prolusioni /2 - Archivio di Stato di Perugia

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prolusioni /2 - Archivio di Stato di Perugia
Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica
aa. aa. 2012-2014
PROLUSIONI /2
Perugia 2012
ELOGIO DEL LAVORO BEN FATTO
Erminia Irace
(Università di Perugia)
Prolusione pronunciata all’inaugurazione dei corsi
della Scuola di archivistica, paleografia e diplomatica
dell’Archivio di Stato di Perugia il giorno 20 novembre 2012
Tony Judt è stato un importante storico contemporaneista inglese, esperto
in particolare delle ideologie politiche del Novecento, argomento sul quale
ha pubblicato molte ricerche, tradotte anche in italiano. È morto nel 2010,
a causa di una terribile malattia degenerativa (una sclerosi laterale
amiotrofica). Negli ultimi mesi di vita dettò a un amico – giacché la
malattia gli impediva di utilizzare le mani per scrivere – una sorta di libro
di ricordi, che volle intitolare The Memory Chalet (Lo chalet della memoria.
Tessere di un Novecento privato: così suona il titolo nella versione italiana,
edita presso la casa editrice Laterza nel 2011). In questo volume Judt
ripercorre frammenti della propria esistenza, rileggendoli come si trattasse
di documenti storici, ossia frammenti di un vissuto individuale che essendo
oramai passato, scomparso, possono essere interpretati come
testimonianze di valenza più generale, cioè come altrettante
esemplificazioni della storia sociale, e culturale, del XX secolo.
Tra queste “tessere”, che valgono da testamento intellettuale, Judt ha
incluso il ricordo di un suo insegnante di lingua tedesca dei tempi del
college: Paul Craddock, detto Joe. In una scuola della provincia inglese dei
primi anni Sessanta del secolo scorso, Joe era stato capace di insegnare in
soli due anni ai suoi allievi, tra cui era Judt, una raffinata conoscenza del
tedesco, al punto da metterli in condizione di leggere Kafka in versione
originale.
Come aveva fatto? Racconta Judt: «Non c’era niente di misterioso
riguardo ai metodi didattici di Joe. Imparavamo passando ogni giorno ore a
studiare la grammatica, il vocabolario e lo stile linguistico, in classe e a casa.
Ci sottoponeva a test quotidiani di memoria, ragionamento e
comprensione. Gli errori erano puniti inflessibilmente: ottenere meno di
diciotto su venti in un test di vocabolario significava essere ‘tonto!’» o
anche «pura spazzatura!». «Presentare qualunque cosa non fosse un
compito inappuntabile significava condannarsi a subire una furibonda
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tirata da parte di una testa vorticante di capelli grigi, prima di rassegnarsi
umilmente a ore di reclusione ed esercizi supplementari di grammatica».
Il ricordo di Judt prosegue con queste parole: «Eravamo terrorizzati da Joe,
eppure lo adoravamo […] mai un complimento, una parola affettuosa o
un’attenuazione della stroncatura. Marciava verso la cattedra, ci sbatteva
sopra i libri […] e ci dava tutto se stesso: cinquanta minuti di
insegnamento della lingua intenso, puro, inarrestabile». Di tutti gli anni
passati tra scuola e università, Judt ha voluto tramandare la memoria
proprio del terribile Joe, che ha definito «il miglior insegnante che abbia
mai avuto».
Tony Judt ben sapeva, come del resto sappiamo anche noi, che l’epoca
dei Joe è tramontata. Negli anni Sessanta era ancora diffusa, in famiglia
come a scuola, l’educazione alla severità, un fatto che può essere certo
criticabile sotto molti punti di vista, ma che conduceva per abitudine ad
introiettare i princìpi del rigore e della precisione intellettuale. Adesso,
invece, per via di varie ragioni, il clima pedagogico si è fatto assai più
accogliente e simpatetico. Nessuno di noi commenterebbe una prova
scritta di uno studente dicendo che è «pura spazzatura!», né imporrebbe al
medesimo «ore di reclusione» da trascorrere in esercizi.
Ma se l’atmosfera è cambiata, figure di maestri di quel tipo esistono
ancora. Se ci si pensa bene, dentro ognuno di noi vive un piccolo (o
grande) Joe. È la nostra parte più intima e riflessiva, quella che spesso non
è soddisfatta di quello che abbiamo fatto, delle cose che abbiamo operato, e
che ci ricorda incessantemente che potevamo far meglio, che potevamo
dare di più. Il nostro Joe è la parte incontentabile, che ci giudica e ci
sprona, spesso rimproverandoci. Nel contempo, è una componente
dinamica perché nello spingerci avanti, nell’invitare a non fermarci, ci
conduce verso orizzonti via via nuovi, pensieri che non avevamo pensato,
interrogativi che fino a un minuto prima non ci eravamo posti. Il nostro
Joe è dunque incontentabile, ma anche curioso e appassionato: proprio
come il professore di Tony Judt.
Lo studio, la ricerca, l’investigazione sono i momenti che più lo esaltano.
Talvolta non abbiamo voglia di dargli retta, perché il nostro Joe è creatura
esigente. Tuttavia, sono proprio i momenti dello studio, tanto più dello
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studio passato da soli, a tu per tu col nostro oggetto di ricerca, quelli nei
quali la voce di Joe si fa sentire più insistentemente.
Questo può accadere in tutti i tipi di attività intellettuale: per esempio a
uno scienziato nel suo laboratorio, a un architetto che si affatica in un
progetto; ed anche – reprimo la tentazione di dire: soprattutto - a un
umanista alle prese con i materiali del suo lavoro, che sono innanzitutto le
fonti, la documentazione. Materiale, per l’appunto, viene spesso chiamata
la documentazione: materiale di lavoro, come si trattasse di materia grezza
da lavorare e rifinire. Un lavoro paziente, a tratti umile, di solito lungo, che
conduce a un risultato che non è quasi mai quello sperato. Il prodotto
finale, infatti, di rado è bello e compiuto come avremmo voluto che fosse.
In genere, ci appare imperfetto; e rimane lì, a guardarci di sottecchi,
stimolandoci ulteriori domande. Questo è il lavorìo di Joe.
In particolare, molte sono le discipline alle quali si può ricorrere per
analizzare un documento (quali la paleografia, la diplomatica e
l’archivistica), ma poi ve n’è un’altra, la metodologia storiografica, quella
inerente il cosiddetto “mestiere di storico”, che sa far tesoro di tutti gli altri
metodi di analisi dei documenti, ma che contemporaneamente ha un suo
approccio particolare
Il quale approccio si riassume in due domande. La prima domanda: il
dettaglio che sto esaminando che cosa racconta della società del passato?;
in altri termini: questo dettaglio che cosa significa? La seconda domanda:
perché? Perché viene adoperata proprio questa espressione e non un’altra?,
perché questo ordine di argomentazioni e non un altro?, perché questo
documento lo trovo in questo fondo archivistico e non in un altro?; e così
via, si potrebbe continuare a simulare interrogativi.
In verità, esisterebbe una terza questione fondamentale, che è: come lo
racconto tutto questo che ho trovato? Ma essa ci porterebbe assai lontano,
giacché la costruzione dell’esito finale di una ricerca storica, saggio o
volume che sia, una dimensione che rappresenta almeno un buon 50% del
“mestiere di storico”, meriterebbe da sola un’apposita prolusione.
Rimaniamo dunque alle prime due domande: che cosa significa questo e
perché è proprio così. Sono soltanto due, ma esse devono martellare
continuamente nella testa dello studioso, guidandolo passo dopo passo
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nella lettura e nella decostruzione delle fonti, delle loro caratteristiche
estrinseche e di quelle intrinseche. In sostanza, lo storico al lavoro è uno
che si chiede sempre perché e che cerca la risposta a questi perché
smontando parola per parola i documenti. Non a caso, uno dei significati
del verbo greco historeîn (legato a istorìa, storia) è per l’appunto:
“domandare”: lo storico è colui che fa domande; cioè si informa e a partire
da questa procedura è in grado di scrivere la sua ricostruzione (la ἱστορίης
ἀπόδεξις, il risultato delle ricerche, come suona il Proemio alle Storie di
Erodoto). In questa ossessione per le domande sta il Joe di ogni storico ed
è precisamente questa operazione che consente a ogni generazione di
studiosi di mettersi in dialogo con il passato, il quale altrimenti, con il suo
linguaggio così differente da quello di oggi, rappresenterebbe un muro
invalicabile.
Dunque, ogni documento ha una sua storia da raccontare, piccola o
grande che sia, e lo storico è colui o colei che interrogando il documento si
mette in ascolto di quanto esso ha da narrare. Ma come si svolge,
precisamente, questa fondamentale operazione?
In genere, nei manuali di metodo storico si presentano esempi che si
riferiscono al medioevo, meglio se cronologicamente non troppo avanzato.
La preferenza va spesso all’alto medioevo o ai secoli del medioevo centrale:
periodi per i quali sono rimasti pochi documenti, che sono, anzi, a causa di
tale scarsità, devono essere analizzati con la maggiore profondità possibile.
Viceversa, sempre parlando in generale, chi studia i periodi successivi, e
specie l’età moderna e la contemporanea, si trova di fronte problemi
differenti: ha molta documentazione, pertanto deve imparare a selezionare
i documenti, oltre che a scavare in profondità. Tuttavia, rimane il fatto che
i medievisti sono i maestri indiscussi dell’analisi documentaria: imparare
dalle loro abilità sopraffine serve a tutti, anche a coloro che studiano altre
epoche. Pertanto, l’esempio concreto che ora mi accingo a illustrare lo
riprendo da un grande medievista, uno dei massimi esponenti della
cosiddetta scuola delle Annales: Georges Duby, autore di studi
fondamentali sulla società feudale francese, sulla storia del matrimonio e su
molto altro.
In una sua autobiografia, pubblicata un po’ di anni fa (titolo
dell’edizione italiana: La storia continua, Milano, Bompiani, 1992), Duby
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raccontò di quando, giovane dottorando nella Francia occupata dai nazisti
del 1944, passò mesi e mesi a leggere i documenti prodotti tra XI e XII
secolo dall’abbazia di Cluny e da altri enti ecclesiastici situati in Borgogna.
Era il lavoro preparatorio per il suo monumentale libro sulla società
francese del medioevo. Si trattava di documenti per i quali egli disponeva
per lo più di edizioni, approntate nell’Ottocento, e in minor misura di
copie, ovviamente manoscritte, risalenti ai secoli bassomedievali. Dunque,
Duby studiò soprattutto in biblioteca, più che in archivio; ma se l’esistenza
di edizioni gli risparmiò il lungo impegno di trascrizione delle fonti, lo
studio delle medesime fu comunque un lungo corpo a corpo.
La maggior parte delle più antiche carte di Cluny, come di tutte le
abbazie del tempo, consiste in atti che si riferiscono a titoli di possesso
(acquisti di terre, permute, donazioni), destinate a essere eventualmente
prodotte in sede di giudizio. Tali documenti, inesorabilmente tutti in
latino, sono ricchi di formule giuridiche, che si ripetono in maniera
pressoché identica dall’uno all’altro. Tuttavia, ogni tanto, leggi che ti
rileggi, saltano fuori anche altri tipi di documentazione, più rari
quantitativamente ma assai più succosi sotto il profilo dei contenuti.
Ecco, dunque, come Duby, offrendo una lezione di metodo storico,
raccontò di essersi confrontato con un documento particolarmente
significativo (che egli riporta e commenta alle pp. 43-47 de La storia
continua, sopra citata). È un documento privo di data ma databile, sulla
base dei contenuti, intorno al 1090. Fu scritto da un monaco di Cluny ed è
stato edito al numero 3649 del Recueil des chartes de l’abbaye de Cluny,
pubblicato a cura di Augustin Bernard e Alexandre Bruel tra 1876 e 1903.
Si tratta, raccontò Duby, «di un promemoria, una semplice nota buttata
giù su un pezzo di pergamena»: il classico pezzetto che, a prima vista,
sembrerebbe di scarso interesse. Il documento stabiliva da quale ente
dipendeva un gruppo di persone, che abitavano attorno all’abbazia di
Cluny e in altre due località della zona, Ozan (Osanum) e Blanot
(Blanoscum). Il titolo riportato in testa all’edizione (Notitia altercationis pro
hominibus Cluniacensibus, eccetera, fu apposto dagli editori ottocenteschi
del documento). La storia che questo «pezzo di pergamena» racconta è
una successione di generazioni: è una genealogia.
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Sunteggio l’analisi della prima parte del documento così come l’ha
proposta Duby:
Primo venit quidam liber homo ad Osanum villam
In primo luogo un uomo di libera condizione (molto interessante questa
menzione di libertà, per l’epoca e lo statuto sociale di cui tratta il
documento) arrivò (da dove veniva questo quidam? non lo sappiamo e
tuttavia un uomo libero che arriva da qualche parte allude all’esistenza di
una mobilità nella società del tempo, gli uomini si spostavano, anche se la
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memoria non ne ha trattenuto il nome). Dove arriva? : nella villa di Ozan.
Come si sa da altri documenti, nel XII secolo villa equivale a quello che noi
chiamiamo un villaggio, un piccolo insediamento; e si sa anche che Ozan
non dipendeva da Cluny, ma da un altro ente ecclesiastico delle vicinanze,
cioè la cattedrale di Saint Vincent di Mâcon.
qui cum ibi in libera voce mansisset, commendavit se senioribus ipsius
ville.
il quale uomo si stabilì lì (ad Ozan), ossia si insediò stabilmente (verbo
manere, che rinvia a una residenza fissa). in libera voce, e qui attira
l’attenzione il termine vox: egli arrivando ha detto: “eccomi, mi fermo tra
voi, accettatemi, ma sono libero”. Era vero che era libero? chi era in grado
di controllare? si dovevano fidare sulla parola.
Comunque, per quanto libero, non poteva rimanere indipendente a
lungo; si dovette commendare, cioè affidare, porre sotto la protezione di
patroni (commendare è il termine adoperato nel linguaggio vassallatico e
allude alla dipendenza gerarchica di una persona da altre). A chi si affida? :
ai seniores del villaggio: i signori, si può opportunamente tradurre, quelli
che avevano la giurisdizione sul villaggio (seniores è anch’esso un termine
del linguaggio vassallatico). Come si capisce dal resto del documento,
questi signori erano i canonici del capitolo della cattedrale di Mâcon.
Contigit ut postea quaedam libera femina similiter advenerit
In seguito avvenne che arrivò (advenire, venire a, immigrare) in modo
simile una donna, anch’essa di condizione libera. Colpo di scena: i
movimenti migratori non riguardano soltanto gli uomini.
quam predictus homo duxit uxorem
e il predetto uomo la sposò (la prese in moglie: non si dice se lei si sposò di
propria iniziativa oppure fu qualcuno della famiglia, migrato assieme a lei,
che combinò le nozze).
et procreatis infantibus ambo defuncti sunt.
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entrambi gli sposi morirono dopo aver generato dei bambini. Qui si
comincia a capire che il documento parla di una successione di generazioni.
De quibus infantibus una femina venit ad Blanoscum, nomine
Marchildis, aliis in Ausano remanentibus.
Di questi figli, una donna che si chiamava Marchilde venne a Blanot e gli
altri rimasero fissi (manentibus) a Ozan. Marchilde: è il primo nome di cui
questa genealogia ha conservato la memoria; è una donna, e ancora una
volta il documento attesta lo spostamento geografico di una donna. Per
quanto – illustra Duby – si trattasse di una migrazione non lontana – da
Ozan a Blanot ci sono quattro ore a piedi circa –, si doveva varcare un
fiume, che per l’epoca era quasi una frontiera. Importanza della
localizzazione geografica: la domanda “che cosa significa questo”, conduce
a andare a cercare sulla carta quanta distanza esista tra le due località
menzionate, e cosa questa distanza potesse significare nel XII secolo.
Marchildis autem accepit maritum de Blanosco
Nella sua nuova patria, Marchilde si sposa (alla lettera, ricevette un marito:
le donne non potevano vivere sole; insomma, si dovette sistemare). Anche
in questo caso, non sappiamo le circostanze dell’accordo matrimoniale, ma
in compenso sappiamo che questo marito era “di Blanot”. Qui importa
soffermarsi su questa particella de: oltre a rimandare all’origine geografica
(de Blanosco=era originario di Blanot), essa può avere forse anche un altro
significato? Sì, secondo l’attento lettore Duby, poiché, stante tutto il
contesto del documento in cui essa appare, un contesto in cui si cerca di
ricostruire l’appartenenza giuridica di alcune persone ad alcune istituzioni
ecclesiastiche, questo de molto probabilmente assume anche un significato
giuridico. Esso indica che il marito di Marchilde non era un uomo libero,
bensì era di condizione soggetta, nella fattispecie faceva parte della
giurisdizione da cui dipendeva Blanot, la quale dipendeva da Cluny.
Questo marito, insomma, era un homo di Cluny.
Ricapitolando, il marito era di Blanot – in senso geografico e giuridico -,
mentre Marchilde proveniva da Ozan. Siamo in presenza dell’attestazione
della pratica dell’esogamia in ambiente rurale (un uomo si sceglie una sposa
originaria di un altro paese, ancorché vicino, ossia i due coniugi non sono
nati nello stesso luogo) ma anche della pratica dell’isogamia (marito e
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moglie sono due dipendenti, e lei lo è da parte del padre, che si era
commendato).
de quo genuit infantes Guntardum et Gunterium et Ermensindam,
matrem Ingelmari
Marchilde e suo marito hanno tre figli. Qui Duby risparmia di notare, ma
noi invece lo facciamo, che nessuno di tutti questi nomi è un nome del
santorale cristiano, una pratica che si diffonderà massicciamente in tutta
Europa almeno un secolo più tardi. In ogni caso, di questi figli, quella
importante è la donna: Ermensinda, che fu a sua volta madre di Ingelmarius
(Engeumier, in francese).
Si può ipotizzare che fosse proprio quest’ultimo nominato, Ingelmarius,
che andò a illustrare la propria genealogia al monaco redattore di Cluny.
Ingelmarius discendeva in linea materna da due bisavoli immigrati di cui
serbava memoria, pur non ricordandone il nome (ma ricordava il nome
della nonna, Marchilde), e che sapeva bene essere stati, in un tempo
lontano, di condizione libera, e che avevano dato origine a una ramificata
discendenza, parte insediata a Ozan e parte a Blanot.
Insomma, siamo di fronte a una genealogia contadina (in realtà si tratta
di due genealogie differenti, perché la seconda parte del documento ne
riporta un’altra). Breve, sintetica, ma preziosissima poiché rarissima per
l’epoca. Una genealogia in cui un ruolo di primo piano è svolto dalle donne
– dunque, ancor più preziosa, giacché nei secoli successivi la menzione
delle donne scomparirà dalla maggior parte delle genealogie - , rimasta
impigliata, per ragioni afferenti alla titolarità di diritti, nella
documentazione di Cluny.
Il documento racconta di uomini e donne che si muovono, che possono
anche essere liberi e poi cambiare condizione. Una storia mobile, intessuta
di cambiamenti, che non è contraddistinta da ruoli fissi e cristallizzati,
come in maniera superficiale ci si aspetterebbe. Questi uomini e queste
donne non sono servi della gleba obbligati a rimanere tutta la vita a
lavorare sullo stesso pezzo di terra. Una storia così, con queste
caratteristiche, apre alla ricerca di altre storie simili e, in definitiva, a un
intero spaccato della società medievale.
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L’analisi attenta, rigorosa, interrogando parola per parola, senza fermarsi
né di fronte alle difficoltà né davanti al significato più immediato delle
espressioni (quel “di Blanot”, che può essere un riferimento giuridico e non
soltanto geografico), quell’analisi capace di ridare vita al passato
trasformandolo in un oggetto appassionante, è stata condotta perché Duby
diede ascolto alla sua voce interiore che lo spingeva a inoltrarsi ancora e
ancora nelle domande.
Infatti, anche i grandi storici hanno le loro voci interiori. Per rimanere
ad esempi francesi: Jacques Le Goff ha confessato che ogni tanto,
scrivendo, gli capita di pensare: chissà che direbbe Marc Bloch di questa
frase che ho scritto?
Quale la posta in palio per un tipo di indagine così minuziosa? I
complimenti dei superiori (docenti, altri responsabili) : ma non confidate
troppo in loro, non delegate completamente ad altri il giudizio sulle vostre
capacità. Oppure la pubblicazione della ricerca, compiuta secondo tutti i
crismi dell’analisi documentaria; meglio ancora una progressione
lavorativa: ma sappiamo quanto tutto questo oggi è avvolto nell’ incertezza.
Il premio alla fatica non sta tanto o soltanto nei riscontri esterni. Esso
risiede, in primo luogo, nella nostra personale, intima soddisfazione, che
sta nell’avere accontentato il nostro Joe interiore. Si può essere soddisfatti
perché ci si rende conto di aver fatto bene il proprio lavoro, perché questa
volta si è dato il massimo.
Vedersi davanti il proprio lavoro compiuto: c’è in questo tutto «il lato
artigianale» del lavoro dello storico, che produce un «oggetto ben fatto,
fatto con le mani». Sto riprendendo di nuovo parole di Duby, che così
prosegue: «lo storico è costretto a lavorare in bottega. Come sul bancone,
egli sistema i testi. Li prende, li lavora, cerca di ammorbidirli, di
assemblarli, un po’ come mio nonno, che era un artigiano del cuoio [e]
confezionava una sella di cavallo».
Il paragone tra il “mestiere di storico” e il lavoro manuale, un paragone
che è adoperato da moltissimi storici, come elemento forte connotante la
propria professionalità, fa, inevitabilmente, venire alla mente un preciso
rinvio letterario, con il quale intendo concludere.
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Questo rinvio è un famoso romanzo di Primo Levi: La chiave a stella.
Esso mette in scena un dialogo immaginario tra uno scrittore e un operaio
specializzato, tale Libertino Faussone. Faussone è un montatore di gru e
altri impianti sospesi, chiamato a lavorare in varie parti del mondo proprio
per la sua competenza e abilità. Nel dialogo con l’amico scrittore, Faussone
descrive punto per punto le tecniche che egli adopera nel lavoro, i problemi
concreti (cantieri, ponteggi) che gli si sono posti davanti e che è riuscito a
superare con l’aiuto della sua compagna fedele, la chiave a stella che dà il
titolo all’opera. È il racconto di un’appassionata competenza professionale;
Faussone sa fare bene il suo mestiere, gli piace farlo, così come si
entusiasma nel cercare di risolvere le più svariate difficoltà tecniche.
Scrive Levi
Siamo rimasti d’accordo su quanto di buono abbiamo in comune», ossia lui, lo
scrittore, l’intellettuale, e Faussone il tecnico. «Sul vantaggio di potersi
misurare, del non dipendere da altri nel misurarsi, dello specchiarsi nella
propria opera. Sul piacere di veder crescere la tua creatura, piastra su piastra,
bullone su bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo
finita la guardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a
qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce. Magari potrai tornare a
guardarla da vecchio, e ti sembra bella, e non importa poi tanto se sembra bella
solo a te, e puoi dire a te stesso ‘forse un altro non ci sarebbe riuscito’.
Dunque, per quanto è possibile esserlo su questa terra, Faussone, nel
confezionare il suo lavoro ben fatto, è un uomo felice.