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Duggan Christopher, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2008, (Storia
e Società), Cap. XVII “La crisi di fine secolo”, p. 386-399.
La fine del secolo in Italia è caratterizzata da un processo di recessione economica. La guerra commerciale con la
Francia ha danneggiato gravemente l'agricoltura; la produzione tessile, l'edilizia e, per altri motivi, anche il settore
bancario, sono investiti dalla crisi. Cresceva la protesta sociale in tutto il paese alimentando un clima di protesta e di
repressione militare specie nelle regioni più avanzate del nord, dove andava radicandosi il socialismo, e nella Sicilia
(interessata dal movimento dei Fasci). Cresceva anche l'opposizione a Crispi mentr andava naturando la comune
precezione che l'Italia fosse inadatta al regime parlamentare.
Im mezzo a tutte queste difficoltà Crispi fu orientato a cercare in Africa un sollievo militare che potesse raddrizzare le
sorti del suo governo. Trovò invece la pesante e umiliante sconfitta di Adua (1 marzo 1896). Sulla scia della
catastrofe Crispi si dimise. Il secolo si chiude con un crescendo di sollevazioni popolari e disordini che furono
repressi addirittura con l'esercito (come a Milano nel 1898 dal generale Bava Beccaris).
Il nuovo governo cercò di approvare disegni di legge contro lo sciopero. Il 29 luglio del 1900 il Re Umberto fu ucciso
dall'anarchico Gaetano Bresci.
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Secondo il diplomatico britannico, i problemi politici ed economici dell'Italia erano senza dubbio molto gravi. Ma
suggerii, con un tocco moraleggiante caratteristicamente britannico, che gli italiani avrebbero fatto bene ad esaminare
la propria condotta invece di scaricare tutte le colpe sul re o sul parlamento, come tendevano a fare. Aveva sentito dire,
per esempio, che nell'erario entrava non più del 25 per cento delle imposte totali dovute, a causa «di false
dichiarazioni e della corruzione degli esattori»; e se le cifre erano probabilmente esagerate, era però certamente vero
che «in questo paese [l'evasione fiscale] non è considerata un atto disonesto, e neppure un venir meno a un dovere
patriottico».
Fin dai tardi anni Ottanta l'economia italiana era andata scivolando in una profonda recessione. Nel 1887 era
stata varata una valanga di nuove tariffe su una varietà di beni agricoli e industriali, e ne era seguita una
spietata guerra commerciale con la Francia che aveva gravemente danneggiato il commercio italiano - un risultato
nient'affatto strano, visto che all'epoca quasi la metà delle esportazioni (in massima parte beni primari come la seta
cruda, il vino e i generi alimentari) era destinata al mercato francese. Per molti agricoltori, specialmente nel
Mezzogiorno, le conseguenze furono pesanti. Quel tanto d'industria che esisteva -e si trattava tuttora perlopiù di
stabilimenti di dimensioni tra piccole e medie situati in Lombardia, Piemonte e Veneto, con un predominio della
produzione tessile
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la produzione tessile - dopo una serie di anni in cui aveva fatto registrare una crescita significativa in settori come la
meccanica e la chimica (nel 1883 Milano era diventata la prima città dell'Europa continentale ad avere una centrale
elettrica, e nel 1886 l'industriale della gomma Giovanni Battista Pirelli aveva fatto da battistrada nella produzione di
cavi telegrafici sottomarini), a partire dalla fine degli anni Ottanta si trovava anch'essa in cattive acque.
L'edilizia aveva conosciuto una vicenda analoga: un grosso boom seguito da un crollo catastrofico, accompagnato
nel 1888 e 1889 da tumulti nelle strade di Roma inscenati dagli operai licenziati
Ma la crisi più grave fu quella che coinvolse il settore bancario. L'Italia aveva sei banche di emissione, tutte a
base regionale, amministrate privatamente e strettamente legate a potenti gruppi d'interesse locali, che nel corso degli
anni Ottanta s'erano fatte trascinare in azzardate iniziative speculative. La più compromessa era la Banca Romana,
che aveva prestato somme enormi senza fare abbastanza domande a un gran numero di immobiliaristi, e una volta
crollato il mercato delle case era rimasta con un mucchio di pezzi di carta senza valore. Aveva poi prestato somme
ingentissime anche a politici e giornalisti, spesso senza garanzie, per aiutarli a coprire i costi (rapidamente crescenti)
delle elezioni e della gestione dei giornali. E tra i grandi beneficiari della generosità della banca figurava addirittura il
sovrano. Nel 1889 un'ispezione governativa portò alla luce numerosissime irregolarità. Le sue risultanze, note a Crispi
e al ministro del Tesoro, Giovanni Giolitti, rimasero altrimenti segrete. Nel maggio 1892, su designazione del re e non
del parlamento, Giolitti fu nominato presidente del Consiglio, e pochi mesi dopo tentò di ottenere un posto in Senato
per il governatore della Banca Romana (il quale sarebbe così stato al riparo dall'azione delle procure). Ma prima che la
cosa andasse in porto una copia del rapporto del 1889 finì nelle mani di un deputato repubblicano, che non esitò a
divulgarne il contenuto davanti a una Camera allibita. Ne segui lo scandalo della Banca Romana, che negli anni
successivi minacciò di screditare l'intero establishment politico italiano, compresa la monarchia.
A peggiorare le cose, il paese sembrava star scivolando nella rivoluzione. Incoraggiate dalla nascita nel 1892 di un
nuovo partito socialista a base nazionale, combattive organizzazioni di lavoratori stavano spuntando tra i braccianti
agricoli della Valle Padana; e in Sicilia un movimento noto come i Fasci (a designare la forza che è il frutto della
solidarietà) si adoperava a mobilitare i contadini e a inscenare scioperi e dimostrazioni sempre più turbolenti.
Nell'agosto 1893 un'ondata di agitazioni dilagò nel paese. Innescata dall'assassinio di un certo numero di operai
italiani che lavoravano nelle saline di Aigues-Mortes, nella Francia meridionale (a Genova e a Napoli furono date
alle fiamme alcune vetture tranviarie appartenenti a una società francese; a Livorno la stessa sorte toccò a veicoli
belgi), crebbe rapidamente fino a diventare una più generale rivolta operaia, con gli anarchici che in molti luoghi
soffiavano sul fuoco. A Roma tre giorni di tumulti culminarono nell'occupazione di Trastevere, e quando arrivò la
cavalleria Ponte Sisto fu bloccato con barricate innaffiate di benzina e incendiate. A Napoli il caos continuò per
cinque giorni, e per riportare l'ordine in città ci vollero 12.000 soldati.
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Nei primissimi giorni del gennaio 1894 in Sicilia fu proclamato lo stato d'assedio, e furono spediti nell'isola 40.000
soldati. Alla fine del mese tribunali militari appositamente istituì avevano condannato alla deportazione più di mille
sospetti. Furono vietate le assemblee pubbliche, introdotta la censura e sequestrate le armi.
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Per Crispi era essenziale far sì che il paese si schierasse unito al suo fianco. Una grossa preoccupazione era
l'estrema sinistra, perché sebbene la forza parlamentare di radicali, repubblicani e socialisti fosse tuttora
relativamente modesta (una cinquantina di deputati), essi avevano un grande (e crescente) seguito popolare,
specialmente in Romagna e in Lombardia. E tra i loro capi c'erano uomini oggetto di un vero e proprio culto, come
il beone, poeta, drammaturgo e inveterato duellante Felice Cavallotti, il cosiddetto «bardo della democrazia», la cui
pugnace e spesso pesantemente ingiuriosa retorica accendeva nei suoi uditori un entusiasmo frenetico. La Lombardia
costituiva un problema speciale: non solo era il centro del nuovo partito socialista guidato da Filippo Turati, un
abile giovane avvocato, ma ospitava altresì i principali imprenditori manifatturieri e industriali italiani, che
cominciavano a risentirsi del fatto che i frutti del loro successo venivano prelevati sotto forma di imposte da un
corrotto establishment politico romano alla cui testa c'era un vecchio siciliano con gusti dispendiosi in politica
estera. Milano non aveva mai mostrato un grande entusiasmo per l'Italia unita, e nel corso degli anni Novanta questa
freddezza s'era ulteriormente accentuata, col risultato che gli appelli al federalismo, e addirittura alla secessione pura e
semplice, diventarono insistenti.
Crispi sapeva che i disordini siciliani avevano essenzialmente un carattere socioeconomico e spontaneo, ma
politicamente gli riusciva utile suggerire che fossero il risultato di una cospirazione, preferibilmente straniera. Niente
era tanto adatto a generare solidarietà nazionale quanto una minaccia esterna, e sulla scia degli omicidi di
Aígues-Mortes c'era molta gente dispostissima a credere che dietro l'agitazione ci fosse la mano della Francia.
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p. 392-293
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Ma alla Camera cominciò a montare l'opposizione a Crispi. Un disegno di legge radicale che voleva risolvere i
problemi agricoli della Sicilia distribuendo la terra ai contadini fu denunciato dai conservatori come
"socialista" e bloccato; e col crescere del malcontento a destra, i nemici di Crispi manovravano contro di lui.
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Fuori delle roccheforti radicali della Lombardia e della Romagna, la sospensione del parlamento fu accolta con poca
sorpresa e scarsa opposizione. Nel corso degli anni Ottanta la reputazione della Camera era sprofondata ...
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Parecchi autorevoli personaggi chiesero un ritorno alla lettera dello Statuto, con l'esecutivo responsabile davanti
al re, non davanti al parlamento; e Crispi arrivò a suggerire l'abolizione della Camera e la sua sostituzione' con
un Senato non elettivo e dotato di poteri esclusivamente consultivi. «Il sistema parlamentare non è fatto pei popoli
latini», disse alla regina, echeggiando concezioni sociologiche alla moda sulla tendenza delle assemblee e delle folle
ad accentuare l'individualismo e l'emotività (già di per sé esaltati) dei meridionali.
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Le elezioni si svolsero nel maggio 1895. In un tentativo d'indebolire l'estrema sinistra Crispi aveva aperto (utilizzando
canali segreti) negoziati con il Vaticano, arrivando a invitare pubblicamente in un discorso le «due autorità, la civile e
la religiosa», a serrare le file di fronte al socialismo e a combattere insieme la «setta infame» che stava traviando le
masse. Mise inoltre una particolare cura nell'organizzare in gennaio un sontuoso matrimonio in chiesa per la figlia, cui
presenziarono due cardinali. Ma il papa s'era rifiutato di ammorbidire il non expedit (almeno a livello formale), col
risultato che l'appoggio della gerarchia cattolica ai candidati liberali fu trascurabile.
Adua
p. 394-397
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Come nel 1889-90, Crispí dovette accontentarsi di cercare in Africa quel successo militare che gli era sfuggito in
Europa. Nel corso del 1894, muovendo dall'Eritrea, le forze italiane s'erano spinte a sud e a ovest, conquistando in
luglio la città di Cassala; e al principio del 1895 affiorò la possibilità di assumere il controllo dell'intera provincia del
Tigré. «Se potessimo vincere! Rivolgere questa Italia impantanata nei pettegolezzi, nei sudiciumi, negli odi partigiani,
verso un'idea di gloria e di potenza! Darei per questo molti anni della mia vita», scrisse nel suo diario il prefetto di
Roma, Alessandro Guiccioli. Ma le crescenti ambizioni italiane nella regione gettarono i signori della guerra
locali nelle braccia dell'imperatore Menelik; e alla fine del 1895 l'Italia si trovava ormai ad affrontare la prospettiva
d'impiegare tutte le sue risorse in una campagna contro uno Stato africano unito e potente che disponeva di un esercito
enorme (per giunta rifornito dai francesi, che attraverso il porto di Gibuti facevano arrivare a Menelik ingenti carichi
di armi). Il pericolo diventò evidente in dicembre, quando una colonna di 2000 uomini tra soldati italiani e truppe
indigene fu massacrata da una forza grande forse venti volte tanto. Ma Crispi s'era spinto troppo avanti per fare marcia
indietro. Il comandante in Africa era il generale Oreste Baratieri, uno dei Mille di Garibaldi, e Crispi avrebbe voluto
sostituiro, in quanto non all'altezza del compito. Ma intervenne il re, e Baratieri rimase al suo posto.
Crispi aveva assolutamente bisogno fi una vittoria ...
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Sei settimane dopo, portato sull'orlo del tracollo nervoso da una incessante valanga di telegrammi che da Roma
premevano perché si decidesse ad agire, Baratieri ordinò alle sue truppe di avanzare verso l'esercito di Menelik. Aveva
sentito dire che una gran parte delle forze etiopiche erano lontane, impegnate a far foraggio. Ma l'informazione si
rivelò del tutto infondata, e le sue tre colonne, forti di circa 17.700 soldati, marciarono contro un esercito che contava
100.000 uomini. A peggiorare le cose, gli ordini impartiti da Baratieri non erano chiari, e l'abbozzo di mappa del
terreno che aveva preparato era impreciso. Il risultato fu che una delle tre colonne fini completamente separata dal
resto dell'esercito, e s'imbatté in 30.000 etiopi schierati in posizione più elevata. La battaglia di Adua (l' marzo 1896)
si risolse nella più grave sconfitta mai subita da una potenza coloniale in Africa. Circa 5000 italiani (compresi 289
ufficiali) e 2000 ausiliari indigeni furono uccisi. Il numero dei feriti fu molto più grande. I morti e una parte dei
prigionieri furono castrati. Le perdite etiopiche furono stimate in 12.000-14.000 uomini. Baratieri sopravvisse alla
battaglia. Con appropriato simbolismo, non poté vedere granché di quel che avveniva, perché nella confusione aveva
perso il pince-nez. Bísognò allontanarlo dal campo di battaglia in sella a un cavallo.
Assassinio a Monza
Sulla scia della catastrofe Crispi si dimise, e il nuovo governo fece la pace con Menelik e ridimensionò la
presenza militare ítaliana in Etiopia. Ma il mutamento di rotta in politica estera non produsse una maggiore stabilità
in patria. Al contrario, l'umiliazione di Adua, e il (fondato) sospetto che il re non fosse immune da responsabilità
(come Crispi, Umberto aveva disperatamente voluto una vittoria, e sciaguratamente protetto Baratieri), fornirono
all'estrema sinistra nuove munizioni. La forza dei socialisti e dei radicali crebbe rapidamente in regioni come la
Lombardia e la Romagna, e il governo ricorse nervosamente alla repressione nel tentativo di arginare la
marca montante. Nel 1897 il Partito socialista, ricostituitosi dopo lo scioglimento di tre anni prima, si trovò
ad affrontare una dura persecuzione; e quando al principio del maggio 1898 scoppiarono a Milano gravi
disordini, causati da un'impennata del carovita e dalla recente ondata di dolore popolare seguita alla morte di
Felice Cavallotti (ucciso durante il suo trentunesimo duello: la spada dell'avversario gli aveva reciso la carotide), la
reazione del governo fu brutale. Scese in campo l'esercito, che utilizzò l'artiglieria, col risultato che secondo le
stime ufficiali 80 persone furono uccise e 450 ferite (ma le cifre reali furono probabilmente più che doppie). Furono
effettuati migliaia di arresti, vennero chiusi alcuni giornali e sciolte le associazioni «sovversive». E quasi a
sottolineare l'abisso che adesso più che mai divideva l'Italia politica dall'Italia reale, il re conferii al generale Bava
Beccaris, il comandante delle truppe milanesi, la croce di grand'ufficiale dell'Ordine militare di Savoia per «il grande
servizio che Ella rese alle istituzioni e alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della
Patria".
Sulla scia dei disordini, il governo cercò di far approvare una serie di disegni di legge miranti ad accrescere i poteri
della polizia in materia di ordine pubblico e a limitare la libertà di sciopero.
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Il 29 luglio, circa sei settimane dopo le elezioni, il re Umberto presenziava a un saggio atletico della società
ginnica «Forti e Liberi» in uno stadio di Monza, a nordest di Milano Nella folla c'era un uomo di trent'anni, alto,
elegantemente vestito, da poco rientrato in Italia dagli Stati Uniti. Gaetano Bresci era un operaio tessile
specializzato che nel 1895 era stato deportato nella colonia penale di Lampedusa per aver fatto parte di gruppi
anarchici in Toscana, la sua regione natale. Al principio del 1898 era emigrato negli Stati Uniti, dove insieme con
la giovane moglie irlandese aveva messo su casa a Paterson, nel New Jersey, una città specializzata nella produzione
della seta che ospitava una grossa comunità di immigrati italiani, molti dei quali, come Bresci, erano anarchici. Bresci
era stato profondamente sconvolto dalla repressione dei Fasci siciliani, e orripilato dal fatto che nel 1898 il re aveva
«premia[to] gli autori delle stragi di maggio anziché impiccarli».
Lo spirito del Risorgimento, incarnato da combattenti per la libertà come Garibaldi (poco prima di partire per Monza
Bresci aveva assistito all'inaugurazione di una sua statua a Bologna), era stato tradito. Alle 8,20 di sera, dopo la
consegna dei premi agli atleti, Umberto salì in una carrozza scoperta, che doveva riportarlo alla villa reale. Scorse un
amico in mezzo alla folla e si alzò per salutarlo. Bresci sparò quattro volte. «Credo sia niente» furono le ultime
parole del re. Bresci fu condannato all'ergastolo, ma secondo i resoconti ufficiali nel maggio 1901 s'impiccò in cella. I
documenti che potrebbero confermare la versione del suicidio sono scomparsi.