ENERGY
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ENERGY
ELENA ORLANDINI ENERGY GAINSWORTH PUBLISHING Questa storia è opera di finzione. Nomi, personaggi e fatti descritti sono frutto dell'immaginazione dell'autrice. Ogni somiglianza con eventi, luoghi o persone reali, vive o defunte, è puramente casuale. © 2015 Gainsworth Publishing Prima edizione: febbraio 2015 Illustrazione di copertina: Gainsworth Publishing ISBN 978-88-909825-9-0 www.gainsworthpublishing.com A mio marito, che ha saputo di tutto questo prima che diventasse realtà. Era la notte di San Lorenzo. Milioni di persone si trovavano col naso all’insù, lo sguardo inchiodato al cielo alla ricerca di una stella cadente a cui affidare i propri sogni. Rabbrividii. La consapevolezza che mai più avrei guardato la volta celeste con gli stessi occhi dilagò prepotente, inesorabile, e altre lacrime scesero lungo le mie guance. Il resto del mondo non lo sapeva, ed era meglio così. La gente doveva continuare a credere che certe cose fossero solo ipotesi, divagazioni, frutto di fantasiose trame cinematografiche. Scorsi appena la scia che si proiettava nell’infinito, per scomparire un istante dopo. «Addio» sussurrai, e il mio sogno si dileguò, per tornare lassù, da dove era venuto. 1 STRADE DIVISE La sveglia trillò più del solito quella mattina, o così parve, tanto era ostinata a buttarmi giù dal letto. Allungai una mano da sotto le coperte e la zittii con un colpetto secco, mettendomi poi seduta. L'immagine di rimando nello specchio dell’armadio era davvero tremenda: i capelli arruffati, gli occhi ancora stretti e il viso imbronciato di chi avrebbe voluto dormire almeno un altro paio d'ore. Ravviai qualche ciocca ribelle poi crollai di nuovo sul letto, fissando il soffitto. Era incredibile che ancora capitasse, eppure a volte mi sentivo estranea a quella stanza, nonostante fossero passati più di due anni dal mio trasferimento. Tutto era accaduto molto in fretta – troppo a dire la verità – una sera come tante, dove i miei stavano litigando. Più volte avevo parlato di questo con Sally, la mia migliore amica, ed eravamo giunte alla conclusione che fosse stato il lavoro di entrambi a creare frustrazione. Mia madre era una hostess di linea, mio padre un ingegnere informatico, e durante la settimana non si vedevano granché, così nei weekend si caricavano di tensione che regolarmente sfociava in discussioni più o meno accese. In quei momenti, me ne stavo per conto mio, in camera, chiudendo le loro diatribe fuori dalla porta, e mi attaccavo al telefono per parlare con Sally oppure mi piantavo davanti alla finestra per cercare di individuare una stella. Sapevo che non l'avrei vista, poiché abitavamo in città e le luci artificiali illuminavano tutto; nonostante ciò la cercavo, ero certa che si trovasse lassù. Quella sera, però, capii che era successo qualcosa di diverso quando mio padre uscì di casa sbattendo l'uscio, lasciandosi dietro uno strano silenzio. Mi ero affacciata sul corridoio e solo a quel punto i singhiozzi sommessi di mia madre erano arrivati sino a me. L’avevo raggiunta e mi ero bloccata sulla soglia della loro camera non appena avevo scorto le pile di vestiti sul letto. La spiegazione che seguì, quando lei si accorse di me, era in netto contrasto con la rassegnazione che traboccava dai suoi occhi rossi e, in breve, mi ritrovai a preparare le mie cose per andarmene da lì. Scendevo le scale del palazzo, lo zaino di scuola da una parte e una borsa di vestiti dall'altra, e continuavo a pensare che stavo lasciando la mia casa, stavo lasciando mio padre. Mentre raggiungevamo nonno Joe, il padre di mia madre, lei disse che in seguito avremmo chiamato papà, ma io non riuscivo a capacitarmi che stesse accadendo davvero. La città che scorreva fuori dal finestrino, le luci, i colori, le vetrine e tutta la normalità che fino a quel momento mi avevano accompagnato, parvero rimanere indietro, allontanandosi sempre più. Eppure quella sera mi ritrovai a dormire per la prima volta in questo letto, un letto che non era il mio, con gli occhi gonfi di pianto, a decine di chilometri dalla mia casa, da mio padre, con la speranza che quell'incubo finisse. Il mio cellulare vibrò due volte riportandomi alla realtà. Lo afferrai e lessi l'SMS di Sally. RITROVO TATTICO DAVANTI ALLA SCUOLA: DEVO ASSOLUTAMENTE PARLARTI! Gettai un'occhiata fuori dalla finestra dopo averla spalancata: il cielo era terso, di uno splendido azzurro, solo un accenno di luna ancora visibile si distaccava dalla tela perfetta. Inspirai a fondo, diverse volte, per riempirmi i polmoni di quella nuova giornata di metà primavera, pronta a partire. Mi vestii e raggiunsi in fretta il piano di sotto dove il rumore di stoviglie confermò che non ero l’unica ad avere impegni mattutini quel giorno. «Oh, buongiorno. Sei mattiniera oggi» disse nonno Joe, affabile come sempre, mentre allacciava la giacca verde da giardinaggio. «Sally mi aspetta all’entrata della scuola, devo prendere l’autobus che passa prima. E tu, che ci fai già in piedi?» «Vado con Arnold» e prese i guanti da lavoro. Da quando era rimasto vedovo, Joe si era ritrovato con troppo tempo per pensare ai ricordi, così quando Arnold, il suo migliore amico giardiniere, gli aveva proposto una collaborazione saltuaria con qualche lavoretto, non se l’era fatto ripetere due volte. «Ci aspetta parecchio lavoro su alla collina, a villa Volta. I nuovi proprietari stanno facendo un sacco di interventi per rimetterla in sesto. Ricordi come si era ridotta dopo che era morta la signora Figg?» e si infilò il cappellino con la visiera. «Quel giardino era diventato una giungla» ridacchiai, poi la curiosità si fece largo. «Ma… che tipi sono? Non si vedono mai.» La villa sulla collina era rimasta vuota per parecchio tempo dopo la morte della signora Figg, poiché i parenti lontani l'avevano messa in vendita a una cifra improponibile e, siccome la casa richiedeva una ristrutturazione importante, nessuno si era voluto accollare tante spese. Nessuno fino a quando, due anni prima, una famiglia di forestieri era sbucata dal nulla e, da un giorno all'altro, vi si era trasferita. Qualche volta li avevo intravisti nei corridoi della scuola, ma fuori era difficile incontrarli, così la gente del luogo li guardava con diffidenza. Davano l'impressione di essere snob e tra i giovani si vociferava che i figli dei Volta frequentassero solo persone e locali di un certo livello, giù in città, a Norville. «È gente benestante, su questo non ci sono dubbi: stanno rinnovando tutto e hanno la servitù, capisci? Comunque, la signora Volta è una donna bellissima, molto riservata ma cordiale; il signore l'ho incontrato poche volte, è continuamente fuori città per affari. Ho visto anche i due figli, più o meno dovrebbero aver la tua età.» «Li ho intravisti, ma non si fermano mai a parlare con nessuno» bofonchiai. «Sono pronto. Ciao Jess» disse e uscì con la borsa da lavoro. Terminai la colazione e andai di corsa al piano superiore per finire di prepararmi. Mentre lavavo i denti, immaginai i Volta, vestiti firmati da capo a piedi, con aria di sufficienza passarmi accanto su una macchina extralusso. Scossi il capo riluttante, raccolsi i capelli ribelli in una coda, recuperai lo zaino, quindi scesi rapida le scale e uscii, chiudendomi la porta alle spalle. Il nonno abitava in periferia, in una zona di campagna non molto distante da Norville, piccola cittadina a sud-ovest di Memphis, al confine con l’Arkansas. Era in parte territorio collinare, ricco di campi coltivati e piccoli boschi e, se non fosse stato per i fulmini, nessuno se ne sarebbe mai ricordato. La località era infatti conosciuta come Thunder-town, a causa dell'elevata percentuale di saette che ogni anno toccavano il suolo; nonostante ciò, la vita da quelle parti era piuttosto tranquilla, priva di svaghi o attrattive. La casa di Joe si trovava in un bel posto, con tanto verde attorno e un modesto frutteto. Il cottage, costruito interamente in sasso, su due piani, non aveva balconi, ma uno splendido portico sull'entrata. A fianco c'era l'autorimessa, dove il nonno custodiva il suo vecchio pick-up, gli attrezzi per il giardino e la bicicletta della nonna. Sin da bambina, mi ero recata abbastanza spesso a casa dei nonni e ogni volta vi avevo ritrovato la stessa calda atmosfera fatta di naturalezza e semplicità. Dopo la morte della nonna, Joe non aveva voluto sentire ragioni e, all'offerta di trasferirsi da noi in città, aveva opposto un irremovibile rifiuto. Nessuno, nemmeno l’opprimente solitudine di una casa vuota, lo avrebbe allontanato da quel luogo, dai suoi fiori e dal suo frutteto, dalle sue abitudini. Poi, però, ero stata io a trasferirmi da lui e da due anni la mia residenza si era ufficialmente spostata in quella casa. All'inizio era stata molto dura. Non volevo credere che la mia famiglia si sarebbe davvero disgregata, tuttavia i miei genitori sembravano più felici da quando si erano allontanati. Inoltre, a mio padre si era presentata una grossa opportunità di lavoro, che però implicava il trasferimento immediato in California, nella Silicon Valley. Non fu una decisione facile, da una parte c’era papà a migliaia di chilometri da Norville; dall’altra la mia vita, le mie abitudini, la mamma e il nonno. Alla fine, decidemmo insieme che la soluzione migliore per me fosse di rimanere definitivamente da Joe. Dovetti crescere, e in fretta, diventando indipendente e responsabile, ma a sostenermi c'era la presenza costante del nonno, con il suo inestimabile aiuto e sostegno, un punto fisso nella mia vita scombussolata. Ero giunta al crocevia. Istintivamente buttai l’occhio a destra, lungo la strada che costeggiava i poderi e si insinuava tra le curve sino alla collina, ai Volta. Poco più giù, c'era la casa di Danny, ultimogenito della famiglia Garret e, di un anno più grande di me, che frequentava l'ultimo delle superiori. I suoi erano coltivatori e possedevano tutte le terre che si estendevano dal bivio fin quasi alla collina. Danny era un ragazzo spontaneo, sincero e maturo per la sua età. Quante volte mi aveva consolato portandomi a passeggiare in mezzo al grano, ascoltando in silenzio, lasciando che mi sfogassi, durante le mie crisi di solitudine perché privata di una vera famiglia. Con il tempo, era diventato una persona importante per me, uno dei miei più cari amici e se avevo superato il divorzio dei miei, lo dovevo certamente anche a lui. Svoltai a sinistra e con passo spedito oltrepassai le abitazioni, fino a costeggiare la villa dei Muller. Era un edificio signorile, alquanto importante, con uno splendido giardino e un parco macchine da far invidia a una concessionaria. Anche l'erba era talmente verde che veniva da chiedersi se fosse vera. Ogni cosa in quel posto, ogni particolare di quella casa trasudava agiatezza. L’enorme cancellata di ferro battuto con incastonati i blasoni leonini si aprì automaticamente, e un'elegante Mercedes grigio metallizzato uscì silenziosa a passo d’uomo. Alla guida c’era il signor Muller, un uomo di mezza età e di bell’aspetto, sempre in giacca e cravatta, dall’aria molto impegnata. A differenza dei Volta, tutti conoscevano i Muller, che abitavano lì da sempre. Era una famiglia di avvocati da generazioni, e avevano due figli: Lilian, che aveva la mia età e che incontravo spesso nei corridoi della scuola, e Alan, di un anno più grande. Lilian era una ragazza eccentrica, sempre vestita di tutto punto, con la quale si riusciva a chiacchierare, purché la conversazione non andasse troppo a fondo e rimanesse sul generico. Adorava lo shopping. Alan, il primogenito, era un gran bel ragazzo, di quelli che non passano inosservati. Tutte le ragazze della zona lo conoscevano, di nome o di fatto, il che lo rendeva appetibile o, come diceva Sally, un ottimo partito. A me non piaceva granché: egocentrico e superficiale, molto pieno di sé, arrogante e presuntuoso. Avevo una sorta di avversione per i ragazzi di questo tipo. Preferivo di gran lunga le persone più alla mano, sensibili e attente, intelligenti e divertenti, anche se, lo dovevo ammettere, l'occhio voleva la sua parte. E Alan di sguardi ne attirava parecchi. La signora Muller era una donna molto raffinata e attraente. La tipica persona dall'andatura lenta ed elegante, che non alza mai la voce, che non si abbassa a raccogliere qualcosa che le è appena caduto, ma rimane in attesa che qualcuno lo faccia per lei. La cancellata si richiuse e mi avvicinai incuriosita per una rapida sbirciatina. C'erano magnifiche siepi armoniosamente modellate a forma di animale, panchine di ferro battuto, che di tanto in tanto interrompevano i piccoli sentieri di sassolini bianchi serpeggianti tra le aiuole fiorite e gli alberi curati: un giardino bellissimo. Il cancello automatico si aprì di nuovo, cogliendomi di sorpresa e facendomi arretrare con un balzo. Un SUV nero pronto a uscire giunse dall'altra parte, in attesa che i due battenti si spalancassero, poi avanzò di qualche metro e si fermò. «Stai cercando qualcuno?» disse una voce maschile proveniente dal finestrino elettrico che si abbassava. Era Alan. «Ehm… no, no. Stavo solo guardando le siepi.» «Belle vero?» sogghignò compiaciuto. «Abbiamo un giardiniere che si occupa di loro.» Feci un sorriso di circostanza, decisa a riprendere la mia strada. La sua aria strafottente mi stava già dando sui nervi. «Non ci conosciamo, vero? Sei nuova di queste parti?» attaccò. Solita tattica, pensai, e cominciai a camminare. «No, è evidente che non mi conosci» continuò tracotante, fiancheggiandomi con la macchina. Non accennai minimamente a rallentare, anzi accelerai il passo. «Ehi! Che fai, scappi? Non è quello che di solito fanno le ragazze con me. Ma... forse non sai chi sono» se ne uscì. «Sì che lo so» replicai aspra. «Però io non mi ricordo di te. Dovrei?» mi sbeffeggiò. Alzai gli occhi al cielo. Non sono certo una delle tue gattine, sempre pronte a fare le fusa, pensai. «Immagino di no. Comunque, sono Jessica, la nipote di Joe. Abitiamo in fondo alla strada, ti dice niente?» «Joe… chi?» «Jenkins. Joseph Jenkins. Hai presente Arnold, il giardiniere? Mio nonno è il signore che lo aiuta» ribadii alterata. «Aaah… l'aiutante del giardiniere» sottolineò divertito. Lo fulminai con lo sguardo. L’idea che mi ero fatta di Alan Muller diventava vera ogni secondo di più. Ripresi a camminare svelta, decisa ad allontanarmi il più velocemente possibile da quell'essere spocchioso. «Ehi, aspetta!» Tirò il freno a mano e scese dalla macchina in un lampo. «Senti… non volevo offenderti, ok?» Sembrava imbarazzato. Oppure continuava a fare il cicisbeo? «Ok» borbottai indecisa. Un cellulare dentro la macchina squillò. Con scioltezza, Alan infilò la mano attraverso il finestrino e lo prese dal cruscotto, scambiò due battute veloci, poi tornò a guardarmi. «Scusami… ehm, come hai detto che ti chiami?» «J-E-S-S-I-C-A» scandii, irritata. «Jessica, sì. Devo passare dall'ufficio di mio padre prima della scuola e sono quasi le sette e trenta. Ci si rivede, eh?» mi strizzò l'occhio e scattò verso la portiera. Guardai l'orologio e spalancai gli occhi. «Cosa? Le sette e trenta?» balbettai. «Cavolo, perderò l’autobus!» e iniziai a correre. Lui salì in macchina e mi raggiunse. «Dai, salta su!» gridò, abbassando il vetro elettrico. Scossi l'indice della mano sinistra. Non avevo nessuna voglia di farlo. «Eh dai! Ti do uno strappo» insistette, seguendomi con la macchina. «Non… credo… sia… una… buona… idea.» «Prometto che farò il bravo.» Aveva un tono canzonatorio. Mi fermai a riprendere fiato, piegandomi in avanti boccheggiante. «Tra quanto passa l'autobus?» Guardai di nuovo l'orologio e alzai tre dita. «Tre minuti? Fra due siamo lì, salta su.» «Ok» ansimai mentre salivo ma, appena la portiera si chiuse, me ne pentii. «Vedi, non era poi così difficile» sentenziò, affondando il piede sull’acceleratore e facendo stridere le gomme sull’asfalto. Mi aggrappai al sedile e in un attimo arrivammo all'incrocio con la provinciale: sulla sinistra il Gipsy Bar, la gelateria e il negozio di generi alimentari del signor Gross; a destra la fermata dell'autobus. «Siamo arrivati!» esultò, inchiodando a pochi metri dalla pensilina. Ovviamente, tutti i presenti si girarono. «Sì… ehm, grazie» mormorai, scendendo svelta dalla macchina. «Alla prossima!» E partì a razzo suonando il clacson, attirando ancor più l'attenzione, semmai ce ne fosse stato bisogno. I giovani in attesa dell'autobus salutarono calorosamente, poi si volsero verso di me. Imbarazzatissima, raggiunsi la fermata a capo chino. Alcuni dei ragazzi che incontravo lì ogni giorno fecero un cenno, altri invece sogghignarono. Nel mucchio c'era anche Megan, una ragazza del quarto anno, che continuava a fissarmi con aria interrogativa e insistente. Dopo neanche un minuto, per fortuna, l'autobus sbucò da dietro una curva, distraendo il mio pubblico e liberandomi dai riflettori. Accostò, aprendo le porte con il caratteristico sbuffo pneumatico, e la ciurma vociante salì scomposta, sotto lo sguardo divertito dell’autista che ogni dì doveva sentirne delle belle durante quel tragitto. Mi accomodai verso il fondo, evitando però le ultime file. Quei posti erano riservati ai nonni, i ragazzi del quarto anno. Il seggiolino accanto a me era rimasto libero e vi sistemai lo zaino, poi una voce mi distrasse. «Posso?» chiese Megan, indicando il sedile vuoto. «Oh… ma certo, accomodati pure» risposi sorpresa. Ci vedevamo tutti i giorni, anche se in realtà non ci conoscevamo granché. Era una bella ragazza, con i capelli corti spettinati e un sorriso affascinante. Non mi aveva mai rivolto più di un “ciao” e ora si era seduta accanto a me. La cosa mi suonò strana, ma cercai di darmi un’aria rilassata. «Fai il terzo anno, vero?» chiese. «Esatto, tu invece sei al quarto?» «Sì, proprio così.» Aveva rotto il ghiaccio. «Non abbiamo occasione di parlare spesso, ma…» abbassò lo sguardo, «a costo di passare per impicciona, volevo chiederti… per caso esci con Alan Muller?» Ah, ecco. Ora la cosa aveva un senso. «Chi? Io? No, assolutamente! Perché… lo chiedi?» Ero di tutti i colori. Sorrise nervosa e imbarazzata a sua volta. «Ecco… niente. È solo che… Alan e io siamo amici e… non lo avevo mai visto accompagnare nessuna alla fermata dell’autobus. Mi è sembrato… insolito.» «Ah… beh, ero in ritardo e… comunque mi ha solo dato uno strappo» riuscii ad argomentare, sempre più a disagio. «Oh, ma certo… va bene. Ora raggiungo gli altri. Scusa se… beh, hai capito, vero?» mi salutò. Feci un sorriso tirato e mi voltai a guardare fuori dal finestrino, sempre più sbalordita. Il solo fatto di essere vista in compagnia di Alan era sufficiente a dare adito a pettegolezzi? Anche se mi sembrava assurdo, evidentemente le cose stavano così. Alle otto meno dieci, il pullman si fermò alla pensilina adiacente alle scuole. Scesi accodandomi alla marmaglia di giovani che in breve raggiunse il cortile dell'edificio. Vagai con lo sguardo in cerca della lunga chioma bruna di Sally, senza riuscire a scorgerla, per cui mi intrufolai in quella giungla di corpi per cercarla. Passando tra i ragazzi percepivo stralci di conversazioni e odori. Alcuni studenti stavano sperimentando gli effetti della tempesta ormonale e, in preda a slanci romantici, si sbaciucchiavano stretti stretti. C'era chi chiacchierava e rideva sguaiatamente, chi ascoltava l'MP3 in solitudine e chi si radunava per fumare una sigaretta in compagnia. «Finalmente!» mi raggiunse Sally eccitata. «Allora, cosa c’è di così importante da non potermi dire per telefono?» «Oh, Jess! Non sto nella pelle!» disse con aria sognante, le mani al petto. «C’è di mezzo un ragazzo» esclamai a colpo sicuro. «Oh, sì!» Mi abbracciò eccitata. «Questa volta sono davvero partita. Non riesco più a mangiare, non riesco più a dormire. Penso solo a lui.» «Chi è il fortunato?» sogghignai. «Alan!» «Alan… Muller?» Sally annuì, elettrizzata. «Beh… racconta» suggerii, mentre un campanello d’allarme mi suonò nella testa. «Dunque, sabato scorso ho accompagnato mio fratello Mike al centro commerciale, per comprare un regalo alla sua ragazza e, quando siamo usciti dal negozio, chi incontro al bar? È troppo fico! E mio fratello per una volta ne ha fatta una giusta. Entrambi giocano nella squadra di football della scuola. Sai, si conoscono e… me l'ha presentato!» Sally, al culmine dell'esaltazione, si era alzata in piedi e parlava con un tono di voce a dir poco squillante. «Ok, ok, ma non ti sembra di correre troppo? L'hai visto solo una volta.» «Due» precisò, alzando indice e medio della mano destra. «Ieri, casualmente, sono andata a vedere un allenamento, perché mio fratello aveva promesso di accompagnarmi di nuovo al centro commerciale e… ci siamo visti ancora.» L’espressione birichina sul suo viso la diceva lunga. «Casualmente, vero?» sottolineai. «Fa il quarterback e gioca da dio. Oh, avresti dovuto vederlo! E poi, quando se n'è andato, mi ha fatto l'occhiolino!» Sorrisi incerta. Sally era una brava ragazza, ma perdeva facilmente la testa quando c'era un ragazzo di mezzo. Dovevo al più presto raccontarle ciò che era successo, prima che le chiacchiere montate ad arte dal passaparola potessero creare fraintendimenti tra noi. «Pensa, l'ho incontrato proprio stamattina: stavo per perdere l’autobus, ma per fortuna mi ha accompagnato alla fermata» dissi con estrema tranquillità. «Cosa? Com'è successo?» e mi prese per le spalle, scuotendomi. «Calmati, ti racconto tutto!» risi, ma in quel momento la campanella suonò, richiamando tutti all’ordine. «Accidenti» sbuffò lei, gettandosi i lunghi capelli bruni dietro le spalle. «Ok, niente panico! Alla ricreazione mi racconti tutto, d’accordo?» «Certo, stai tranquilla. Altrimenti so benissimo che mi darai il tormento.» I suoi atteggiamenti mi divertivano sempre. Sally sospirò sorridendo e mi prese a braccetto. Seguimmo il fiume ciarlante di studenti che si insinuò disarticolato su per le scale, fino a raggiungere le aule, sigillate poco dopo dagli insegnanti. Le prime due ore di inglese scivolarono via abbastanza velocemente e, quando il suono della campanella annunciò la fine dell'ora di storia e l'inizio dell'intervallo, Sally era già in pole position. «Allora, com’è che ti ha dato un passaggio?» «Sai che Alan abita poco lontano da nonno Joe, no? Beh, come ogni mattina, stavo passando davanti alla villa dei Muller e mi ero fermata a guardare le siepi, quando lui è sbucato fuori dal cancello sul suo macchinone e mi ha vista.» «E allora? Cos'è successo?» «Ci siamo messi a parlare… delle siepi animalesche e, mentre lui mi prendeva in giro, mi sono accorta che ero in ritardo pauroso e ho cominciato a correre!» «Ah… e lui?» «Siccome era stato parecchio sbruffone con me, forse si è sentito in colpa e si è offerto di accompagnarmi alla fermata.» «Ah… e tu?» «Non volevo salire in macchina, sai come la penso, ma era talmente tardi… se non avessi accettato non sarei arrivata in tempo.» Lei mi fissò con aria cupa. «Dimmi la verità, piace anche a te?» «No, assolutamente!» dichiarai, alzando le mani. Non potevo crederci: quel giorno era la seconda volta che me lo chiedevano. «È stata una semplice coincidenza, tranquilla.» Le misi una mano sulla gamba per rassicurarla. «Ah, meno male!» sospirò, appoggiando la testa sulla mia spalla. «Però, che carino, vero? Fermarsi per darti uno strappo. Magari fosse capitato a me!» Scoppiai a ridere insieme a lei. Non c'era niente da fare: Sally era così, incorreggibile. 2 NEW ENTRY «Oh, eccoti qui» mi accolse nonno Joe sulla soglia di casa. «Com'è andata oggi?» «Abbastanza bene, se non fosse che, all'ultima ora, alla prof di matematica è venuto in mente di rifilarci una verifica per la prossima settimana.» E crollai sul divano. «Ci sono gli spaghetti. Te li scaldo?» «Sì, grazie!» Avevo proprio voglia di un piatto di pasta con il sugo del nonno. Rapida, portai lo zaino di sopra e dopo essermi sciacquata il viso e indossato le pantofole, tornai di sotto, con lo stomaco che già brontolava per la fame. «E voi, come procedono i lavori a villa Volta?» chiesi, avvicinandomi a Joe mentre armeggiava con i fornelli. «Oggi pomeriggio ci aspetta una bella sfacchinata, e pure disgustosa. Non hai idea di quello che abbiamo trovato scavando per togliere le erbacce.» «Cioè?» «Ricordi che la signora Figg aveva una vera ossessione per tutti i suoi gatti?» disse, porgendomi il piatto di spaghetti fumanti. «Certo. Un giorno con Danny ne avevamo contati almeno una ventina» risposi, iniziando a mangiare. «Evidentemente, ogni volta che uno dei suoi tesori ci lasciava le penne, non voleva separarsene, così… li aveva nascosti in giardino.» Mi bloccai a metà di un boccone, con il ribrezzo che si allargava sul viso. Quella povera donna aveva sotterrato i suoi gatti nel prato di casa, trasformandolo in un cimitero felino. «Il lavoro è più lungo del previsto e solo per ripulire ci vorrà tutto il pomeriggio. Perciò pensavo, visto che tu devi studiare, che ne dici se per cena prendiamo una pizza?» Sorrisi entusiasta. «Nonno, sei un grande!» E alzai il pollice. Con Joe era così, spesso non era necessario parlare, e anche per questo trasferirmi da lui era stata la scelta migliore. Mia madre non rientrava tanto spesso dalle trasvolate, per cui il nonno e io c’eravamo a poco a poco integrati nella gestione della casa e ce la cavavamo piuttosto bene. Quando terminai di mangiare, Joe se n'era già andato. Sistemai la cucina, dopodiché salii al piano di sopra, pronta a darmi da fare per la verifica di matematica del lunedì seguente. Non avevo certo intenzione di passare tutto il fine settimana a studiare e, memore dell’estate precedente in cui avevo dovuto rimediare a un’insufficienza, sapevo esattamente quale fosse la ricetta magica. Perciò quel pomeriggio, mentre fuori si scatenava un temporale, mi propinai un bel ripasso delle regole sulle derivate, e a seguire un’abbondante batteria di esercizi. Dopo diversi successi e qualche esclamazione colorita, mi accorsi che erano quasi le sei: richiusi libro e quaderno, ciò che avevo fatto poteva bastare. Mentre sistemavo la scrivania, il telefono squillò. «Ciao Jess. Mi spiace interromperti, ma Arnold e io avremmo bisogno del tuo aiuto. Eravamo venuti in bicicletta, ma qui continua a diluviare... ci verresti a prendere con Barney?» «Cosa?» esclamai esterrefatta. Nonno Joe possedeva un vecchio pick-up verde, un Ford F250 degli anni ’80, ormai un pezzo d’epoca, dove solitamente caricava gli attrezzi più grossi o la spesa. Da sempre lo chiamava Barney, perché diceva che aveva la stessa voce di un suo lontano prozio, piuttosto brontolone. «Ehm… nonno, nell’abitacolo non ci stanno più di due persone, anche a stringersi. Il terzo dove lo mettiamo?» «Nel cassone, ovviamente, insieme alle biciclette» e rise con Arnold a spalleggiarlo. «Allora, vieni?» «E va bene, arrivo.» Avevo guidato diverse volte quell'aggeggio dal rombo imbarazzante, sotto lo sguardo divertito di Danny che, destreggiandosi sul trattore grosso tre volte tanto, mi sfotteva a causa della mia scarsa scioltezza, soprattutto in curva. Mi buttai addosso una giacca e corsi alla rimessa. Entrai nell’abitacolo e girai la chiave d’accensione: il motore si accese scoppiettante strappandomi un sorriso. Goffamente, ingranai la marcia e, poco a poco, lasciai il pedale della frizione. Appena fuori dal garage, lo scroscio d'acqua mi investì e non vidi più nulla: avevo dimenticato di accendere fari e tergicristalli, ma reagii subito evitando di combinare guai. La villa non era molto lontana, ma il percorso si srotolava in salita tra diversi tornanti, fino alla sommità della collina. La tempesta imperversava, senza alcun accenno a calmarsi. Diversi lampi illuminavano la via, mentre i tuoni facevano tremare l'aria. E poi, avevo timore che qualcuno mi vedesse e potesse riconoscermi. Avanzai senza eccedere con la velocità, non volevo rischiare di perdere il controllo sul fondo bagnato. Vidi due fari venirmi incontro e trattenni il fiato fino a che riconobbi l’auto dei Bert, che lampeggiarono scambiandomi per Joe; poco più su, oltrepassai una berlina blu che non riconobbi, ferma sul ciglio della strada. La situazione era sotto controllo. Avevo quasi raggiunto la cima della collina e, mentre costeggiavo uno dei campi di grano dei Garret, colsi con la coda dell’occhio qualcosa che sfrecciava lungo il boschetto, sul lato opposto. Doveva trattarsi di qualche animale selvatico, un procione o una volpe: era una zona di collina e non era difficile incontrarne alcuni. Incuriosita, accostai per un attimo e, dopo aver pulito alla meglio il finestrino coperto di condensa, vi appoggiai la fronte e rimasi in attesa. Per la seconda volta vidi passare qualcosa nel bosco, ma ero quasi certa che non si trattasse di un animale. C'era qualcuno che correva tra le piante. Forse un escursionista che raccoglieva funghi era stato sorpreso dalla tempesta. O da un istrice. Sorrisi all'idea del povero malcapitato di fronte alla corona minacciosa di aculei, poi ripartii. Fatte altre due curve finalmente arrivai a casa Volta. Il cancello automatico era aperto, lo oltrepassai e adocchiai due uomini in verde che da sotto la tettoia cercavano di attirare la mia attenzione agitando le mani. «Meno male! Il signor Volta è appena partito per andare in città e non c’è più nessuno in casa» disse Arnold. «Era per caso una berlina blu? Ne ho incontrata una poco fa» scesi dal pick-up. «Esatto. Si era offerto di darci un passaggio, ma ho detto che stavi arrivando con Barney» replicò nonno Joe, orgoglioso, mentre caricavamo le biciclette. «Vado io dietro» proposi, precedendo Arnold. «Non ho problemi a rannicchiarmi.» Mi infilai nel cassone coperto dal telo cerato, accanto alle bici, e mi aggrappai alle sponde per non ribaltarmi durante il tragitto. Trovai questa esperienza alquanto divertente e, mentre il tettuccio sembrava sotto il fuoco di una mitraglia, mi sporsi a guardare oltre il portello posteriore. Eravamo quasi giunti in prossimità del boschetto ed ero curiosa di vedere se qualcuno fosse sbucato fuori. Notai che gli scrosci d’acqua e la grandine avevano piegato diverse spighe, dando al campo un aspetto spelacchiato. Poi, tutt'a un tratto, lo vidi. Là, nel campo di grano, sotto la pioggia insistente, riuscii a scorgere a malapena la figura di un giovane, i capelli fradici che sbattevano sulle spalle nude mentre correva. Cosa ci faceva là in mezzo con un tempo simile? Che fosse Danny? No, impossibile. Provai a osservarlo meglio. Filava via zigzagando, come se stesse seguendo un percorso preciso, invisibile, e andava velocissimo. Poi, si girò verso di me e improvvisamente sparì dalla mia visuale. Che fosse scivolato sulle spighe bagnate? Mi sporsi ancora un poco per vedere se il ragazzo si rialzava, ma non riuscii più a scorgerlo. Sorpassato l'incrocio che portava a casa nostra, tirammo dritto verso quella di Arnold, che si trovava appena dopo la villa dei Muller, quasi all’inizio della strada. «Proseguiamo per la pizza» mi disse il nonno, mentre aiutava l’amico a scaricare la bici. Mi trasferii rapida nell'abitacolo di Barney, accanto al nonno e, circa quindici minuti dopo, raggiungemmo la pizzeria. Lasciai Joe in macchina, entrai e ordinai. Mentre aspettavo, non feci che ripensare a ciò che avevo visto, al giovane sconosciuto scomparso davanti ai miei occhi. Presi i cartoni fumanti e mi infilai di corsa in auto: forse anche il nonno lo aveva intravisto. «Allora, com'è andata con il ripasso?» disse Joe, entrando in casa e togliendosi la giacca bagnata. «Bene, direi che sono a posto. E voi?» «Siamo riusciti a bonificare il prato. Non ti dico quante carcasse di gatto abbiamo dissotterrato. Poi ha cominciato a diluviare e siamo stati costretti a dedicarci ai rinvasi in serra. Ci vorrà ancora un bel po' di lavoro.» Scosse il capo. Attesi qualche minuto e poi mi decisi a parlare: «Nonno, hai notato qualcosa mentre costeggiavamo il campo dei Garret, quello vicino al boschetto?» «Ero troppo impegnato a cercare di non sbandare, con tutta quell'acqua sulla strada. Perché me lo chiedi?» Esitai. «No… niente. Mi era sembrato di aver visto qualcosa tra il grano.» «Probabilmente era un procione o... un istrice. Là dentro ne girano parecchi e anche belli grossi» rise. «L'altro giorno, Arnold stava venendo a prendermi e se n'è trovato davanti una dall'aria tutt'altro che amichevole. A momenti andava a finire nel campo per lo spavento.» «Mh, forse è così» tagliai corto, addentando l’ultimo pezzo di pizza. La mattina seguente mi svegliai di buonora, dopo una nottata tranquilla. Scesi in cucina e cominciai a stilare la lista per la spesa e, mentre giocherellavo con la penna, il mio sguardo si fermò sulla giacca da giardinaggio del nonno. Per un momento ripensai a quanto accaduto il giorno prima, a quello strano episodio. La cosa poteva avere diverse spiegazioni, dall'escursionista in cerca di funghi al povero malcapitato che tentava di scappare da un istrice all'attacco. Scossi la testa e scrollai le spalle, prelevai i soldi per la spesa e decisi che l’argomento era chiuso. Uscii, e quasi subito percepii qualcosa di strano nell'aria, senza però riuscire a capire di cosa si trattasse. Andai al garage per prendere la bicicletta della nonna, quella con il cestino anteriore, la inforcai e mi diressi verso il crocevia. A quel punto, mi accorsi dell'imponente numero di macchine, persone e furgoni parcheggiati alla meglio lungo la strada che portava alla collinetta, sul limitare dei campi dei Garret. Un elicottero stava sorvolando la zona. Rallentai per osservare meglio. Doveva essere successo qualcosa di grosso, di grave, qualche avvenimento tragico poiché c'era anche la televisione. Cosa ci faceva là? Con cautela cambiai direzione, cercando di avvicinarmi il più possibile e, in mezzo a tutte quelle teste, scorsi la chioma castano-dorata di Danny: stava scrutando quel pandemonio, indubbiamente contrariato. «Ehilà!» gridai, sperando di attirare la sua attenzione. Si volse e, quando mi individuò, fece cenno con la mano incamminandosi verso di me. «Che succede?» «Non hai guardato le notizie stamattina?» «N-no… perché?» «Beh, qualcuno si è divertito a rovinare i nostri campi» affermò irritato. Sospirai, se non altro nessuno si era fatto male. «In che senso, “rovinare”?» «Vieni, è meglio che tu veda.» Mi fece strada e il tesserino distintivo che aveva al collo penzolò di lato. Camminammo tra le spighe, sorpassando operatori televisivi, giornalisti e poliziotti; due uomini con indosso la tuta in TNT rilevavano le radiazioni con il contatore Geiger, altri erano impegnati a misurare le dimensioni dell’area interessata. «Ecco, guarda là» e indicò un punto a diversi metri da noi. Con lo sguardo seguii la direzione della sua mano, pur non potendomi avvicinare oltre – era tutto rigorosamente sbarrato – riuscii comunque a intravedere la stranezza delle spighe, che sembravano tutte piegate verso il terreno, come se qualcuno le avesse schiacciate. Strinsi un po’ gli occhi e misi a fuoco cosicché il cervello riuscì a fare il collegamento: le piante di grano non solo erano state pressate, ma avevano assunto una forma geometrica ben precisa. «Voi chi siete? Non si può rimanere qui» ci riprese un poliziotto. «Daniel Garret, signore, e questo è il mio campo» replicò Danny alzando il tesserino distintivo. «D’accordo, ma per il momento non è permesso calpestare la zona, perciò è meglio che vi allontaniate. Mi spiace, sono le direttive degli esperti.» «Sì, sì. Ho capito. Vieni, Jess.» E scosse la testa. Tenendomi per mano, mi guidò fino al limitare del campo, dove sostavano diversi furgoni dell’emittente televisiva locale. Proprio in quel momento, stavano trasmettendo uno dei primi servizi della mattina. Danny si fermò indicando uno dei monitor. «Ecco, guarda.» “…È di questa mattina la notizia del rinvenimento dello strano fenomeno. Ad avvertire le autorità, è stato il proprietario del terreno, il signor Garret. Alle sei, si era alzato per verificare i danni che il terribile temporale della notte scorsa aveva causato al suo raccolto e invece, si è trovato davanti ben altro…” Le immagini, riprese dall'alto, forse dallo stesso elicottero che volteggiava sopra la zona, mostravano uno spettacolo impressionante. Le spighe di grano erano ricurve su loro stesse, a formare una geometria ben più complessa di quella che avevo potuto intravedere poco prima. Dentro una grande circonferenza si alternavano corone di diametro decrescente, all'interno delle quali decorrevano semicerchi che si susseguivano ora in senso orario, ora antiorario, mano a mano che gli anelli divenivano più piccoli. Era come vedere migliaia di onde in movimento, un'incredibile illusione ottica, qualcosa di bellissimo e totale, capace di catalizzare l'attenzione. «Mio Dio! È… un crop circle!» «Già» replicò Danny, con aria seccata. «Quando mio padre è rientrato gridando, abbiamo temuto che fosse accaduta una disgrazia. Invece… beh, hai visto anche tu. E questo casino solo per aver avvertito chi di dovere.» «C'era da aspettarselo» commentai, continuando a guardare meravigliata. «Mi piacerebbe sapere chi è stato quell'imbecille che si è divertito tanto!» «Danny, ma ti rendi conto?» Mi guardò con sufficienza. «Non mi dirai che credi alla storia degli ufo anche tu. Dai, Jess! È una bufala colossale.» «Ecco… non dico che sia vero per forza, ma la cosa è assolutamente incredibile.» Alzò gli occhi al cielo, già stufo di tutto quel clamore. «Senti» attaccò la ramanzina, «bastano un paio di persone munite di corda, asticelle e un minimo di metodo e il gioco è fatto. Su YouTube c'è persino il video!» «Tu riusciresti a farlo?» lo provocai serafica. «Oh beh… ho ben altro da fare che perdere tempo in queste cose, ma con un po' di allenamento e un aiuto… sì, credo proprio di sì.» Aprii la bocca per ribattere, poi decisi di lasciare stare. Conoscevo abbastanza Danny e questo era il genere di cose che non poteva tollerare. Fin dall'inizio della nostra amicizia, avevo intuito che tipo fosse: un ragazzo adorabile, ma con i piedi ben piantati per terra. Fin troppo. «Vorrei rimanere ancora un po', ma è meglio che vada. Ero uscita per andare dal signor Gross e con tutta questa gente chissà quanto ci metterò.» Danny annuì sbuffando e mi salutò. Tornai indietro e raggiunsi la bicicletta, ma per un discreto tratto fui costretta a spingerla a mano, tanto era intenso il traffico. Impiegai almeno il doppio del tempo che solitamente mi ci voleva per raggiungere il negozio e, una volta arrivata, trovai una fila di persone che debordava dalla porta. C'era la stessa ressa presente vicino al campo, dietro al bancone il signor Gross non sapeva chi servire prima. Non era mai capitata una massa di gente simile e tutta in una volta, per cui ad aiutarlo c’erano la moglie e anche la sorella, che normalmente si presentava solo in occasioni speciali, come il Giorno del Ringraziamento o Natale. A fatica riuscii ad arraffare un po' di lattuga, alcuni pomodori e una confezione di prosciutto, ma per il pane dovetti rassegnarmi. «Il fornaio è già tornato a rifornirci quattro volte da stamattina» disse il signor Gross, sconcertato ed eccitato al tempo stesso. Sorrisi porgendogli i soldi e raggiunsi a tentoni la bicicletta. Nel tornare indietro, la calca era aumentata ancora e il traffico era ormai fermo. Mi avviai, zigzagando tra le vetture, ma erano talmente fitte che dovetti scendere e spingere la bicicletta a mano. Dopo circa quaranta minuti, raggiunsi finalmente casa del nonno che, seduto sotto il portico, guardava con aria sorpresa l'ammasso di macchine e persone che si scorgevano in lontananza, qualcosa che mai avrebbe creduto di vedere. «Hai visto che roba, Jess?» «Da non crederci. Ho incontrato Danny e mi è parso molto contrariato... sai com'è fatto.» «Oh, posso immaginarlo. Quando era piccolo, non si poteva raccontare una storiella, una favoletta senza che saltasse su, sospettoso. Figuriamoci gli ufo!» terminò, alzando le sopracciglia. «Tu cosa ne pensi?» Il nonno si massaggiò il mento. «Uhm… non saprei. L'idea degli alieni mi sembra troppo grossa, però anche la leggenda di qualcuno che durante la notte si diverte con corde e bastoni… se io avessi un talento così lo sfrutterei in modo diverso.» Mentre preparavo il sugo, ragionai sulle parole del nonno. In effetti, era difficile credere che qualcuno creasse i crop circle come forma d'arte o per svago, e poi non li rivendicasse in qualche modo. Salvo che il divertimento stesse proprio nell'alimentare le diverse teorie, tra cui quella degli ufo o delle sperimentazioni militari. Non sapevo a quale dare credito, quale fosse la più strampalata, ciononostante quella figura aveva su di me un certo fascino e mi incuriosiva. Decisi che più tardi sarei tornata a vedere l'agroglifo, perché comunque, qualsiasi fosse la sua origine, per me era bellissimo e, calca permettendo, avrei potuto osservarlo meglio. Nel pomeriggio, cercai di mettermi avanti il più possibile con i lavori di casa, così da ritagliare un po' di tempo per andare al campo e, finalmente, poco prima di cena, ci riuscii. Presi la bici e pedalai fino alla diramazione. C'erano ancora parecchie persone attorno alla zona, compresi furgoni televisivi e automobili della polizia, ma avevano transennato la strada, così che le macchine non autorizzate non intralciassero più il traffico. Vidi Danny e lo raggiunsi. «Allora, si sa qualcosa?» «Domani torneranno con i risultati delle prime analisi. Stamattina hanno prelevato parecchi campioni in diversi punti del campo.» «Però, devi ammettere che è davvero notevole.» «Sì… beh, per essere solo spighe di grano…» Passò una mano sulle piante, ne prese una e la infilò delicatamente dietro al mio orecchio, tra i miei capelli ricci. Gli sorrisi e lui spostò subito lo sguardo. «Rimarrei volentieri qui con te, ma con tutto questo caos il lavoro è rimasto indietro. Mio padre mi aspetta. Ci vediamo presto, Jess.» Lo guardai mentre si allontanava. Danny era un ragazzo perbene, educato e molto carino: di corporatura media, alto e snello, occhi grigio-verdi e lineamenti delicati. Più di una volta mi era venuto il sospetto che avesse un debole per me, ed erano proprio le situazioni come questa – oltre alle allusioni poco velate di Sally – a farmelo pensare. Quello strano imbarazzo che lo catturava subito dopo un gesto premuroso o galante, facevano supporre che dietro l’amicizia potesse esserci qualcosa di più. Lentamente, mi avviai lungo il bordo del campo. Al suo interno avevano delimitato il perimetro del pittogramma con il nastro giallo e nero. Lo ammirai senza avvicinarmi troppo, passeggiandogli attorno in tutta calma, sfiorando con la punta delle dita le spighe che mi solleticavano le mani. Nell’aria, l’inconfondibile profumo del fieno appena tagliato, dell’estate alle porte. Mi sembrava di essere dentro un film, tanto la situazione era surreale, e mi dimenticai del tempo che passava. Il sole si stava nascondendo dietro l’orizzonte e ormai era ora di rientrare. Le macchine parcheggiate in fondo alla strada cominciavano ad andarsene, tuttavia diversi curiosi insistevano trattenendosi per scattare altre foto. Ancora immersa nell’atmosfera suggestiva, inforcai la bici e iniziai a pedalare, talmente assorta che rischiai di andare a sbattere contro un’Audi blu. Nel tentativo di schivarla, girai troppo in fretta il manubrio, che mi scappò di mano e mi fece perdere l’equilibrio. Per fortuna atterrai sul morbido, tra le spighe. L’auto inchiodò, attirando l’attenzione di diverse persone che per un attimo disdegnarono il campo. «Tutto bene?» La voce che mi interrogò era bassa e preoccupata, mentre una mano calda mi sfiorava il braccio. Alzai lo sguardo, irritata, ma un’ondata di profumo speziato mi colpì, confondendomi. Chino accanto a me, un giovane con occhiali scuri, capelli corvini raccolti in una coda dietro la nuca, stava tentando di farmi rialzare. Mi parve di riconoscerlo, doveva essere un Volta, quello che frequentava l’ultimo anno. «Sto bene...» protestai. Ero pronta a rincarare la dose, ma le parole mi morirono sulle labbra quando alzai lo sguardo. Di fronte a me c'era il ragazzo più bello che avessi mai visto. Sollevò gli occhiali, appoggiandoli sulla testa, e mi accorsi che era molto serio. Aveva l'aria turbata, lanciava occhiate nervose ovunque, esprimendo disagio, però mantenne la presa sul mio braccio. Sembrava che avesse la febbre tanto bruciava la sua pelle. Poi spostò l'attenzione su di me e, per un attimo soltanto, i suoi occhi incrociarono i miei. Erano blu, di un blu elettrico talmente profondo e luminoso che sembravano due zaffiri. «Io… ehm, mi dispiace, non volevo farti cadere.» Era visibilmente rammaricato. «Stavo per sorpassarti, ma poi hai deviato all'improvviso e…» abbassò lo sguardo. «Sì… ecco…» Non riuscivo a mettere una parola dietro l'altra, tanto ero presa da quei due zaffiri dall’effetto ipnotico. «Non ti preoccupare, non mi sono fatta niente.» I nostri sguardi si intrecciarono di nuovo e per un attimo il mondo parve fermarsi, azzerando tutto. Solo i nostri occhi, uniti da una forza magnetica sconosciuta. Il ragazzo si rimise in fretta gli occhiali e lasciò andare il mio braccio, anche se il calore che mi aveva trasmesso impiegò diversi secondi prima di scemare del tutto. «Dove stavi correndo?» chiesi di getto, arrossendo un secondo dopo. «Ehm… a casa. Abito sulla collina.» «Ah già, sei il figlio del signor Volta?» Abbozzò un sorriso e annuì. «Oh… ok. Sai, siamo quasi vicini di casa… io sono Jessica Dawson, la nipote di Joseph Jenkins, il braccio destro del tuo giardiniere.» Terminai la frase e avvampai. Non stavo facendo conversazione, civettavo! Mi vergognai da morire. Non era mia abitudine essere così estroversa con gli sconosciuti. Fece un cenno con il capo e si guardò di nuovo attorno. I curiosi che si erano avvicinati per vedere cosa fosse accaduto, intuirono che non c’era bisogno del loro aiuto e si dileguarono, tornando alla vera attrazione. «Io sono Thomas. Sicura di star bene?» Avevo la netta impressione che non vedesse l’ora di andarsene da lì, come se rimanere lo mettesse ancor più a disagio, eppure, allo stesso tempo, qualcosa lo tratteneva. «Sì, nessun problema.» Gettò una rapida occhiata al crop circle, poi tornò a me. «Scusami ancora, ma… devo andare.» E si diresse alla macchina. «Ciao.» Osservai l’elegante auto blu che si avviava lungo la collinetta. Salii in bicicletta e, prima di ripartire, questa volta mi accertai che nessuno stesse sopraggiungendo dalla strada alle mie spalle. Mentre pedalavo, ripensai a quel viso che pareva cesellato tanto era perfetto e, soprattutto, al suo sguardo. Non avevo mai visto due occhi così belli, espressivi e profondi, capaci di mandarmi nel pallone. Perché poi? Una volta arrivata a casa, appoggiai la bici nel garage e raggiunsi nonno Joe in cucina. «Dov’eri finita?» «Ero andata a fare un giro al campo dei Garret.» Mi sfiorai il braccio, nel punto in cui Thomas aveva appoggiato la mano. «Cos’hai combinato?» e indicò i jeans sporchi di terra. «Ah… niente. Sono scivolata dalla bici. Ho visto Thomas Volta» dissi tutta d’un fiato. Si voltò a guardarmi e, a stento, trattenne un sorriso. «Pare che non ti sia dispiaciuto.» «Nonno!» lo ripresi benevola, ma non potevo biasimarlo. «Vuoi dire che mi sbaglio?» rise «Sarà, comunque è un bel giovanotto e questo non guasta.» Mentre salivo di sopra per andarmi a cambiare, il telefono squillò. Dallo scambio di battute tra Joe e il suo interlocutore capii che si trattava di qualcuno che chiedeva dell’evento nel campo dei Garret. Gettai i jeans sporchi nel cesto della biancheria e vedendo la terra, ripensai a Thomas. Chissà perché aveva quell’aria così inquieta? Che dipendesse dal nostro piccolo incidente? No, non poteva essere una sciocchezza del genere. Di certo a turbarlo non potevo essere stata io, con il mio aspetto banale, comune. O forse sì, avevo rischiato di metterlo in cattiva luce. Il telefono squillò di nuovo appena giunsi in cucina e stavolta cercavano me. «È tua madre» disse il nonno, porgendomi la cornetta. «Ciao tesoro, come stai? Ho visto i filmati… è incredibile.» «Già. Non hai idea della confusione che c’è qui. Sai, sono andata a vederlo da vicino. È bellissimo!» esclamai entusiasta. «Immagino… come vorrei essere lì con voi» sospirò. «Beh, questo fine settimana rientri, no? Ci andremo insieme» proposi. «Mi spiace, ma c’è stato un cambio di programma. Claire, la mia collega, è bloccata a letto col mal di schiena e devo sostituirla.» Sbuffai in silenzio. «Ah... ok, sarà per la prossima. Ti voglio bene, mamma» e ci salutammo. Non era la prima volta che capitava, anzi, a causa della crisi economica che insisteva, la cosa andava sempre peggio. Con l’amaro in bocca, raggiunsi il nonno già a tavola, intento a guardare alcuni servizi sul crop circle. Mangiai in silenzio, assorta, ascoltando a tratti i commenti e guardando distrattamente le immagini riprese dall’alto. Erano diverse settimane che la mamma non rientrava e mi ero convinta che saremmo state insieme. Poi, quello spettacolo riuscì a catturare di nuovo la mia attenzione e la delusione per il fine settimana, poco a poco, svanì. Finita la cena, sistemai la cucina e me ne andai a letto, ma non riuscivo a prendere sonno. Continuavo a pensare alle immagini trasmesse dalla tv. Rivedevo il crop circle, stupendo ed enigmatico, che da solo avrebbe attirato più gente nella provincia di Norville che in vent’anni di turismo. Era strano e misterioso, e si trovava a poche centinaia di metri dal mio letto. E poi, quello che era accaduto per colpa sua, il quasi-incidente e fortuito incontro con Thomas. Il ragazzo dagli occhi blu mi incuriosiva, volevo sapere qualcosa di più su di lui. Quali interessi aveva, chi frequentava dopo la scuola, che sport faceva, se era solo… La domenica volò via, più veloce del solito. Durante la giornata, tra una lavatrice e l’altra, ero più volte sgattaiolata sotto il portico a sbirciare il via vai di stranieri e avevo notato che diversi furgoni, con relativa scorta e giornalisti al seguito, si erano di nuovo appostati per terminare le rilevazioni. E come vuole la consuetudine, il tutto ampiamente seguito da un variegato numero di curiosi e pseudo appassionati di misteri a caccia di foto e video amatoriali. Solo dopo cena il nonno e io ci liberammo per andare a fare un salto al campo dei Garret e ammirare l'agroglifo. Quando passammo vicino al punto in cui ero caduta con la bicicletta, mi voltai e sorrisi. «Che c'è?» chiese Joe non vedendo nulla. «Niente» dissi scuotendo il capo e, delicatamente, mi accarezzai il braccio. Il lunedì mattina mi svegliai carica e pronta ad affrontare la verifica di matematica. «Dimmi una cosa. Come hai fatto a studiare con tutto il casino che c'era?» chiese Sally appena mi vide nell’atrio della scuola. Sventolava una pagina di giornale, la foto in bianco e nero mostrava il pittogramma tutto transennato nel campo di Danny. «Guarda, per fortuna mi ero già messa sotto con il ripasso, altrimenti…» «Sempre la solita, eh? Io e mio fratello abbiamo provato a raggiungerti per vedere il crop circle, ma la fila di macchine era ferma a cinque chilometri da casa di Joe e, dopo più di un'ora di blocco, ce ne siamo andati. Dai, dimmi com'è?» «È-è straordinario, bellissimo, anche se non la pensano tutti così. Danny non è per nulla entusiasta che gli abbiano rovinato il campo» aggiunsi divertita. «Il figlio dei Garret, vero? Ti fa sempre il filo, eh?» «Diciamo che è molto carino con me.» «Già… senti, se mi pianto con le derivate, mi dai due dritte?» «E come faccio? Sai benissimo che la prof gira tra i banchi per controllare. Sarebbe proprio fantastico farsi beccare a una delle ultime verifiche dell’anno: schiafferebbe una F con doppia sottolineatura a entrambe» sentenziai ironica. «È vero, hai ragione» si rassegnò, portandosi una mano alla fronte. Entrati in classe, ognuno occupò il proprio posto, in attesa. Poco dopo, la signora Brown chiuse la porta e raggiunse la cattedra. Era avviluppata nel solito tailleur di una taglia più grande, talmente largo che sembrava una vecchia coperta con i bottoni. Aprì la valigetta, prelevò i fogli con gli esercizi da svolgere, li appoggiò sul ripiano e li batté più volte per rendere il plico omogeneo, quindi li depose davanti a sé, osservando tutta la classe. «Bene, bene, bene. Naturalmente, ragazzi, mi aspetto che nessuno di voi, oggi, abbia bisogno di copiare. Ormai l’anno scolastico è terminato, e sarebbe oltremodo deludente, nonché oltraggioso, un atteggiamento tanto immaturo. Tuttavia, conosco le vostre testoline, la vanagloria che vi spinge a osare» e fece un sorrisetto compiaciuto, «perciò sarò buona: sappiate che i fogli distribuiti non sono tutti uguali, casomai il concetto non fosse penetrato a sufficienza.» In classe si levò un leggero brusio di dissenso mentre la megera distribuiva i fogli. «Shhh, iniziate a lavorare. O sarò costretta ad abbassare di un punto il voto all’intera classe.» Sottovoce, dalle retrovie, le augurarono le più terribili malattie purulente. Sforzandomi di non ridere, gettai un’occhiata alla verifica. Era impegnativa, con parecchi esercizi da svolgere, ma non impossibile. Trassi un profondo respiro e cominciai a scrivere. Di tanto in tanto qualcuno sbuffava, qualcun altro tossiva, altri ancora si reggevano la testa con entrambe le mani, in preda alla disperazione, ma in qualche modo le due ore scivolarono via, lente e pesanti. Quando la campanella annunciò la fine dell’agonia, avevo appena completato l’ultimo esercizio. Raccolsi in fretta i fogli e mi misi in coda per consegnarli. «Com’è andata?» dissi a Sally, sbuffando, mentre uscivamo dalla classe. «Boh, spero di averci preso. E a te? Ma cosa te lo chiedo a fare» rispose dandomi una leggera spinta. «Credo bene» sospirai. «Che fai oggi?» chiese cambiando discorso. «Ho una montagna di panni da stirare che mi attendono» risposi, arricciando le labbra. «E tu?» «Non so… forse vado a vedere mio fratello che si allena…» «Solo lui?» la provocai. «Certo che no! Ci vediamo domani» e dopo avermi strizzato l’occhio se ne andò. 3 L'INCIDENTE La giornata di sole che di prima mattina mi aveva inebriato, nel pomeriggio si incupì, favorita da un vento fresco e robusto che poco a poco aveva radunato cumuli di nuvole scure e minacciose. Verso sera, il cielo era ormai congestionato, pronto a scaricarsi. Dopo cena, salii in camera e mi attaccai al pc, sperando che il maltempo non interferisse troppo con la connessione. Da qualche mese avevo cominciato a curiosare sulle homepage delle università, nel tentativo di farmi un'idea sul percorso che offrivano. In particolare, tenevo d’occhio i forum degli studenti per avere qualche dritta sui corsi migliori, i servizi offerti e le lezioni, insomma il polso degli atenei. Tuttavia, ben presto la linea internet iniziò a singhiozzare, e navigare divenne una tortura. Spensi tutto e mi coricai, riaprendo il libro che avevo abbandonato sul comodino, ma la stanchezza che era in agguato sopraggiunse repentina, facendomi ben presto crollare. Un rombo davvero potente e vicino mi svegliò di soprassalto: là fuori si stava scatenando una bella tempesta. Mi alzai e raggiunsi la finestra, scostai le tende e rimasi contro il vetro, a scrutare nell’oscurità. Nel cielo di un nero profondissimo di tanto in tanto si scorgeva una luce lontana, un bagliore dietro gli ammassi di nubi, rivelando quanto il temporale fosse imponente. Stavo per tornare a letto, quando una grossa saetta solcò il cielo, perdurando per alcuni istanti e abbattendosi in direzione del frutteto. Rimasi abbagliata diversi secondi, poi inevitabilmente considerai il punto d'impatto del fulmine e, seguendo l'istinto – non certo la ragione – infilai le scarpe e scesi di corsa al piano di sotto. Passando accanto all'attaccapanni, afferrai il k-way e mi catapultai verso il frutteto, sotto il diluvio. Ero convinta che la saetta avesse colpito una pianta e quando, avvicinandomi, vidi un bagliore crepitante, il mio timore aumentò: qualcosa stava bruciando per davvero. Affrettai il passo, ma l'erba fradicia e scivolosa mi costrinse a rallentare. Notai che gli alberi erano tutti integri mentre la recinzione era ancora in fiamme, nel punto in cui era stata colpita dalla folgore. A differenza della pioggia che continuava a cadere copiosa e incessante, i lampi e i tuoni parvero allontanarsi, e ciò mi convinse che, nonostante la staccionata fosse in parte incenerita, tutta quell'acqua sarebbe bastata a estinguere il principio di incendio. Mi voltai per tornare a casa, ma uno strano ronzio in mezzo agli alberi mi trattenne. Lentamente, mi volsi cercando di acuire la vista, sperando di non riconoscere la sagoma di un istrice spaventato. Il fatto che piovesse non rendeva le cose più semplici, tuttavia, poco alla volta i miei occhi si adattarono fino a scorgere un insolito alone azzurrognolo. Perplessa, osservai quella piccola aura ronzante che sembrava avvolgere qualcosa a livello del suolo, a pochi metri da me. Esitante, feci un passo in quella direzione e, d'un tratto, ebbi la sensazione di non essere sola. Tutto si svolse in una manciata di secondi. Davanti a me, nel buio, avvertii un brusco movimento. Presa dal panico, scattai in direzione opposta nel tentativo di scappare, dimentica della staccionata danneggiata. Scivolai sull'erba bagnata e, d'istinto, misi le mani avanti per attutire la caduta, ma il legno incenerito cedette sotto il mio peso, facendomi precipitare oltre il parapetto. Poi il buio. Quando riaprii gli occhi, non sapevo dove mi trovavo e, nell’oscurità, impiegai alcuni minuti per capire che ero finita in fondo alla scarpata, distesa in una strana posizione. Ero completamente bagnata e avevo il sapore del fango in bocca. Imprecai. Solo una stupida poteva pensare di uscire sola, in una notte così, e avventurarsi in un frutteto avvolto dal buio. Feci per alzarmi, ma un dolore acuto mi aggredì la gamba destra. Anche la fronte mi doleva, vicino all'attaccatura dei capelli. Quando vi passai sopra le dita, avvertii una superficie irregolare, sollevata, che bruciava da morire. Tentai di nuovo di mettermi in piedi, ma scivolai sul terreno fangoso e una fitta lancinante mi attanagliò la caviglia, costringendomi a urlare. Tra i singhiozzi, allungai una mano tremante per toccarla: era gonfia e priva di stabilità. Gridai ancora, consapevole di quanto inutile fosse quel gesto. Ero troppo lontana dalla casa del nonno, e comunque lo scrosciare dell’acqua avrebbe coperto la mia voce. Lacrime di dolore e desolazione scesero lungo le mie guance, mescolandosi alle gocce di pioggia che ricadevano su di me. «E adesso?» mormorai avvilita. Poi, di nuovo, mi sentii osservata. Con il cuore in gola, guardai su, verso il ciglio della scarpata: c’era una sagoma sul bordo. Che fosse Joe? «Nonno, nonno! Sono qui!» gridai con voce strozzata, allungando le dita verso l’alto. Non udii alcuna risposta, e nell’oscurità, persi ogni riferimento. La disperazione si fece largo dentro me, e strillai di rabbia. Stavo male, avevo freddo e mi girava la testa. Con voce sempre più fioca implorai aiuto, ma un capogiro terribile mi investì e poi tutto si spense. «Ecco, così! Piano, attenzione alla testa.» Era una voce appena percepibile, come se fosse lontana. Mi spostarono di peso su una superficie dura e fredda, mi sollevarono, poi qualcuno sfiorò la gamba strappandomi un gemito di dolore. «Jessica, mi senti? Forza, apri gli occhi» disse di nuovo la voce di poco prima, che si stava facendo più chiara. A fatica, socchiusi le palpebre e intravidi un uomo con la divisa del Pronto Intervento che mi osservava attentamente. Anche gli altri sensi si stavano riprendendo, e nonostante la mia posizione coricata, riuscii ad avvertire la presenza di altre persone nelle immediate vicinanze, con un continuo viavai attorno a me. «Chiamate Joe. Si sta riprendendo» disse lo sconosciuto che avevo accanto, facendo un cenno a qualcuno. Poco dopo il nonno sopraggiunse chiaramente turbato e, vedendo che ero cosciente, mi accarezzò il viso. «Jess, grazie a Dio! Mi hai fatto prendere una bella paura, sai?» Il paramedico che mi stava fissando le cinture di contenzione disse che era ora di andare e spinse la barella sulla quale mi avevano adagiato verso l'ambulanza; in attesa di essere caricata, notai che aveva smesso di piovere. «Cos’è successo?» chiesi confusa. «Sei caduta giù per la scarpata» rispose il nonno. Non mi andava di starmene sdraiata ma, quando tentai di mettermi seduta, un'improvvisa vertigine mi assalì e dovetti stendermi di nuovo. «Non riesco a ricordare» mormorai, portando una mano alla testa. «È perfettamente normale. Sei svenuta e forse hai una leggera commozione cerebrale» replicò l'uomo in divisa. Ora che gli occhi avevano recuperato l’acuità, mi concentrai sulla sua giacca e, cucito sul taschino, riuscii a leggere Dott. Marchinson. «Come… avete fatto a trovarmi?» Joe scosse il capo. «Grazie alla tua scarpa. È stato un colpo di fortuna che tu ne abbia persa una.» Un attimo prima che i paramedici mi caricassero, il Dott. Marchinson si chinò a esaminarmi di nuovo, illuminandomi le pupille con una strana penna che emetteva luce. «Hai fatto un bel ruzzolone, Jessica. Ora andiamo in ospedale per gli accertamenti: non preoccuparti, vedrai che andrà tutto bene.» Mi sistemarono sull’ambulanza che partì svelta, e il nonno salì dietro, accanto a me, cercando di mantenermi sveglia. Forse era un modo per scaricare la tensione, oppure stava seguendo le indicazioni dei paramedici, tanto per controllare le mie reazioni. «Sei stata davvero fortunata… se penso a quel che è accaduto… ero sceso a prendere un bicchiere d'acqua e, mentre passavo davanti alla tua camera ho visto il letto vuoto. Era chiaro che dovevi essere uscita, anche se non capivo il perché. Sono venuto a cercarti e, se non fosse stato per quella scarpa vicino alla staccionata, non mi sarei accorto che era rotta e non mi sarei avvicinato al bordo.» Fece una pausa e sospirò. «Ho puntato la torcia sul fondo del dirupo e ti ho visto laggiù. Ti ho chiamato e richiamato, ma tu non rispondevi… a momenti mi prendeva un colpo.» Joe continuò a parlare durante il tragitto, ma ero ancora molto confusa, stordita, e percepivo la conversazione a tratti, come se le parole fossero ovattate, lontane. Giunti al Pronto Soccorso, mi sottoposero ad alcuni test per assicurarsi che non vi fossero deficit neurologici, dopodiché venne il turno della radiologia, per le radiografie alla caviglia. Quando mi svegliai, ero in una stanza d’ospedale, stesa in uno dei due letti che la occupavano. Una flebo era collegata al mio avambraccio sinistro e immaginai si trattasse di antidolorifico perché non percepivo molto dolore. Avvertii qualcosa di estraneo sulla fronte e la sfiorai per controllare l'entità del danno, trovando un voluminoso cerotto vicino al sopracciglio. Cercai allora di muovere le gambe, ma con il piede sinistro urtai qualcosa di duro e massiccio: sbirciai sotto il lenzuolo e vidi la caviglia destra rinchiusa nell’ingessatura. Sbuffando spostai lo sguardo altrove. Nel letto alla mia sinistra giaceva una signora anziana, apparentemente addormentata; sulla destra invece, accanto alla grande finestra, c'era una poltroncina, sulla quale Joe si era appisolato. «Nonno» dissi con un filo di voce. Si destò intorpidito e, appena si rese conto che ero sveglia, si accostò preoccupato. «Ehi, come stai?» «Non c’è male. Ho un taglio sulla testa, vero?» «Sette punti di sutura, ma non preoccuparti. Il Dott. Marchinson ha detto che non rimarrà quasi nulla. È andata bene anche alla caviglia: una piccola frattura composta e in un mesetto dovresti essere a posto.» Sbuffai di nuovo, affondando la testa nel cuscino; l’odore di disinfettante e il sapore di sangue mi stavano dando il voltastomaco. «Sei stata fortunata. Lo sai, vero?» «Immagino di sì» dissi sempre più nauseata. «Nonno… avresti una caramella alla menta? Ho un terribile sapore in bocca.» Joe sorrise e infilò la mano in tasca, quindi la estrasse colma di incarti verdi. Ne afferrai uno, lo srotolai e iniziai a succhiare avidamente; così andava molto meglio. «Allora, mi dici cosa ci facevi fuori, in piena notte e con un tempo simile?» «Ecco… non me lo ricordo. Ho le idee confuse» ammisi, corrugando la fronte. «Non ricordo nemmeno di essere ruzzolata giù dalla scarpata.» «Di una sola cosa sono certo: sei caduta per colpa della staccionata. La notte scorsa una saetta l’ha colpita e ne ha bruciata una parte. Magari sei arrivata fin lì e col buio non l’hai notato, ti sei appoggiata, il legno ha ceduto e sei precipitata» tentò Joe. Gli sorrisi dolcemente: povero nonno, doveva essersi spaventato parecchio. «Ma per fortuna non è successo niente di grave, ammaccature a parte» minimizzò. Annuii e appoggiai la testa al cuscino, socchiudendo gli occhi. Per un attimo ebbi l'impressione di rivedermi laggiù, dolorante, in mezzo al fango, mentre chiamavo aiuto. Poi, sul margine del pendio… qualcosa… qualcuno, o era la mia immaginazione? «Non so, è tutto così sconnesso, però… mi sembra di ricordare un forte boato, un tuono… chissà perché sono andata fin là?» «In effetti, il temporale era bello forte e anch'io mi sono svegliato per colpa dei tuoni.» Di nuovo, qualcosa si agitò nella mia mente. Mi puntellai sui gomiti e mi sedetti, seguendo l’ispirazione di un’idea. «Forse stavo correndo, oppure… scappavo?» pensai a voce alta. «Scappavi, e da chi?» «Mh, non so, ho come l’impressione che ci fosse qualcosa in basso…» dissi perplessa. «Ora ho capito!» disse Joe animandosi. «Arnold ha trovato delle tracce di animali tra le piante, magari istrici o procioni, e a giudicare dalle impronte dovevano essere almeno due. Forse li hai sorpresi durante un combattimento, ti hanno spaventato e sei caduta.» «Può darsi». Questa teoria aveva un suo perché, tuttavia sembrava incompleta. Mi accasciai sfinita sul cuscino. «Non sforzarti, è meglio che riposi. Tra qualche giorno ti sarai ripresa e tutto sarà più chiaro. Ah, ha telefonato tua madre. Appena puoi, richiamala.» Era trascorso un mese dall’incidente e stavo molto meglio. Mi avevano tolto i punti sulla fronte e, grazie alle stampelle, avevo recuperato un minimo di libertà. Salire le scale mi aveva messo in difficoltà, ma il nonno si era prodigato allestendo il divano-letto nel salotto, a piano terra. In quel periodo particolare, avevo sentito molto la mancanza della mamma, della sua allegria, del suo ottimismo, della sua ironia. Fortunatamente però, i miei più cari amici si erano adoperati per non farmelo pesare troppo. Danny, mi passava a prendere quasi tutti i giorni per accompagnarmi alla fermata dell'autobus, con la scusa che tanto era di strada. Sally invece mi raggiungeva nel pomeriggio e, dopo i compiti, mi aggiornava sulle imboscate che metteva in atto per incontrare “casualmente” Alan. Frequentare gli ultimi giorni di scuola non sarebbe stato poi così terribile e, quando arrivarono i risultati della verifica di matematica, rimasi più che soddisfatta, aggiungendo un'altra A in pagella. Quella mattina dovevo recarmi all’ospedale, per il controllo ortopedico della caviglia. Dopo un colloquio sull’andamento della convalescenza, arrivò il momento di togliere il gesso. L’infermiere, un ragazzo molto gentile e carino, tirò fuori un apparecchio – simile a una smerigliatrice – dall'aria tutt'altro che innocua. Notando la mia espressione perplessa, il giovane si prodigò affinché mi tranquillizzassi, e mi assicurò che, nonostante il rumore terribile, il dispositivo era assolutamente inoffensivo. Decisi di concedergli un po' di fiducia, ma con riserbo, soprattutto appena lo ebbe acceso: quell'aggeggio emetteva un frastuono agghiacciante, richiamando alla mente immagini di tortura. In breve, l'infermiere completò il lavoro e, quando mi scoprì la gamba, fu un attimo di puro sollievo. «Molto bene» disse l’ortopedico valutando le radiografie a monitor e facendomi muovere il piede. «Ora mettiamo il tutore: lo porterai per una quindicina di giorni, poi sarà sufficiente una normale cavigliera elastica. Da oggi, per dieci giorni, potrai camminare usando una sola stampella, poi altri cinque con il solo tutore: in questo modo aiuterai la muscolatura e la mobilità articolare. Tornare a caricare il peso sul piede sarà doloroso, ma più insisterai, prima l'articolazione tornerà efficiente.» «Perfetto!» affermai felice. Uscii sorridente, e senza gesso, dall’ambulatorio di ortopedia e, mentre raggiungevo l'ascensore, intravidi il corridoio del reparto, dove si trovavano le stanze di degenza. Cambiai direzione e lo imboccai, cercando la stanza con il letto numero dodici. La caposala mi vide e fece un cenno, raggiungendomi. «Ti trovo molto bene» disse guardando la caviglia stretta nel tutore. «Sì, grazie. Sta andando tutto secondo il programma» sorrisi. «E la mia compagna di stanza? Sa come sta?» «Benone direi: l’hanno dimessa una ventina di giorni fa!» «Beh, meglio così» e la salutai. Mentre percorrevo il pezzo di strada che portava alla fermata dell’autobus, mi concentrai sulla caviglia: grazie al tutore camminavo molto meglio, tuttavia, priva del sostegno del gesso, l'articolazione sembrava più debole. Durante l'attesa ripensai all'incidente, a come mi ero rotta la gamba, al ruzzolone che avevo fatto, a ciò che sarebbe potuto accadere. Quella notte ero davvero stata molto fortunata. L’autobus si fermò e aprì le porte. Con maggior scioltezza, seppure con prudenza, salii a bordo, strisciai la tessera nel lettore, quindi mi accomodai nel primo posto libero. Era strano e piacevole abituarsi a camminare di nuovo usando il piede. Venti minuti dopo ero già arrivata alla mia fermata, poco distante dal negozio di generi alimentari del signor Gross e dalla gelateria. Con cautela, scesi e mi avviai lungo la strada laterale, continuando a concentrarmi sui movimenti del piede. Udii un rombo provenire da dietro, e un attimo dopo, una moto arancio e nera mi affiancò. «Ehi! Che ne dici se ti do uno strappo?» Era Danny, sorridente sulla sua ATK GV650. «Molto volentieri. Ma tu da dove sbuchi?» «Ehm… ero venuto a fare una commissione» disse, fingendo indifferenza mentre mi prendeva in braccio per caricarmi sul suo bolide. «Ho notato che ti hanno tolto il gesso.» «Sì, è tutto a posto. Fra due settimane potrò togliere anche il tutore!» In breve arrivammo davanti a casa del nonno, Danny mi aiutò a scendere e, dopo avermi strizzato l'occhio, se ne andò allegro. «Allora, qual è la prognosi, signorina Dawson?» chiese Joe. «Due settimane di tutore e potrò riprendere a correre e saltare» dichiarai soddisfatta. «Ottimo!» applaudì, e mi aiutò a entrare. Con il suo sostegno provai a salire le scale, anche se non fu semplice: una fitta mi tormentava ogni volta che il peso si concentrava sulla caviglia, comunque insistetti e ci riuscii. Ormai ero a cavallo e conscia di potercela fare. Nel pomeriggio tornai di sopra decisa a riprendermi la mia camera; il nonno propose d’aiutarmi, ma rifiutai, determinata a cavarmela da sola. Per praticità, da quando ero caduta, avevamo trasferito parte dei miei vestiti in una grossa scatola in soggiorno, accanto al divano-letto, ma ora non era più necessaria, e l'unica incombenza che lasciai al nonno fu quella di portarla al piano di sopra. La svuotai sul letto e iniziai a sistemare le magliette, i jeans, e la biancheria intima nell'armadio, poi giunsi alle scarpe e mi ritrovai in mano le All Star. Provai un moto di gratitudine verso quelle sneakers e le strinsi al petto: in un certo senso mi avevano salvato, era grazie a loro che il nonno mi aveva trovato in fondo alla scarpata. Mentre le riponevo con cura, rammentai un particolare di quella notte: dalla fretta di uscire, le avevo infilate così, senza allacciarle. Finito con i vestiti, accesi il pc. Era da parecchio che non navigavo, e poi volevo mandare una mail a mio padre. Da quando Joe lo aveva informato del mio incidente, ci scambiavamo SMS quasi tutti i giorni. Il mio piccolo infortunio aveva attirato la sua attenzione e ci sentivamo con una frequenza di cui non avevo il ricordo. Il che, ovviamente, mi rendeva felice. Spedii la posta elettronica ed entrai in rete, aprendo un sito universitario e aggiornando la mia pagina Facebook. Ero intenta a leggere il regolamento delle borse di studio, quando si levò il fischio del vento, contro la finestra, con acuti sempre più vivaci, e in breve la connessione divenne difficoltosa. Sbirciai fuori, attirata da un rumore crescente: aveva cominciato a piovere, con folate che costringevano la pioggia a cadere di traverso. Socchiusi un attimo il vetro e inspirai a fondo. Mi piaceva il profumo di erba bagnata che d’estate si alzava, durante i temporali. Era un odore particolare, che si sentiva solo nei mesi caldi, quando il fieno tagliato rimaneva nei campi a essiccare. Sbadigliando, richiusi la finestra; fuori si stava preparando una tempesta simile alla sera in cui ero caduta. Un altro sbadiglio mi raggiunse, chiaro segno di stanchezza incombente. Era stata una giornata importante e impegnativa, mi ero affaticata parecchio e forse era giunto il momento di riposarsi. Mi coricai nel mio letto e assaporai di nuovo il comfort del materasso dopo parecchie notti passate sul divano e, in breve, scivolai nel sonno. Ero in un sogno. All’inizio, ero stata svegliata di soprassalto da un tuono potente e mi ero alzata per guardare dalla finestra, poi quella luce, un flash, in una frazione di secondo aveva raggiunto terra, seguita da un altro boato. Ero rimasta abbagliata, con le mani sugli occhi, accanto ai vetri: una saetta si era schiantata poco distante da casa nostra, in direzione del frutteto. Una volta ripreso il controllo visivo, avevo temuto per gli alberi ed ero scesa per andare a controllare. Le immagini cambiarono. Ero nel frutteto, adesso. Avevo appena oltrepassato alcune piante ed ero a pochi passi dal ciliegio, accanto alla recinzione, in parte distrutta. C’era un forte odore di bruciato, sui bordi delle assi di legno alcune fiammelle ardevano ancora, ma pioveva talmente forte che di lì a poco si sarebbero spente. Mi svegliai che era già giorno. Continuavo a pensare a ciò che avevo visto in sogno. Alcuni particolari erano andati a posto da soli, nel tempo, altri erano ancora confusi. Ero certa del motivo che mi aveva spinto a uscire quella notte, tuttavia non ricordavo cosa fosse accaduto dopo. Che avesse ragione il nonno e qualcosa mi aveva spaventato? Mi alzai e cominciai a camminare per testare la caviglia. Era un po' strana e un tantino instabile, però non faceva tanto male. Continuai a passeggiare lentamente nella mia stanza, per darle il tempo di scaldarsi e seguire i consigli del dottore, poi decretai che era ora di uscire. Mi lavai e mi vestii, quindi dovetti decidere che scarpe mettere. I sandali non erano adatti, potevo scivolare e non era il caso. Quando le vidi, scelsi le All Star, le mie scarpe fortunate; inoltre mi avrebbero fasciato un po' la caviglia, dandole un leggero sostegno. Infilai la sinistra, poi presi la destra e con cautela, v’inserii il piede avvolto dal tutore. In quell’attimo, mentre la scarpa andava al posto giusto, qualcosa nella mia mente scattò, e ricordai. Rimasi ferma un istante, fissando la scarpa, mentre rivivevo gli attimi di paura di quella notte, di quel brusco movimento nell'oscurità, della mia reazione istintiva, della staccionata che cedeva sotto il mio peso. All'appello, mancavano alcuni momenti del risveglio in fondo alla scarpata, ma il resto cominciava a essere chiaro. Un'altra immagine sbiadita ma degna di attenzione mi tornò alla mente: un uomo sul ciglio del pendio. Non capivo se fosse un vero ricordo o piuttosto un'invenzione della mia fantasia. Forse la mia memoria non era ancora del tutto pronta e magari alcuni fatti avvenuti in seguito, durante i soccorsi, mi sembravano invece antecedenti. O tutto era dovuto allo stress posttraumatico. Il mio cellulare vibrò rumorosamente: era un SMS di Sally, e proponeva di passare a trovarmi, con una novità. Accettai divertita: avevo la convinzione che le piacesse particolarmente l’idea di dover passare davanti a casa dei Muller per raggiungermi. Rifeci il letto e sistemai la stanza, dopodiché scesi con cautela al piano di sotto, seguendo il delizioso profumino che proveniva dalla cucina. Il nonno aveva preparato gli spaghetti con il suo mitico sugo di pomodoro e basilico e, mentre mangiavamo, lo avvisai dell'imminente comparsa di Sally. «Bene, magari fate una bella passeggiata. È ora che ricominci a stare all'aria aperta» commentò mentre sparecchiavamo. L'arrivo di un'auto davanti a casa ci incuriosì: uscii svelta sotto il portico e rimasi senza parole. «Ehilà! Come ti butta?» chiese Sally, scendendo da una Corolla grigio metallizzato. «Alla grande!» risposi raggiungendola e osservando il bolide datato. «Hai tolto il gesso, fantastico!» mi abbracciò. «Però, ti muovi bene. Ti fa male?» «Non tanto. E quella da dove viene?» chiesi indicando l’auto. «È questa la novità: sto contrattando con mio fratello, ma prima di pagargliela ho voluto provarla. Perciò… eccomi qui» disse compiaciuta. «E come mai hai scelto proprio questa zona?» scherzai ammiccante. Sally si fece seria. «Come, non sei contenta che sia venuta a trovarti?» «Ma se ci siamo viste ieri» le ricordai, guardandola di sottecchi. Scoppiò a ridere. «Ok, beccata! Va bene, la verità: volevo davvero venire a trovarti, e in più… qui c’è una splendida visuale, potrebbe capitare di fare incontri interessanti. E se forassi una gomma proprio davanti a quella bella villa…» «Ti va di fare due passi? Magari chiacchieriamo un po’» proposi sorridendo e mi avviai nel frutteto. «Certo! Raccontami del controllo: era bello il medico?» disse prendendomi a braccetto. «Sally! L’ortopedico, era un uomo di mezza età, non male, ma era più carino l’infermiere. Comunque, ha detto che vado alla grande e fra quindici giorni sarò a posto.» «Meno male, temevo che ti saresti giocata l’estate.» Annuii mentre raggiungevamo il ciliegio, vicino alla scarpata. Mi fermai davanti alla riparazione grossolana che il nonno e Arnold avevano approntato. Feci qualche passo e vi appoggiai cautamente le mani, facendo scorrere le dita. «È qui che è successo» dissi sporgendomi appena per guardare giù. «Cavolo, Jess! Chissà che volo» mormorò Sally, portandosi una mano alla bocca. «Già… e pensa che stanotte, l’ho pure sognato.» «Dai, racconta.» Feci un sospiro, e l’accontentai.