Raggio di sole - Associazione Dialogare Incontri

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Raggio di sole - Associazione Dialogare Incontri
Premio Dialogare 2014
“Domani? Non so…”
Racconto con segnalazione particolare
Raggio di sole
di Michele Barbera, Menfi
Massagno, 27 marzo 2014
Raggio di sole
Lo sciabordio delle onde è ormai un rumore a cui mi sono assuefatto. E’ una cantilena
che mi tormenta da non so quando, interrotta solo dai cupi ed affannati singulti del motore.
A bordo c’è puzza.E fame. Ho pure sete, ma non chiedo l’acqua. So che è razionata e la
danno quando dicono loro, non quando si ha sete.
Per fortuna l’orizzonte si sta rischiarando.
Mi rannicchio per assorbire gli ultimi brividi di gelo. Le notti sul mare sono fredde e nere.
Accanto a me dorme ancora Ysid, un siriano di cui, oltre il nome, non so nulla.
Non c’è molto spazio. Ieri hanno buttato in mare uno di noi. Era morto. Di non so che.
Forse di fame. O, forse, di qualcos’altro che è meglio non sapere.
Gli hanno frugato nelle tasche, trovando pochi dinari. Gli hanno tolto le scarpe ed il
giubbotto. I pantaloni no. Erano laceri e sporchi di urina ed escrementi.
Quando ho sentito il tonfo del corpo che incontrava l’acqua del mare nel freddo
abbraccio della morte ho chiuso gli occhi.
“Deve finire!” Mi sono messo a pensare. “Deve finire. Tutto questo.”
Avevano promesso di portarci in Italia entro uno o due giorni, ma qualcosa deve essere
andato storto. Non so da quanto siamo in mare. Forse tre giorni. O quattro.
Hanno litigato. Uno di loro ha accusato l’altro di non aver abbastanza carburante, l’altro
di aver sbagliato rotta. Si preoccupavano di finire alla deriva. Hanno provato con il
satellitare a telefonare ma non ha risposto nessuno.
Per tutto il giorno hanno aspettato una nave che non è arrivata. O un elicottero. O un
aereo.
La sagoma di qualcosa di grosso e scuro è spuntata a dritta in serata.Ci siamo alzati
tutti. A rischio di far capovolgere il peschereccio. Ma la nave è svanita sull’orizzonte come
un fantasma.
Ho paura. Di non so che. Forse è paura e basta. Qualcosa che ti si infila dentro come
un serpente che si arrotola alla gamba. E sei costretto a non muoverti per non farti
mordere. Aspetti che se ne vada da solo, che ti lasci vivo. Che non ti uccida.
C’ è una donna a bordo. Incinta. Qualcuno le ha detto che se partorisce in Italia il figlio
sarà italiano, avrà una patria nuova, una vita nuova, lontano dalle polveri del deserto, dalla
fame, dai pidocchi e dai topi. E dalla guerra.
Non ne sono così sicuro. Rannicchiato sul ponte della nave, stretto fra centinaia di
corpi, agitati da tremiti, mugugni, lamenti, rabbia, non ne sono così sicuro. E stringo i denti
per non abbandonarmi ad una nostalgia rabbiosa per quello che ho lasciato.
Il pianto di un bambino.
Lo sento. E’ flebile, continuo, disperato. Deve essere a pochi passi da me. Nel
chiaroscuro dell’alba lo vedo: è stretto ad una donna che lo guarda con gli occhi assenti.
Avrà fame o, forse, sete. E’ nerissimo. Ha del muco attaccato al naso. Non si preoccupa di
toglierlo. La donna gli posa la mano sulla testa, accarezzandola per acquietarlo.
Dicono che se non ti muovi eviti di consumare energie. E di avere sete. O fame.
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Le mie gambe lunghe, costrette a stare piegate, sono anchilosate. Nel mio villaggio io
ero quello che correva più veloce di tutti. In questo momento mi rivedo libero, correre lesto
nella pista che percorreva la savana. Con le mie gambe lunghe e smagrite.
Mio cugino Ulié mi ha convinto a lasciare tutto. E’ stato un brutto giorno.
Il villaggio era stato razziato dalla banda di quello che si fa chiamare Moahmed il
Grande. I suoi lo chiamano Generale e dicono che un giorno governerà l’Africa. Avevano i
fucili. Sono scesi come un branco di cavallette dalle loro macchine. Sono entrati nelle
capanne ed ogni volta che entravano si sentivano urla e i crepitii dei colpi sparati. Hanno
preso tutto. E’ la legge del più forte.
Chi non correva e scappava è stato ucciso. Quando mi sono accorto dei soldati mi sono
nascosto tra gli alberi accanto il fiume. Sono ritornato al villaggio con Ulié quando abbiamo
visto le macchine del Generale andarsene. Una scia di fumo nera si alzava inquieta e
contorta su nel cielo. Delle capanne era rimasto poco e niente: il fuoco appiccato dai
soldati aveva divorato tutto.
Mia madre è morta. E mia sorella. Ho trovato il corpo di mio padre fuori dalla capanna
con il ventre squarciato da colpi di machete. C’erano cadaveri dappertutto. E le mosche.
Quante, sopra i morti. Da dietro i cespugli rosi dalle capre sono spuntate alcune donne
piangenti e con le mani e le vesti sporche di sangue. Si tenevano il basso ventre. Ho visto
un ragazzo che rantolava: una rosa di sangue gli macchiava il petto.
Siamo fuggiti. Io e Uliè.
Verso il nord, verso il grande mare che dà la salvezza. Mio cugino mi esortava, mi
spingeva ad andare avanti, anche quando le gambe non reggevano più. Il grande,
coraggioso Uliè.
Siamo stati due mesi nella Grande Città. Rubavano quel che potevamo. Ci siamo
nascosti in un edificio abbandonato, occupato da altri disperati come noi. Qualcuno si
ubriacava e veniva derubato. Il giorno andavamo a caccia di turisti a cui rubare o
elemosinare pochi dinari oppure svolgevamo lavori di carico e scarico merci al porto. Uliè
mi presentò ad alcuni suoi amici che portavano attraverso il deserto le armi. Per unirci a
loro. Era un lavoro facile e si guadagnavano tanti soldi. Presto avremmo avuto quanto ci
bastava per pagarci il viaggio.
E, poi, la libertà.
Un giorno, con un vecchio furgone avevamo portato due scatole di fucili ed una di
munizioni alle rovine di A***.Quando siamo arrivati là non c’era nessuno. Né i guerriglieri,
né il corriere con i soldi. Nessuno a cui affidare il nostro carico pericoloso. Uliè e Tommy, il
contrabbandiere, cominciarono a dare segni di nervosismo. Decisero di scaricare le armi
lo stesso. Ma quando aprirono il furgone per scaricare le scatole, una raffica di mitra li
raggiunse alle spalle.
Caddero a terra senza un gemito.
Con un salto mi buttai di lato per scartare i colpi che mi arrivavano addosso. Sono
caduto a terra e devo aver sbattuto la testa. Mi hanno creduto morto. E non hanno
sparato: nel deserto anche le munizioni sono merce preziosa e non vanno sprecate.
Svenuto, con la testa sporca di sangue ed il braccio ferito non avevano avuto dubbi che
ero morto. Quando mi sono svegliato ho pianto Uliè. Sono fuggito. Ancora una volta. Per il
deserto.
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Tenevamo i nostri soldi per il viaggio in una cavità del muro del nostro alloggio. Avevo
paura che altri, accorgendosi che non eravamo tornati, potessero trovarli. Per due non
erano ancora sufficienti, ma per uno sì. Ed a Uliè non sarebbero serviti più.
Ed ora eccomi qui.
La donna incinta ha preso a lamentarsi.
Uno, guardandola, si è messo a ridere. Ha la bocca sdentata. Ma non è vecchio. Avrà sì
e no i miei anni. Chissà cosa gli è successo per perdere tutti i denti.
Ysid si è svegliato. Ha cercato di stiracchiarsi, ma qualcuno lo ha rimbrottato a malo
modo. Gli faccio un po’ di posto. Lui si stringe a me. Mi chiama fratello. Ma io non lo
conosco.
Fissiamo tutti la donna incinta che si dimena e contorce.
Non ho mai visto partorire una donna. E’ impuro.
Due donne, fra cui la madre del bambino che avevo visto piangere, si avvicinano alla
partoriente. Il bimbo lacrimoso guarda la scena con occhi sgranati.
Le doglie vanno avanti. I lamenti sono diventati striduli. C’è nervosismo.
Il pilota del peschereccio guarda dalla torretta la donna con indifferenza. E’ più
interessato alle onde che si stanno facendo alte, aumentando il rollio della barca.
Loro non soffrono la sete. Bevono quando vogliono.Di nascosto a noi.
Qualcuno ha chiesto dell’acqua per la donna incinta. Uno di loroporta una ciotola sino
alla disgraziata che si contorce e sbatte il viso a destra e sinistra. Una delle donne le tiene
la testa, l’altra biascica qualcosa, forse una preghiera e traccia segni misteriosi col dito
sulla pancia nascosta dal velo imbrattato del vestito.
Vorrei fare qualcosa, ma non so cosa. Così guardo,stupito, la creatura che sta
nascendo. Quale sarà la sua patria? Il mare? A quale nazione apparterrà?
E, soprattutto, riuscirà ad arrivare sino alla fine del viaggio?
La donna inarca la schiena, urla, sento il suo dolore, lo avverto sulla mia pelle. Ysid è
come stregato dalla visione del parto. Come la maggior parte di noi uomini. Di colpo i
lamenti cessano.
Sento un pigolio, poi un gemito più alto. Le donne trafficano frenetiche attorno alle
gambe della partoriente. Mi arriva una strana puzza. Di sangue e uova marce. Qualcuno
prende un secchio di acqua di mare. Uno dei piloti si avvicina alle donne con una bottiglia
di acqua.
Finalmente quello scomodo groviglio di braccia, teste e gambe si scioglie.
Risolini di gioia e respiri di sollievo.
Una delle donne, la più vecchia, prende un fagotto di stoffa che si agita piano e lo alza
verso il sole che si sta alzando calmo sull’orizzonte.
C’è un tepore innaturale nell’aria. La luce ci inonda piano di un rosa arancione che
trascolora pian piano in un toni di un giallo vivido. E pare che riscaldi direttamente il cuore.
La donna abbassa l’involto di stoffa in cui si intravede un faccino con gli occhi chiusi. Lo
mostra orgogliosa. Siamo contenti e sollevati. Qualcuno ride e scambia pacche sulle
spalle.
«E’ femmina.» Dice soddisfatta la donna. «Si chiama Manaar, la Luce-che-guida.»
Ed indica il raggio di sole che brilla sulla superficie crespata del mare.
Guardo il visino addormentato e sorrido, pensando che la vita avrà sempre un domani.
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