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Pietro Corsi
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COMPAR GIOSE: TRA ARTE E VITA
E
ro un moccioso di una diecina di anni quando cominciai a frequentare
Giose Rimanelli per il Corso Roma di Caacalenda, suo e mio paese di
nascita. Aveva lasciato il borgo natio nel settembre del 1943, nascosto in
un camion di tedeschi in ritirata che per sua inconscia sorte lo scaraventò nella
guerra civile 1943-45. Dopo altre avventure e disavventure, a guerra finita fece
viaggi attraverso l'Europa, da Parigi alla Lapponia;, per infine stabilirsi a Roma.
Ma ogni tanto tornava in paese. Faceva quei suoi ritorni rapidi ed epici,
dilettandosi in interminabili passeggiate da un capo all'altro del paese con
giovani più vecchi di lui, specie con il già anziano Giovanni Cerri, maestro e
poeta dialettale, del quale egli pubblicò più tard I guàie (Rebellato Editore,
Padova 1959), un libro di versi con sua prefazione che doveva guadagnare a
quel maestro una notorietà nazionale.
Io li seguivo di qualche passo: perchè seguivo, seguendo lui, un miraggio
lontano, lontano: lui che aveva viaggiato mezzo mondo per scriverne sulle
pagine dei settimanali più importanti; lui che condisinvoltura imboccava ogni
tanto una pipa che gli dava l'aspetto di chi è già arivato, è già qualcuno; lui che
aveva appena pubblicato un libro (Tiro al piccione, Mondadori, Milano 1953)
del quale tutti i giornali parlavano; lui che tornava alla guida di una
decappottabile che in paese potevamo solo sperare di ammirare sulle pagine di
qualche rivista di una certa importanza.
Giose. Giose Rimanelli: il miraggio lontano.
Oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, cosa poso dire di lui? Cosa posso dire
del Rimanelli americano, di questo viaggiatore che non si stanca mai di
viaggiare, non si stanca mai di parlare, non si stanca mai di fare l'attore, non si
stanca mai di vivere?
Prima dell'estate 2000 ci siamo ritrovati in paese per un Natale che
trascorremmo a casa mia, in Terravecchia, assieme alla famiglia di mia sorella,
assieme ai miei parenti termolesi, assieme ai miei parenti di Casacalenda. Ci
raggiunse mio fratello Tittillo dal Canada e ben presto la casa si riempì. Ma chi
la riempiva era una sola persona: lui e sempre lu, Giose Rimanelli, compare
Compar Giose: tra arte e vita
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Giose. Gli avevano prestato una casa in un vicolo sul corso e lui lì soffriva,
soffriva il freddo e veniva da me per fare la doccia e farsi la barba, per
riscaldarsi al fuoco del caminetto secolare di casa Corsi, un giorno casa don
Domenico de Gennaro, che mia madre attizzava in continuazione. Per l'estate
2000 gli ho trovato alloggio non lontano da quella che un giorno fu la casetta
della sua famiglia, ove una volta c'era il sarto Valentino da lui immortalato tra le
pagine dei suoi libri ed ora c'è una macelleria abbandonata. L'indomani del suo
insediamento lo cerco a casa e non lo trovo, lo cerco per il corso e non lo trovo.
Pasquale Centillo, il giornalaio e la voce del paese, mi vede e mi dice: "Ti
cercava Giose stamattina, sul presto. È incazzato perchè lo hai messo in una
casa dove non c'è acqua, così se l'è andata a prendere alla Fontenuova, con un
bottiglione".
"Acqua?", pensai. Ma a Casacalenda l'acqua c'è, ora. Non c'era quando è
partito suo padre in cerca dell'acqua canadese, ma oggi l'acqua a Casacalenda
c'è!".
Aveva ragione lui. D'acqua, quando si è svegliato, al mattino presto, non ce
n'era. Proprio come ai giorni di suo padre, Vincenzo Rimanelli, che preso dalla
disperazione lasciò il paese e l'Italia ai primi degli anni Cinquanta per andare a
cercarsela in Canada. La trovò, e qualche anno dopo anche Giose andò in
Canada, da giornalista, per vedere se i suoi paesani, e suo padre, avevano
davvero trovato l'acqua che cercavano. Quando si rese conto che l'avevano
trovata, ne scrisse sui giornali, ne scrisse su un libro (Biglietto di terza, Milano:
Mondadori, 1958), e se ne tornò in Italia.
Rimanelli. Rimanelli americano. Tra me e lui, secondo le anagrafe, ci sono
undici anni di differenza; è più grande di me di undici anni, anche se a prima
vista sembrerebbe il contrario. È andato via dal paese attorno al '43, come ho già
detto, nascosto su un camion di tedeschi in ritirata. Io sono andato via undici
anni dopo. Ci siamo conosciuti e riconosciuti a Roma, e gli undici anni che ci
dividevano sono scomparsi. Per questo mi piace dire che sembra, oggi, che lui
ed io abbiamo la stessa età, anche se non è vero. Ma ripeto: cosa posso dire
oggi, a distanza di cinquant'anni, di compar Giose americano?
Posso, e devo dire, che senza neanche saperlo mi ha sempre fatto strada...
dove lui è stato, lì sono poi stato anche io; dove lui è andato, per caso lì sono
andato anche io, dopo di lui. Dico per caso ma era il destino che, a nostra
insaputa, stava facendo il suo lavorio. E perciò oggi, se non altro per rispetto al
"mezzo secolo" che è trascorso, è doveroso parlare di questo destino che ci ha
tracciato un sentiero: un sentiero chiamato "America".
In quei primi anni '50, quando lo seguivo per il Corso Roma di Casacalenda,
dopo aver girato un mezzo mondo Giose si era stabilito a Roma in uno squisito
caseggiato dei Parioli dove c'era un portiere in livrea, i pavimenti di marmo
lucido, il salotto come la sala d'attesa di un Ministero. Fu lì, ai Parioli per
l'appunto, che lo trovai quando io stesso lasciai il paese per la mia grande
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avventura che non sono ancora riuscito a fermare, con disperazione di mia
madre, con disperazione di mia moglie, con disperazione dei miei figli e con il
dolore di mio padre che si è portato quel suo desiderio nella tomba.
Non avevo arte nè mestiere, anche se avevo scritto piccole cose di paese, di
provincia emarginata ed abbandonata, sulle pagine regionali de Il Tempo, Il
Messaggero e Paese Sera, ed anche se avevo fatto il dattilografo presso studi
notarili e legali. Era, quello di scrivere a macchina, mestiere per un uomo? Me
lo chiedevo, e sempre mi rifiutavo di credere che lo era ο poteva esserlo, ο
avrebbe potuto esserlo. Non accettai di crederlo neanche quando, un giorno, il
rappresentante regionale della Olivetti mi invitò a partecipare ad un campionato
europeo di dattilografia in Svizzera. "Sarai l'uomo che rappresenterà l'Italia", mi
disse. Ed io, sospettoso, gli chiesi, "Chi altro partecipa?" L'uomo-Olivetti si
prese un minuto prima di rispondere e la sua risposta non mi piacque. "Per il
resto" disse, un po' timoroso, "solo donne". Non esitai a rispondere. Dissi
semplicemente: "Non partecipo!". E non partecipai, nonostante le insistenze del
mortificato rappresentante Olivetti. Perchè scrivere a macchina era mestiere di
femmina. Esistevano le dattilografe, non anche i dattilografi.
A conclusione del concorso, il rappresentante Olivetti mi fece di nuovo visita
presso lo studio legale dell'Avv. Mario D'Onofrio, a Via Roma, non lontano dal
monumento ai caduti. Aveva un'espressione di dispiacere dipinta sul volto, e mi
dispiacque per lui, perchè era un brav'uomo. Mi disse: "La campionessa europea
ha battuto 457 battute al minuto. Una bazzecola, per te che ne batti più di 500.
Saresti stato il campione!" Gli risposi: "Per me va bene così".
Quell'incidente, all'apparenza insignificante, era invece pregno di presagi. Mi
avrebbe spinto a fare un primo passo: mi avrebbe portato a Roma nutrendo la
speranza che quello di scrivere a macchina, per chi lo sapeva fare bene, donna ο
uomo, poteva essere un mestiere. Infatti, a Roma diventò il mio mestiere. Prima
in una copisteria di Via del Tritone e poi, tre mesi dopo, in un appartamentino di
Via del Viminale, di fronte al Teatro dell'Opera, da me preso in fitto con quattro
soldi di risparmio. In una delle stanze in fondo al corridoio misi un letto, nelle
altre due, che davano sull'ingresso, misi una scrivania e macchine da scrivere
Olivetti, consegnatemi a credito incondizionato da quello stesso rappresentante
Olivetti che mi voleva campione. E sul portone feci mettere una targa in bronzo
bella lucida, come quella che avevo ammirato sul portone del caro e buon
Notaio Silvestro Delli Veneri a Campobasso: "Copisteria & Ufficio Traduzioni
Viminale".
Il primo che ne ebbe notizia, nella sua splendida casa dei Parioli, fu Giose
Rimanelli che venne subito a trovarmi. Mi lasciava qualche lavoro, e io
l'indomani glielo riportavo a casa. Qualche volta mi fermavo per pranzare con
lui e con sua moglie Liliana, e per parlare dei suoi scritti, dei suoi libri. Io gli
parlavo del mio lavoro e dei copioni cinematografici che passavano nel reparto
traduzioni del mio ufficio, per lo più roba Western ma anche copioni di film
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mitologici che venivano doppiati presso la Euro International Films, mia cliente.
Gli parlavo anche di Michele Galdieri, autore di famosissime canzoni
napoletane, che in quei giorni era alle prese con programmi radiofonici e con i
primi programmi televisivi. Avevo iniziato una collaborazione notturna con il
Galdieri, dalla quale nascevano programmi settimanali ascoltati in tutta Italia.
Un giorno, senza dir niente a compar Giose, presi un paio dei suoi racconti e li
adattai per un programma televisivo. Si trattava di Un contratto di matrimonio
e de Il padre della Patria. Mi piacevano moltissimo: il primo, perchè mi
riportava i profumi di casa; il secondo perchè mi preannunciava quelli di un
mondo a me ancora sconosciuto. Li presentai a Galdieri ed a lui piacquero tutti e
due, ma avrebbe presentato prima Il padre della Patria.
Così fu. Il padre dell Patria, da un racconto di Giose Rimanelli, sceneggiato
da Pietro Corsi, fu accettato e "stanziato", come allora si diceva in gergo. Uno
dei protagonisti doveva essere Aldo Fabrizi. Poco prima di iniziare a girare,
Giose tirò fuori Il mestiere del furbo (Milano: Sugar, 1959): che però non
piacque al patron dei circoli letterari romani dell'epoca, Goffredo Bellonci,
perchè parlava di cose vere, cose che scottavano nei circoli letterari di quei
giorni. Il Bellonci mise tutto sotto ghiaccio, anzi sotto torchio, e ne informò
Galdieri. Questi, mortificato, mi telefona e mi chiede: "Figliolo (mi chiamava
sempre così, perchè lui era nonno e io avevo appena ventun anni), ma questo
Giose, questo Rimanelli chi è, che non piace a qualcuno della Radio?" Gli
risposi: "È uno che piace a me. Piacerebbe anche a lei".
La storia, quella storia, finì lì. Ο non finì? Era certamente la fine di "una"
storia ma, senza che nè io nè Giose potessimo saperlo, allora, era anche l'inizio
di una nuova lunga storia, di una avventura di arte e di vita che ancora oggi
continua, in giro per il mondo, e continua ad arricchirsi: precisamente di arte, e
di vita.
Giose aveva dunque appena pubblicato Il mestiere del furbo. Quel libro, oggi
introvabile ma non per questo dimenticato dai cultori della cultura di quei
giorni, senza neanche entrare nel circuito delle vendite fu bocciato e, con esso,
fu bocciato anche chi l'aveva scritto quale documento storico del panorama
culturale del dopoguerra. E quasi senza pesare su nessuno, meno forse che su
Galdieri che aveva creduto molto nel successo dello sceneggiato, fu bocciato
anche Aldo Fabrizi quale..."padre della Patria"!
In quei giorni la Canadian Pacific stava inaugurando il suo primo volo
transoceanico da Montréal a Roma. Su quel volo c'era Nick Ciamarra, direttore
de "Il Cittadino Canadese". Aveva ereditato quel giornale proprio da Giose che
lo aveva diretto per alcuni mesi nel 1954. I due si ritrovarono (anzi, ci
trovammo perchè c'ero anch'io) al Bar del Viminale, di fronte al mio studio. Con
mia grande sorpresa, un po' scherzando, Nick chiese a Giose se voleva
imbarcarsi con lui e tornare per una visita in Canada. Posti sull'aereo ce n'erano
e lui, Giose, tra l'altro aveva anche il tesserino di giornalista professionista,
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iscritto all'Albo di Roma. Non sapevo a quell'epoca che i primi due romanzi di
Giose erano stati tradotti e pubblicati in America con successo, che lui non era
un estraneo lì, specie a New York. Giose disse, "Ci pensavo proprio".
E Giose se ne andò. Lasciò me, lasciò Roma, lasciò l'Italia e se ne andò.
Perchè la "sua" Italia lo aveva tradito. Prese quell'aereo, riapprodò in Canada
dove era già stato anni prima. Io restai a Roma, ma non andai più ai Parioli.
Dividevo il mio tempo tra Via del Viminale e Tata Nardo, dove abitava
Galdieri. E continuavo, con lui, a dilettarmi nella stesura di programmi
radiofonici che erano allegri e simpatici: Orfeo al Juke Box, messo in aria per la
gente allegra; Sorella radio, che andava in onda per i malati; una trasmissione
domenicale per gli automobilisti che si perdevano sempre e volentieri per le
strade del tempo libero. Ma allegro e simpatico era soprattutto il Galdieri che,
continuando a chiamarmi figliolo, mi faceva sentire al centro dell'universo.
Di notte continuavo a cimentarmi con arrangiamenti radiofonici e televisivi.
Avevo "scoperto" un drammaturgo spagnolo, Antonio Sastre (anni dopo doveva
essere chiamato agli onori dell'Accademia Reale Spagnola), e gli scrissi
chiedendogli il permesso di tradurre in versione radiofonica il suo dramma "Il
sangue di Dio". Subito mi rispose, per dirmi che sarebbe stato contento, anzi
onorato di vedere una sua opera tradotta in italiano e poi, per una trasmissione
radiofonica. Consegnai anche questa al Galdieri, grande blasfemo come ogni
buon napoletano ma anche, sempre come ogni buon napoletano,
fondamentalmente devoto al sangue, se non altro quello di San Gennaro. Mi
disse che quel mio nuovo lavoro gli piaceva e lo presentò alla Radio.
Pochi mesi dopo tuttavia, Roma mi diventò stretta, cominciò a pesarmi
addosso anche se non sapevo ancora perchè. Lo seppi dopo: era il destino che
aveva iniziato il suo lavoro sempre preciso, anche se nascosto tra le ombre del
mistero. Roma cominciò a pesarmi addosso dunque, e pensavo a Giose che se
n'era andato, pensavo a mio fratello Tittillo che anni prima aveva scelto di
emigrare a Montréal. Se c'era andato mio fratello, se c'era andato Giose, mi
dissi, potevo andarci anch'io.
Devo qui aggiungere, prima di proseguire, che anni dopo quel dramma fu
trasmesso anche se io, per anni, non ne seppi niente. Mi fu comunicato quando
tornai in Italia nel '68 da persona amica, che mi disse di averlo ascoltato. Non
credendo in quel miracolo, gli chiesi di darmene qualche dettaglio e me ne
spiegò, per filo e per segno, la trama. Scrissi alla RAI chiedendo il pagamento
dei diritti d'autore, e mi risposero che dopo un periodo di tempo, se non
reclamati, il diritto ai diritti decade. Spero soltanto che non siano mai scaduti per
il Sastre!
Dicevo dunque, se in Canada c'era andato mio fratello, e se c'era andato
nuovamente Giose, potevo andarci anch'io. Non aspettai un visto da emigrante
per partire. Quello prendeva tempo, e io non avevo tempo da perdere. Andai al
Consolato, mi diedero un visto da turista e mi dissero: "Bada bene: questo visto
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ti dà diritto di visitare il Canada, ma non di restarvi". Misi in vendita lo studio di
Via del Viminale, trovai subito un posto su qualche nave in partenza da Napoli.
A Montréal non trovai Giose. Avendo già da tempo concluso che il Canada
era una terra troppo giovane per uno come lui (Biglietto di terza), aveva preso
altre strade. Ben presto mi accorsi che se volevo restare più a lungo dovevo
trovarmi un lavoro, cosa che, senza un visto da emigrante, era pressoché
impossibile. Cercai di dedicarmi al lavoro nero, facendo il bambinaio. Dopo una
settimana tuttavia, la mamma disperata di un bambino in fasce, piagnucolante
perchè aveva il sederino bruciato dalla cacca che io non riuscivo a pulire a
dovere, mi fece sapere che non avrei mai potuto essere un buon bambinaio. Mi
ricordai, solo allora, del Nick Ciamarra e gli telefonai. Mi chiese di andare a
trovarlo e mi offrì il mio vero primo ed unico lavoro, presso il suo giornale, "Il
Cittadino Canadese", all'epoca il più prestigioso settimanale di lingua italiano
pubblicato all'estero, del quale anni prima proprio Giose era stato direttore.
C'era il problema del visto, ma anche di questo se ne interessò il Ciamarra
facendone richiesta non al governo canadese, ma all'Ambasciata italiana e
questa, per conto del giornale, all'ufficio immigrazione. Per cui, con un
permesso provvisorio, potei cominciare a lavorare.
È tra le pagine di quel settimanale che nacque Onofrio Annibalini, il mio
personaggio de La giobba (Campobasso: Edizioni Enne, 1982). Giose nel
frattempo si era stabilito a New York, faceva il professore. A mia insaputa
riceveva il giornale, aveva letto i primi racconti che narravano le disavventure
dell'Annibalini e subito mi scrisse: per dirmi che era ancora vivo, e per
chiedermi di mantenere in vita quel personaggio. Che continuò, così, a vivere le
sue disavventure mentre Giose ed io continuavamo a vivere le nostre. Anni
dopo, nel 1982 per la precisione, gli sarebbe toccato tenere a battesimo quei
racconti raccolti in un libro, La giobba, appunto, ora uscito in inglese col titolo
Winter in Montreal (Toronto: Guernica, 2000), con un Afterword di Giose:
"Journey and maturity of Pietro Corsi: An Italian writer or an Italo-American
writer?"
Trascorsi tutta un'estate a Montréal, poi l'autunno e l'inverno. Tornò la
primavera ed all'estate seguì l'autunno. Già ad inverno inoltrato, il mio secondo
inverno canadese, cominciai a sentire il freddo sotto la pelle, dentro le ossa. A
metà dicembre l'ufficio immigrazione notificò il Ciamarra che la richiesta da lui
avanzata, per un visto di residente legale per questo suo impiegato, era stato
concesso. Ma mi arrivò anche, a distanza di solo qualche giorno, un invito dal
Capo Commissario di una vecchia nave che un giorno si era chiamata "Europa"
ed aveva trasportato apolidi da Le Havre a Halifax. Quello stesso vapore era poi
diventato nave di lusso col nome "Nassau" (adibita ai primi servizi di crociera
tra il porto di New York e le Bahamas) ed ora, acquistata dal governo messicano
e con un nuovo nome, "Acapulco", era in procinto di iniziare un nuovo servizio
tra Los Angeles e, precisamente, Acapulco. Quel vecchio commissario, Franco
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Masullo, a suo tempo era stato Ragioniere al giornale. Mi conosceva, sapeva
cosa avrei potuto fare per lui e mi mandò quel telegramma che diceva: "Se sei
pronto per un'altra avventura, raggiungimi al Molo 93 del porto di New York il
21 dicembre".
L'inverno canadese mi dava i brividi. La comunità italiana di Montréal, quella
molisana in particolare, perchè a me più cara, restava troppo ancorata ai ricordi
del passato, ed io guardavo al futuro, al domani sconosciuto e perciò stesso
meraviglioso. "New York?", mi dissi. "C'è Giose!" "Acapulco?" tornai a
chiedermi. "C'è il sole!"
Tre giorni dopo, il 18 dicembre, raggiunsi Giose a New York e gli comunicai
la mia decisione di fare il marinaio. Mi guardò con sospetto, ο forse sbalordito
da quell'eresia. Poi mi disse, perentorio, forse cercando di intimidirmi:
"Impossibile! Chi nasce con la terra sotto le unghie, non può andare a lavarsela
con l'acqua di mare". Ed io risposi, con decisione: "Troppo tardi, domani
m'imbarco. Il dado è tratto!"
Con molta riluttanza, tre giorni dopo Giose mi accompagnò al Molo 93. Nel
vedere quel vecchio bastimento, un giorno gloria dell'Atlantico mentre
trasportava emigranti e derelitti d'ogni nazione e d'ogni tipo, così segnato dal
peso degli anni e da rivoli di ruggine che pisciavano lungo lo scafo, Giose mi
chiese se era proprio quello che cercavo. Scesi dalla macchina, andai a leggere
le scritte sulla poppa. Riuscii a leggere, sotto la ruggine, "Acapulco". Non c'era
nessun dubbio: quel relitto era la mia nuova casa! Ci salutammo, mi avviai su
per lo scalandrone e da lì gli mandai un ultimo saluto.
A sua e mia perfetta insaputa, quella nave era destinata a restare attraccata a
Molo 93 del Porto di New York per ben quattro giorni. Dopo l'imbarco dei
primi passeggeri che volevano, come me, andare alla ricerca del sole tropicale
sulla costa del Pacifico, le autorità portuali decisero di mettere alla prova le
scialuppe di salvataggio e l'abilità dei marinai. Sul ponte c'ero anche io, tra la
folla di curiosi spettatori, quando i marinai abbassarono le scialuppe che
sfiorando l'acqua si fermarono, incerte, per poi sprofondare giù, sempre più giù
dove non avrebbero mai dovuto andare perchè il loro lavoro, semmai, era quello
di restare a galla con il loro prezioso carico umano in caso di un qualche
disastro. La radio la televisione i giornali americani cominciarono a parlare di
quella nave per miliardari che avrebbe dovuto lasciare il freddo delle banchine
di New York per raggiungere le spiagge dorate di Acapulco, e dei passeggeri
che erano imbarcati ed erano stati costretti a sbarcare. Clandestinamente, la nave
partì con il solo equipaggio. C'ero anch'io. Indossavo, con orgoglio, un'uniforme
da ufficiale blu; appesa nello stipetto ce n'era un'altra, bianca, che avrei usato
quando avremmo raggiunto il tropico. Anzi, "se" avessimo raggiunto il tropico.
Se aveva letto i giornali, se aveva ascoltato la radio, se aveva visto la televisione
Giose avrebbe concluso che era, il mio, un destino crudele. Ma non riuscì a
mettersi in contatto con me, nè io con lui. Sapevo però che, fedele alla sua
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esperienza di seminarista, avrebbe alzato lo sguardo al cielo per dire una
preghiera per me.
Su quella nave trascorsi dei mesi bellissimi in un lavoro per me nuovo ed
intenso. Pochi, credo, sarebbero sopravvissuti al relitto ed al lavoro che spesso
iniziava presto al mattino e non finiva, ininterrottamente, se non a notte
inoltrata. Per me era soltanto un'altra sfida, dalla quale ero deciso a venirne fuori
vittorioso.
Un anno e mezzo dopo mi trovavo a Città del Messico, godendomi una ben
meritata vacanza. Navigando tra Los Angeles e Acapulco avevo perso tracce di
compar Giose, e lui di me. Era stato in Italia, a Casacalenda, e passeggiando per
il corso sottobraccio con Giovanni Cerri s'era imbattuto in mio padre e gli aveva
chiesto di me. Mio padre, serio e di poche parole, si limitò a mettergli un
biglietto tra le mani. Gli disse: "Lo trovi lì. Se riesci a mettergli la testa a posto,
digli che il paese lo aspetta sempre".
"Lì" era Città del Messico. L'indirizzo annotato su quel pezzo di carta
corrispondeva ad un caseggiato in una piazzetta della Merced chiamata
Santisima, ma non certo perchè vi si respirasse aria santificata. Prima di me, in
quel quartiere, c'era stato Hernan Cortéz, il conquistatore spagnolo che aveva
sconfitto l'Impero Azteca decimandone la popolazione e distruggendone la
capitale, Tenochtitlàn. Quelle strade erano state costruite con le pietre di quella
città Azteca e con il sangue dei suoi abitanti ma questo io, in quei giorni, non
potevo saperlo. Ma le avrei amate lo stesso perchè lì si respirava la storia di quel
popolo che stavo imparando a conoscere ed a rispettare.
"Lì" dunque, mi raggiunse un telegramma di compar Giose. Diceva soltanto
che sarebbe arrivato l'indomani, con un volo della American Airlines.
In Messico abbiamo trascorso un paio di mesi con una spensieratezza mai prima
conosciuta. Ci siamo ubriacati di tequila e di mescal nelle bettole di Plaza
Garibaldi, dove non mancavano mai i Mariachi con le loro serenate senza fine.
Giose cercava Sor Juana Ines de la Cruz, ma era affascinato da una canzone che
diceva, ed all'infinito ripeteva, "La vida no vale nada". I Mariachi di Plaza
Garibaldi la suonavano e la cantavano e Giose, avendone imparato le parole e il
significato, tra una tequila e un mescal chiedeva di cantargliela di nuovo.
Un giorno ci mettemmo in cammino per Veracruz, ma la nostra destinazione
finale era Palenque, nella giungla del Chiapas, dove c'erano certi sarcofagi
Maya che Giose voleva visitare. A mia perfetta insaputa invece, voleva
addormentarcisi dentro...per sempre!
Non fu facile raggiungere il Chiapas da Città del Messico. Oggi ci si va in
aereo. Una traballante corriera ci portò prima a Veracruz e ci accompagnava
Jorge Olvera, uno studente in medicina all'Università di Città del Messico che
nel '68 doveva vedersi coinvolto, a pochi giorni dai giochi olimpici, in un
movimento studentesco nel quale migliaia di persone furono massacrate sul
lastricato della Piazza delle Tre Culture. Jorge ci portò a casa di Agustin Lara,
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famosissimo compositore-autore delle più belle canzoni messicane tra le quali
risaltava "Granada".
L'ultrasessantenne Lara viveva in un villino sulla spiaggia con una giovane
amante, la sua ultima credo, una bellissima india di non più di diciotto anni. La
ragazza lo vezzeggiava e lo cullava, con il suo amorevole sguardo languido gli
carezzava una lunga cicatrice che gli tagliava la guancia destra e lo chiamava
"mi amor", perchè quell'uomo era stato il marito ο l'amante, a seconda delle
circostanze, delle donne più belle del Messico, compresa l'attrice Maria Felix
per la quale lui aveva composto una famosa ballata romantica, "Maria Bonita".
E lei, la ragazza india, anche lei bonita, sospettava che avrebbe potuto scriverne
una anche per lei.
In quell'occasione, Agustin Lara ci fece conoscere meglio il mondo della
mafia dei diritti d'autore, confessandoci che se avesse ricevuto un solo
centesimo, una sola lira per ogni uso pubblico di "Granada", sarebbe stato
miliardario. Ora viveva, anche se sulla spiaggia, in un villino regalatogli dal
Presidente Aleman, con un pianoforte regalo di quello stesso Presidente, perchè
lui non poteva permettersi nè il lusso del villino nè quello del pianoforte, meno
ancora quello della giovane amante. E ci fece capire che l'amore può essere
sublime anche a sessant'anni, specie se ad elargirlo liberamente è una ragazza di
appena 18 anni.
Dopo qualche giorno, una traballante corriera con noi tre a bordo ma in
compagnia di galli galline e indios vestiti di bianco intraprese il viaggio per
Villahermosa, che doveva però finire in una cunetta prim'ancora di arrivare a
destinazione. I primi a volar via furono i galli e le galline. Volarono poi via gli
indios che stavano portando quei galli e quelle galline in qualche fiera, mentre
Giose io e Jorge ci ritrovammo con il culo nel fango.
Trascorremmo quella notte in un villaggio dei dintorni, dove c'era una festa in
piazza. I messicani, Jorge spiegò, sono sempre pronti a celebrare l'allegria. Non
seppe però spiegarci se quella festa, quell'allegria che lì si celebrava, era in
occasione dello sfascio della nostra corriera. C'era una musica tutta nuova per
me e per Giose: musica di Huapangos, ci disse Jorge, con marimba suonata a
più mani, arpe e chitarroni, e ballate che i musicisti inventavano al momento,
parole e musica. Ne inventarono una anche per noi, perchè eravamo italiani; poi
un'altra, perchè eravamo superstiti di quell'incidente; poi un'altra ancora,
perché...Fin quando continuarono ad inventarne anche senza un perchè.
Giose scoprì che anche lì, in quell'anonimo villaggio nello stato di Veracruz,
"la vida no vale nada", e che la tequila ritempera le forze e il pulque ti ruba la
mente per farti dimenticare ogni cosa portandoti in un viaggio tanto
sorprendente quanto inaspettato. Un po' come l'oppio insomma, anche se oppio
non era. Era, più semplicemente, la bevanda del villaggio, anch'essa, come
tequila e mescal, un prodotto dell'agave americana, il più infimo, ma anche il
più ricercato in quei posti e nelle bettole del peccato di Città del Messico.
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L'indomani fummo prelevati da un'altra corriera, che ci portò a Villahermosa.
Jorge Olvera, il nostro amico, la nostra guida, ci fece conoscere tutto un nuovo
mondo: quello della civiltà Olmeca che era vissuta, fino all'arrivo del
conquistatore, schiacciata tra gli Aztechi al Nord e i Maya al Sud. La
testimonianza della loro esistenza era restata nascosta nella giungla, fin quando
lì trovarono il petrolio. I reperti furono trasferiti in un museo all'aperto
conosciuto come Museo de la Venta, dove andammo a perderci tra colossi di
pietra con occhi grossi come una testa che ci spiavano, sospettosi. E quella
stessa sera andammo a finire nell'unico bar del villaggio, sul tetto di un albergo
di poco conto, al riparo di ombrelloni "palapas", di paglia cioè, dove un
licenciado si prese qualche licenza: riuscì ad ubriacarmi inesorabilmente di
pulque e tequila fino a lasciarmi moribondo.
Riuscii ad entrare in un cesso per vomitare tutto il mio stupore e poi dormire
fino all'alba, fin quando cioè Giose venne a raccogliermi per riprendere il
cammino. Chi camminava però era solo lui, perchè io ero morto. Mi caricò sulle
spalle, così mi disse dopo, quando fui in condizione di poterlo ascoltare e capire,
e mi portò su un treno carico di indios con machete alla cintura: andavano a
tagliare gli alberi da chicle, gomma da masticare, nella stessa giungla dove noi
si sperava di trovare i sarcofagi dei Maya e il favoloso tulipano nero, che Giose
cercava.
Mi svegliai a Palenque due giorni dopo, in una stanzaccia piena di scarafaggi e
steso, lungo, sempre morto, su una branda da campagna. Alla mia destra e alla
mia sinistra c'erano due amache: in esse dormivano, spensierati credo, Jorge
Olvera e compare Giose. Jorge ci dava in continuazione delle pastiglie bianche
piccoline, "Sono contro la malaria," diceva, e noi eravamo più occupati a lottare
contro zanzare e moscerini che a studiare quel paesaggio che lui voleva
mostrarci.
Una volta inoltrati nella giungla, Jorge si fermò e ci indicò un piazzale: era più
grande di quello di San Pietro e lì, ai nostri occhi, c'era tutto ciò che restava del
mondo Maya di Palenque: las casas de piedra come le avevano battezzate gli
indios che andavano a raccogliere la gomma da masticare e furono i primi a
scoprirle. Il conquistatore non le aveva mai viste, perchè erano state ricoperte
dalla giungla prim'ancora del suo arrivo. Ma anche questa è tutt'un'altra storia,
che io poi mi sono dilettato a ricordare, romanzandola, in Ritorno a Palenche
(Campobasso: Edizioni Enne, 1985).
Risalimmo faticosamente ognuno dei gradini di quelle piramidi Maya,
scendemmo nelle viscere del Tempio delle Iscrizioni dove Giose si allungò nel
sarcofago di Pa-Kal e voleva restarci, "Lasciatemi, lasciatemi qui", diceva. E
nell'Osservatorio dei santoni ci soffermammo ad esplorare un cielo che era stato
il loro cielo.
Quando, dopo qualche settimana, rientrammo a Città del Messico, Giose
scoprì, con sua grande disperazione, che la tequila e il pulque potevano lasciare
Pietro Corsi
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segni indelebili sul corpo umano. Nel suo caso, emorroidi sanguinanti a
fontanella. Seguì un ricovero all'ospedale anglo-americano e neanche da lì
Giose voleva uscire. "Lasciatemi, lasciatemi qui", ripeteva. Lo teneva per mano
una infermiera che era stata imbarcata con me sull'"Acapulco" ed io non
riuscivo a capire se voleva restare lì perchè sentiva un senso di conforto in
quella mano calda sensuale amorevole, ο perchè era stanco della mia
compagnia.
Venni a conoscenza della verità solo dopo qualche settimana quando,
rimessosi, volle fare un viaggio da solo, al Norte, a Chihuahua. Al suo rientro
mi mostrò un documento e mi disse, "Ora sono un uomo libero". Era il
certificato di divorzio dalla moglie italiana. A New York, mi disse, era stato
raggiunto da Liliana che voleva restarvi e si era portato appresso i suoi due figli
italiani, uno dei quali, Michele, in fasce, e la governante. E lui si era
improvvisamente sentito intrappolato in un mondo che non era il suo mondo.
Era riuscito a rispedire moglie e figli in Italia, e per sposare quel nuovo mondo
aveva deciso di sposare una sua alunna americana. Era venuto da me in Messico
ma io gli ricordavo troppo l'Italia e la moglie italiana e i figli italiani. E lui non
sapeva, esattamente, cosa fare. Ma dopo aver visitato i sarcofagi Maya aveva
deciso che quelli non facevano per lui; con il ricovero in ospedale, e fermata
l'emorragia, aveva concluso che neanche l'ospedale era la soluzione al suo
problema. Quella, semmai, l'avrebbe trovata a Chihuahua: dove i messicani
celebravano i loro divorzi "al vapor", al vapore cioè, un soffio d'aria calda:
divorzi concessi da un giudice di pace che senza troppe domande, ma con un
soldo in più del dovuto, consegnava un pezzo di carta in cui si certificava, senza
incertezze, che questo e quella, marito e moglie, agli occhi della legge erano
solo questo e quella.
Già libero dunque, Giose si rimise sul suo cammino, io sul mio. Il suo doveva
portarlo tra le braccia della studentessa che sarebbe diventata la sua seconda
moglie, il mio doveva portarmi di nuovo su quel rottame che per me era
diventato casa e faceva la spola tra l'Eldorado della California e le spiagge
dorate di Acapulco. Ci perdemmo di nuovo. Gli mandai solo un telegramma,
qualche mese dopo, per dirgli che mi sarei sposato con una ragazza messicana
con la speranza che potesse salvarmi da me stesso. Così è stato: lui ha ripreso
moglie, la sua seconda, e io mi sono sposato con la mia prima e unica moglie
che ancora oggi mi accompagna promettendomi la vita eterna.
E ci siamo persi di nuovo: lui per la sua strada, io per la mia, lui continuando a
fare il professore e lo scrittore, io cercando di fare il marinaio per lavarmi la
terra da sotto le unghie.
Un giorno, mi trovavo in California tra un imbarco e l'altro, arriva da
Casacalenda Peppino Ricciotto. Mio padre, quando seppe che sarebbe venuto in
California, gli mise un pezzo di carta tra le mani e gli disse: "Mio figlio Pietro si
è perso tra le dune del deserto californiano. Se riesci a trovarlo, riportamelo a
Compar Giose: tra arte e vita
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casa". Per mio padre la casa era il paese, la casa era dove uno nasce, e uno deve
morire dov'è nato perciò non poteva sopportare l'idea che anche questo suo
figlio, come l'altro che se n'era andato a Montréal, dovesse morire fuori casa.
Il Ricciotto arrivò in California con quello, e con un altro biglietto in tasca con
su annotato l'indirizzo di Franco Cavaiola, coetaneo di Giose e amico di
famiglia. Per cui al suo arrivo chiama il Cavaiola e gli dice, "Cerco Pietro Corsi,
suo padre mi ha detto che dovrebbe essere da queste parti, a Long Beach". Il
Cavaiola gli rispose, "Di lui non so niente. Mi risulta però, da fonte certa, che
qui c'è Giose Rimanelli, fa il professore alla UCLA". E Peppino gli rispose, "Io
cerco solo Pietro Corsi, per ordine di suo padre che lo vuole a casa". Il Cavaiola
telefonò a Giose ed i tre, con il pezzo di carta con su annotato il mio indirizzo a
calligrafia di mio padre, vengono a bussare alla mia porta. Trovarono me che
leggo il giornale, la moglie messicana che mi prepara tamales, i nostri due figli,
uno messicano l'altro italiano, che razzolano allegramente nel family room di
quella mia prima casa americana.
È stato così che Giose ed io ci siamo nuovamente ritrovati: lui facendo il
professore all'Università della California di Los Angeles, io cercando ancora di
fare il marinaio. Ma aveva ragione lui, aveva ragione Giose: chi nasce con la
terra sotto le unghie non può lavarsela con l'acqua di mare.
Qualche mese dopo Giose andò via dalla California lasciandomi un
macchinone americano che chiamavano Imperial, della Chrysler. Io gli lasciai
una cinquantina di dollari per il suo lungo viaggio di ritorno nello Stato di New
York. Passarono i mesi e passarono gli anni, lui divorziando dalla moglie
americana e continuando a scrivere dozzine di libri e centinaia di saggi letterari,
ed io che non riuscivo a lavarmi la terra da sotto le unghie per i mari del mondo.
Ragion per cui, nel '69, decisi di accettare un posto a terra che la compagnia di
navigazione metteva a mia disposizione, un posto manageriale. Mi dissi, "Ecco,
adesso sì. Mi tengo la terra del mio paese sotto le unghie, e faccio il manager".
Ci siamo rivisti e ci siamo ritrovati. Poi mi chiamò un giorno.
"Mi sposo, Pietro!"
"La conosco?"
"Se mi fai da best man...Come dicono a Casacalenda, compare? Vieni e la
conoscerai, potresti anche parlarle in spagnolo...Ha preso un Ph. D. in quella
lingua".
"Spagnola?"
"Americana, di New York..."
"Gesù, Giose! La terza volta...?"
"Non c'è due senza tre. E sai perchè? Il 2 è un numero che da solo non regge,
infatti è vuoto. Con l'aggiunta dell' 1 s'inventa un treppiedi, un tavolino, qualcosa
che regge qualcosa. Perchè da solo l'l è sterile".
"E cioè?"
"La chiamo Ciliegia, caduta dal cielo...Unità sul dualismo, quindi sintesi
Pietro Corsi
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spirituale e temporale. Ci stai?"
"Certo...compar Giose!"
Ed ecco che da amici di lunga data, sono anche diventato un membro della sua
famiglia con lo sposalizio di Sheryl - la donna compagna e collega, dice lui, per
sempre.
Ci siamo visti e ci siamo ritrovati, dunque. E come due buoni compari e
fratelli, non ci siamo più lasciati. Sappiamo, adesso, che non possiamo più
perderci. C'è Ye-mail del mattino e quello della sera, c'è la telefonata un giorno
sì e uno no, ci sono le sue visite a me in California ο a Mazatlan, nel Messico, e
le mie a lui, a Lowell vicino Boston, oppure in Florida, a Pompano Beach. E
quando possibile, ci ritroviamo a Casacalenda per riassorbire un po' di quel
calore umano che ci viene trasmesso dal paese e dai paesani. Anche se, qualche
volta, aprendo il rubinetto, con grande disperazione di compar Giose che si vede
costretto ad andare a prendersela alla Fontenuova con un bottiglione, d'acqua
non ce n'è.
PIETRO CORSI
Los Angeles, California-Casacalenda