Pagine scelte
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Pagine scelte
PREFAZIONE L’Amore è passione anche quando si è stanchi, tesi, tristi, distrutti. Amarsi è ridere insieme ed insieme saper trovare le soluzioni ai mille enormi guai della vita. Amarsi è perdonare gli errori ed apprezzare i difetti con ironia, è non cambiare gli altri, è avere completa fiducia. L’amore è la libertà più pura, naturale e necessaria; è la sovranità di avere tutto ciò che serve, per vivere negli occhi della tua metà; è l’autonomia di portare un anello al dito, per scelta, con orgoglio; è la volontà di essere serenamente fedeli. Amare è giocare, tornare bambini, farsi sorprese e desiderarsi anche col pigiama di pile! Amare è salvarsi a vicenda, è non far intromettere nessuno nella coppia, è non avere segreti. Amare è avere le password in comune. Amare è bisticciare, per ritrovarsi abbracciati a riderne. Amare è desiderare baciare ogni ruga dell’altro, perché in ognuna di esse c’è un capitolo della nostra storia d’amore e della sua vita. Amare è scherzare sul passare degli anni, è annullare la differenza d’età, è rinunciare con gioia a qualcosa per il bene di entrambi. Amare è lasciare sempre la porta aperta dopo un litigio, preparando la cena per due. Amare è scriversi biglietti su assurdi pezzi di carta volanti, mentre facciamo le cose più meccaniche; è desiderare rientrare in casa con una sorpresa da nascondere ove verrà trovata. Amare è passeggiare insieme con il deambulatore, è imboccarsi, è avere pazienza e mai pietà. Amare è, soprattutto, vivere una vita alla ricerca disperata dell’altro, senza farcelo sfuggire una volta trovato, perché l’amore non è egoismo ed è una piccola, grande, battaglia sia con noi stessi, sia con il delirio del mondo. L’amore è pioggia e sole, estate ed inverno; esso non ha tem- 10 Nadir po, né colore, né etnia, né confini. L’amore è un’arpa suonata dalla mano di Dio. Sissy Raffaelli CAPITOLO 1 C’era una volta, in una città di mare neanche più di tanto lontana dal fato che corre via ogni qualvolta un muto sordo apre la finestra al mattino, una villetta a schiera, neanche più di tanto colorata, piena di cianfrusaglie, ricolma di ricordi, di vetro, di lana, di legno, di stoffa (che non era eccessivamente presente), di scheletri surgelati in sbiadite fotografie, con un giardinetto abbastanza curato e senza animali. Dall’altra parte dei monti e dei fiumi, in una regione relativamente prossima, viveva una fanciulla pallida e bionda, che, invece di dormire, ogni notte scriveva sul suo diario segreto, sognando ad occhi aperti dal giorno in cui conobbe l’amore, poiché quell’ammasso di pagine ingiallite era l’unico confidente che potesse avere. Ella viveva in una casa piena di donne curiose, per cui lo chiudeva con tanto di lucchetto, in modo che nessuna potesse leggerlo ed entrare così negli abissi reconditi del suo cuore. Aveva smurato una mattonella del pavimento per nasconderci sotto la chiave del lucchetto ed eclissava il piccolo volume bordò, comprato con i pochi spiccioli che ogni tanto rimediava, sotto una tavoletta, intenzionalmente sgangherata, interna all’armadio, affinché nessuno lo trovasse. Nella bianca villetta a schiera vivevano due esseri. Il primo era reincarnato in uno di sesso maschile, ma non posso categorizzarlo della razza umana: posso dire che, forse, e dico forse, sia un angelo. Un angelo alto, affascinante, non perfettamente bello: una magnificenza che a noi comuni e modesti umani, in base a ciò che la storia ci ha inculcato come gradevole, pare essere perfetta. Un angelo senza i capelli fatti dal parrucchiere, senza i 12 Nadir bicipiti ed i tricipiti, senza particolari doti fisiche. Egli era naturalmente ed armoniosamente affascinante, con due occhi grandi di colore a noi invisibile, perché, ogni volta li apriva, si vedeva lo smeraldo del mare, con onde che s’infrangevano negli scogli bruni delle ciglia, quando era triste, e l’orizzonte con le navi che passavano, quando era allegro: quel tappeto d’acqua rifletteva il cielo con tutti i suoi mutamenti d’umore, quindi con le sfumature più disparate che un pittore avesse mai rappresentato; il suo sguardo era un oceano che sembrava guardarti e spostarsi con i tuoi movimenti, osservandoti con discreta eleganza. I suoi capelli erano una tenda grigia con intarsi di cristallo fatti a mano (svolazzavano quando c’era un po’ di vento). Oh, beh, le sue mani, le sue mani erano margherite, morbide, bianche margherite con le unghie quasi perfette. Le sue braccia erano appese ad uno stelo quasi femmineo, congiunte ad un busto simile ad una statua di Michelangelo ma, al contempo, al corpo di un bambino, perché la pelle non era bella, essa era aria pura, la brezza che c’è a luglio, quell’atmosfera morbida e tiepida che, nelle notti d’estate, ti accarezza, ti prende i sensi e te li sbatte contro il muro, con quell’odore di panni lavati, di pulito, che ti ricorda i tempi antichi, quando le donne facevano il bucato nei lavatoi vicino ai fiumi, sulle pietre, e si creavano i muscoli senza palestra, ove, per ore ed ore, olezzava nell’aria il profumo del sapone di Marsiglia e della cenere, usata per smacchiare, con tanti bambini che urlavano e giocavano qua e là per prati, orti e frutteti, mentre i mariti erano persi chissà dove od a procurar cibo nei boschi e nei campi: ad ognuno il suo posto nel mondo. Con lui viveva una signora, sua nonna, non molto alta, con i capelli biondi, corti e capricciosi, anziana, un po’ corpulenta, sempre ricoperta di inutili ed improbabili ninnoli, dal carattere terribilmente bizzarro quanto possessivo. Lei viveva di pettegolezzi, di ricordi, di lunghe telefonate alle amiche e giretti al mercato; la pia donna non perdeva una messa, né l’occasione per stressare suo figlio con qualche paturnia inviatale per raccomandata mentale dall’inferno. Capitolo 1 13 Il nostro ammaliante angelo pondera, pensa, passa la maggior parte delle sue giornate ad elucubrare, a creare, mentre il tempo gli scorre tra le dita come sabbia nella clessidra del cielo; vivendo sulla terra, invecchia, quasi come tutti quanti gli umani, ma questo non lo tange più di tanto, poiché è tutto preso dai suoi pensieri e sta ore ed ore a leggere, a cercare di capire, a calcolare, a sporcarsi le mani ed a cercare di essere compreso da qualcuno. Lui crea e sfama terzi, occupandosi degli altri di continuo, risolvendo i loro problemi (ma i suoi chi li risolve?); proprio sciogliendo un desiderio di un collega, più che un problema, conobbe quella intrigante ragazzina bionda, come la definì il suo cervello, che, alcuni anni dopo, scrisse così sul suo diario bordò: “Non ti posso dire perché provo ciò che provo, né perché fu proprio lui ad essermi inviato. Io so soltanto che avevo bisogno di Amore e di un vero contatto con Dio e Lui, guarda caso, m’inviò qualcuno atto a salvarmi l’anima ribelle attraverso la musica, anello di congiuntura tramite don Luca, che mi fornì il suo cellulare durante una messa ed io lo chiamai. Lui, da qualcuno dei suoi posti, da quella delicata città in riva al mare, rispose ed io dovetti andare ben presto in quel golfo, lontano dalle mie giovani gambe innocenti (totalmente ignara che sarebbe stato il porto della vita), dopo tanti viaggi, dopo tante tempeste, dopo navi colate a picco con tutto il carico. Io sono certa egli sia la mia baia ed un giorno ne avrò la prova. Non avevo pace, non avevo più neanche dolore, avevo più niente. La mia vita non contava molto, se non per un piccolo ammasso di corde di cui dovevo prendermi cura. Invece approdai. Il mare era calmo, bello e piatto, tutto era quieta confusione. La città era calda, non eccessivamente, ma era torrida. Io scesi dal treno. Sentii l’odore di smog e di cambiamento, avvertì c’era qualcosa di strano, come una catena che mi tirava e poi lo vidi (un lungo sospiro bloccò, momentaneamente, la sua mano sul foglio). Era fermo lì, di fronte alla porta della stazione. Come in un film fantascientifico, passavano i raggi del sole attraverso di lui. L’energia filtrava dalle sue braccia e dalle sue orecchie: una cosa incredibile che non può succedere a noi mortali! Lo vidi e capii chi fosse, perché io so 14 Nadir chi è. Lo vidi e m’innamorai perdutamente. Mi fermai, lo guardai e compresi:“Eh sì, questo è l’angelo giunto per me. Sì, sono arrivata, è questo il porto!”. In quel momento ebbi come un’incredibile botta in testa (un dolore immenso, da traballare)e barcollando compresi egli fosse l’àncora sul mare. Ti giuro che fa male l’àncora quando ti colpisce in pieno cranio e ti dice: “Adesso ti fermi, sei legata a una catena e ti blocchi qua.” Io non sapevo prima quale tratto potesse percorrere quell’àncora, non sapevo che profondità avrebbe potuto raggiungere, che pescaggio potesse avere dentro l’abisso del mio giovane cuore. Intendevo solo più passava il tempo, più scendeva nel mio baratro. Ad un certo punto si staccò proprio dalla nave ed io rimasi lì, appesa ad una catena, dentro il mare degli occhi del mio angelo, sdraiata sulla sabbia gelida del mio Io. Ero dentro il mare dei suoi occhi, impercettibile come una foglia che cade in autunno, non del tutto gialla, ancora verde, che capitombola ed il vento la porta via per sempre, senza darle una meta. Un bambino la raccoglie, un innocente, e la pone dentro un libro, il tomo più bello che abbia mai letto, poi chiude le pagine, dove l’istante rimarrà indelebile, e quel fanciullo si ricorderà sempre, anche quando sarà un vecchio bambino, di quel momento speciale; aprendo il libro, la lettura che più amò, vedrà la foglia appassita, secca, muta: la foglia sarà ancora lì a ricordargli la sua infanzia. Il mio angelo non mi venne incontro, fui io ad avvicinarmi. Ebbi quasi paura di bestemmiare nel guardarlo! Era così bella quella luce! Lui era luce. Una luce chiara, forte, predominante. Io non udì più rumore, solo una musica: il canto del suo saluto. “Ciao!“. Vidi il respiro, vidi la gente, vidi volti e sorrisi, vidi lacrime e vidi corse contro il tempo di marionette impazzite al ritmo in due quarti del loro vecchio orologio. Vidi oggetti smarriti, bus in ritardo e la sua camicia blu sui pantaloni bianchi. Così conobbi il mio angelo, uno spirito celeste protettivo, ognuno ne ha uno, ma non sempre si materializza: a volte non lo meritiamo e non si fa vedere, ma io l’ho meritato, perché ho patito tanto. Egli mi portò via, in un luogo sacro, in una chiesa, dove il silenzio regnava più che mai. Pareva destino (ma esiste il fato?). Più polverosi di un Capitolo 1 15 tappeto arrotolato da tempo in soffitta, erano i miei sensi e più fredde del ghiaccio erano quelle pareti affrescate. Ricordo la luce (che sapeva di gelato al limone) trapelante dai sorrisi acerbi delle vetrate poste in alto, l’odore d’incenso che s’inerpicava sulle braccia nude e pallide, le unghie rosso fuoco che spiccavano sulle mie mani lattee in lacrime (il loro dolore, per non poterlo toccare, era misto all’ardore del bramare ciò che forse era assopito, o non si era mai destato), il profumo del suo collo, così vicino da rapire i miei pensieri (eppure così lontano da sembrare la Muraglia Cinese per un villeggiante di Oslo), i pantaloni pallidi. Indossavamo gli stessi colori, bianco e blu: un segno? Le mie parole volarono attraverso il viale delle ore, con il fresco delle sensazioni che carezzavano i nei celati dal mio abito, sino a giungere dinanzi il cancello di vetro delle stupide convinzioni dei limiti dell’eccesso. Avvertivo il desiderio. Era un vortice d’autunno e d’inverno. Una nevicata di sangue sulla foresta del Cile che avevo dentro. Mi prese la mano, mi afferrò i pensieri, mi brandì l’odore e mi girò su me stessa. Volammo nei cieli dell’altrove, sopra le lune di diamanti e le stelle di cristallo. Io ero nuda, improvvisamente discinta, sdraiata sopra il tappeto del suo crine, mentre gli cadevo tra le fauci rosa del cuor di ciliegia. Volteggiammo oltre i cieli di Monet e le valli del Chianti. Ci librammo oltre i confini dell’ignoto e le urla dei ladri d’amore con le gambe aperte piene di lividi. Tutto questo senza muoverci di un millimetro da quella durissima panca di legno, che sapeva di morto e di Natale. “Io sono Euclide, tu sei Artemide“, disse. Eppure c’incontrammo sulle righe del libro di cucina, prestato dal collega Fato, con contorno di Bach. Non lo vidi. Lo avevo accanto, mi condusse nel caos calmo della città, ma non lo vidi più. Ero assorta nel barlume di luce d’oro che i suoi petali avevano lasciato nei miei occhi verdi. Non potevo salutarlo: come ci si accomiata da chi non si lascerebbe mai? “Ma cosa è successo?”, pensai. “Potremmo mangiare una pizza insieme, qualche volta.”, mi chiese. Avevo la borsa in mano, bianca ed usurata.“Dove stiamo andando?” Stavo parlando da sola. Non mi ascoltava, guidando come un folle nel traffico di una superstrada. Fi- 16 Nadir nalmente mi rispose: “Tu stai andando verso il passato, ove hai fissa dimora, io non posso seguirti ed il tempo tra noi è fuggito come sabbia in una clessidra di olio extra vergine d’oliva. Nessun calice di fieli, ti giuro, ci separerà nel percorso della tua vita terrena. Io ti proteggerò dal passaggio del vento di Libeccio e dal terrore dell’incuria umana. Tu sarai rugiada sul mio stelo affranto da secoli di sincera solitudine. Nelle mie trascorse vite la mia anima fu torturata da crudeli, bugiarde, opportuniste femmine e da maschi, troppo pesanti per giungere sulla vetta del mio cuore. Non ebbi sesso, se non quello che capitò. Non ebbi famiglia, se non quella concessami dall’Altrove. Fui fiume e fui lago, ma in te rinasco fonte di alta montagna. M’innalzo come aquila sopra i tuoi rupestri seni e mi cibo del tuo sorriso d’arcobaleno. Adesso è giunto il momento, devi partire, sole infinito”, lui sembrò muovere le labbra senza cognizione di causa, quasi come il burattino di un ventriloquo e mi spinse sul treno. Non mi ero nemmeno accorta di essere già arrivata alla stazione, per tutte le maree! Io gridai: ”Nooooooo!!!!”, piangendo mille lacrime. Sapevo di dover tornare qui, in questo carcere maledetto. Il treno si alzò per un attimo da terra e non partì: era forse il suo cuore inabissato in me o la voglia di mangiare uno spicchio d’aglio? Non lo so. Il treno partì. Sapevo non l’avrei mai più rivisto. Giunsi alle falde del nero passato ed attraversai le ragnatele del perdono, che mai più concederò. Non dimenticai mai quel sogno e m’innamorai, per sempre m’innamorai, ti posso dire solo questo. Cosa lui disse in realtà, se concretezza esiste, non ricordo o, forse, semplicemente, non lo volli udire: so soltanto che persi il suo numero di cellulare, quando il mio telefonino si ruppe, cadendo sulle scale. Come l’avrei ritrovato? “Mi ha chiesto gentilmente di andare a cena, mi chiamerà lui!”, pensai, errando: non mi ha mai telefonato. Dove avrebbe potuto cercarmi, dato il cellulare era rotto? Io ti giuro sarò sua, perché gli appartengo, come il mare appartiene alla terra”. No, il suo bell’angelo non la cercò fisicamente, ma l’amò dal primo istante in cui la vide e mai poté scordarla. CAPITOLO 2 Vivamus, mea Lesbia, atque amemus, rumoresque senum severiorum omne unios aestimemus assis. Soles occidere et redire possunt: nobis cum semel occidit brevis lux, nox est perpetua una dormienda. Da mi basia mille, deinde centum, dein mille altera, dein secunda centum, deinde usque altera mille, deinde centum dein, cum milia multa fecerimus conturbabimus illa, ne sciamus, aut nequis malus invidere possit, cum tantum sciat esse basiremo.”1 Il libro rimase aperto sul prato fiorito. Era maggio. Un viale pieno di cipressi ondeggianti, che ballavano al ritmo di un tango, proveniente da un paesino in collina echeggiante musica nell’aria fresca e tiepida, si posava sull’erba sottile e morbida, tanto da sembrare velluto. Il boulevard saltava qua e là ai rintocchi del tempo, scandito dal battito d’ali d’un ciocco (spezzato dal contadino per accender il forno), come un’allegra cavalletta. L’odore della terra, ancora umida dopo il temporale, inondava le narici e faceva pensare ad ere trascorse tra bivacchi e scorribande. 1. Dai “Carmina” Canto V, trad.: “Viviamo, mia Lesbia, e amiamo e i commenti dei vecchi bacchettoni teniamoli in conto d’un soldo. Il sole tramonta e risorge: a noi, tramontata la nostra breve luce, non resta che una notte di sonno senza fine. Mille baci dammi e poi cento e poi altri mille e altri cento e ancora ancora mille, e ancora cento! Poi, arrivati a molte migliaia, rimescoleremo il conto, per non sapere qual è, o perché qualche invidioso non ci faccia il malocchio, sapendo l’esatto totale dei baci.” 18 Nadir “Un tè al rum con latte e miele!”, disse l’uomo, osservando le nuvole rincorrersi come innamorati nella Calle più bella. Non amava il tè, ma ne ebbe voglia. Catullo finì per essere chiuso insieme al segnalibro bordò, spuntato dal taschino della camicia. Si sdraiò sul tappeto di velluto chiaro, che gli solleticava il viso e la mente. Nadir pensò a Venezia, mentre, con il pensiero, leggeva il libro dei ricordi. “Mi par d’udire ancora, ascoso in mezzo ai fior” canticchiava... “la voce sua canora sospirare l’amor”2 . Nadir non capiva come potesse ricordare Venezia insieme a lei, che neppure aveva mai baciato prima. Eppure vedeva le calli in inverno, con la laguna ghiacciata, passargli sotto i piedi, mentre correva a cercare qualcosa di caldo da bere ed invece finiva dentro ai suoi occhi verdi. Si assopì, Nadir, l’angelo dagli occhi di mare, sognandola, e, dopo un po’, aprì lo sguardo, come spaventato: “Io non la conosco che vagamente, non esisteva ancora per me!”, sospirò. Si sedette svogliatamente, con le gambe incrociate e le braccia sulle ginocchia. Il vento, adesso, danzava il tango nei suoi capelli d’argento e tra le sue lacrime rosa. “Dove sei, bella principessa sconosciuta? Sento il tuo odore tra le dita, eppure mille bagni ho fatto dopo il nostro incontro”. Pianse e batté il pugno sull’arcigno terreno. “Nadir non ama più, Nadir troppe volte ha raggiunto l’orgogliosa vetta del sedicente e lussurioso addio tra le spire di Medusa e le gambe di Venere. No! Io non ti cercherò, mio giaciglio del cuore, sebbene abbia bisogno di te più che dell’ossigeno”, disse a sé stesso. L’angelo si alzò e s’incamminò tra i pascoli verdi, verso il sentiero, in mezzo ad una distesa infinita di meravigliosi arazzi. Gli occhi cercavano il mare tra il verde dei prati. Lui non poteva capire, ma ogni microscopico essere vivente si fermò ad osservarlo, mentre troneggiava solitario sul suo pensiero pesante e barocco: un amore nuovo o l’Amore? 2. Aria tratta da I pescatori di perle di G. Bizet. Capitolo 2 19 L’uomo s’incamminò verso la baita, dove trascorreva le obbligatorie vacanze in famiglia, per sollazzare la mente di chi non amava più di un egocentrico scontrino sbiadito. La casa era fatta di legno e pietra, con dei gradini per accedere al piccolo ingresso di vetro, posto sotto un arco pieno di edera: rampicante e testarda edera, come quella compagnia che doveva subire ogni estate, per accontentare una nonna volubile e tirannica ed una famiglia assente più di un fantasma. Lui detestava l’edera! Meno male aveva il suo lavoro, pensò, che lo trascinava via da quel bosco di piante vegetali ed umane. Entrò, la porta era aperta, salì le scale di parquet. Nadir corse tra i suoi libri per cercare un antidoto alla passione, che, imperiosamente, fiammeggiava in lui, e ripensò al giorno più bello della sua vita: quello della liberazione. Attraversò quella biblioteca di volumi colorati, si sedette sulla minuscola finestra della soffitta (perché egli amava la vie bohèmienne e si era costruito una libreria nella piccola mansarda, il suo immacolato ed inaccessibile studio in legno, dove sfuggiva ai temporali della vita), sfogliò un libro, lentamente, e la sua mente vagò verso quel ricordo, ormai lontano. Quasi come un’azzeccatissima medicina anti-passato, squillò il cellulare. Il vortice degli eventi lo ingollò come un polipo che si mangia la preda, ma quel profumo di donna persisteva nelle sue narici ed ogni tanto lo faceva sospirare in silenzio. Appena quiete e solitudine tornarono, rammentò quella giornata epocale: una voce cavernosa e mascolina di donna gridò dal pian terreno nella cavità delle scale “Nadir! È pronta la Torta Princess Missy, su, scendi! Dai, che nonna ha piacere di mangiarla calda ed in compagnia!”. Era Atenaide, la moglie del nostro mite angelo. Nadir sbuffò, perché fu scosso dalla sua lettura, ma non si mosse. “Nadir, per la miseria, ti decidi a scendere! Nonna non ha piacere di mangiare fredda la torta. Lascia correre quella montagna di parole senza senso, su. Ormai sei andato! Non potrai mai laurearti, sei vecchio.” 20 Nadir All’uomo i comandi erano sempre andati stretti. Egli scese le scale, per niente felice e contro voglia, con una lentezza tale da far invidia alla chiocciola più pigra del pianeta! L’odore di dolce gli inculcò del sano ottimismo e sorrise all’ingrata compagnia di occhi attenti alla sua venuta (neanche fosse un profeta). “Eccomi! Qual fretta, che sarà mai!”. Nadir si sedette sulla panca di legno a fianco del piccolo caminetto in pietra serena ed allungò la mano su di una fetta di torta. Non gli era mai piaciuta molto quando la cucinava Atenaide, negata in cucina come un sordo intento a cantar Rossini. La sua consorte era una donna brutta, magrissima ma con le spalle larghe, dai ricci e corti capelli rosso carota, piena di rughe sulla pelle, avvizzita dal sole ed dalle troppe lampade, di statura molto alta, un po’ torva nei modi, molto formale ed un po’ vanesia (non a ragion veduta, giacché un fico secco aveva maggior carica erotica di lei). Atenaide guardava Nadir con la stessa scorsa di una regina sul proprio schiavo, anche adesso che mangiava la torta, indolente, con quei denti bianchi ed aguzzi. “Nadir, ma è possibile che ti piaccia mai ciò che cucino?”, tuonò la gravissima voce della donna verso l’uomo. “Atenaide, non sai cucinare e non è un mistero per alcuno”. Ecco la frase maledetta che generò un avviluppamento di parole, che non sto qui a menzionare, tanto potrebbe essere il tedio per il lettore. Il meraviglioso angelo si sentiva fuori posto, così si alzò e tornò sulle scale, inseguito dalla mascolina consorte, che lo afferrò per un gomito, strattonandolo: “Dove vai? Devi sostenere i tuoi discorsi, non fuggire! La famiglia è questo! Devi mantenere il decoro coniugale.” L’uomo strinse a sua volta il braccio destro di lei, con tanta forza da farle male: “Ecco, brava, inizia tu! Togliti da rompere le zucchine, vai, o mi farai dire ciò che non desidero, sebbene vero.” La spostò, le girò intorno e si diresse verso la porta dell’ingresso. Atenaide lo seguì, molto infervorata: sembrava un gat- Capitolo 2 21 to arruffato ed inacidito, nel rivolgergli la parola pareva quasi soffiare. “Ma chi ti credi di essere? Non sei neanche capace di darmi un figlio! Più di vent’anni insieme e mai un cavolo di spermatozoo vivo! Vuoi alzare la voce? Fai pure. Portami rispetto, ho io i pantaloni in questa casa!” Nadir l’afferrò per il mento, con ira contenuta: “Taci, donna, non sai ciò che dici! Aldilà del fatto che potresti essere tu quella non fertile, poi non ho mai toccato certi argomenti in pubblico, senza contare che gli uomini non mi attraggono (detto molto sarcasticamente)! Porta pure i pantaloni, io voglio una donna con la gonna! Stammi lontana, adesso.” L’uomo si voltò, batté la porta con violenza ed uscì. Stizzosamente, Atenaide batté i piedi per terra e tornò in cucina gridando, furiosa come il gatto cui è scappato il topo dalle unghie. “Non sono un uomo, io!”. Nadir camminò per dieci minuti attraverso il bosco, nei pressi della casa, con un tale nervosismo da non accorgersi sua nonna lo stesse seguendo con il deambulatore rosso fuoco ed il bollino da Formula Uno sul manubrio. Si sedette sulla sponda di un laghetto azzurro, raccogliendo alcuni piccoli sassi e lanciandoli a pelo sull’acqua, quando si accorse della presenza dell’anziana nel momento in cui ella si accucciò faticosamente alla sua destra. Le sorrise, la donna ricambiò. Iniziarono un lungo discorso, con lo sguardo fisso sul lago e la voce quieta: sembravano due castori intenti ad accordarsi sulla prossima diga da costruire. — Non sei felice, Nadir, bello di nonna. Le urla si udivano da fuori casa. Ma perché la sposasti? Mi sembrò una brava persona, quando me la presentasti, ma, non fa che azzannarti da anni, mi pare! È peggio di un cane rabbioso e non vedo assolutamente il motivo per cui debba trattarti così, figlio mio, né quello per cui tu debba sopportarla. — Nonna, sai benissimo quanto io ami la libertà, ma lei mi disse era incinta ed io dovetti adempiere il mio dovere. Io non credo nel matrimonio e mai lo farò! È solo un’accozzaglia di regole 22 Nadir da dover rispettare, non è cosa fatta solo per amore, anzi, a mio avviso lo distrugge. Senza contare quanto sia più difficile e stuzzicante riuscire a mantenere viva una convivenza negli anni: col pensiero basterebbe una porta sbattuta per perdere l’altra metà, senza avvocati né burocrazia o diritti, pochi secondi e via tutto. Gli animali non si sposano e molti di loro si scelgono un amore per tutta la vita in piena libertà, rispettandolo e mantenendolo vivo senza sentirne il peso. Comprendo chi si sposa per motivi religiosi, ma il matrimonio civile mai. Parlo per me, è chiaro: il mondo faccia pure quel che crede! — Nadir, santa paletta, non l’ho mai vista con il pancione! Sei sicuro fosse incinta? Io ricordo ebbe dei problemi di salute, ma nulla più. Ho partorito due o tre figli, un po’ me ne intendo, sai? — Come due o tre? Due! Chi è il terzo? — Sì, sì, lascia fare, bello di nonna (evitando il proseguo dell’argomento). — Nonna, ebbe un aborto, lo sai, con dei traumi relativi ad esso. Non te lo ricordi? — No e si sparisce per mesi?! Che comportamento è? Scomparire da te, poi, l’uomo più dolce e sensibile del pianeta! Ma via! Non ci sono più le donne di una volta! Falla finita di scusarla e giustificarla per tutto: allora la ami, eh! — Ma no, è una bravissima persona, non c’è niente sotto e ci metterei la mano sul fuoco. Abbiamo vissuto insieme per anni, ha sempre tenuto un comportamento irreprensibile. Andò fuori per una fiera, il suo lavoro concerne anche questo, e successe quel che successe. Non la amo e questo è un altro discorso. Non l’ho mai amata. Ti ripeto che la sposai solo per dovere verso un ipotetico figlio. — Nadir, si sposa qualcuno che non si ama? Guardati allo specchio, sembri un cadavere! Sei diventato più scostante, solitario, freddo e nervoso al suo fianco... ed anche brutto! Ma fate all’amore? Oddio, ci vuol coraggio (bisbigliò tra sé) A questa domanda Nadir diventò rosso ed iniziò a ridere, sorpreso dall’ingenua malizia e spontaneità dei vecchi. Capitolo 2 23 — Non sono fatti tuoi, vecchia curiosa vestita d’azzurro, però no... un tempo succedeva, non spesso comunque... da anni è un po’ distante da me... non ce la faccio più. — Tesoro, ti ricordo che oggi esiste il divorzio: gran bella invenzione! A volte avrei voluto esistesse per lasciare tuo nonno, guarda! — No, sono un uomo di parola e gli impegni presi vanno mantenuti. Il nonno?! Anche no, pover’uomo! Che ti fece mai (con tono difensivo)? — Senti, martire di guerra, è sciocco come ti comporti. Io sono solo una stupida vecchia, per carità... (sospirò e gli carezzò amorevolmente gli indomabili capelli). È da un po’ che ti vedo assorto, sembri quasi innamorato, ma non di Atenaide... sbaglio? (sghignazzando). Hai un’amante? — (Nadir rise di gusto, poi tornò semi serio. Lo sguardo si fece sempre più dolce) Magari lo fossi! Non credo più nell’amore e nelle donne. Nessuna mi può più rubare il cuore, bella nonnina mia! — Mmm... eppure una donna c’è, confessa tesoro... non lo dico a nessuno! Tuo padre tradiva tua madre, io lo sapevo, ma non ho mai detto nulla perché non erano affari miei. — Io non sono papà, punto primo, poi si, ho tradito tutte le donne che ho avuto, Atenaide compresa, ma voi ci spingete a farlo, quando non ci desiderate più, nonna! Siamo schietti! — Vero! Tuo nonno è andato con le peggiori prostitute, ma io non un corno e ne vado fiera! Poi mi chiedi perché avrei voluto il divorzio! Tu hai qualcuna in testa... La tua non è voglia di tradire e basta, hai uno spillo nel cuore, profondo e largo quanto un’iceberg! — Insiste, dott.ssa Krapt? Non molli mai la presa, spirale d’edera che non sei altro! Io, fossi stato in te, avrei ricambiato il premuroso nonnino. Soffrire e subire non ha senso! — Chi è? La conosco? (disse la donna con tono malizioso) — Ancora?? Nonna, a volte sei un gatto attaccato con le unghie alle ginocchia, sai?! 24 Nadir Si alzò in piedi, sospirando. Guardò la vecchietta rannicchiata sulle piccole gambe. Gli faceva tenerezza. Sembrava un coniglietto bagnato in cerca di riparo, sebbene con gli occhi furbi e veloci della volpe. Nadir si fidava di sua nonna, era la sua parente preferita e si confidava con lei (fino ad un certo punto, eh!). Infatti si aprì. — Sì. C’è una donna. È una principessa bionda, bellissima (sorrise, guardando il cielo). — Mamma santa, nel favellare sei così dolce da risultare indigesto! Lo sapevo ci fosse! Chi è? Dove vive? Che fa? È sposata? Di che segno è? È religiosa? È atea? Ha studiato? Che lavoro fa? Ha figli? — (La interruppe mettendole, teneramente, la mano sulla bocca) Hey, commissario Krapt, sta calma! Tanto non la conosci (la donna lo guardò sempre più incuriosita). Lei non esiste, eppure ho vissuto momenti bellissimi tra le sue dita: ma è solo un sogno, nulla più! (Sospirò) — Mmm... Nadir, in che senso non esiste? Come puoi amare chi non è? Non sarà mica un’attrice famosa?! Queste cose si provano a quindici anni! Amore della nonna, che storie inventi? — Lo sai che non invento storie! La sincerità prima di tutto. Non so spiegarti. Io vivo con lei romantiche emozioni in sogno, ma non ha nome né età. La amo e lascerei tutto per lei. — Seh! Tu? Così terreno e materialista, sempre a far conti, lasceresti tutto per una fuga d’amore? Non ci crederei neanche se ti vedessi! — Fa come vuoi, io lo farei, si! Atenaide è un aspide in confronto. Maledetto il giorno in cui mi son legato a lei e senza dirvi nulla! — Eh, me lo ricordo bene, vai! (sospirò) Quella povera donna di tua madre ci rimase secca appena telefonasti... “Mamma, sono in nave vicino Tunisi e mi sono sposato”... povera figlia mia! Un ictus le prese! Accidenti a me ed a quando ti spronai a far il cameriere in crociera: me lo diceva tuo nonno avresti fatto danni! Eri troppo ingenuo e buono, tutto preso dai sogni. Sono anni che Capitolo 2 25 ti lasci schiaffeggiare a parole ed a fatti da quella insulsa! Fosse bella almeno, è brutta come la fame: ma che diavolo ti venne in mente? Con tutte le donne che ti correvano dietro, proprio lei dovevi prendere? Sembra un uomo! — E tu che ne sai? Non ne portavo mai una a casa! Cosa ne sai dei miei gusti? — Ci credevi così sceme? Dai, Nadir! Quando tornavi con la bottega abbassata, quando col rossetto sulla camicia, quando con un morso sul braccio! Oh, ma abbiamo fatto l’amore prima di te! Ogni maschio che si rispetti ha necessità di sfogare i suoi istinti animali, passata l’età dell’innocenza. — (L’uomo arrossì vistosamente) Hai capito?! Gli istinti animali. Brave le mie angeliche donne di casa! Comunque, Atenaide mi ammaliò parlando con quella sua voce scura, conducendo il mio cuore in Africa... ero eccitato, preso, ma non l’ho mai amata e non era ciò che volevo. Sempre a litigare su tutto, non ne posso più. Una moglie sommelier non è uno scherzo, sempre in viaggio tra ristoranti, navi e fiere. Voglio chiedere il divorzio, sai, hai ragione tu. — Oh, finalmente una decisione saggia! Ha picchiato la testa? (disse in tono sarcastico). Sarebbe stato meglio tu fossi andato a fare un safari, già che c’eri, invece di rimanere a bordo, Mr Africa! Mah... come caspita facesti ad innamorarti di una carota spelacchiata alta come una pertica? Che c’entra con L’Africa, poi? Un’africana rossa non l’ho mai vista e le donne di là sono stupende! Sapesse cucinare, almeno! Secondo me, t’ha inebriato con i fumi dell’alcol... tu che bevi così poco... — Senti, non fossero state le vostre stupide paure, io mi sarei arruolato in marina, punto. “Ma no, Nadir, no, è pericoloso e non guadagnerai mai bene come dietro una scrivania!”, dicevate. A quest’ora avrei potuto essere capitano! Avrei voluto girare il mondo! Avrei desiderato guidare un aereo, sciare sull’Himalaya, buttarmi con il paracadute su Tokio! Dietro la scrivania non mi ci sono voluto mettere comunque, io fermo non ci sto! — Fermo non sei mai stato, hai sempre fatto sport! (La donna 26 Nadir cambiò discorso per non dargli ragione) Hai mai tradito Atenaide quando rimanesti fuori zona per il tirocinio? — Ora che c’entra?! No, ma dopo sì: la tradii perché non la sopportavo più, te l’ho già detto, ma sono fatti miei (ora era alquanto alterato). So che lei mi è stata fedele, non le dir nulla. Occhio non vede, cuore non duole, no?! — In verità, se lo meriterebbe. Secondo me, non è così santa come credi! È un’ottima attrice, ma nasconde qualcosa. Mi ricorda un gatto che ruba il prosciutto e se lo nasconde da qualche parte. Io sono stanca, Nadir, adesso rientro in casa. Questo secolo inizia a pesarmi sulle giunture e sulla carta d’identità. Avvisami quando le parli: la casa non è antisismica e non vorrei morire sotto le macerie! Rise fragorosamente, alzandosi con la lentezza del movimento delle catene montuose sulla crosta terrestre, aiutata dal premuroso nipote. La donna si appoggiò al suo bastone e s’incamminò verso la baita, ondeggiando. Nadir rimase solo con i suoi pensieri, solo con l’immagine della bella principessa dipinta dai raggi del tramonto sull’acqua sorniona del laghetto. Era più bella che mai. Una voce molto dolce e chiara disse: “Pesce, cucina del pesce stasera, Nadir... cucinale del pesce al forno e metti fine a questo martirio... lei odia il pesce al forno.” Nadir era abituato a sentire le voci, non essendo propriamente umano. Nessuno lo sapeva, ma lui era davvero un angelo nelle vesti di un umano in missione sulla terra. Non gli era mai stato svelato il motivo della sua vita terrena, ne lo poteva intuire, non avendo dovuto mai salvare alcuno. Era molto tranquillo, perché era certo dell’esistenza di una vita oltre la morte e, proprio per questo, si sforzava di ricordare quando ed in che vita avesse incontrato la bella principessa bionda, poi ragionava e tutto era nuovamente appannato: un angelo non può amare, né ricordare di aver amato nelle trascorse vite, mai! Ergo, la bionda era un sogno, un desiderio o l’avrebbe dovuta conoscere: sì, ma quando?