Giu. 2016 - Area Studenti - Collegio Universitario Don Nicola Mazza
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Giu. 2016 - Area Studenti - Collegio Universitario Don Nicola Mazza
Nadir Collegio Universitario Don Nicola Mazza l a r i v i s ta degli st udent i m az z iani di p adova Nadir 5, Giugno 2016 Copia gratuita 2 Nadir, Giu. 2016 In questo numero 1. EDITORIALE 2. ATTUALITÀ Leicester City, quando i sogni diventano realtà 2 3 3. CULTURA Termini inglesi nella lingua italiana: arricchimento o distruzione? 5 Sui sistemi di riferimento 5 I miei studi in Bangladesh 6 4. BIBLIOSOFIA Partenza lenta Massimo tre parole 7 7 6. COLLEGIO Tragicommedia dello studente Mazziano Torneo del Vino 9 10 7. RUBRICHE Matricola d’oro 8 Culto: “...aspettare che il vapore svanisca come un sogno” 12 Culto: Quante aragoste per un solo film? 13 Culto: Addio alle tastiere. Reportage di un ultimo saluto. 14 8. TEMPO LIBERO Piccolo decalogo semiserio per gli esami 15 Editoriale Miriam Furlanetto Cantami, o Nadir, del Collegio le molteplici avventure che tanti mazziani porteranno nel cuore Eventi, accadimenti, concerti e tornei tra le tue fragili pagine sfoglierei Una carta per narrarli, una penna per vergarli, uno scrigno per proteggerli e al sicuro conservarli. Questo, e molto più, è il giornalino lettere che si rincorrono su pagine bianche raccontando la vita collegiale con sguardo rivolto all’interesse personale e a ciò che accade nel mondo e nel sociale. Nadir Collegio Universitario Don Nicola Mazza l a r ivist a d egl i st u d ent i m azziani d i p ad ova Nadir 5, Giugno 2016 Carissimi lettori e lettrici, con questa dolce Ode vi diamo il benvenuto tra le pagine di questo Nadir, ultimo dell’anno, che speriamo porti un po’ di frescura e ristoro ai caldi o umidi pomeriggi di studio. Il tempo bizzarro di questi giorni ben si sposa con l’animo a volte in tempesta dei gagliardi giovani che affrontano la sessione, ma in questi fogli una certezza: sole all’orizzonte! Tuffatevi (ehi, non piangete! Al mare ci andrete davvero prima o poi, abbiate fede!) nei frizzanti racconti di questo mese, particolarmente ripieni di sport, sfavillanti di cultura e costellati di sano divertimento! Buona lettura!! □ Copia gratuita Nadir, Giu. 2016 3 Attualità Leicester City, quando i sogni diventano realtà Vito Squicciarini Accade talvolta che la realtà superi l’immaginazione più fervida, regalandoci storie indimenticabili. Accade talvolta che il corso degli eventi devii dai binari già tracciati, dischiudendoci la vista di paesaggi meravigliosi. È l’imprevisto che rompe la quotidianità. È l’episodio che stravolge la Storia. Ciò che è successo a Leicester negli ultimi dodici mesi non ha nulla di logico, di razionale. È un dado che mostra la stessa faccia per cento lanci di fila. È uno dei sogni più assurdi che gli dei del pallone abbiano mai potuto concepire. Un chiaro di Luna per i romantici del football. Un caleidoscopio di storie, di coincidenze, di situazioni così improbabili che pare uscito dalle pagine di un romanzo. E che come un romanzo ti strega, ti rapisce il cuore. Leicester è una cittadina di 285.000 abitanti ubicata nel centro dell’Inghilterra, pressappoco a metà strada tra Londra e Liverpool; una città industriale che oggi, come tutti i grandi centri del Paese, è un crogiuolo d’etnie e di culture. Il nome della città è storicamente legato, in ambito sportivo, alla squadra di rugby: i Leicester Tigers costituiscono una delle realtà più vincenti del panorama inglese ed europeo. Assai più modesta la tradizione calcistica, rappresentata dal Leicester City, un secolo e un quarto a barcamenarsi tra prima e seconda divisione. La stagione 2014/15 vide il ritorno in Premier League delle Foxes dopo dieci anni vissuti tra seconda e terza serie. A una buona partenza seguì una serie infinita di risultati negativi, tale da relegare ben presto la squadra all’ultimo posto in classifica. Ancora ad aprile essa giaceva in fondo alla graduatoria con soli 19 punti ottenuti in 29 gare. Solo una strepitosa rimonta, con sette vittorie nelle ultime nove partite, le consentì di raggiungere un’inattesa salvezza. Ai nastri di partenza della stagione 2015/16 la squadra delle East Midlands è tra le favorite per la retrocessione. Non c’è più Nigel Pearson, autore della rinascita del club, ma Claudio Ranieri, 63enne allenatore romano: un tecnico esperto ma - sottolineano i suoi detrattori - dal palmares povero. La decisione suscita malcontento tra i tifosi e gli esperti del settore. Gary Lineker, leggenda del club e della Nazionale inglese, commenterà amaramente: An uninspired choice by Leicester. La vittoria del campionato è quotata 5000:1, più di una eventuale apparizione del mostro di Lochness (500:1) o di Elvis Presley (2000:1). La dirigenza chiede a Ranieri una salvezza tranquilla: nel far ciò gli accorda fin da subito fiducia incondizionata, dandogli così modo di lavorare senza pressioni. La rosa, indebolita in mediana dallapartenza di Cambiasso, è la stessa dell’anno passato con l’aggiunta di tre elementi: il terzino austriaco Christian Fuchs, il mediano N’golo Kanté e l’attaccante giapponese Shinji Okazaki. La partenza è convincente: le Foxes, schierate in campo con un classico 4-4-2, giocano con tattica italiana e cuore inglese, lasciando il possesso palla agli avversari e colpendoli con veloci ripartenze. Fondamentale il contributo di Kanté, capace di imporsi da subito come uno dei migliori interpreti del suo ruolo: il francese corre senza sosta, è ovunque, spezza le trame avversarie grazie a un incredibile senso della posizione, riparte senza mai perdere il pallone. Un motorino instancabile, fondamentale per gli equilibri della squadra. La fase offensiva è affidata alla fantasia dell’ala algerina Riyad Mahrez e alla vena realizzativa dell’attaccante col numero 9. Le partite passano, ma il suo nome sul tabellino dei marcatori c’è sempre: succederà per undici gare consecutive tra agosto e novembre, un record. La storia di Jamie Vardy è degna di un film. Fino a sei anni fa lavorava come operaio metalmeccanico nelle fabbriche di Sheffield, la sua città natale, e calcava, nel tempo libero, i polverosi campi dell’ottava serie. Due anni tra i dilettanti e una caterva di gol convincono il Leicester, allora in Championship, a puntare su di lui. È il 2012 e la sua vita cambia. Oggi, a 29 anni, Vardy è un attaccante completo: agile e veloce, letale con entrambi i piedi, rapido nell’esecuzione e nel dribbling, versato tanto nell’attacco della profondità quanto nel pressing sul portatore di palla avversario. Un fantastico cavallo, secondo Ranieri, l’uomo simbolo di questa squadra. La salvezza, dicevamo. Obiettivo dichiarato per tutta la prima parte della stagione, anche quando, a novembre, il club intravede per la prima volta la vetta. Ranieri appare cauto, ma sicuro di sé e dei suoi ragazzi. Sempre rispettoso degli arbitri e degli avversari, il manager italiano si mostra rilassato davanti alle telecamere, scherza, intrattiene i giornalisti con un inglese elementare ma efficace. Il Tinkerman, lo smanettone, colui che al Chelsea era canzonato per le sue perenni indecisioni relative alla formazione, è ora il coach che la cambia di meno. L’uomo accusato da Mourinho di avere la mentalità di uno che non ha bisogno di vincere e di essere troppo vecchio per cambiare mentalità” si concederà la vendetta più dolce, in una fredda sera di dicembre, battendo 2-1 il Chelsea e mettendo fine all’esperienza del portoghese sulla panchina dei Blues. La fatidica quota quaranta è toccata nella prima partita del 2016. Raggiunto in metà campionato il traguardo stagionale, il pericolo di rilassarsi è dietro l’angolo. È forse il momento più delicato della stagione. Tutti si aspettano che il Leicester, passato l’inverno, si sciolga come neve al sole. Come era successo 50 anni prima, quando 4 gli Ice Kings di mister Matt Gillies, volati sorprendentemente al primo posto durante l’inverno del 1962/63, il più freddo del XX secolo, crollarono ai primi segnali di primavera, terminando quarti. Un 3-0 allo Stoke City fa seguito a un filotto di cinque partite in cui le Foxes hanno raccolto solo sei punti; le tre partite successive, in casa contro il Liverpool e fuori casa contro Arsenal e Manchester City si apprestano dunque ad essere lo spartiacque della stagione, duecentosettanta minuti al termine dei quali le volpi conosceranno la loro vera natura. È il 60’, la partita contro i Reds è bloccata sullo 0-0. Drinkwater vince un contrasto nella sua area e spazza, Mahrez, marcato stretto da un avversario, difende il pallone sulla sua trequarti, si gira e rilancia di 50 metri a servire lo scatto di Vardy, che lascia rimbalzare la sfera. Nessun giocatore sano di mente proverebbe la conclusione di prima da quella posizione. Ma Jamie è pazzo e tira. Gol. A moment like that just makes you wonder: could it happen? Could they really last the whole course? La trasferta successiva mette i brividi. Il Leicester ci arriva da capolista, con 3 punti di vantaggio proprio sul Manchester City. Sulla carta non c’è storia: un solo difensore centrale dei Citizens è costato più di tutto l’undici avversario. Sarà proprio un centrale il mattatore della serata: Robert Huth, il gigante tedesco, sblocca la gara dopo soli tre minuti. 0-1. Il City è scioccato, tiene il possesso ma offre il fianco ai velocissimi contropiedi degli ospiti. Il secondo tempo è iniziato da poco quando Kanté recupera l’ennesimo pallone, si spinge in avanti sulla fascia sinistra e poi imbuca centralmente Mahrez: il passaggio è un po’ lungo ma l’algerino supera un primo avversario in scivolata con un tocco sotto, ne punta un secondo, doppio passo secco e destro immediato sul primo palo. Una poesia. È difficile quantificare il contributo di Riyad Mahrez a questa irripetibile stagione. Arrivato per 600.000€ dal Le Havre, serie B francese, a gennaio 2014 e ritenuto troppo gracile per poter reggere ad alti livelli, Riyad ha smentito tutti con prestazioni sublimi. Un fantasista di un’eleganza disarmante, un mancino delicatissimo che accarezza il pallone e riesce a metterlo con uguale efficacia sul piede di un compagno smarcato davanti alla porta o in fondo alla rete. Un artista che vale, da solo, il prezzo del biglietto. La partita, in pratica, finisce lì. Money-Passion 1-3.”Oh how wrong I was, how wonderfully, spectacularly, blissfully wrong.” È stato in quel momento che ho ca- Nadir, Giu. 2016 pito che avrebbero potuto farcela davvero. Questa squadra non è una cenerentola. Non tornerà a casa a mezzanotte; vuole danzare fino all’alba. Vuol esserci fino alla fine. La fiaba corre veloce di bocca in bocca, in attesa del lieto fine. Tutto il mondo ascolta a bocca aperta le avventure della banda di Ranieri. Storie del genere sono merce rara, al giorno d’oggi. Ed è ciò che le rende così magiche, così speciali. Un po’ come quei vecchi racconti che, se ascolti bene, riecheggiano talvolta nelle brezze d’estate: Montpellier, Kaiserslautern, Hellas Verona, Brian Clough coi suoi Derby County e Nottingham Forest... È la magia dello sport: un gruppo di ragazzini determinati e consci dei propri mezzi può giocarsela contro i più forti, i più famosi, i più ricchi. E trionfare. Il risveglio è durissimo. Il gol di Welbeck al 96’ in Arsenal-Leicester 2-1 può rivelarsi catastrofico sul piano psicologico ma sortisce, di fatto, l’effetto opposto. Il Leicester non sbaglia più nulla, prendendosi 19 punti nelle sette gare successive. Solo il Tottenham riesce a tenere il passo. We are in Champions League man, dilly ding dilly dong! La doppietta di Vardy contro il Sunderland consegna a Ranieri la matematica qualificazione alla Champions League. Impensabile, a inizio campionato, lasciarsi alle spalle colossi come i due Manchester, l’Arsenal, il Liverpool, il Chelsea. Non che il Leicester sia una squadra povera, sia chiaro. Il presidente del club, Vichai Srivaddhanaprabha, è un miliardario thailandese i cui investimenti nel club sono utopia per la squadra media italiana. Calate però nel contesto della lega più ricca del mondo, dove una squadra come il Newcastle può permettersi di sperperare 100 milioni in un anno e retrocedere, queste cifre appaiono ridimensionate. I trenta milioni spesi negli anni per mettere insieme l’undici titolare sono meno di quanto City o United sborsano per il campione di turno ad ogni sessione di mercato. Il Leicester sarà pure il 24° club al mondo per fatturato, ma 17 tra i primi trenta sono inglesi. E guarda tutti dall’alto nonostante il quartultimo monte ingaggi della Lega. Ci mancano sei partite. Dobbiamo continuare a lottare col cuore e con l’anima. Siamo un piccolo club che sta mostrando al mondo cosa si può raggiungere con lo spirito di squadra e la motivazione. 26 giocatori, 26 cervelli diversi, ma un solo cuore. Pochi anni fa molti miei giocatori giocavano in leghe più basse. Vardy lavorava in fabbrica, Kanté e Mahrez erano nella terza e quarta divisione francese. Ora lottiamo per il titolo. I tifosi che incontro per strada mi dicono che stanno sognando. Io dico “Voi sognate per noi, noi non sogniamo, noi lavoriamo duro”. Non importa cosa succederà alla fine, penso che la mostra storia è importante per tutti i tifosi di calcio del mondo. Dà speranza a tutti i giovani giocatori là fuori che si sono sentiti dire di non essere abbastanza bravi. Possono dirsi: “Come arrivo al top? Se Vardy e Kanté lo possono fare, posso anch’io”. Cosa gli serve? Un grande contratto o un grande nome? No. Bisogna tenere la mente aperta, così come il cuore, una batteria carica e correre liberi. Trentaseiesima giornata, Old Trafford, il Teatro dei Sogni. Una vittoria in casa del Manchester United chiuderebbe i giochi. Non è una sfida qualunque per Danny Simpson e Danny Drinkwater, scaricati troppo presto dai Red Devils, né per Kasper Schmeichel, la cui unica colpa è stata quella di portare il cognome di suo padre Peter. Finisce 1-1, in virtù di una rete di Martial e di una capocciata di Wes Morgan, il capitano, quel “tragico mammone, ciccione, depresso” scaricato a 28 anni dal Nottingham Forest e ritenuto da molti incapace di giocare in Premier League. Il giorno successivo, il 2 maggio, si gioca Chelsea-Tottenham: gli Spurs sono costretti a vincere per conservare qualche speranza di vittoria di un titolo che manca loro dal 1961. La sfida è cattiva, durissima. Il Chelsea non ha più obiettivi ma contro i cugini gioca alla morte, strappando il pareggio all’82° minuto. È la parola fine che chiude l’ultimo atto della stagione. Sono stato a Leicester a fine aprile. L’atmosfera era di una normalità sconvolgente, tanto che sulle prime ero un po’ deluso. Ma parlando con la gente del posto mi sono accorto di quanto tutto ciò contasse per loro, i tifosi che ci sono sempre stati, quelli che hanno sofferto i momenti più bui. Things like this simply do not happen to clubs like mine. Ora capivo: non era qualcosa da ostentare al mondo, quanto piuttosto un sentimento sincero sopito in fondo all’animo. Una fiammella da tenere al riparo dalle folate di vento. La domenica della partita le strade si sono colorate di blu. L’odore di birra nell’aria, l’adrenalina, l’euforia contagiosa. Per un giorno soltanto ti senti il centro del mondo. Invincibile. Schmeichel; Simpson, Morgan, Huth, Fuchs; Kanté, Drinkwater, Mahrez, Albrighton; Okazaki, Vardy. E poi Leonardo Ulloa, l’argentino dei gol pesanti, Andy King, che c’era in terza serie, e tutti gli altri. E Ranieri, il condottiero dall’animo gentile. Chiudete gli occhi. È una favola. C’era una volta una banda di reietti che conquistò il trono d’Inghilterra. □ Nadir, Giu. 2016 5 Cultura Termini inglesi nella lingua italiana: arricchimento o distruzione? Beatrice Marchet dietro alla parola “Zucchero”, o del francese cyclisme dietro al termine “Ciclismo”? “Visita la homepage del sito”, “Controlla la mail”, “Cerco un volo lowcost per le vacanze”, sono tutte espressioni che utilizziamo comunemente nei nostri dialoghi di tutti i giorni, tanto naturalmente da non renderci nemmeno più conto che si tratta di espressioni prese a prestito da un altro idioma. Da “badget”a “background”, da “audience”a “make up” ormai l’inglese è entrato a viva forza nella nostra lingua, e non soltanto nel linguaggio di tutti i giorni. L’obbligo di corsi tenuti in inglese all’università così come il lessico politico che sempre più spesso prende spunto dal vocabolario d’oltre Manica sono soltanto alcuni esempi di quello che ormai viene definito “itanglese”. L’internazionalismo e la multiculturalità hanno finito per creare una lingua mista, ma è sempre un bene per la nostra lingua madre? Ma l’utilizzo dell’inglese oggi è un caso diverso, perché le espressioni non vengono “italianizzate”dopo essere state accolte, ma entrano a viva forza nel nostro linguaggio così come sono, e noi non ci sforziamo più di adattarle a delle sonorità più consone alla nostra lingua. Accettiamo passivamente, o ce ne compiacciamo addirittura, come se questo nuovo stato di cose fosse simbolo di un paese svecchiato e al passo coi tempi, ma non ci rendiamo conto di come, in realtà, ci stiamo soltanto impoverendo culturalmente prima ancora che linguisticamente. Un sistema linguistico può trarre giovamento da una contaminazione, può trovare spunti positivi dalle novità grammaticali introdotte da una lingua straniera, ma una cultura che si esprime in una lingua incapace di trovare forme proprie per dire cose nuove dà preoccupanti segni di debolezza. Diciamolo subito, l’adozione di espressioni straniere in una lingua non è una colpa da condannare ma anzi un aspetto vivace e pressoché inevitabile per una lingua parlata, un segno di vitalità in un sistema globale dove i prestiti e gli scambi tra culture sono all’ordine del giorno. Di fatto è sempre accaduto che lingue più o meno diverse prendessero termini stranieri e li riformulassero nelle proprie corde, fino a farli diventare parte integrante del proprio bagaglio lessicale. Chi riconoscerebbe oggi le tracce dell’arabo sukkar È anche vero che oggi l’inglese è la lingua degli studi scientifici più avanzati, fondamentale quindi per esprimersi in un lessico tecnico e comprensibile a tutti. In quest’ottica è senz’altro necessario e doveroso apprenderla appieno, anche perché è attualmente il principale veicolo di comunicazione tra nazioni e culture differenti. Ma è anche vero che quando questa lingua arriva a soppiantare l’italiano anche nei campi più significativi e vasti della comunicazione il suo ruolo e la sua presen- za iniziano a farsi un po’ troppo predominanti. Più che naturale che uno scienziato si avvalga di un lessico tecnico inglese per esporre le proprie ricerche, ma che il governo di un paese debba avvalersi di termini presi a prestito da un’altra lingua per definire i propri decreti o per esporre i propri piani di riforme quando ne esistono gli esatti corrispettivi in italiano diventa eccessivo, anche perché impedisce ad una buona fetta della popolazione, quella che solo di rado è a stretto contatto con altre lingue, di comprendere appieno i provvedimenti e le scelte del suo stesso governo. O ancora, è comprensibile che docenti stranieri e relatori provenienti dall’estero tengano le loro lezioni in inglese, ma se un docente italiano viene chiamato per legge a tenere ai propri studenti, anche loro italiani, un corso in un’altra lingua, è certo che nella maggior parte dei casi il risultato non sarà dei più felici, e anzi la qualità stessa della didattica ne risentirà e non di poco. L’interscambio è dunque positivo soltanto nella misura in cui tiene conto di ciascuna cultura, perché prestito e rielaborazione sono molto diversi da accettazione passiva di tutto quanto arriva dall’esterno. Se l’italiano vuole mantenere il suo status di lingua viva e attiva su tutti i piani deve tenere conto di questa differenza. □ Sui sistemi di riferimento Marco Faccioli Premessa: se questo articolo ha un valore, il suo valore viene principalmente dalla reazione suscitata nel lettore. Se il lettore non avverte alcuna reazione, questo scritto può essere gettato, in quanto non ha raggiunto il suo scopo. Per raggiungere meglio il suo scopo l’ho scritto volutamente in modo provocatorio. Per quanto riguarda infine ciò che vi sta scritto lo si deve considerare come una sorta di introduzione a pensieri, o meglio a modi di pensare, per così dire meno dogmatici. Molto spesso quando si sentono i dibattiti sui contributi della scienza, si sente spesso dire che uno di essi è l’aver dimostrato che la Terra si muove attorno al Sole. Tuttavia tale idea, strettamente parlando, è del tutto falsa. Infatti il riferimento che ruota solidale con la Terra certamente non vede la Terra ruotare, ma vede tutto il resto ruotare attorno alla Terra. Non possiamo in ogni caso dire che la descrizione che questo riferimento dà è falsa, in fisica. Potrà essere una descrizione estremamente elegante, ma per quanto assurda possa sembrare deve essere nei suoi limiti accettata. Supponiamo di avere Alice fuori dal sistema solare, Bob solidale alla Terra e Charlie solidale alla Luna. Alice, Bob e Charlie decidono di descrivere il moto, poniamo, di Marte. Quello che succede è questo: Alice vede più o meno il Sistema Solare muoversi proprio nel modo in cui siamo abituati a pensare che si muova (cioè col Sole quasi fisso e i pianeti che si muovono attorno ad esso, con traiettorie ellittiche), per Bob invece il moto di Marte è stranissimo e lo è ancor di più nel caso della descrizione di Charlie. Tuttavia anche se nel caso di Alice e di tutti gli osservatori esterni al Sistema 6 Solare Marte si muove in modo (quasi) ellittico attorno al Sole, ciò non implica in alcun modo che la descrizione di Bob e Charlie, per quanto esse possano essere complicate e orribili per i nostri gusti, siano false. Quello che dobbiamo semmai dire è che – sempre con validità alquanto limitata - Marte compie una traiettoria quasi ellittica attorno al Sole è una proposizione che è vera in moltissimi riferimenti. Ma non è una verità assoluta. Per inciso, per l’osservatore David, situato, poniamo, vicino al centro di massa del Gruppo Locale (l’insieme di galassie cui appartiene la Via Lattea), il Sole anch’esso si muove attorno al centro della Via Lattea, e il centro di massa di quest’ultima si muove attorno al centro di massa del Gruppo Locale. Chiaramente il procedimento che si fa è il seguente: per descrivere qualcosa si ritiene che bisogna allontanarsi da essa in modo da vederla nella sua interezza e si prende tale descrizione come quella vera (così ad esempio si dice di avere una migliore visione della Pianura Padana dal Monte Bianco rispetto che dalla città diMilano – cioè per così dire si è meno ingannati dall’essere all’interno di Nadir, Giu. 2016 essa). Così ad esempio si dice che la Via Lattea è una galassia a spirale, perché se vista da una certa distanza da essa appare all’incirca come a noi abitanti di un piccolo granello di polvere appare una qualsiasi galassia a spirale. E sappiamo che noi siamo trascinati dalla nostra galassia in un moto attorno al centro di un ammasso di polvere (Gruppo Locale) e inoltre il Gruppo Locale ci trascina nel moto attorno ad un altro centro di massa. Tuttavia, se l’idea di Einstein sull’uguaglianza delle leggi della fisica (in forma) è corretta per ogni sistema di riferimento, allora è chiaro che in realtà non ci possono essere sistemi di riferimento che descrivono più accuratamente la realtà ma tutti hanno qualcosa in comune (le leggi della fisica). In sostanza possiamo certamente considerare la Terra ferma – anche se non saremmo molto intelligenti a farlo, se vogliamo descrivere l’Universo – e il Sole che ruota attorno ad essa. La fisica non lo vieta. La fisica per così dire vieta che consideriamo la nostra prospettiva (e quella altrui) come assoluta. Per così dire in un certo senso sia Tolomeo che Copernico avevano ragione. D’altronde, come Albert Einstein e Leopold Infeld scrissero in The Evolution of Physics (1938): Can we formulate physical laws so that they are valid for all CS (=coordinate systems), not only those moving uniformly, but also those moving quite arbitrarily, relative to each other? If this can be done, our difficulties will be over. We shall then be able to apply the laws of nature to any CS. The struggle, so violent in the early days of science, between the views of Ptolemy and Copernicus would then be quite meaningless. Either CS could be used with equal justification. The two sentences, “the sun is at rest and the earth moves”, or “the sun moves and the earth is at rest”, would simply mean two different conventions concerning two different CS. Could we build a real relativistic physics valid in all CS; a physics in which there would be no place for absolute, but only for relative, motion? This is indeed possible!. □ I miei studi in Bangladesh Rasel Miah Sono andato a scuola all’età di 6 anni. La scuola statale non offriva l’asilo e la scuola dell’infanzia come in Italia, quindi ho iniziato direttamente dalla 1^ elementare. Come tutti i bambini, però, prima di andare a scuola sono stato istruito a casa. Avevo un insegnante (un conoscente della nostra famiglia) che veniva ogni pomeriggio a casa nostra e m’insegnava l’alfabeto bengalese, l’inglese e la matematica. Sapevo quindi già leggere e scrivere prima di iniziare la 1^ elementare. I libri mi erano stati regalati dalla scuola, erano un mix di libri nuovi e usati ed erano davvero voluminosi e difficili. Tranne il venerdì, ogni giorno andavo a scuola alle 9 della mattina e finivo alle 16 del pomeriggio; verso le 13 avevo una pausa pranzo di circa 45 minuti. A scuola la cosa che notai subito fu che tutti i miei insegnanti avevano dei sottili bastoni di bambo con cui punivano i bambini che si comportavano male e non facevano i compiti assegnati. Forse non punivano così tanto in 1^ elementare, quanto piuttosto in 2^ e 3^: diciamo che più avanti andavo più forti erano le frustate! La classe aveva quindi un’ottima disciplina nonostante la presenza di almeno 40 studenti, dato che nessuno voleva subire le frustatee vederle prendere agli altri metteva in guardia dal fare lo stesso sbaglio. Dopo la 5^ elementare sono andato alla scuola media (durata 5 anni: dalla classe 6 alla classe 10) e ovviamente qui le frustate erano peggiori! Mi ricordo che prima di entrare nella scuola media sapevo già quali insegnati avevano la mano pesante, quindi stavo sempre attento a fare i loro compiti e non comportarmi male con loro... altrimenti era un inferno! Mi ricordo che c’erano 11 materie in classe 6: letteratura bangla, grammatica bangla, letteratura inglese, grammatica inglese, matematica, fisica, chimica, società, religione (obbligatorio), produzione agricola, sport. Avevo un professore di religione che era un prete e frustava tanto se non pregavamo al pomeriggio. Infatti, essendo la sua lezione verso le 2 del pomeriggio, subito dopo la preghiera pomeridiana, non appena entrava in classe frustava quelli che non si erano presentati in moschea. Non avevo verifiche di classe, l’esame era fissato in un certo periodo. Al 6° mese di scuola si svolgeva l’esame semestrale (tutte le materie una dopo l’altra nel giro di 2 settimane), poi al 9° mese si ripeteva di nuovo questa serie di esami e finalmente al 11°-12° mese sostenevo il temibile Esame finale con cui ricevevo i l mio numero di matricola (se c’erano 60 studenti, ad esempio, andava da 1 a 60: 1 è il miglior studente mentre 60 è il peggiore della classe). La valutazione era fatta attribuendo un punteggio da 1 a 100 in ogni materia e alla fine dell’esame finale si sommavano tutti i risultati per vedere il punteggio complessivo. Dopo esser stato promosso in 7^ classe, ho lasciato il mio Paese e sono arrivato in Italia. I miei amici hanno frequentato fino alla 10^ classe in cui hanno sostenuto L’Esame di Stato che è detto SSC. Dopo aver superato questo esame si sono iscritti al College, di durata 2 anni. Alcuni si sono iscritti al College della mia città mentre altri hanno scelto di iscriversi ai vari College della capitale Dacca. In College si studia tutto per avere la preparazione necessaria per sostenere il test universitario. Per esempio in Bangladesh il test di medicina si può provare solo 2 volte, non c’è una terza possibilità, quindi scegliere un buon College per la preparazione è molto importante. Alla fine di 2 anni di College hanno sostenuto un secondo Esame di Stato chiamato HSC. Il certificato di superamento di HSC dà il diritto di sostenere i Test Universitari. La durata dell’università è generalmente di 5 anni, ma dipende dal tipo di corso. Dopo che sono arrivato in Italia, i miei amici mi hanno detto che il governo ha emanato una legge con cui ha vietato l’uso di bastoni per frustare gli studenti: questa pratica è oggi quasi scomparsa, per fortuna. L’ho sempre odiata. In realtà non è che abbia subito tante punizioni: i professori erano clementi, se avevi una numero di matricola da buon studente. Comunque, non sopportavo l’idea di dare tutto questo potere a certi professori che erano dei veri e propri psicopatici! □ Nadir, Giu. 2016 7 Bibliosofia Partenza lenta Davide Persic Per la terza volta nel giro di una manciata di secondi esploro con le dita l’interno dell’astuccio alla disperata ricerca di una matita in condizioni accettabili. La gomma che con meticolosità continuo a rivoltare nel palmo della mano s’è ormai intiepidita. Non c’è più un briciolo di speranza. Non ce n’è mai stata. Mi volto insoddisfatto ad osservare la schiena china del mio compagno di stanza. Penso al futuro luminoso che lo attende, macché, al presente già brillante! Prendo tempo e getto uno sguardo alla finestra; mi lascio abbagliare ancora un poco dalla luce corrusca che filtra attraverso il vetro. Provo un esagerato senso di gratitudine nei confronti della vita, lo stesso che avevo provato esattamente tre ore prima, nel soppesare con senso critico se la composizione squisitamente estrosa di doghe e lenzuola potesse assurgere a stato dell’arte. Mi sorprendo della stupefacente nitidezza con cui affiora l’immagine. Scatta il sessantesimo minuto e la partita è ancora in stallo. Nessuno dei due ha avuto il coraggio di fare la prima mossa. Da una parte Lui, beffardo e imperscrutabile nel suo innocente candore, dall’altra Io (e chi mai?), a disegnare col pensiero ogni genere di fantasia sulla sua superficie liscia e intonsa. Ancora, dannatamente, intonsa. Mi massaggio le tempie e serro gli occhi. Segue un profondo silenzio interrotto solamente dalle severe imprecazioni di Ja- copo rivolte all’ennesimo, impestatissimo problema di fisica. Ridimensiono immediatamente la natura del mio, assalito da una buona dose di timore reverenziale (e non poco imbarazzo). Diavolo, che sarà mai! Mi faccio coraggio e con decisione, armato di solida grafite inserita in un raffinato fodero di legno intarsiato (un vero cimelio risalente all’epoca Ikea, credetemi), traccio d’istinto: PARTENZA LENTA. Mi rendo conto di essere leggermente in svantaggio. Nonostante il titolo non ho ancora deciso quale argomento discutere. Ma come la stessa storia dell’umanità ci insegna, un punto di partenza è allo stesso tempo un buon punto d’arrivo. Rassicurante. □ Massimo tre parole Ernesto Ruota Dove, armati di veridiche prove filologiche e supportati da illustre esempio, si mostra al Lettore quanto sia cosa infelice il conceder con avarizia il tempo agli scritti. Recenti ricerche hanno permesso la riscoperta di alcuni scritti giovanili di Immanuel Kant; particolarmente interessanti sono gli studi del grande filologo Osvald M., massimo studioso dei diari segreti del pensatore tedesco. Riportiamo ora un breve estratto delle sue ricerche. Il giovane Kant frequentò con grande profitto il collegio, tanto che si definì subito il miglior allievo della classe; quando poi la scelta del percorso universitario si rese necessaria, non esitò ad iscriversi alla prestigiosa università di Königsberg, anche perché, all’epoca, l’unica senza prove di ammissione. Il primo anno, come possiamo leggere nei suoi diari, fu superato senza eccessive difficoltà, se si esclude una ripetuta bocciatura all’esame di Storia della Filosofia Contemporanea. Anche il secondo anno di studi procedette senza intoppi e con risultati eccellenti. Durante il terzo anno viene invece registrato un evento particolare, che intendo qui approfondire, anche a vantaggio delle nuove generazioni di studenti. Nei mesi di novembre e dicembre 1743, il giovane Immanuel studiava assiduamente in vista dell’esame a scelta da lui selezionato per la sessione invernale: Logica ed etica nel pensiero kantiano. Quando giunse il momento di presentarsi alla prova, Kant si sentiva decisamente preparato e sicuro di sé; del resto l’esame riguardava la sua stessa filosofia, come avrebbe mai potuto non superarlo? Questo consisteva in uno scritto di dieci domande, per ognuna delle quali erano disponibili dieci righe, da completarsi in 60 minuti. Sedutosi al banco e impugnato il pennino, lesse i quesiti e li trovò estremamente facili. Quesito numero uno: Si descriva, in massimo dieci righe, la concezione kantiana dell’etica e in che modo essa si relazioni con ciò che nel sistema si definisce idea. Si giustifichi la risposta con opportune citazioni dalle principali opere di Kant, con relativo commento ed analisi linguistica. Si esponga poi come quanto detto possa essere inscritto in un ragionamento più ampio, che consideri anche la sua definizione di categoria, la sua attitudine rispetto alla logica e le altre discipline da lui studiate, supportando il discorso con valide argomentazioni; non si dimentichi infine di tracciare un quadro storico-politico-sociale dell’epoca. Di simile natura i restanti nove quesiti. Il giovane Immanuel cominciò di buona lena a rispondere, ma si accorse ben presto di come qualcosa non tornasse. Dopo venti minuti stava ancora delineando l’orizzonte storico-politico-sociale richiesto nel primo quesito, senza aver minimamente affrontato gli altri punti. Quando poi, dopo mezzora, terminò quell’impossibile sintesi, si accorse di avere a disposizione una riga soltanto per affrontare il resto del quesito numero uno. Cercò allora di recuperare disperatamente il tempo perduto e si tuffò a capofitto nella seconda domanda, tentando in ogni modo di condensare la sua stessa concezione di metafisica, corredata ovviamente da citazioni delle opere che lui stesso aveva partorito, in meno di cinque righe. Così, quando il professore, frustrato forse da una carriera accademica non particolarmente brillante, annunciò che bisognava appoggiare il pennino e consegnare gli scritti, il povero Kant era riuscito a completare soltanto i primi 6 quesiti, abbozzando qualche frase sconnessa nel settimo. Massimi furono il suo sconforto e la sua frustrazione. Quando, una volta che anche il secondo appello fosse trascorso, il professore decise di pubblicare gli esiti del primo, il giovane filosofo scoprì di aver ricevuto diciotto e pianse lungamente. Il giorno della visione dei compiti si recò in università e attese il suo turno; quando finalmente fu chiamato a prendere il suo elaborato, sul quale era stata pasticciata in rosso la sufficienza, volle chiedere umilmente spiegazione al professore, il quale prontamente gli rispose: «Signor Kant, intanto il tenore polemico della vostra richiesta vìola irrispettosamente la 8 Nadir, Giu. 2016 mia persona, dunque vi invito ad adottare un tono differente quando vi rivolgete a me. Per quanto riguarda il vostro scritto, posso soltanto asserire che voi della filosofia kantiana avete assimilato ben poco, per non dire che non ne avete capito davvero nulla. Sapete come definirei il vostro lavoro? Eh, lo sapete? Superficiale, non avete approfondito nessun dei concetti richiesti; vi siete limitato ad accennare vagamente alcuni punti, dimostrando tra l’altro scarsa attitudine alla materia. Consentitemi infine di dire che voi, in qualità di non frequentante, non meritereste un voto migliore neppure se lo scritto lo fosse. Vi invito a ripresentarvi quando avrete studiato Kant seriamente». Allora Kant, che si sforzava di trattenere le lacrime, osò accennare alla scarsità di spazio e di tempo a disposizione e all’impossibilità di elaborare, scrivere e addirittura pensare in quelle condizioni. Non l’avesse mai fatto! Subito l’altro montò su tutte le furie, urlando «Voi non vi dovete permettere di criticare il mio lavoro di insegnante, è CHIARO? Voi state mettendo in discussione quello che un consiglio di docenti con secolare esperienza nell’insegnamento ha stabilito. Vi rendete conto della gravità della cosa? Se ho ritenuto che un’ora fosse sufficiente e così lo fossero dieci righe, voi non vi dovete neppure sognare di contestare ciò. Mi sono spiegato? Quando qualcuno conosce realmente ciò che ha appreso, non necessita di molto tempo per pensare, né di tanto spazio per scrivere. Se non avete voglia di studiare e intendete soltanto far polemica restatevene a casa. E ora andatevene, dall’aula e anche dall’università, se volete un consiglio da amico». Se il lettore pensa che questa scena sia stata la più triste che il povero Kant dovette affrontare, si sbaglia grandemente. Quando infatti, tornato a casa, dovette confessare ai genitori il misero esito dell’ultimo esame, questi si adirarono ancor più del professore. La madre, che gli aveva impartito una profonda educazione religiosa di stampo pietista, non ebbe nessuna pietà. Inutili furono i tentativi di Immanuel di riportarla alla ragione: «Madre, vi prego, come potete pensare che io non abbia studiato? Del resto l’esame riguardava me stesso, come accidenti mi si può ritenere superficiale nella conoscenza della mia stessa maledetta filosofia?» diceva lui mentre, iniziando ad accorgersi dell’assurdità di quella situazione, si andava scaldando. «Non ti giustificare» gridava lei piangendo con il volto nascosto dietro ai palmi, «se non hai più voglia di studiare non inventare sporche menzogne almeno; inficia la tua media, ma non l’onestà della famiglia. Se avessi saputo di questo giorno, forse non ti avrei mai dato alla luce». A quel punto intervenne il padre e, con voce ferma e minacciosa, disse «Immanuel, hai deciso di gettar via la tua carriera accademica, quella stessa che io e tua madre, con tanti sacrifici, ti abbiamo permesso di seguire. Ora ti appelli a scuse meschine, insultando la tua e la nostra intelligenza; non hai più rispetto di niente e di nessuno. Non sei più un uomo ai miei occhi». Poi, essendo egli un ben conosciuto sellaio, non ebbe difficoltà a trovare un lungo laccio di cuoio e ne fece lungo uso sul figlio. Gli studiosi moderni non sanno ancora dire se, alla fine di quella infelice scena, molte ore dopo, fosse più conciato il cuoio o il didietro di Kant stesso. Va detto che il filosofo tedesco si laureò ugualmente, ripetendo l’esame con un altro professore che, dopo averlo interrogato in una prova orale, gli diede trenta e lode, complimentandosi per la conoscenza approfondita della materia. Qualche anno più tardi, una volta laureatosi, divenne anch’egli docente universitario e cominciò a insegnare. Quando dovette preparare il testo dell’esame, il primo quesito recitava così: Quesito uno di undici: Si descriva la storia del pensiero occidentale, prestando particolare attenzione agli aspetti storici e sociali intercorsi tra l’invenzione della scrittura e il secondo Illuminismo. Si giustifichi la risposta con opportune citazioni dalle principali opere scritte in questo periodo, con relativo commento ed analisi linguistica. Si esponga poi come quanto detto possa essere inscritto in un ragionamento più ampio, che consideri anche la filosofia scolastica, la storia delle religioni in generale e le metafisiche orientali, supportando il discorso con valide argomentazioni. Massimo dieci righe. Tempo a disposizione: trenta minuti. Non intendo ora esprimermi circa la morale di ciò che è stato qui riportato; eppure lasciate che vi chieda: quale insegnamento ritenete si possa trarre da tutto ciò? Si scriva un significante elaborato di massimo tre parole. □ Rubriche Matricola d’oro Matricola 1568224: non riesce ad aprire il lucchetto della propria bici per alcuni mesi, in quanto arrugginito. Una sera per gioco propone ad alcuni Mazziani di cimentarsi nell’impresa, ma nessun bicipite riesce a muovere la chiavetta nella serratura. Arriva la Matricola d’Oro, che scherzando: “Vincerò io questa Excalibur! Dovrete chiamarmi Re Artù!”, prende il lucchetto e tra gli sguardi attoniti dei compagni con un leggero movimento sblocca il lucchetto. La matricola proprietaria scoppia in un pianto di gioia. GLORIA E ONORE! Matricola 1646001: alla festa di Primavera si avvicina agli avventori mostrando fiero il bicchiere, chiedendo “Sai cos’è? È piña colada!” ...rispondendo poi agli sguardi interdetti con: “Ha solo ananas e cocco! Solo frutta! NON C’È ALCOL!” Nadir, Giu. 2016 9 Collegio Tragicommedia dello studente Mazziano Veronica Mondini Ebbene sì, cari lettori, ci siamo: ci stiamo avvicinando al periodo caldo dell’anno! Caldo di stagione e caldo per l’impegno che bisogna metterci. Compitini, preappelli, c’è già chi si è cimentato con il primo studiacchiare, ma il bello deve ancora venire! Presto finiranno le lezioni e tutto il nostro tempo sarà come risucchiato in un unico costante pensiero: gli esami! In realtà, crediamo che ansia, preoccupazione, insonnia, oltre che danneggiare la vostra (e nostra) salute non vi aiutino per nulla ad affrontare con serenità quello che alla fine è un momento della vita, che prima o poi passerà (e fidatevi che passa sempre). Vi proponiamo allora alcuni esempi di tipologie dello studente mazziano in sessione estiva, non dimenticando qualche consiglio pratico, per fare qualche risata (e perché no?) per distrarci un momento dal nostro studio matto e disperatissimo. Il tipo Sociale La tipologia del mazziano last minute predilige come habitat naturale il bar. Ritiene che specialmente nel periodo in cui non è più impegnato con lezioni e laboratori, non ci si debba dimenticare di socializzare con tutti. Lo vedi protagonista di tutte le partite a carte, campione assoluto del bigliardino e talvolta potreste anche vederlo giocare a scacchi (ma con moderazione, perché lì il gioco si fa più intellettualistico). Della serie, lo trovi tutta la sessione in bar a rilassarsi, come dice lui. Capita magari di beccarlo in mensa, ma proprio solo quando fa una breve pausa per mangiare. Domanda da evitare con questo soggetto: Come va con gli esami?. Potreste fare una pessima figura con chi si impegna così tanto nel vivere sociale. Il tipo A-sociale Il tipo Fuso Attenzione signori, perché non è come potreste pensare: il mazziano A-sociale non è il semplice opposto del tipo definito Sociale, ma qualcosa di molto più divertente! Innanzitutto il mazziano A-sociale non lo vedi praticamente mai: girano leggende che si nutra delle pagine dei libri che studia, per interiorizzare meglio (pensiero discutibile). Poi lo vedi (beato chi lo vede) aggirarsi per i corridoi a qualsiasi ora, ripetendo a voce bassa frasi, che non si capiscono e che sono comunque inquietanti. L’unico approccio che si può tentare con questa specie mazziana è solo nella fase post-esame. Lo studente si presenta con la valigia alla mano, ti saluta in modo assolutamente normale e perde qualsiasi minaccia di pericolo che aveva fino a qualche ora prima. Il tipo Fuso generalmente si riconosce per un tic evidente alla palpebra dell’occhio destro, che continua a sbattere, senza che il mazziano possa controllarla. Lo vedi sempre con un bicchiere di caffè in mano, il pigiama addosso e le pantofole (più comode delle scarpe). Vi raccomandiamo di non avvicinarvi troppo, il contatto ravvicinato potrebbe essere sgradevole. Questa specie si porta il vassoio in camera, lo consuma nella velocità di pochi istanti e si rigetta nello studio. Se provate a scrivergli, probabilmente vi risponderà il prossimo Natale. Normalmente non lo vedi in lavanderia, perché il tipo Fuso riesce a sopravvivere con gli stessi indumenti tutta la sessione. Aiuto. Il tipo Mattiniero La tipa Isterica Lo studente Mattiniero si sveglia praticamente all’alba, se non prima. Fa colazione con calma, approfittando del fatto che con lui non c’è nessuno. Inizia a studiare prestissimo e sfrutta le ore più fresche della giornata, perché la mattina ha l’oro in bocca!. Mentre tu stai facendo la merenda alle undici, lo vedi passare, perché lui a quell’ora va a pranzo. Della cena sarebbe meglio tacere, tuttavia il momento in cuisolitamente il mazziano Mattiniero va a cena è generalmente prima dell’apertura della mensa. Altra peculiarità di questa specie l’ora a cui va a dormire: le 21 potrebberogià essere un’ora troppo tarda! Questa specie è prevalentemente femminile, anche se sono stati recentemente avvistati esemplari anche al maschile. La tipa Isterica non la vedi, la senti. La senti perché quando entri nella stanza in cui si trova noti il valore di Ph acido salire alle stelle. La tipa Isterica non comunica, sbuffa o grugnisce. Generalmente è meglio evitare qualsiasi contatto e rapporto per aver salva la vita. Segnaliamo ai nostri lettori l’evoluzione altamente rischiosa della tipa Isterica in tipa Sclerata. Questo genere femminile si caratterizza per le urla e grida che rivolge inveendo contro tutti, per quale motivo? Non sappiamo ancora dirvelo. Gli studiosi stanno impostando un nuovo lavoro di indagine specifica. Finisce qui la rassegna dei tipi Mazziani, vi rassicuriamo però col dirvi che il nostro studio semi-serio procederà con tutto l’impegno del nostro team di giovani ricercatori. Per avvistamenti o altre rivelazioni, vi segnaliamo la nostra mail: tragicommedia_mazziani_sessione-estiva@ gmail.com. □ 10 Nadir, Giu. 2016 Torneo del Vino Kristi Mustaqe e Gianluca Badano La settimana scorsa si è svolta la finale del torneo di calcio per club più importante al mondo: la finale di Champions League. Il palcoscenico era uno dei più belli al mondo, e non poteva essere altrimenti. Si giocava allo stadio Giuseppe Meazza di Milano e tutti abbiamo visto il meraviglioso spettacolo che le squadre ci hanno offerto. Però non tutti sanno che a poche centinaia di chilometri da San Siro si è giocata anche la finale di un’altra competizione calcistica, forse meno blasonata della prima ma altrettanto affascinante e ricca di emozioni. Parliamo del Torneo del Vino, che si svolge nel famosissimo ESTADIO della SAGRADA FAMILIA. Un torneo storico di calcio a 6 che ogni anno vede sfidarsi i vari piani della residenza maschile. Anche quest’anno i ragazzi non ci hanno deluso, regalandoci tanta adrenalina e tantissima sana ignoranza. In finale si sono sfidate a suon di tibiate il SERENISSIMO TERZO PIANO contro Il QUINTO, una partita a senso unico, nel senso che hanno fatto tutti schifo. Ma come in tutte le competizioni ci deve essere un vincitore, e come in tutte le finali che si rispettino solo i rigori possono decretare i campioni. La finale quindi si risolve ai rigori con la vittoria del QUINTO, e le smadonne (metaforicamente parlando) dei “SERENISSIMI” terzopianisti. Ora, tramite le nostre pagelle ignoranti, andiamo a raccontarvi da vicino tutto quello che è successo durante la partita. Terzo piano Giovanni Brunelli (4,5): Pronti via e si becca un gol su un tiro da centrocampo deviato dove ha dimostrato l’agilità di un bradipo sotto effetto di calmanti. Sul secondo gol viene accecato dal colpo del sole di Leonardo e la palla gli scivola tra le mani come le saponette delle peggiori prigioni di Azkaban. Dopo il terzo gol dice ‘mo basta e abbassa la saracinesca regalandoci salvataggi che neanche Buffon ai tempi d’oro. Meglio tardi che mai. Piersavino Lichinchi (6): Si e preso più pastiglie lui prima di questa partita che Armstrong negli ultimi 5 tour, pur di giocare. Il veterano, tre volte campione, regala tutto quello che ha, anche se il fisico ormai è quello che è e i piedi anche. Molto propositivo finché non va in riserva, ovvero dopo 10 minuti, allora fa sfoggio della sua arma segreta, la sciabolata tesa sulla tibia dell’avversario. Ortopedico. Gianluca Badano (6): Il fatto di non essere sceso in campo gli basta per la sufficienza d’ufficio. Meno male che Gianluca non c’è. Matteo Peria (10): BOMBER Mario Giardina (7): Dedizione e professionalità al servizio di una banda di scappati di casa. Aveva detto che avrebbe segnato e l’ha fatto, gol ignorante come i suoi dribbling sulla fascia, dove si sente a suo agio come F. Papa in una festa dove non si limona. ‘mmbbarefrate Nicola Giannizzari (6,5): Don Nicola si mette subito a don-dolare tra le linee con un paio di dribbling che lasciano tutti ipnotizzati e lui ne approfitta per fregarsi quello che può. Firma la sua doppietta personale con un tiro da fuori, prima di sbagliare un gol praticamente già fatto. Utile in fase di copertura come Zaccardo ai mondiali del 2006. (Don)’t touch my Breil. Ilija Vego (6): Prestazione onestissima, diversamente dalla sua impresa di “recupero crediti” che gestisce nelle peggiori città dei Balcani. Rimane il rammarico per quel tiro all’incrocio che viene neutralizzato dal portiere. Lui non ha i mezzi tecnici per farlo, ma non lo sa e lo ha fatto comunque. Wiggle wiggle wiggle! Kristi Mustaqe (6): Partita di sacrificio e tanta sporcizia, condita da un assist degno del Tare ai tempi del Brescia e da un tocco di mano che ricorda la MANO de DIOS di Maradona. Rischia più volte il secondo giallo collezionando rotule a destra e a sinistra. A fine partita si contano: 1 ammonizione, 1 assist, 1 gol a porta vuota sbagliato clamorosamente e 43 falli. Crispy McTibia. Matteo Guardamagna (6): 6 come i minuti disputati nel torneo, con tanto di gol e assist. Se la tira perché il suo corso di studi è in inglese ma si dimentica di dire che è una magistrale di psicologia. Cock-nitive Neuros(uck)cience. Claudio Zagonel (6): Una vita in pressing dentro e fuori dal campo. Riuscirebbe a farsi male anche altorneo di bocce. Rapace di cristallo. Giovanni D’Onofrio (s.v/senza vergogna): Non si dovrebbe scaricare la colpa su un solo giocatore, perché si perde e si vince insieme, ma stavolta la colpa è tutta sua. Utile solo nel momento del non-bisogno. C’è chi nasce a Policoro e segna il gol scudetto (Zaza) e chi invece non decide neanche il torneo del vino. (c.c/Carlo Conti) Quinto Piano Giacomo Di Paolo (10): BOMBER Leonardo Monterubbiano (6): Tante giocate e tanta classe sono quello che non ha fatto e non ha dimostrato in questa partita. In cambio ha segnato un gol che mette in mostra il meglio del suo repertorio, lancio lungo sbagliato che si trasforma in pallonetto e colpo del sole per accecare il portiere. Ha meno autonomia del Veneto. Chiamate un’ambulanza. Nadir, Giu. 2016 11 Nicola Bettiol (6): Occhiale alla Edgar Davids, capello alla Borriello e si va a comandare per i campi del Torneo del Vino. Fabbrica del sorriso. Edoardo Ghidetti (5): Ha sbagliato più stop lui di Chiellini col destro. Tira bene i rigori. Poco STRANUZ. Mattia Montanaro (6): Parlare di autonomia per lui non ha nemmeno senso, ha fatto più cambi in mezza partita di Allegri in mezza stagione. Sprazzi di genialità con dribbling e giocate da campione in pillole da 30 secondi. L’erba del campo è sempre più buona. Tobu (6,5): Si fa mezz’ora in auto per giocare 40 minuti di una partita importante come i semafori in Albania. Buona partita, pulita e ordinata, mancava di ignoranza purtroppo. Tommaso Comellato. Filippo Manaigo (7,5): Partita di grande spessore e la ciliegina sulla torta è la parata di uno dei rigori. Il lancio lungo in fallo laterale veniva quotato 1.01. Spider-Man(aigo). Iacopo Cristoferi (6,5): Ha la forma fisica di uno che è appena stato a pranzo da sua nonna. Partita pulita e senza sbavature. Protesta più lui per un fallo laterale di un leghista contro l’accoglienza dei rifugiati. Salveeni. Raffaele La Torre (6): Buona partita, sfrutta i 30 secondi che ha nelle gambe per segnare il 3 a 0. Da uno che è tornato dall’India solo poche settimane fa non si poteva chiedere di più. Arridateci i Marò. Davide Scipioni (6): Il mancino più pericoloso di Padova, non è lui. Riesce a saltare gli avversari come birilli ma se non rientra sul sinistro non è contento e quindi torna indietro. Una volta ha provato a tirare di destro, stanno ancora cercando la palla. Mi ricorda tanto Robben (semicit.) Qui sotto la dedica al nostro idolo. Marco de Nadai (Y): Da uno che si è beccato 11 tunnel in una partita da ALBY non ci si può aspettare tanto. Con il balletto al Mazzurro ha conquistato i cuori di tutte le bufale di Pd. Bufalino ballerino. □ 12 Nadir, Giu. 2016 Rubriche - Culto “...aspettare che il vapore svanisca come un sogno” Cristiana Contri É giunto, forse, il momento di parlare di quella che è stata la prima drag queen ad arrivare al grande pubblico in Italia e la prima ad aprire la strada ad altri personaggi simili nel mondo della musica e dello spettacolo: Platinette, nome d’arte di Mauro Coruzzi. L’importanza rivestita dal suo personaggio sfugge ad uno sguardo repentino, ma può essere rilevata se se ne osserva più attentamente la figura. Egli, nato a Parma nel 1955, è stato membro a partire dal ’76 di un gruppo di intrattenimento, chiamato “Mine vaganti” e definito di “trasformiste”, in quanto come sostenne ad una intervista a “Niente di personale” nel 2011 “allora non si usava il termine “travestite”, suonava troppo volgare”. L’appellativo deriva dal fatto che il repertorio di tale collettivo canoro, che si esibiva per eventi, discoteche e feste, si basava su quello di Mina, ma soprattutto dal fatto che il nome esprimeva in modo abbastanza incisivo la consapevolezza del ruolo politico e sociale rivestito, poiché come egli affermò sempre in quell’intervista “in quegli anni se non si era in un gruppo, in un movimento, allora non si era”. Dopo l’università è iniziata la sua attività di recensore di concerti, poi una concatenazione di eventi e di conoscenze lo ha fatto approdare presso il mondo della radio. Fin dagli anni Settanta ha lavorato come conduttore radiofonico su alcune emittenti regionali e solo a partire dal 1999 ha condotto una trasmissione in onda su Radio Deejay. In questo stesso anno, probabilmente grazie anche alla notorietà del canale per il quale lavorava, venne notato da Maurizio Costanzo ed invitato a partecipare al suo show. Fu in questa occasione che si presentò al pubblico italiano con un coraggio ed una modernità spiazzanti per quegli anni e che diede inizio alla sua carriera televisiva con le vesti, l’umorismo e la sfrontatezza che da allora in avanti l’avrebbero sempre contraddistinto. Infatti, ancora a “Niente di personale” a proposito del suo modo di fare spettacolo dichiarò: “Mi piace stupire, mi piace rischiare ogni volta ciò di cui non sono sicuro, mi piace la forte provocazione da leggersi e da vedersi come desiderio del farsi accettare”. Tale concetto è stato da lui ripreso anche nella sua ultima canzone, scritta in collaborazione con Grazia Di Michele, cantautrice italiana. Egli, infatti, oltre ad essere un conduttore radiofonico, un conduttore televisivo ed un personaggio televisivo, si è posto anche come cantante, avendo composto due album nel 1999 e nel 2012 e calcato il palco di San Remo nel 2012 e nel 2015. L’ultima esperienza, però, è stata forse quella nella quale più si è aperto al pubblico. Fra i versi di quel testo, che è una poesia, una grande metafora nella quale egli paragona il suo corpo ad una finestra e il suo trucco ad un velo di vapore che nasconde tutto, si legge: “Io non so mai chi sono io sono per la gente/ coscienza iconoclasta volgare e irriverente”. Attraverso una notevole capacità di sintesi, quindi, anche in questo caso viene ripreso il suo gusto per lo spiazzamento, un gusto nato forse come necessità in un Paese come l’Italia, nel quale, negli anni in cui egli per la prima volta compariva in televisione, l’unico modo per attirare attenzioni ma allo stesso tempo tutelarsi era quello dell’ec- cesso; non a caso nella canzone si parla di “un’ombra di rossetto contro l’ipocrisia”. Non molto tempo fa a “Lo schiaffo”, una trasmissione televisiva, è stata chiesta a Coruzzi un’opinione su quest’epoca ed egli ha sostenuto come di essa non gli piaccia quasi niente, in quanto invivibile, e come gli scocci il sapere che non potrà vedere e vivere la parte che verrà. “Io sono una finestra” a Sanremo si è scandalosamente classificata al 16° posto e ciò ha fatto emergere come il pubblico italiano non sia ancora preparato a tali tematiche e a canzoni che trattano questioni importanti, che in alcuni Paesi sono già state superate, preferendone altre meno impegnative. Quello di Coruzzi e della Di Michele, però, rimarrà comunque un tentativo e, chissà, forse tra qualche anno o forse dopo che la figura di Platinette non ci sarà più, ne verranno riconosciuti il valore e l’importanza avuti nel riscatto della mentalità italiana. Prima che ciò avvenga, però, dovrà passare del tempo e, soprattutto, dovranno succedergli molti altri personaggi simili. Nel frattempo a lui non resta che sperare e, come afferma negli ultimi due versi della canzone, quasi fosse un saluto, “aspettare che il vapore/ svanisca come un sogno”. □ Nadir, Giu. 2016 13 Quante aragoste per un solo film? Giuseppe Matone e Giovanni Tregnago Giovedì 28 aprile si è tenuta da parte di CineMazza la proiezione del film The lobster di Yorgos Lanthimos. Vista l’alta partecipazione, anche da parte dei ragazzi del collegio, ma soprattutto il forte dibattito avvenuto a seguito della programmazione, ci siamo confrontati per dare un’interpretazione al film, ma avendo scoperto le nostre posizioni essere sorprendentemente diverse, quasi da chiederci se avessimo davvero visto lo stesso film, abbiamo deciso di proporvele entrambe, per lasciare spazio al confronto e soprattutto per coinvolgervi nel dialogo. Se il film vi ha colpito, scrivete anche voi una vostra versione del film, saremo ben felici di pubblicarla (anche anonima, se così preferiste). Essendo presenti forti spoiler, consigliamo la lettura principalmente a coloro che hanno già visto il film. Giuseppe Matone Il film proietta una storia amorosa sullo sfondo di un futuro distopico animato da una società opprimente e coercitiva che vieta alle persone di essere single e le costringe a trovare l’anima gemella in un tempo limitato. Questa è la situazione in cui versa un insolito Colin Farrel che si ritrova costretto a recitare una tragicommedia sul palcoscenico delle relazioni interpersonali. Possiamo isolare tre figure fondamentali che si distinguono nel modo in cui reagiscono a questa forma di oppressione. Prima tra tutte è quella del protagonista David che si staglia su due mondi completamente diversi: l’hotel e il bosco abitato dai solitari. In entrambe queste situazioni egli si comporta in maniera esattamente opposta a quella prevista dalle regole: si innamora quando vive con i solitari dove è vietato, non riesce a farlo nell’hotel dove è imposto, pena la trasformazione in un animale a sua scelta. Ed ecco che tutto ad un tratto questi due mondi così lontani sembrano avvicinarsi e condividere la stessa ipocrisia di fondo: i solitari rifuggono un sistema terribile e opprimente rifugiandosi in uno che, forse, lo è ancora di più, vista la vasta gamma di atroci punizioni previste per coloro che osano trasgredire le regole. Così il bosco, primamente visto come porto sicuro in cui poter trovare riparo, rivela anch’esso, a suo modo, la propria forma di coercizione, diventando il nuovo mondo da cui fuggire. Alla luce di questo si può notare come David rifiuti qualsiasi forma di costrizione imposta dall’alto, egli è la più pura incarnazione del desiderio di libertà che è proprio di ciascun uomo, egli diviene il paladino di una ribellione che si consuma nei confronti di una società malsana che pretende di controllare, al limite della dignità, anche l’ambito più privato della vita di una persona, quello delle relazioni. Essa cerca a tutti i costi di inculcare nella gente l’assurda convinzione di non poter vivere senza un partner e che la felicità di coppia possa essere raggiunta solo se si hanno tante cose in comune. Proprio da qui scaturisce la vacuità di un sistema forzato, non naturale, finto, la cui dimostrazione si ha nella completa assenza di esitazione del marito della direttrice dell’hotel nel momento in cui gli viene chiesto di sparare alla moglie, in cambio di aver salva la vita. Seconda importante figura è quella della donna insensibile, l’unica persona capace di sopravvivere in una situazione così proibitiva quale quella dell’hotel. Ella altro non è che il prodotto annichilito di una società asfissiante che l’ha completamente spogliata del suo essere umana, che le ha strappato l’ossigeno degli uomini, ossia la capacità di provare sentimenti, la capacità di relazionarsi con gli altri. Così, l’unica cosa che distingue l’uomo dagli animali, lei sembra averla perduta per sempre, essendo già andata incontro, di fatto, alla trasformazione tanto demonizzata. Alla donna insensibile si contrappone la terza e ultima figura presa in considerazione, quella donna che, dopo aver tentato il tutto per tutto arrivando persino a calpestare la propria dignità, decide di porre fine alla sua vita gettandosi da una finestra. Attorno a questo personaggio si coagula la condizione di chi è debole e incapace di reggere una realtà tale, chi non vede in quest’incubo altra via d’uscita se non nella morte. Questa contrapposizione è perfettamente ravvisabile nella scena in cui la donna suicida giace a terra schiacciata in una pozza di sangue e la donna insensibile, a pochi metri da lei, continua a sorseggiare amabilmente la sua tazzina restando in silenzio e impassibile dinanzi ad uno spettacolo così scioccante. Questo silenzio viene squarciato dalle urla della donna che sottolineano il distacco tra le due figure, trasmettendo un profondo senso di sgomento nello spettatore come se si sentisse partecipe di quel dramma. Tuttavia questa atmosfera stupefacente viene spezzata dall’inverosimile conversazione che segue tra la donna e David: questi sta fingendo di essere anch’egli insensibile per poter entrare nelle sue grazie. Così il protagonista sembra voler rispettare le regole, sembra accettare quella situazione, ma in realtà sta solo cercando di uscirne il prima possibile. Alla luce di quanto detto appare evidente come, in una società dove l’ipocrisia e la vacuità sono i pilastri portanti, non possa trovare spazio un amore schietto e autentico quale quello dei protagonisti e perché il protagonista voglia essere trasformato in un’aragosta, che tra le tante qualità elencate possiede un esoscheletro: quasi come se egli volesse finalmente ottenere quello scudo protettivo capace di renderlo immune a quel conformismo con cui alla fine sembrascendere a patti. David durante tutta la sua avventura si muove sul filo che separa la libertà dall’abisso dell’oppressione, la naturalezza dalla vanità: se da una parte sembra piegarsi e accettare quel sistema repressivo dall’altra si erge a paladino dell’autenticità e della spontaneità. Tuttavia possiamo effettivamente affermare che egli riesca nel suo intento? Egli si acceca o no? Egli è carnefice o vittima di questo sistema? Non lo sappiamo, il regista tace su questo lasciando allo spettatore l’ardua sentenza, quasi come se volesse lanciare una sfida allo stesso che si trova a vivere in un contesto non molto distante da quello da lui esasperato. Giovanni Tregnago Un’atmosfera melanconica per un umore nuvoloso, non sai che cosa sta succedendo, pensi solo che c’è qualcosa che non va – quella triste speranza che senti crescere come una tensione, speranza che il sole torni a brillare o trapassi appena un po’ di più la cortina di ferro, che il sipario non cali troppo presto, che quel coperchio non copra anche l’ultimo spiraglio, e chi s’è visto s’è visto. Sono queste le impressioni che lascia la fotografia in The lobster. Cieli bigi e mari chiari, pavimenti e vestiti bianchi, tutto perfettamente livido, asettico e anonimo, torbido come acqua salata. Per chi ha vissuto il film in maniera partecipata, The lobster è il dramma esistenziale di un uomo che vorrebbe tanto avere un posto nel mondo in cui vive; per chi non l’ha fatto, a chi è solito assumere una prospettiva critica verso un lavoro artistico, sembrerà una commedia con punte tragiche, humor amaro e spunti interessanti. Avendoli provati entrambi, non me la sento di dire che uno sia migliore dell’altro, nonostante le mie preferenze vadano al primo. 14 La storia del protagonista è un timido, tremendo, silenzioso grido d’aiuto agli altri, aiuto che solo in apparenza gli viene concesso. Tutte le società a cui porge la richiesta infatti non cercano affatto di salvarlo: una società non ha alcun interesse nel soddisfare le richieste del singolo, una società non può far altro che imporre le proprie regole. In questo senso sono andati gli interventi del pubblico: la società come organismo di controllo, sorveglianza e costrizione che esige l’alienazione dell’individuo da sé stesso. Purtroppo, i più si sono Nadir, Giu. 2016 dimenticati di un particolare: è il protagonista stesso a volerci entrare. È il protagonista che vorrebbe, in qualche modo, prenderne parte, sebbene non si sappia infine perché (Senso di solitudine? Debolezza? Male di vivere? Boh). David sente il bisogno di stare con l’altro, per questo arriva a fingersi diverso da sé pur di stare nel gruppo. Ma non ci riesce. Non si adatta perché non è in grado di adattarsi: ha troppo a cuore sé stesso, i propri desideri e inclinazioni da cui non può in alcun modo prescindere. È un inetto: il paradigma dell’uomo che vuole, ma non riesce. Il finale in tal senso è emblematico: forse che alla fine ci riesce? Riesce ad uscire dal limbo, a prendere una decisione? Mistero. Un fatto però è evidente: che sia lui l’aragosta, lui che in ogni società di cui entra a far parte (i tre amici, la società civile, quella clandestina, con la sua amata) si sente in trappola, in un mondo monocromo e feroce, con appena un accenno di sole. Perché ricordiamoci: le aragoste, le cuociono vive. Cala il coperchio, ops, il sipario. □ Addio alle tastiere. Reportage di un ultimo saluto Giovanni Tregnago Tensione positiva. C’è adrenalina nell’aria, l’adrenalina del pre-concerto, e una luce blu che carica l’atmosfera di elettricità. Non sai cosa accadrà; sai però che puoi aspettarti di tutto. Sono nel quadrato A, il primo davanti al palco, proprio sotto la cassa sinistra. Il Geox strabocca di gente. Ogni tanto qualcuno cerca di far partire vari cori da stadio per incitare l’arrivo della band, ma non sembra esserci alcuna risposta alle loro invocazioni. All’improvviso, buio in sala. Parte una musica che ha dell’epico. Sullo schermo compaiono uno dopo l’altro questi spezzoni: AVEVANO UN SOGNO CANTARE LA LORO IRLANDA CI SONO RIUSCITI MA ERA IL SOGNO SBAGLIATO COSÌ NE HANNO SOGNATO UN ALTRO Parte quindi una carrellata di immagini, dagli anni ’60 a oggi, che ripercorrono i momenti fondamentali della loro saga. Entrano così uno ad uno sul palco: Faso il bassista, Cesareo il chitarrista, Christian Meyer alla batteria, Rocco Tanica e Jantoman alle tastiere, la corista Paola Folli ed infine lui: Elio, vestito di tutto punto, con un completo rosa confetto. Completata la formazione, il pubblico in delirio che applaude, gli Elio e le Storie Tese erompono con il pezzo che per 24 anni ha accompagnato i loro live: Servi della Gleba. All’ultimo concerto ufficiale con il tastierista storico Rocco Tanica, non vogliono perdere tempo: e difatti, dopo l’apertura infilano la strepitosa doppietta Burattino senza fichie Miocuggino, sul cui finale parte una deriva di Faso e Paola Folli, che si esibiscono basso-voce in una versione sporca della celebre sigla di Heidi. All’altezza del sesto brano ho l’impressione che manchi qualcosa. Mi domando il perché di questo vuoto, quando d’improvviso parte l’inconfondibile urlo: Argento vivo! Sbiancate! Figu! Oklahoma! Sigarette! Puttano! Paciugo! Smarmittare...͟, e salta sul palco la Bestia Mangoni con la sua tutina verde di Supergiovane, il supereroe che difende i giovani dai matusa e dal governo, sventolando la mantellina di plastica iridescente. Ecco cosa! Da lì in poi il concerto esplode. Per la canzone successiva la Bestia si cambia, indossando l’immancabile vestito rosa shock con il boa di piume, e accompagnato dal corpo di ballo sculetta allegramente dentro una gabbia sulle note latine di El pube. In seguito, Christian Meyer si prodiga nel marasma elettronico di Discoteca svizzera pigiando i tasti della console con le bacchette, la gente comincia a ballare sulle note di Pipppero e Discomusic, a Born to be Abramo mi alzo per unirmi al lungo trenino che si è formato e circonda il par terre. Parte la sezione rock: a Il Rock and Roll una chitarra plana sul palco in mano a Mangoni travestito da Elvis, Elio sfodera un pollo di gomma col quale al termine del brano schiaffeggia sadomasochisticamente il collega, canto con loro a squarciagola il ritornello di John Holmes, canta tutto il pubblico quando giunge Uomini col borsello. Momento di rallentamento. Dopo una godibilissima T.V.U.M.D.B. gli Elii danno un ottimo saggio di un corretto uso dell’auto-tune quando Rocco Tanica canta soavemente il verso She wants in the posterior. Nuova combo: dopo l’ilare Il vitello dai piedi di balsa con Reprise parte una potentissima versione di Shpalman(sì, proprio quello che shpalma la merda in faccia), e di punto in banco la band abbandona il palco. Già qualcuno si alza, pensando sia ora di andarsene, ma evidentemente non conosce fino in fondo la band. Tutti infatti sanno che non se ne vanno prima di aver suonato almeno una volta Tapparella. Parte così un potentissimo Forza panino! che li richiama sul palco, per suonare quella straordinaria Cara ti amo, che, nata come improvvisazione e subito diventata loro simbolo, non è mai uguale da un concerto all’altro. Se ne vanno di nuovo, e questa volta bisogna urlare ancora più forte Forza panino!; tornati, finalmente eccoli rievocare i brufolazzi, tapparella giù e poltiglia, più ascella purificata che tipicamente accompagnano la festa delle medie in Tapparella. Ecco, adesso è finita. Sul Forza panino! finale si chiude l’esperienza di Rocco Tanica. Il pubblico in delirio si scaglia a bordo palco. La band e il corpo di ballo fanno l’inchino, e si chiude così il più fantasmagorico capitolo per la band più importante d’Italia. Senza Rocco non sarà più la stessa cosa - un fan accanito come me lo sa. Eravamo fidanzati / poi tu mi hai lasciato, / senza addurre motivazioni plausibili [...] ciononostante/ cara ti amo Ciao Rocco. □ Nadir, Giu. 2016 15 Tempo libero Piccolo decalogo semiserio per gli esami Don Luca Corona 1. L’esame è soltanto l’occasione per uno studio più approfondito; 2. In un esame, in fondo, si valuta quasi soltanto fino a che punto lo studente sia riuscito a pensare quello che sta dicendo; 3. Nessun argomento d’esame è secondario. Ognuno può essere l’occasione per un discorso più o meno intelligente; 4. Le nozioni non servono a niente, purché le si conosca bene, in modo quasi infallibile; 5. Mantenere la calma è la prima delle qualità di un esaminando. Ma si è calmi solo quando si sanno le risposte; 6. Ogni approfondimento è gradito, purché venga dopo lo studio del corso ordinario e non stia al posto di quello; 7. Durante l’esame orale si ha di fronte agli occhi solo la faccia del professore: nessun foglio o appunto o libro viene ammesso, perché bisogna abituarsi a usare la memoria. Non è vietato parlare con le mani; 8. La libera scelta di un argomento con cui partire (quando c’è la possibilità), solo apparentemente semplifica la vita. In realtà dimostra già qualcosa; 9. La passione o la trascuratezza con cui si studia vien fuori dalle prime dieci parole che si proferiscono. Quelle successive servono solo ad un tentativo, spesso vano, di smentita; 10. Lo stress da esame è anche una molla per dare il meglio. Non preoccupatevi troppo, ma nemmeno troppo poco, sapendo comunque che una serena tensione è la vostra arma vincente. Buona sessione!