu a Parigi facendo spola tra Francia ed
Inghilterra per tenere i collegamenti tra i gruppi mazziniani dei due paesi. Forse lo seguì
anche in Portogallo, ma nel diario di Crispi non viene quasi mai nominata. Ne fa cenno in
una lettera da Londra a Lugano per chiedere a Giuseppe Mazzini i soldi necessari per
poter essere in Sicilia nell’estate del 1859. Scriverà che nei viaggi aveva speso tutti suoi
risparmi: “aggiungete a ciò quello che mi ha costato e che mi costa mia moglie, la quale si
rifiuta di restare a Londra”. Poi mentre Crispi rimarrà a Genova con Garibaldi, Bixio,
Medici e Bertani per preparare la spedizione siciliana, Rosalia prendendo il postale
diretto a Malta, si fermerà durante lo scalo nello Stretto per informare i messinesi che
Giovanni Corrao e Rosolino Pilo stavano per sbarcare nell’Isola con un peschereccio.
Neppure un marito come Francesco Crispi avrebbe potuto impedire ad una donna
come questa il diritto di indossare la camicia rossa, sbarcare a Marsala, imbracciare il
fucile e combattere a Calatafimi tra i Mille.
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Nella sua narrazione dell’impresa siciliana, Giuseppe Cesare Abba aveva registrato:
“V'era anche una donna, Rosalia Montmasson savoiarda, moglie di Crispi, che volle seguir
il marito in quel pericolo”. Ed a proposito degli stranieri: “… come l’unico savoiardo, che
era poi una donna, la Rosalia Montmasson, moglie di Crispi…”. Garibaldi nel manoscritto
del suo romanzo intitolato “I Mille” annota: “Veramente, la sig.ra Crispi fu la sola donna
che fece parte della spedizione” e tra parentesi aggiunge, ma poi cancella questa
avvertenza: “(Prego lo stampatore di non pubblicare questa nota)”. Nelle prime due edizioni
la nota fu sostituita dalle parole: “La Signora Crispi”. Nelle successive è invece completata
così: “La Signora Crispi che assisté i nostri feriti di Calatafimi con molta cura e
benevolenza”.
Chissà perché, dopo aver più volte rimaneggiato la nota nelle diverse edizioni, Giuseppe
Garibaldi riduce la partecipazione di Rosalia al ruolo di brava infermiera? Forse perché
l’Eroe dei due Mondi in veste di scrittore doveva trasferire nella protagonista del suo
romanzo e nella sua compagna quanto nella realtà era appartenuto soltanto a Rosalia
Montmasson.
A proposito della battaglia di Calatafimi infatti Garibaldi descrive le sue fantastiche
eroine in prima linea ed in competizione tra chi dovesse affrontare per prima il nemico e
racconta che maneggiavano il moschetto come veterani. E bisogna considerare che, a
causa del grande numero di cilecche a cui era soggetto, saper maneggiare il moschetto
significava principalmente saper usare la baionetta nei corpo a corpo contro il nemico.
Ed a battaglia conclusa avrebbero subito raggiunta l’ormai vicina Palermo per anticipare
l’arrivo della spedizione, accompagnate da una contadina “munite di adeguate istruzioni”
e “favorite dalla prima oscurità d’una notte di Maggio”.
Ma che nella realtà si sia trattato solo di lei non vi sono possibilità di equivoci perché
nell’elenco pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 12 novembre 1878, assieme ai nomi
degli altri 1088 combattenti, l’unica donna è al n. 662 “MONTMASSON Rosalia fu
Gaspare, nata a S. Joriez (Annècy) il 12 giugno 1825, residente a Roma”.
Fatta così l’Italia, quando nel 1865 la capitale da Torino fu trasferita a Firenze,
Crispi era già diventato un uomo di Stato. Non era più il cospiratore braccato ed
indebitato fino ai capelli. Nel palazzo Rosalia continuava ad assecondare l’esigenze del
marito conducendo una vita di relazione adeguata al nuovo tenore di vita. Abiti eleganti,
baciamano, salotti aperti al via vai di persone e personaggi venuti a conferire con l’uomo
nuovo della nuova politica nazionale. Il futuro Ministro degli Interni, il futuro presidente
del Consiglio dei ministri.
Garibaldi era di casa e rimaneva spesso a dormire. Un giorno i reduci dell’impresa
siciliana organizzarono per lei una cerimonia solenne e le fecero dono di una croce di
diamanti che Rosalia commossa appuntò accanto alla medaglia dei Mille. Ma sembra che
Crispi le rimproverasse di non avergli saputo dare un figlio e di non essere all’altezza
della nuova condizione sociale. Probabilmente già incontrava un’altra donna la quale gli
darà Luigi, il figlio tanto desiderato.
Rosalia entrò così in uno stato di depressione che la indusse a bere ed a riversare
sui piccoli animali un’esigenza di maternità che probabilmente non aveva mai
personalmente provata.
Riempì la casa di cani, gatti, pappagalli, canarini ed anche topolini. Rosalia era uscita di
testa.
Tornando a casa una sera, Crispi trovò stesi sulle poltrone e sul divano sette abiti
eleganti tutti verdi che il sarto aveva consegnato qualche ora prima. Sette sfumature di
verde dal più sbiadito al più intenso, sui quali zampettavano vivacemente gatti e
cagnolini.
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I litigi divennero sempre più
frequenti e già, dopo il 1870
un antico amore, una terza
donna si era riaffacciata
nella sua vita. La siracusana
Filomena (Lina) Barbagallo di
ventisette anni più giovane
di lui.
Nell’ottobre del 1875,
dopo due anni dalla nascita
della prima figlia, Crispi
l’aveva sposata in chiesa e
risposata tre anni dopo, con
una cerimonia civile.
Scoppiò lo scandalo. “Il
Piccolo” di Napoli pubblicò
l’atto di matrimonio di
Francesco Crispi celebrato a
Malta
ventiquattro
anni
prima
con
Rosalia
Montmasson. Tutti i giornali
dell’epoca denunciarono il
“bigamo”. Qualche testata
spiritosa, informata del figlio
nato
dalla
relazione
extraconiugale, lo accusò di
“trigamia”.
Quando
ebbe
luogo
il
processo, gli amici di Firenze
e di Roma testimoniarono
delle
continue
liti
e
raccontarono di Crispi che
S. Grita Rosalia Montmasson Pisa, Biblioteca Comunale
urlava a Rosalia:
- “E’ carta straccia quella che ci unisce!”.
E fu ascoltata anche Rosalia che raccontò la sua storia dichiarando di avere sempre
creduto alla validità di un matrimonio celebrato da un sacerdote, riconoscendo che i
rapporti col passare degli anni si erano deteriorati e che aveva accettato la separazione.
Rosalia fu onesta e leale, com’era sempre stata. Crispi fu assolto.
Per Filomena Barbagallo e per i suoi figli, Crispi collezionerà debiti, inimicizie e
trascinerà la Banca Nazionale in un grande scandalo.
Uno di questi tanto desiderati figli, durante il periodo scolastico, era stato scoperto a
rubare ed era stato punito, ma nonostante ciò aveva perseverato tanto che un giorno si
era impossessato ed aveva cercato di vendere le lettere di Mazzini e Garibaldi a suo
padre. Lo stesso ragazzo più tardi prenderà l’iniziativa di scrivere una lettera al re. Una
frase arrogante intimava: “Poiché Vostra Maestà paga £ 300.000 al figlio di Garibaldi può
pagare £ 10.000 al figlio di Francesco Crispi”.
Per non aggiungere di “Lina Barbagallo la cui fedeltà è nel biglietto che Felice Cavallotti le
ha restituito col consenso dei colleghi della commissione parlamentare”. Il biglietto di nove
parole destinato ad un suo amante iniziava con l’invito: “Vieni. Vieni…” e, senza lasciare
niente all’immaginazione, proseguiva con un’offerta che oggi definiremmo decisamente
hard.
Nel 1901, alla morte di Crispi, Rosalia Montmasson caduta in miseria gli
sopravvisse tre anni con un sussidio della Casa Reale e del Governo.
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Il genere di travestimento adottato da Rosalia Montmasson non rimarrà però un
caso isolato nella storia, perché sarà seguito da episodio accaduto a Firenze agli inizi
della Prima Guerra mondiale e che occupò le cronache di tutti i giornali.
Aveva i capelli biondi tagliati corti ed indossava la divisa grigio-verde. Confondendosi con
i richiamati per la leva destinata alle trincee, la recluta era riuscita ad infilarsi di sera in
una caserma del capoluogo toscano. Senza farsi notare aveva trascorso la notte su di un
pagliericcio come gli altri soldati e la mattina successiva, con la gavetta in mano, aveva
fatto la fila e consumato il rancio con loro.
Prima della partenza per il fronte nessuno si accorse che quel grazioso militare ventenne,
dalla statura e dai lineamenti maschili non aveva risposto all’appello di chiamata. Era
inconcepibile che in considerazione della destinazione, cioè alla partenza per il fronte,
potessero esserci unità in soprannumero. Si badava soltanto che non ci fossero assenti.
Armata di tutto punto, la recluta seguì i suoi commilitoni sul camion che li
avrebbe condotti alla stazione. Aveva lo zaino, il fucile, una coperta, la cartucciera e con
tutto questo armamentario salì sul treno diretto al confine.
A convoglio partito però, nell’ambiente più ristretto dello scompartimento, la voce che
cercava di far sentire meno possibile, tradiva qualche nota armoniosa. La statura ed i
lineamenti erano maschili. Sembrava un commilitone aperto e disinvolto, ma lo sguardo
non poteva nascondere tutta la sua dolcezza, le mani tutta la loro delicatezza e le labbra
erano troppo accese per ingannare tutti quei giovani soldati che le stavano attorno.
Bastò qualche ora di viaggio perché alcuni di loro credettero di riconoscere in quel
commilitone una donna. Poi quando, di sussurro in sussurro, la voce si sparse per tutto
il treno è facile immaginare la calca che si venne a formare in quello scompartimento e
con quanta allegria fu assediata, interrogata, ammirata.
Fatta scendere alla stazione di Bologna fu scortata con armi e bagaglio in
Questura dove rivelò di chiamarsi Luigia Ciappi nata in Calabria a Rosarno, ma
domiciliata a Firenze dove insegnava in una scuola elementare.
La maestrina manifestò tutto il suo dispiacere per essere stata riconosciuta ed il suo
dolore sincero per non poter combattere, perché ovviamente non le fu consentito di
proseguire il viaggio.
Indossava la divisa militare anche quando fu condotta al Comando di Divisione. Poi fu
riaccompagnata a Firenze.
Nessuna meraviglia se anche la vicenda di Luigia Ciappi avrebbe ispirato una
scrittrice. Carolina Invernizio infatti, leggendo l’episodio del travestimento di Luigia su
uno dei quotidiani sul quale probabilmente pubblicava i suoi romanzi d’appendice, aveva
trovato l’ispirazione per scrivere il suo ultimo.
Quel travestimento da soldato però nella realtà era stato un espediente per poter
adempiere a quello che Luigia come Rosalia riteneva un patriottico dovere. Questo motivo
però non si sarebbe prestato alle peculiarità di grande sentimentalismo, inconfondibile
caratteristica dei romanzi della scrittrice di Voghera.
Sì, geniale l’idea del travestimento, però l’eroina del suo romanzo avrebbe utilizzato
quell’espediente non per patriottismo, ma per amore. L’eroina della Invernizio avrebbe
indossato la divisa grigio-verde e nascoste le sue chiome sotto il berretto piumato dei
bersaglieri per raggiungere il suo fidanzato e per vivere fantasticamente con lui prima i
pericoli della battaglia e poi la prigionia nelle mani del nemico.
Fu questo l’ultimo romanzo della Invernizio ché sfortunatamente morì di polmonite
proprio lo stesso anno della pubblicazione del libro.
Questa prematura scomparsa non ha permesso alla prolifica scrittrice di venire a
conoscenza di un episodio analogo a quello da lei immaginato, ma realmente accaduto, e
infatti di lì a poco pubblicato sulla cronaca di un quotidiano catanese.
Come la protagonista del suo romanzo, Concettina Luparello di Ragusa Inferiore
indosserà la divisa grigio-verde e cercherà di partire per il fronte, non per puro
patriottismo, ma solo perché accesa dal fuoco dell’amore. Non per la Patria, ma per
amore del suo fidanzato Rosario Bellia di Regalbuto che avrebbe voluto raggiungere in
prima linea.
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La cronaca non ci offre molto di più. Possiamo solo immaginare che la decisione di
Concettina sia stata determinata dalla mancata concessione delle licenze. Quelle stesse
licenze che i fanti avrebbero maturate in seguito ad un determinato periodo trascorso in
trincea ma, proprio per i soldati siciliani, sempre rinviate dal Comando e ogni volta con
decine pretesti.
Il generale Cadorna riteneva infatti la Sicilia un covo di disertori e di renitenti. Questa
opinione veniva avvalorata dai Comandi che assicuravano di registrare fenomeni di
demoralizzazione in coloro che dalla licenza ritornavano in zona di guerra. Questa
demoralizzazione poi non avrebbe fatto altro che aumentare il senso di depressione ai
soldati rimasti in trincea. Piuttosto che di licenze si preferivano quindi fare larghe
elargizioni di vino in occasione del rancio, con la speranza che gli assalti alla baionetta
avvenissero almeno così in condizioni di euforia.
Dall’elenco delle numerose crudeltà che si registrarono per l’applicazione di tale sistema,
Concettina Luparello potrebbe essere venuta a conoscenza del caso di Matteo Russo, di
quel fante di Santa Venerina a cui, poco prima di perdere la vita in battaglia, era stata
rifiutata la licenza in due occasioni: sia per la nascita del secondo figlio che per la morte
del piccolo.
O più semplicemente, anche se altrettanto difficilmente, Concettina in barba alle
statistiche dell’epoca che denunciavano il forte tasso di analfabetismo, soprattutto
femminile e soprattutto in Sicilia, avrà potuto leggere il romanzo della Invernizio?
Forse non lo sapremo mai.
Non sappiamo neppure come, ma è certo che Concettina Luparello travestita da soldato
raggiunse la stazione di Catania. Sappiamo anche che non fu così abile come Luigia
Ciappi a salire sul treno con i soldati diretti al fronte. Dai suoi mancati commilitoni fu
infatti smascherata alla stazione, è facile immaginare con lo stesso stupore ed
ammirazione ricevuti dalla maestrina di Firenze, e rimandata a casa.
Sembra che nessuno abbia ancora avuto la curiosità di eseguire una semplicissima
indagine anagrafica per scoprire se poi Rosario Bellia sia tornato a coronare il suo sogno
d’amore con l’impavida Concettina, ma anche questa vicenda è servita da spunto per un
racconto.
Donne che si travestono da uomo per amore o per poter ottenere diritti ancora
negati al loro sesso oppure perché assieme ai diritti hanno sentito che a loro competono
gli stessi doveri degli uomini.
Doveri che sentono di essere tenuti ad assolvere anche se appunto tutti quei diritti non
vengono loro ancora riconosciuti.
Comportamenti e mentalità che hanno fatto esclamare ad Achille Loria:
-“Fin qui l’umanità ha camminato con una gamba sola, ora soltanto si accorge
d’averne due”.
Bibliografia
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Giuseppe Garibaldi I Mille Torino 1874
Celestino Spini Cenni biografici sulla avventurosa vita accademica guerriera privata della
milanese eroina Francesca Scanagatta Milano 1876
Mario Mandalari Ricordi di Sicilia – I. Caltagirone Catania 1897
Giovanni Alfieri Un eroina alla battaglia di Custoza Catania 1911
Carolina Invernizio La fidanzata del bersagliere Firenze 1916
Roberto Mandel Storia popolare della Grande Guerra Milano 1919
Paolo Valera Milano sconosciuta rinnovata ed arricchita di altri scandali polizieschi e postribolari
Milano 1923
Vittorio Adami La signorina Francesca Scanagatta milanese ufficiale nell'esercito austriaco in
“Rivista d'Italia” vol. II fasc. 1, Milano 1923
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Giuseppe Cesare Abba Storia dei Mille Firenze 1926
Pietro Nicolosi 50 anni di cronaca siciliana (1900-1950) Palermo 1975
Giuseppe Garibaldi I Mille Bologna 1982
Sergio Romano Crispi Milano 1986
Matteo Russo Lettere dal fronte (1916-1917) Catania 1993
Maria Attanasio Correva l'anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile Palermo 1994
Alvise Spadaro Il bicchiere della baronessa Acireale-Roma 2002
Giuseppe Astuto Io sono Crispi Bologna 2005
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