ENERGY

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ENERGY
ELENA ORLANDINI
ENERGY
GAINSWORTH PUBLISHING
Questa storia è opera di finzione.
Nomi, personaggi e fatti descritti sono frutto dell'immaginazione dell'autrice.
Ogni somiglianza con eventi, luoghi o persone reali,
vive o defunte, è puramente casuale.
© 2015 Gainsworth Publishing
Prima edizione: febbraio 2015
Illustrazione di copertina: Gainsworth Publishing
ISBN 978-88-909825-9-0
www.gainsworthpublishing.com
A mio marito, che ha saputo di tutto questo
prima che diventasse realtà.
Era la notte di San Lorenzo. Milioni di persone si trovavano col naso
all’insù, lo sguardo inchiodato al cielo alla ricerca di una stella cadente a
cui affidare i propri sogni.
Rabbrividii. La consapevolezza che mai più avrei guardato la volta
celeste con gli stessi occhi dilagò prepotente, inesorabile, e altre lacrime
scesero lungo le mie guance.
Il resto del mondo non lo sapeva, ed era meglio così. La gente doveva
continuare a credere che certe cose fossero solo ipotesi, divagazioni, frutto
di fantasiose trame cinematografiche.
Scorsi appena la scia che si proiettava nell’infinito, per scomparire un
istante dopo.
«Addio» sussurrai, e il mio sogno si dileguò, per tornare lassù, da dove
era venuto.
1
STRADE DIVISE
La sveglia trillò più del solito quella mattina, o così parve, tanto
era ostinata a buttarmi giù dal letto. Allungai una mano da sotto
le coperte e la zittii con un colpetto secco, mettendomi poi
seduta. L'immagine di rimando nello specchio dell’armadio era
davvero tremenda: i capelli arruffati, gli occhi ancora stretti e il
viso imbronciato di chi avrebbe voluto dormire almeno un altro
paio d'ore. Ravviai qualche ciocca ribelle poi crollai di nuovo sul
letto, fissando il soffitto. Era incredibile che ancora capitasse,
eppure a volte mi sentivo estranea a quella stanza, nonostante
fossero passati più di due anni dal mio trasferimento.
Tutto era accaduto molto in fretta – troppo a dire la verità –
una sera come tante, dove i miei stavano litigando. Più volte
avevo parlato di questo con Sally, la mia migliore amica, ed
eravamo giunte alla conclusione che fosse stato il lavoro di
entrambi a creare frustrazione. Mia madre era una hostess di
linea, mio padre un ingegnere informatico, e durante la settimana
non si vedevano granché, così nei weekend si caricavano di
tensione che regolarmente sfociava in discussioni più o meno
accese. In quei momenti, me ne stavo per conto mio, in camera,
chiudendo le loro diatribe fuori dalla porta, e mi attaccavo al
telefono per parlare con Sally oppure mi piantavo davanti alla
finestra per cercare di individuare una stella. Sapevo che non
l'avrei vista, poiché abitavamo in città e le luci artificiali
illuminavano tutto; nonostante ciò la cercavo, ero certa che si
trovasse lassù. Quella sera, però, capii che era successo qualcosa
di diverso quando mio padre uscì di casa sbattendo l'uscio,
lasciandosi dietro uno strano silenzio. Mi ero affacciata sul
corridoio e solo a quel punto i singhiozzi sommessi di mia madre
erano arrivati sino a me. L’avevo raggiunta e mi ero bloccata sulla
soglia della loro camera non appena avevo scorto le pile di vestiti
sul letto. La spiegazione che seguì, quando lei si accorse di me,
era in netto contrasto con la rassegnazione che traboccava dai
suoi occhi rossi e, in breve, mi ritrovai a preparare le mie cose per
andarmene da lì. Scendevo le scale del palazzo, lo zaino di scuola
da una parte e una borsa di vestiti dall'altra, e continuavo a
pensare che stavo lasciando la mia casa, stavo lasciando mio
padre. Mentre raggiungevamo nonno Joe, il padre di mia madre,
lei disse che in seguito avremmo chiamato papà, ma io non
riuscivo a capacitarmi che stesse accadendo davvero. La città che
scorreva fuori dal finestrino, le luci, i colori, le vetrine e tutta la
normalità che fino a quel momento mi avevano accompagnato,
parvero rimanere indietro, allontanandosi sempre più. Eppure
quella sera mi ritrovai a dormire per la prima volta in questo
letto, un letto che non era il mio, con gli occhi gonfi di pianto, a
decine di chilometri dalla mia casa, da mio padre, con la speranza
che quell'incubo finisse.
Il mio cellulare vibrò due volte riportandomi alla realtà. Lo
afferrai e lessi l'SMS di Sally.
RITROVO TATTICO DAVANTI ALLA SCUOLA: DEVO
ASSOLUTAMENTE PARLARTI!
Gettai un'occhiata fuori dalla finestra dopo averla spalancata: il
cielo era terso, di uno splendido azzurro, solo un accenno di luna
ancora visibile si distaccava dalla tela perfetta. Inspirai a fondo,
diverse volte, per riempirmi i polmoni di quella nuova giornata di
metà primavera, pronta a partire.
Mi vestii e raggiunsi in fretta il piano di sotto dove il rumore di
stoviglie confermò che non ero l’unica ad avere impegni
mattutini quel giorno.
«Oh, buongiorno. Sei mattiniera oggi» disse nonno Joe,
affabile come sempre, mentre allacciava la giacca verde da
giardinaggio.
«Sally mi aspetta all’entrata della scuola, devo prendere
l’autobus che passa prima. E tu, che ci fai già in piedi?»
«Vado con Arnold» e prese i guanti da lavoro.
Da quando era rimasto vedovo, Joe si era ritrovato con troppo
tempo per pensare ai ricordi, così quando Arnold, il suo migliore
amico giardiniere, gli aveva proposto una collaborazione saltuaria
con qualche lavoretto, non se l’era fatto ripetere due volte.
«Ci aspetta parecchio lavoro su alla collina, a villa Volta. I
nuovi proprietari stanno facendo un sacco di interventi per
rimetterla in sesto. Ricordi come si era ridotta dopo che era
morta la signora Figg?» e si infilò il cappellino con la visiera.
«Quel giardino era diventato una giungla» ridacchiai, poi la
curiosità si fece largo. «Ma… che tipi sono? Non si vedono mai.»
La villa sulla collina era rimasta vuota per parecchio tempo
dopo la morte della signora Figg, poiché i parenti lontani
l'avevano messa in vendita a una cifra improponibile e, siccome la
casa richiedeva una ristrutturazione importante, nessuno si era
voluto accollare tante spese. Nessuno fino a quando, due anni
prima, una famiglia di forestieri era sbucata dal nulla e, da un
giorno all'altro, vi si era trasferita. Qualche volta li avevo intravisti
nei corridoi della scuola, ma fuori era difficile incontrarli, così la
gente del luogo li guardava con diffidenza. Davano l'impressione
di essere snob e tra i giovani si vociferava che i figli dei Volta
frequentassero solo persone e locali di un certo livello, giù in
città, a Norville.
«È gente benestante, su questo non ci sono dubbi: stanno
rinnovando tutto e hanno la servitù, capisci? Comunque, la
signora Volta è una donna bellissima, molto riservata ma cordiale;
il signore l'ho incontrato poche volte, è continuamente fuori città
per affari. Ho visto anche i due figli, più o meno dovrebbero aver
la tua età.»
«Li ho intravisti, ma non si fermano mai a parlare con
nessuno» bofonchiai.
«Sono pronto. Ciao Jess» disse e uscì con la borsa da lavoro.
Terminai la colazione e andai di corsa al piano superiore per
finire di prepararmi. Mentre lavavo i denti, immaginai i Volta,
vestiti firmati da capo a piedi, con aria di sufficienza passarmi
accanto su una macchina extralusso. Scossi il capo riluttante,
raccolsi i capelli ribelli in una coda, recuperai lo zaino, quindi
scesi rapida le scale e uscii, chiudendomi la porta alle spalle.
Il nonno abitava in periferia, in una zona di campagna non
molto distante da Norville, piccola cittadina a sud-ovest di
Memphis, al confine con l’Arkansas. Era in parte territorio
collinare, ricco di campi coltivati e piccoli boschi e, se non fosse
stato per i fulmini, nessuno se ne sarebbe mai ricordato. La
località era infatti conosciuta come Thunder-town, a causa
dell'elevata percentuale di saette che ogni anno toccavano il
suolo; nonostante ciò, la vita da quelle parti era piuttosto
tranquilla, priva di svaghi o attrattive.
La casa di Joe si trovava in un bel posto, con tanto verde
attorno e un modesto frutteto. Il cottage, costruito interamente
in sasso, su due piani, non aveva balconi, ma uno splendido
portico sull'entrata. A fianco c'era l'autorimessa, dove il nonno
custodiva il suo vecchio pick-up, gli attrezzi per il giardino e la
bicicletta della nonna. Sin da bambina, mi ero recata abbastanza
spesso a casa dei nonni e ogni volta vi avevo ritrovato la stessa
calda atmosfera fatta di naturalezza e semplicità. Dopo la morte
della nonna, Joe non aveva voluto sentire ragioni e, all'offerta di
trasferirsi da noi in città, aveva opposto un irremovibile rifiuto.
Nessuno, nemmeno l’opprimente solitudine di una casa vuota, lo
avrebbe allontanato da quel luogo, dai suoi fiori e dal suo
frutteto, dalle sue abitudini. Poi, però, ero stata io a trasferirmi
da lui e da due anni la mia residenza si era ufficialmente spostata
in quella casa. All'inizio era stata molto dura. Non volevo credere
che la mia famiglia si sarebbe davvero disgregata, tuttavia i miei
genitori sembravano più felici da quando si erano allontanati.
Inoltre, a mio padre si era presentata una grossa opportunità di
lavoro, che però implicava il trasferimento immediato in
California, nella Silicon Valley. Non fu una decisione facile, da
una parte c’era papà a migliaia di chilometri da Norville;
dall’altra la mia vita, le mie abitudini, la mamma e il nonno. Alla
fine, decidemmo insieme che la soluzione migliore per me fosse
di rimanere definitivamente da Joe. Dovetti crescere, e in fretta,
diventando indipendente e responsabile, ma a sostenermi c'era la
presenza costante del nonno, con il suo inestimabile aiuto e
sostegno, un punto fisso nella mia vita scombussolata.
Ero giunta al crocevia. Istintivamente buttai l’occhio a destra,
lungo la strada che costeggiava i poderi e si insinuava tra le curve
sino alla collina, ai Volta. Poco più giù, c'era la casa di Danny,
ultimogenito della famiglia Garret e, di un anno più grande di
me, che frequentava l'ultimo delle superiori. I suoi erano
coltivatori e possedevano tutte le terre che si estendevano dal
bivio fin quasi alla collina. Danny era un ragazzo spontaneo,
sincero e maturo per la sua età. Quante volte mi aveva consolato
portandomi a passeggiare in mezzo al grano, ascoltando in
silenzio, lasciando che mi sfogassi, durante le mie crisi di
solitudine perché privata di una vera famiglia. Con il tempo, era
diventato una persona importante per me, uno dei miei più cari
amici e se avevo superato il divorzio dei miei, lo dovevo
certamente anche a lui.
Svoltai a sinistra e con passo spedito oltrepassai le abitazioni,
fino a costeggiare la villa dei Muller. Era un edificio signorile,
alquanto importante, con uno splendido giardino e un parco
macchine da far invidia a una concessionaria. Anche l'erba era
talmente verde che veniva da chiedersi se fosse vera. Ogni cosa
in quel posto, ogni particolare di quella casa trasudava agiatezza.
L’enorme cancellata di ferro battuto con incastonati i blasoni
leonini si aprì automaticamente, e un'elegante Mercedes grigio
metallizzato uscì silenziosa a passo d’uomo. Alla guida c’era il
signor Muller, un uomo di mezza età e di bell’aspetto, sempre in
giacca e cravatta, dall’aria molto impegnata.
A differenza dei Volta, tutti conoscevano i Muller, che
abitavano lì da sempre. Era una famiglia di avvocati da
generazioni, e avevano due figli: Lilian, che aveva la mia età e che
incontravo spesso nei corridoi della scuola, e Alan, di un anno più
grande. Lilian era una ragazza eccentrica, sempre vestita di tutto
punto, con la quale si riusciva a chiacchierare, purché la
conversazione non andasse troppo a fondo e rimanesse sul
generico. Adorava lo shopping. Alan, il primogenito, era un gran
bel ragazzo, di quelli che non passano inosservati. Tutte le
ragazze della zona lo conoscevano, di nome o di fatto, il che lo
rendeva appetibile o, come diceva Sally, un ottimo partito. A me
non piaceva granché: egocentrico e superficiale, molto pieno di
sé, arrogante e presuntuoso. Avevo una sorta di avversione per i
ragazzi di questo tipo. Preferivo di gran lunga le persone più alla
mano, sensibili e attente, intelligenti e divertenti, anche se, lo
dovevo ammettere, l'occhio voleva la sua parte. E Alan di sguardi
ne attirava parecchi. La signora Muller era una donna molto
raffinata e attraente. La tipica persona dall'andatura lenta ed
elegante, che non alza mai la voce, che non si abbassa a
raccogliere qualcosa che le è appena caduto, ma rimane in attesa
che qualcuno lo faccia per lei.
La cancellata si richiuse e mi avvicinai incuriosita per una
rapida sbirciatina. C'erano magnifiche siepi armoniosamente
modellate a forma di animale, panchine di ferro battuto, che di
tanto in tanto interrompevano i piccoli sentieri di sassolini
bianchi serpeggianti tra le aiuole fiorite e gli alberi curati: un
giardino bellissimo.
Il cancello automatico si aprì di nuovo, cogliendomi di sorpresa
e facendomi arretrare con un balzo. Un SUV nero pronto a
uscire giunse dall'altra parte, in attesa che i due battenti si
spalancassero, poi avanzò di qualche metro e si fermò.
«Stai cercando qualcuno?» disse una voce maschile
proveniente dal finestrino elettrico che si abbassava. Era Alan.
«Ehm… no, no. Stavo solo guardando le siepi.»
«Belle vero?» sogghignò compiaciuto. «Abbiamo un
giardiniere che si occupa di loro.»
Feci un sorriso di circostanza, decisa a riprendere la mia strada.
La sua aria strafottente mi stava già dando sui nervi.
«Non ci conosciamo, vero? Sei nuova di queste parti?»
attaccò.
Solita tattica, pensai, e cominciai a camminare.
«No, è evidente che non mi conosci» continuò tracotante,
fiancheggiandomi con la macchina.
Non accennai minimamente a rallentare, anzi accelerai il
passo.
«Ehi! Che fai, scappi? Non è quello che di solito fanno le
ragazze con me. Ma... forse non sai chi sono» se ne uscì.
«Sì che lo so» replicai aspra.
«Però io non mi ricordo di te. Dovrei?» mi sbeffeggiò.
Alzai gli occhi al cielo. Non sono certo una delle tue gattine,
sempre pronte a fare le fusa, pensai.
«Immagino di no. Comunque, sono Jessica, la nipote di Joe.
Abitiamo in fondo alla strada, ti dice niente?»
«Joe… chi?»
«Jenkins. Joseph Jenkins. Hai presente Arnold, il giardiniere?
Mio nonno è il signore che lo aiuta» ribadii alterata.
«Aaah… l'aiutante del giardiniere» sottolineò divertito.
Lo fulminai con lo sguardo. L’idea che mi ero fatta di Alan
Muller diventava vera ogni secondo di più. Ripresi a camminare
svelta, decisa ad allontanarmi il più velocemente possibile da
quell'essere spocchioso.
«Ehi, aspetta!» Tirò il freno a mano e scese dalla macchina in
un lampo.
«Senti… non volevo offenderti, ok?» Sembrava imbarazzato.
Oppure continuava a fare il cicisbeo?
«Ok» borbottai indecisa.
Un cellulare dentro la macchina squillò. Con scioltezza, Alan
infilò la mano attraverso il finestrino e lo prese dal cruscotto,
scambiò due battute veloci, poi tornò a guardarmi.
«Scusami… ehm, come hai detto che ti chiami?»
«J-E-S-S-I-C-A» scandii, irritata.
«Jessica, sì. Devo passare dall'ufficio di mio padre prima della
scuola e sono quasi le sette e trenta. Ci si rivede, eh?» mi strizzò
l'occhio e scattò verso la portiera.
Guardai l'orologio e spalancai gli occhi.
«Cosa? Le sette e trenta?» balbettai. «Cavolo, perderò
l’autobus!» e iniziai a correre.
Lui salì in macchina e mi raggiunse.
«Dai, salta su!» gridò, abbassando il vetro elettrico.
Scossi l'indice della mano sinistra. Non avevo nessuna voglia di
farlo.
«Eh dai! Ti do uno strappo» insistette, seguendomi con la
macchina.
«Non… credo… sia… una… buona… idea.»
«Prometto che farò il bravo.» Aveva un tono canzonatorio.
Mi fermai a riprendere fiato, piegandomi in avanti
boccheggiante.
«Tra quanto passa l'autobus?»
Guardai di nuovo l'orologio e alzai tre dita.
«Tre minuti? Fra due siamo lì, salta su.»
«Ok» ansimai mentre salivo ma, appena la portiera si chiuse,
me ne pentii.
«Vedi, non era poi così difficile» sentenziò, affondando il piede
sull’acceleratore e facendo stridere le gomme sull’asfalto.
Mi aggrappai al sedile e in un attimo arrivammo all'incrocio
con la provinciale: sulla sinistra il Gipsy Bar, la gelateria e il
negozio di generi alimentari del signor Gross; a destra la fermata
dell'autobus.
«Siamo arrivati!» esultò, inchiodando a pochi metri dalla
pensilina. Ovviamente, tutti i presenti si girarono.
«Sì… ehm, grazie» mormorai, scendendo svelta dalla
macchina.
«Alla prossima!» E partì a razzo suonando il clacson, attirando
ancor più l'attenzione, semmai ce ne fosse stato bisogno.
I giovani in attesa dell'autobus salutarono calorosamente, poi si
volsero verso di me. Imbarazzatissima, raggiunsi la fermata a
capo chino. Alcuni dei ragazzi che incontravo lì ogni giorno
fecero un cenno, altri invece sogghignarono. Nel mucchio c'era
anche Megan, una ragazza del quarto anno, che continuava a
fissarmi con aria interrogativa e insistente.
Dopo neanche un minuto, per fortuna, l'autobus sbucò da
dietro una curva, distraendo il mio pubblico e liberandomi dai
riflettori. Accostò, aprendo le porte con il caratteristico sbuffo
pneumatico, e la ciurma vociante salì scomposta, sotto lo sguardo
divertito dell’autista che ogni dì doveva sentirne delle belle
durante quel tragitto. Mi accomodai verso il fondo, evitando però
le ultime file. Quei posti erano riservati ai nonni, i ragazzi del
quarto anno. Il seggiolino accanto a me era rimasto libero e vi
sistemai lo zaino, poi una voce mi distrasse.
«Posso?» chiese Megan, indicando il sedile vuoto.
«Oh… ma certo, accomodati pure» risposi sorpresa.
Ci vedevamo tutti i giorni, anche se in realtà non ci
conoscevamo granché. Era una bella ragazza, con i capelli corti
spettinati e un sorriso affascinante. Non mi aveva mai rivolto più
di un “ciao” e ora si era seduta accanto a me. La cosa mi suonò
strana, ma cercai di darmi un’aria rilassata.
«Fai il terzo anno, vero?» chiese.
«Esatto, tu invece sei al quarto?»
«Sì, proprio così.» Aveva rotto il ghiaccio. «Non abbiamo
occasione di parlare spesso, ma…» abbassò lo sguardo, «a costo
di passare per impicciona, volevo chiederti… per caso esci con
Alan Muller?»
Ah, ecco. Ora la cosa aveva un senso.
«Chi? Io? No, assolutamente! Perché… lo chiedi?» Ero di tutti
i colori.
Sorrise nervosa e imbarazzata a sua volta.
«Ecco… niente. È solo che… Alan e io siamo amici e… non lo
avevo mai visto accompagnare nessuna alla fermata dell’autobus.
Mi è sembrato… insolito.»
«Ah… beh, ero in ritardo e… comunque mi ha solo dato uno
strappo» riuscii ad argomentare, sempre più a disagio.
«Oh, ma certo… va bene. Ora raggiungo gli altri. Scusa se…
beh, hai capito, vero?» mi salutò.
Feci un sorriso tirato e mi voltai a guardare fuori dal finestrino,
sempre più sbalordita. Il solo fatto di essere vista in compagnia di
Alan era sufficiente a dare adito a pettegolezzi?
Anche se mi sembrava assurdo, evidentemente le cose stavano
così.
Alle otto meno dieci, il pullman si fermò alla pensilina
adiacente alle scuole. Scesi accodandomi alla marmaglia di
giovani che in breve raggiunse il cortile dell'edificio. Vagai con lo
sguardo in cerca della lunga chioma bruna di Sally, senza riuscire
a scorgerla, per cui mi intrufolai in quella giungla di corpi per
cercarla. Passando tra i ragazzi percepivo stralci di conversazioni
e odori. Alcuni studenti stavano sperimentando gli effetti della
tempesta ormonale e, in preda a slanci romantici, si
sbaciucchiavano stretti stretti. C'era chi chiacchierava e rideva
sguaiatamente, chi ascoltava l'MP3 in solitudine e chi si radunava
per fumare una sigaretta in compagnia.
«Finalmente!» mi raggiunse Sally eccitata.
«Allora, cosa c’è di così importante da non potermi dire per
telefono?»
«Oh, Jess! Non sto nella pelle!» disse con aria sognante, le
mani al petto.
«C’è di mezzo un ragazzo» esclamai a colpo sicuro.
«Oh, sì!» Mi abbracciò eccitata. «Questa volta sono davvero
partita. Non riesco più a mangiare, non riesco più a dormire.
Penso solo a lui.»
«Chi è il fortunato?» sogghignai.
«Alan!»
«Alan… Muller?»
Sally annuì, elettrizzata.
«Beh… racconta» suggerii, mentre un campanello d’allarme
mi suonò nella testa.
«Dunque, sabato scorso ho accompagnato mio fratello Mike al
centro commerciale, per comprare un regalo alla sua ragazza e,
quando siamo usciti dal negozio, chi incontro al bar? È troppo
fico! E mio fratello per una volta ne ha fatta una giusta. Entrambi
giocano nella squadra di football della scuola. Sai, si conoscono
e… me l'ha presentato!» Sally, al culmine dell'esaltazione, si era
alzata in piedi e parlava con un tono di voce a dir poco squillante.
«Ok, ok, ma non ti sembra di correre troppo? L'hai visto solo
una volta.»
«Due» precisò, alzando indice e medio della mano destra.
«Ieri, casualmente, sono andata a vedere un allenamento, perché
mio fratello aveva promesso di accompagnarmi di nuovo al
centro commerciale e… ci siamo visti ancora.» L’espressione
birichina sul suo viso la diceva lunga.
«Casualmente, vero?» sottolineai.
«Fa il quarterback e gioca da dio. Oh, avresti dovuto vederlo!
E poi, quando se n'è andato, mi ha fatto l'occhiolino!»
Sorrisi incerta. Sally era una brava ragazza, ma perdeva
facilmente la testa quando c'era un ragazzo di mezzo. Dovevo al
più presto raccontarle ciò che era successo, prima che le
chiacchiere montate ad arte dal passaparola potessero creare
fraintendimenti tra noi.
«Pensa, l'ho incontrato proprio stamattina: stavo per perdere
l’autobus, ma per fortuna mi ha accompagnato alla fermata» dissi
con estrema tranquillità.
«Cosa? Com'è successo?» e mi prese per le spalle,
scuotendomi.
«Calmati, ti racconto tutto!» risi, ma in quel momento la
campanella suonò, richiamando tutti all’ordine.
«Accidenti» sbuffò lei, gettandosi i lunghi capelli bruni dietro
le spalle. «Ok, niente panico! Alla ricreazione mi racconti tutto,
d’accordo?»
«Certo, stai tranquilla. Altrimenti so benissimo che mi darai il
tormento.» I suoi atteggiamenti mi divertivano sempre.
Sally sospirò sorridendo e mi prese a braccetto. Seguimmo il
fiume ciarlante di studenti che si insinuò disarticolato su per le
scale, fino a raggiungere le aule, sigillate poco dopo dagli
insegnanti.
Le prime due ore di inglese scivolarono via abbastanza
velocemente e, quando il suono della campanella annunciò la
fine dell'ora di storia e l'inizio dell'intervallo, Sally era già in pole
position.
«Allora, com’è che ti ha dato un passaggio?»
«Sai che Alan abita poco lontano da nonno Joe, no? Beh, come
ogni mattina, stavo passando davanti alla villa dei Muller e mi ero
fermata a guardare le siepi, quando lui è sbucato fuori dal
cancello sul suo macchinone e mi ha vista.»
«E allora? Cos'è successo?»
«Ci siamo messi a parlare… delle siepi animalesche e, mentre
lui mi prendeva in giro, mi sono accorta che ero in ritardo
pauroso e ho cominciato a correre!»
«Ah… e lui?»
«Siccome era stato parecchio sbruffone con me, forse si è
sentito in colpa e si è offerto di accompagnarmi alla fermata.»
«Ah… e tu?»
«Non volevo salire in macchina, sai come la penso, ma era
talmente tardi… se non avessi accettato non sarei arrivata in
tempo.»
Lei mi fissò con aria cupa.
«Dimmi la verità, piace anche a te?»
«No, assolutamente!» dichiarai, alzando le mani. Non potevo
crederci: quel giorno era la seconda volta che me lo chiedevano.
«È stata una semplice coincidenza, tranquilla.» Le misi una
mano sulla gamba per rassicurarla.
«Ah, meno male!» sospirò, appoggiando la testa sulla mia
spalla. «Però, che carino, vero? Fermarsi per darti uno strappo.
Magari fosse capitato a me!»
Scoppiai a ridere insieme a lei. Non c'era niente da fare: Sally
era così, incorreggibile.
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«Oh, eccoti qui» mi accolse nonno Joe sulla soglia di casa.
«Com'è andata oggi?»
«Abbastanza bene, se non fosse che, all'ultima ora, alla prof di
matematica è venuto in mente di rifilarci una verifica per la
prossima settimana.» E crollai sul divano.
«Ci sono gli spaghetti. Te li scaldo?»
«Sì, grazie!» Avevo proprio voglia di un piatto di pasta con il
sugo del nonno. Rapida, portai lo zaino di sopra e dopo essermi
sciacquata il viso e indossato le pantofole, tornai di sotto, con lo
stomaco che già brontolava per la fame. «E voi, come procedono
i lavori a villa Volta?» chiesi, avvicinandomi a Joe mentre
armeggiava con i fornelli.
«Oggi pomeriggio ci aspetta una bella sfacchinata, e pure
disgustosa. Non hai idea di quello che abbiamo trovato scavando
per togliere le erbacce.»
«Cioè?»
«Ricordi che la signora Figg aveva una vera ossessione per tutti
i suoi gatti?» disse, porgendomi il piatto di spaghetti fumanti.
«Certo. Un giorno con Danny ne avevamo contati almeno una
ventina» risposi, iniziando a mangiare.
«Evidentemente, ogni volta che uno dei suoi tesori ci lasciava
le penne, non voleva separarsene, così… li aveva nascosti in
giardino.»
Mi bloccai a metà di un boccone, con il ribrezzo che si
allargava sul viso. Quella povera donna aveva sotterrato i suoi
gatti nel prato di casa, trasformandolo in un cimitero felino.
«Il lavoro è più lungo del previsto e solo per ripulire ci vorrà
tutto il pomeriggio. Perciò pensavo, visto che tu devi studiare,
che ne dici se per cena prendiamo una pizza?»
Sorrisi entusiasta. «Nonno, sei un grande!» E alzai il pollice.
Con Joe era così, spesso non era necessario parlare, e anche
per questo trasferirmi da lui era stata la scelta migliore. Mia
madre non rientrava tanto spesso dalle trasvolate, per cui il
nonno e io c’eravamo a poco a poco integrati nella gestione della
casa e ce la cavavamo piuttosto bene.
Quando terminai di mangiare, Joe se n'era già andato. Sistemai
la cucina, dopodiché salii al piano di sopra, pronta a darmi da
fare per la verifica di matematica del lunedì seguente. Non avevo
certo intenzione di passare tutto il fine settimana a studiare e,
memore dell’estate precedente in cui avevo dovuto rimediare a
un’insufficienza, sapevo esattamente quale fosse la ricetta
magica.
Perciò quel pomeriggio, mentre fuori si scatenava un
temporale, mi propinai un bel ripasso delle regole sulle derivate,
e a seguire un’abbondante batteria di esercizi. Dopo diversi
successi e qualche esclamazione colorita, mi accorsi che erano
quasi le sei: richiusi libro e quaderno, ciò che avevo fatto poteva
bastare. Mentre sistemavo la scrivania, il telefono squillò.
«Ciao Jess. Mi spiace interromperti, ma Arnold e io avremmo
bisogno del tuo aiuto. Eravamo venuti in bicicletta, ma qui
continua a diluviare... ci verresti a prendere con Barney?»
«Cosa?» esclamai esterrefatta.
Nonno Joe possedeva un vecchio pick-up verde, un Ford F250 degli anni ’80, ormai un pezzo d’epoca, dove solitamente
caricava gli attrezzi più grossi o la spesa. Da sempre lo chiamava
Barney, perché diceva che aveva la stessa voce di un suo lontano
prozio, piuttosto brontolone.
«Ehm… nonno, nell’abitacolo non ci stanno più di due
persone, anche a stringersi. Il terzo dove lo mettiamo?»
«Nel cassone, ovviamente, insieme alle biciclette» e rise con
Arnold a spalleggiarlo. «Allora, vieni?»
«E va bene, arrivo.»
Avevo guidato diverse volte quell'aggeggio dal rombo
imbarazzante, sotto lo sguardo divertito di Danny che,
destreggiandosi sul trattore grosso tre volte tanto, mi sfotteva a
causa della mia scarsa scioltezza, soprattutto in curva.
Mi buttai addosso una giacca e corsi alla rimessa. Entrai
nell’abitacolo e girai la chiave d’accensione: il motore si accese
scoppiettante strappandomi un sorriso. Goffamente, ingranai la
marcia e, poco a poco, lasciai il pedale della frizione. Appena
fuori dal garage, lo scroscio d'acqua mi investì e non vidi più
nulla: avevo dimenticato di accendere fari e tergicristalli, ma
reagii subito evitando di combinare guai.
La villa non era molto lontana, ma il percorso si srotolava in
salita tra diversi tornanti, fino alla sommità della collina.
La tempesta imperversava, senza alcun accenno a calmarsi.
Diversi lampi illuminavano la via, mentre i tuoni facevano
tremare l'aria. E poi, avevo timore che qualcuno mi vedesse e
potesse riconoscermi.
Avanzai senza eccedere con la velocità, non volevo rischiare di
perdere il controllo sul fondo bagnato. Vidi due fari venirmi
incontro e trattenni il fiato fino a che riconobbi l’auto dei Bert,
che lampeggiarono scambiandomi per Joe; poco più su,
oltrepassai una berlina blu che non riconobbi, ferma sul ciglio
della strada. La situazione era sotto controllo.
Avevo quasi raggiunto la cima della collina e, mentre
costeggiavo uno dei campi di grano dei Garret, colsi con la coda
dell’occhio qualcosa che sfrecciava lungo il boschetto, sul lato
opposto. Doveva trattarsi di qualche animale selvatico, un
procione o una volpe: era una zona di collina e non era difficile
incontrarne alcuni. Incuriosita, accostai per un attimo e, dopo
aver pulito alla meglio il finestrino coperto di condensa, vi
appoggiai la fronte e rimasi in attesa.
Per la seconda volta vidi passare qualcosa nel bosco, ma ero
quasi certa che non si trattasse di un animale. C'era qualcuno che
correva tra le piante. Forse un escursionista che raccoglieva
funghi era stato sorpreso dalla tempesta. O da un istrice.
Sorrisi all'idea del povero malcapitato di fronte alla corona
minacciosa di aculei, poi ripartii. Fatte altre due curve finalmente
arrivai a casa Volta. Il cancello automatico era aperto, lo
oltrepassai e adocchiai due uomini in verde che da sotto la tettoia
cercavano di attirare la mia attenzione agitando le mani.
«Meno male! Il signor Volta è appena partito per andare in
città e non c’è più nessuno in casa» disse Arnold.
«Era per caso una berlina blu? Ne ho incontrata una poco fa»
scesi dal pick-up.
«Esatto. Si era offerto di darci un passaggio, ma ho detto che
stavi arrivando con Barney» replicò nonno Joe, orgoglioso,
mentre caricavamo le biciclette.
«Vado io dietro» proposi, precedendo Arnold. «Non ho
problemi a rannicchiarmi.»
Mi infilai nel cassone coperto dal telo cerato, accanto alle bici,
e mi aggrappai alle sponde per non ribaltarmi durante il tragitto.
Trovai questa esperienza alquanto divertente e, mentre il
tettuccio sembrava sotto il fuoco di una mitraglia, mi sporsi a
guardare oltre il portello posteriore. Eravamo quasi giunti in
prossimità del boschetto ed ero curiosa di vedere se qualcuno
fosse sbucato fuori. Notai che gli scrosci d’acqua e la grandine
avevano piegato diverse spighe, dando al campo un aspetto
spelacchiato.
Poi, tutt'a un tratto, lo vidi.
Là, nel campo di grano, sotto la pioggia insistente, riuscii a
scorgere a malapena la figura di un giovane, i capelli fradici che
sbattevano sulle spalle nude mentre correva.
Cosa ci faceva là in mezzo con un tempo simile? Che fosse
Danny?
No, impossibile. Provai a osservarlo meglio. Filava via
zigzagando, come se stesse seguendo un percorso preciso,
invisibile, e andava velocissimo.
Poi, si girò verso di me e improvvisamente sparì dalla mia
visuale.
Che fosse scivolato sulle spighe bagnate?
Mi sporsi ancora un poco per vedere se il ragazzo si rialzava,
ma non riuscii più a scorgerlo.
Sorpassato l'incrocio che portava a casa nostra, tirammo dritto
verso quella di Arnold, che si trovava appena dopo la villa dei
Muller, quasi all’inizio della strada.
«Proseguiamo per la pizza» mi disse il nonno, mentre aiutava
l’amico a scaricare la bici.
Mi trasferii rapida nell'abitacolo di Barney, accanto al nonno e,
circa quindici minuti dopo, raggiungemmo la pizzeria. Lasciai Joe
in macchina, entrai e ordinai. Mentre aspettavo, non feci che
ripensare a ciò che avevo visto, al giovane sconosciuto scomparso
davanti ai miei occhi. Presi i cartoni fumanti e mi infilai di corsa
in auto: forse anche il nonno lo aveva intravisto.
«Allora, com'è andata con il ripasso?» disse Joe, entrando in
casa e togliendosi la giacca bagnata.
«Bene, direi che sono a posto. E voi?»
«Siamo riusciti a bonificare il prato. Non ti dico quante
carcasse di gatto abbiamo dissotterrato. Poi ha cominciato a
diluviare e siamo stati costretti a dedicarci ai rinvasi in serra. Ci
vorrà ancora un bel po' di lavoro.» Scosse il capo.
Attesi qualche minuto e poi mi decisi a parlare: «Nonno, hai
notato qualcosa mentre costeggiavamo il campo dei Garret,
quello vicino al boschetto?»
«Ero troppo impegnato a cercare di non sbandare, con tutta
quell'acqua sulla strada. Perché me lo chiedi?»
Esitai. «No… niente. Mi era sembrato di aver visto qualcosa
tra il grano.»
«Probabilmente era un procione o... un istrice. Là dentro ne
girano parecchi e anche belli grossi» rise. «L'altro giorno, Arnold
stava venendo a prendermi e se n'è trovato davanti una dall'aria
tutt'altro che amichevole. A momenti andava a finire nel campo
per lo spavento.»
«Mh, forse è così» tagliai corto, addentando l’ultimo pezzo di
pizza.
La mattina seguente mi svegliai di buonora, dopo una nottata
tranquilla. Scesi in cucina e cominciai a stilare la lista per la spesa
e, mentre giocherellavo con la penna, il mio sguardo si fermò
sulla giacca da giardinaggio del nonno. Per un momento ripensai
a quanto accaduto il giorno prima, a quello strano episodio. La
cosa poteva avere diverse spiegazioni, dall'escursionista in cerca
di funghi al povero malcapitato che tentava di scappare da un
istrice all'attacco. Scossi la testa e scrollai le spalle, prelevai i soldi
per la spesa e decisi che l’argomento era chiuso.
Uscii, e quasi subito percepii qualcosa di strano nell'aria, senza
però riuscire a capire di cosa si trattasse. Andai al garage per
prendere la bicicletta della nonna, quella con il cestino anteriore,
la inforcai e mi diressi verso il crocevia. A quel punto, mi accorsi
dell'imponente numero di macchine, persone e furgoni
parcheggiati alla meglio lungo la strada che portava alla collinetta,
sul limitare dei campi dei Garret. Un elicottero stava sorvolando
la zona.
Rallentai per osservare meglio. Doveva essere successo
qualcosa di grosso, di grave, qualche avvenimento tragico poiché
c'era anche la televisione. Cosa ci faceva là?
Con cautela cambiai direzione, cercando di avvicinarmi il più
possibile e, in mezzo a tutte quelle teste, scorsi la chioma
castano-dorata di Danny: stava scrutando quel pandemonio,
indubbiamente contrariato.
«Ehilà!» gridai, sperando di attirare la sua attenzione. Si volse
e, quando mi individuò, fece cenno con la mano incamminandosi
verso di me. «Che succede?»
«Non hai guardato le notizie stamattina?»
«N-no… perché?»
«Beh, qualcuno si è divertito a rovinare i nostri campi»
affermò irritato.
Sospirai, se non altro nessuno si era fatto male.
«In che senso, “rovinare”?»
«Vieni, è meglio che tu veda.» Mi fece strada e il tesserino
distintivo che aveva al collo penzolò di lato.
Camminammo tra le spighe, sorpassando operatori televisivi,
giornalisti e poliziotti; due uomini con indosso la tuta in TNT
rilevavano le radiazioni con il contatore Geiger, altri erano
impegnati a misurare le dimensioni dell’area interessata.
«Ecco, guarda là» e indicò un punto a diversi metri da noi.
Con lo sguardo seguii la direzione della sua mano, pur non
potendomi avvicinare oltre – era tutto rigorosamente sbarrato –
riuscii comunque a intravedere la stranezza delle spighe, che
sembravano tutte piegate verso il terreno, come se qualcuno le
avesse schiacciate. Strinsi un po’ gli occhi e misi a fuoco cosicché
il cervello riuscì a fare il collegamento: le piante di grano non solo
erano state pressate, ma avevano assunto una forma geometrica
ben precisa.
«Voi chi siete? Non si può rimanere qui» ci riprese un
poliziotto.
«Daniel Garret, signore, e questo è il mio campo» replicò
Danny alzando il tesserino distintivo.
«D’accordo, ma per il momento non è permesso calpestare la
zona, perciò è meglio che vi allontaniate. Mi spiace, sono le
direttive degli esperti.»
«Sì, sì. Ho capito. Vieni, Jess.» E scosse la testa.
Tenendomi per mano, mi guidò fino al limitare del campo,
dove sostavano diversi furgoni dell’emittente televisiva locale.
Proprio in quel momento, stavano trasmettendo uno dei primi
servizi della mattina.
Danny si fermò indicando uno dei monitor. «Ecco, guarda.»
“…È di questa mattina la notizia del rinvenimento dello strano
fenomeno. Ad avvertire le autorità, è stato il proprietario del
terreno, il signor Garret. Alle sei, si era alzato per verificare i
danni che il terribile temporale della notte scorsa aveva causato al
suo raccolto e invece, si è trovato davanti ben altro…”
Le immagini, riprese dall'alto, forse dallo stesso elicottero che
volteggiava sopra la zona, mostravano uno spettacolo
impressionante. Le spighe di grano erano ricurve su loro stesse, a
formare una geometria ben più complessa di quella che avevo
potuto intravedere poco prima. Dentro una grande circonferenza
si alternavano corone di diametro decrescente, all'interno delle
quali decorrevano semicerchi che si susseguivano ora in senso
orario, ora antiorario, mano a mano che gli anelli divenivano più
piccoli. Era come vedere migliaia di onde in movimento,
un'incredibile illusione ottica, qualcosa di bellissimo e totale,
capace di catalizzare l'attenzione.
«Mio Dio! È… un crop circle!»
«Già» replicò Danny, con aria seccata. «Quando mio padre è
rientrato gridando, abbiamo temuto che fosse accaduta una
disgrazia. Invece… beh, hai visto anche tu. E questo casino solo
per aver avvertito chi di dovere.»
«C'era da aspettarselo» commentai, continuando a guardare
meravigliata.
«Mi piacerebbe sapere chi è stato quell'imbecille che si è
divertito tanto!»
«Danny, ma ti rendi conto?»
Mi guardò con sufficienza. «Non mi dirai che credi alla storia
degli ufo anche tu. Dai, Jess! È una bufala colossale.»
«Ecco… non dico che sia vero per forza, ma la cosa è
assolutamente incredibile.»
Alzò gli occhi al cielo, già stufo di tutto quel clamore.
«Senti» attaccò la ramanzina, «bastano un paio di persone
munite di corda, asticelle e un minimo di metodo e il gioco è
fatto. Su YouTube c'è persino il video!»
«Tu riusciresti a farlo?» lo provocai serafica.
«Oh beh… ho ben altro da fare che perdere tempo in queste
cose, ma con un po' di allenamento e un aiuto… sì, credo proprio
di sì.»
Aprii la bocca per ribattere, poi decisi di lasciare stare.
Conoscevo abbastanza Danny e questo era il genere di cose che
non poteva tollerare. Fin dall'inizio della nostra amicizia, avevo
intuito che tipo fosse: un ragazzo adorabile, ma con i piedi ben
piantati per terra. Fin troppo.
«Vorrei rimanere ancora un po', ma è meglio che vada. Ero
uscita per andare dal signor Gross e con tutta questa gente chissà
quanto ci metterò.»
Danny annuì sbuffando e mi salutò.
Tornai indietro e raggiunsi la bicicletta, ma per un discreto
tratto fui costretta a spingerla a mano, tanto era intenso il
traffico. Impiegai almeno il doppio del tempo che solitamente mi
ci voleva per raggiungere il negozio e, una volta arrivata, trovai
una fila di persone che debordava dalla porta. C'era la stessa
ressa presente vicino al campo, dietro al bancone il signor Gross
non sapeva chi servire prima. Non era mai capitata una massa di
gente simile e tutta in una volta, per cui ad aiutarlo c’erano la
moglie e anche la sorella, che normalmente si presentava solo in
occasioni speciali, come il Giorno del Ringraziamento o Natale.
A fatica riuscii ad arraffare un po' di lattuga, alcuni pomodori e
una confezione di prosciutto, ma per il pane dovetti rassegnarmi.
«Il fornaio è già tornato a rifornirci quattro volte da
stamattina» disse il signor Gross, sconcertato ed eccitato al
tempo stesso.
Sorrisi porgendogli i soldi e raggiunsi a tentoni la bicicletta.
Nel tornare indietro, la calca era aumentata ancora e il traffico
era ormai fermo. Mi avviai, zigzagando tra le vetture, ma erano
talmente fitte che dovetti scendere e spingere la bicicletta a
mano.
Dopo circa quaranta minuti, raggiunsi finalmente casa del
nonno che, seduto sotto il portico, guardava con aria sorpresa
l'ammasso di macchine e persone che si scorgevano in
lontananza, qualcosa che mai avrebbe creduto di vedere.
«Hai visto che roba, Jess?»
«Da non crederci. Ho incontrato Danny e mi è parso molto
contrariato... sai com'è fatto.»
«Oh, posso immaginarlo. Quando era piccolo, non si poteva
raccontare una storiella, una favoletta senza che saltasse su,
sospettoso. Figuriamoci gli ufo!» terminò, alzando le sopracciglia.
«Tu cosa ne pensi?»
Il nonno si massaggiò il mento.
«Uhm… non saprei. L'idea degli alieni mi sembra troppo
grossa, però anche la leggenda di qualcuno che durante la notte
si diverte con corde e bastoni… se io avessi un talento così lo
sfrutterei in modo diverso.»
Mentre preparavo il sugo, ragionai sulle parole del nonno. In
effetti, era difficile credere che qualcuno creasse i crop circle
come forma d'arte o per svago, e poi non li rivendicasse in
qualche modo. Salvo che il divertimento stesse proprio
nell'alimentare le diverse teorie, tra cui quella degli ufo o delle
sperimentazioni militari. Non sapevo a quale dare credito, quale
fosse la più strampalata, ciononostante quella figura aveva su di
me un certo fascino e mi incuriosiva. Decisi che più tardi sarei
tornata a vedere l'agroglifo, perché comunque, qualsiasi fosse la
sua origine, per me era bellissimo e, calca permettendo, avrei
potuto osservarlo meglio.
Nel pomeriggio, cercai di mettermi avanti il più possibile con i
lavori di casa, così da ritagliare un po' di tempo per andare al
campo e, finalmente, poco prima di cena, ci riuscii. Presi la bici e
pedalai fino alla diramazione. C'erano ancora parecchie persone
attorno alla zona, compresi furgoni televisivi e automobili della
polizia, ma avevano transennato la strada, così che le macchine
non autorizzate non intralciassero più il traffico. Vidi Danny e lo
raggiunsi.
«Allora, si sa qualcosa?»
«Domani torneranno con i risultati delle prime analisi.
Stamattina hanno prelevato parecchi campioni in diversi punti
del campo.»
«Però, devi ammettere che è davvero notevole.»
«Sì… beh, per essere solo spighe di grano…» Passò una mano
sulle piante, ne prese una e la infilò delicatamente dietro al mio
orecchio, tra i miei capelli ricci.
Gli sorrisi e lui spostò subito lo sguardo.
«Rimarrei volentieri qui con te, ma con tutto questo caos il
lavoro è rimasto indietro. Mio padre mi aspetta. Ci vediamo
presto, Jess.»
Lo guardai mentre si allontanava. Danny era un ragazzo
perbene, educato e molto carino: di corporatura media, alto e
snello, occhi grigio-verdi e lineamenti delicati. Più di una volta mi
era venuto il sospetto che avesse un debole per me, ed erano
proprio le situazioni come questa – oltre alle allusioni poco velate
di Sally – a farmelo pensare. Quello strano imbarazzo che lo
catturava subito dopo un gesto premuroso o galante, facevano
supporre che dietro l’amicizia potesse esserci qualcosa di più.
Lentamente, mi avviai lungo il bordo del campo. Al suo
interno avevano delimitato il perimetro del pittogramma con il
nastro giallo e nero. Lo ammirai senza avvicinarmi troppo,
passeggiandogli attorno in tutta calma, sfiorando con la punta
delle dita le spighe che mi solleticavano le mani. Nell’aria,
l’inconfondibile profumo del fieno appena tagliato, dell’estate
alle porte. Mi sembrava di essere dentro un film, tanto la
situazione era surreale, e mi dimenticai del tempo che passava. Il
sole si stava nascondendo dietro l’orizzonte e ormai era ora di
rientrare. Le macchine parcheggiate in fondo alla strada
cominciavano ad andarsene, tuttavia diversi curiosi insistevano
trattenendosi per scattare altre foto.
Ancora immersa nell’atmosfera suggestiva, inforcai la bici e
iniziai a pedalare, talmente assorta che rischiai di andare a
sbattere contro un’Audi blu. Nel tentativo di schivarla, girai
troppo in fretta il manubrio, che mi scappò di mano e mi fece
perdere l’equilibrio. Per fortuna atterrai sul morbido, tra le
spighe.
L’auto inchiodò, attirando l’attenzione di diverse persone che
per un attimo disdegnarono il campo.
«Tutto bene?»
La voce che mi interrogò era bassa e preoccupata, mentre una
mano calda mi sfiorava il braccio.
Alzai lo sguardo, irritata, ma un’ondata di profumo speziato mi
colpì, confondendomi. Chino accanto a me, un giovane con
occhiali scuri, capelli corvini raccolti in una coda dietro la nuca,
stava tentando di farmi rialzare. Mi parve di riconoscerlo, doveva
essere un Volta, quello che frequentava l’ultimo anno.
«Sto bene...» protestai. Ero pronta a rincarare la dose, ma le
parole mi morirono sulle labbra quando alzai lo sguardo. Di
fronte a me c'era il ragazzo più bello che avessi mai visto.
Sollevò gli occhiali, appoggiandoli sulla testa, e mi accorsi che
era molto serio. Aveva l'aria turbata, lanciava occhiate nervose
ovunque, esprimendo disagio, però mantenne la presa sul mio
braccio. Sembrava che avesse la febbre tanto bruciava la sua
pelle. Poi spostò l'attenzione su di me e, per un attimo soltanto, i
suoi occhi incrociarono i miei. Erano blu, di un blu elettrico
talmente profondo e luminoso che sembravano due zaffiri.
«Io… ehm, mi dispiace, non volevo farti cadere.» Era
visibilmente rammaricato. «Stavo per sorpassarti, ma poi hai
deviato all'improvviso e…» abbassò lo sguardo.
«Sì… ecco…» Non riuscivo a mettere una parola dietro l'altra,
tanto ero presa da quei due zaffiri dall’effetto ipnotico. «Non ti
preoccupare, non mi sono fatta niente.»
I nostri sguardi si intrecciarono di nuovo e per un attimo il
mondo parve fermarsi, azzerando tutto. Solo i nostri occhi, uniti
da una forza magnetica sconosciuta.
Il ragazzo si rimise in fretta gli occhiali e lasciò andare il mio
braccio, anche se il calore che mi aveva trasmesso impiegò diversi
secondi prima di scemare del tutto.
«Dove stavi correndo?» chiesi di getto, arrossendo un secondo
dopo.
«Ehm… a casa. Abito sulla collina.»
«Ah già, sei il figlio del signor Volta?»
Abbozzò un sorriso e annuì.
«Oh… ok. Sai, siamo quasi vicini di casa… io sono Jessica
Dawson, la nipote di Joseph Jenkins, il braccio destro del tuo
giardiniere.»
Terminai la frase e avvampai. Non stavo facendo
conversazione, civettavo! Mi vergognai da morire. Non era mia
abitudine essere così estroversa con gli sconosciuti.
Fece un cenno con il capo e si guardò di nuovo attorno. I
curiosi che si erano avvicinati per vedere cosa fosse accaduto,
intuirono che non c’era bisogno del loro aiuto e si dileguarono,
tornando alla vera attrazione.
«Io sono Thomas. Sicura di star bene?»
Avevo la netta impressione che non vedesse l’ora di andarsene
da lì, come se rimanere lo mettesse ancor più a disagio, eppure,
allo stesso tempo, qualcosa lo tratteneva.
«Sì, nessun problema.»
Gettò una rapida occhiata al crop circle, poi tornò a me.
«Scusami ancora, ma… devo andare.» E si diresse alla
macchina.
«Ciao.»
Osservai l’elegante auto blu che si avviava lungo la collinetta.
Salii in bicicletta e, prima di ripartire, questa volta mi accertai che
nessuno stesse sopraggiungendo dalla strada alle mie spalle.
Mentre pedalavo, ripensai a quel viso che pareva cesellato tanto
era perfetto e, soprattutto, al suo sguardo. Non avevo mai visto
due occhi così belli, espressivi e profondi, capaci di mandarmi nel
pallone. Perché poi?
Una volta arrivata a casa, appoggiai la bici nel garage e
raggiunsi nonno Joe in cucina.
«Dov’eri finita?»
«Ero andata a fare un giro al campo dei Garret.»
Mi sfiorai il braccio, nel punto in cui Thomas aveva appoggiato
la mano.
«Cos’hai combinato?» e indicò i jeans sporchi di terra.
«Ah… niente. Sono scivolata dalla bici. Ho visto Thomas
Volta» dissi tutta d’un fiato.
Si voltò a guardarmi e, a stento, trattenne un sorriso. «Pare che
non ti sia dispiaciuto.»
«Nonno!» lo ripresi benevola, ma non potevo biasimarlo.
«Vuoi dire che mi sbaglio?» rise «Sarà, comunque è un bel
giovanotto e questo non guasta.»
Mentre salivo di sopra per andarmi a cambiare, il telefono
squillò. Dallo scambio di battute tra Joe e il suo interlocutore
capii che si trattava di qualcuno che chiedeva dell’evento nel
campo dei Garret. Gettai i jeans sporchi nel cesto della
biancheria e vedendo la terra, ripensai a Thomas.
Chissà perché aveva quell’aria così inquieta? Che dipendesse
dal nostro piccolo incidente?
No, non poteva essere una sciocchezza del genere. Di certo a
turbarlo non potevo essere stata io, con il mio aspetto banale,
comune. O forse sì, avevo rischiato di metterlo in cattiva luce.
Il telefono squillò di nuovo appena giunsi in cucina e stavolta
cercavano me.
«È tua madre» disse il nonno, porgendomi la cornetta.
«Ciao tesoro, come stai? Ho visto i filmati… è incredibile.»
«Già. Non hai idea della confusione che c’è qui. Sai, sono
andata a vederlo da vicino. È bellissimo!» esclamai entusiasta.
«Immagino… come vorrei essere lì con voi» sospirò.
«Beh, questo fine settimana rientri, no? Ci andremo insieme»
proposi.
«Mi spiace, ma c’è stato un cambio di programma. Claire, la
mia collega, è bloccata a letto col mal di schiena e devo
sostituirla.»
Sbuffai in silenzio. «Ah... ok, sarà per la prossima. Ti voglio
bene, mamma» e ci salutammo.
Non era la prima volta che capitava, anzi, a causa della crisi
economica che insisteva, la cosa andava sempre peggio. Con
l’amaro in bocca, raggiunsi il nonno già a tavola, intento a
guardare alcuni servizi sul crop circle. Mangiai in silenzio,
assorta, ascoltando a tratti i commenti e guardando
distrattamente le immagini riprese dall’alto. Erano diverse
settimane che la mamma non rientrava e mi ero convinta che
saremmo state insieme. Poi, quello spettacolo riuscì a catturare di
nuovo la mia attenzione e la delusione per il fine settimana, poco
a poco, svanì.
Finita la cena, sistemai la cucina e me ne andai a letto, ma non
riuscivo a prendere sonno. Continuavo a pensare alle immagini
trasmesse dalla tv. Rivedevo il crop circle, stupendo ed
enigmatico, che da solo avrebbe attirato più gente nella provincia
di Norville che in vent’anni di turismo. Era strano e misterioso, e
si trovava a poche centinaia di metri dal mio letto. E poi, quello
che era accaduto per colpa sua, il quasi-incidente e fortuito
incontro con Thomas. Il ragazzo dagli occhi blu mi incuriosiva,
volevo sapere qualcosa di più su di lui. Quali interessi aveva, chi
frequentava dopo la scuola, che sport faceva, se era solo…
La domenica volò via, più veloce del solito. Durante la
giornata, tra una lavatrice e l’altra, ero più volte sgattaiolata sotto
il portico a sbirciare il via vai di stranieri e avevo notato che
diversi furgoni, con relativa scorta e giornalisti al seguito, si erano
di nuovo appostati per terminare le rilevazioni. E come vuole la
consuetudine, il tutto ampiamente seguito da un variegato
numero di curiosi e pseudo appassionati di misteri a caccia di
foto e video amatoriali.
Solo dopo cena il nonno e io ci liberammo per andare a fare un
salto al campo dei Garret e ammirare l'agroglifo. Quando
passammo vicino al punto in cui ero caduta con la bicicletta, mi
voltai e sorrisi.
«Che c'è?» chiese Joe non vedendo nulla.
«Niente» dissi scuotendo il capo e, delicatamente, mi
accarezzai il braccio.
Il lunedì mattina mi svegliai carica e pronta ad affrontare la
verifica di matematica.
«Dimmi una cosa. Come hai fatto a studiare con tutto il casino
che c'era?» chiese Sally appena mi vide nell’atrio della scuola.
Sventolava una pagina di giornale, la foto in bianco e nero
mostrava il pittogramma tutto transennato nel campo di Danny.
«Guarda, per fortuna mi ero già messa sotto con il ripasso,
altrimenti…»
«Sempre la solita, eh? Io e mio fratello abbiamo provato a
raggiungerti per vedere il crop circle, ma la fila di macchine era
ferma a cinque chilometri da casa di Joe e, dopo più di un'ora di
blocco, ce ne siamo andati. Dai, dimmi com'è?»
«È-è straordinario, bellissimo, anche se non la pensano tutti
così. Danny non è per nulla entusiasta che gli abbiano rovinato il
campo» aggiunsi divertita.
«Il figlio dei Garret, vero? Ti fa sempre il filo, eh?»
«Diciamo che è molto carino con me.»
«Già… senti, se mi pianto con le derivate, mi dai due dritte?»
«E come faccio? Sai benissimo che la prof gira tra i banchi per
controllare. Sarebbe proprio fantastico farsi beccare a una delle
ultime verifiche dell’anno: schiafferebbe una F con doppia
sottolineatura a entrambe» sentenziai ironica.
«È vero, hai ragione» si rassegnò, portandosi una mano alla
fronte.
Entrati in classe, ognuno occupò il proprio posto, in attesa.
Poco dopo, la signora Brown chiuse la porta e raggiunse la
cattedra. Era avviluppata nel solito tailleur di una taglia più
grande, talmente largo che sembrava una vecchia coperta con i
bottoni. Aprì la valigetta, prelevò i fogli con gli esercizi da
svolgere, li appoggiò sul ripiano e li batté più volte per rendere il
plico omogeneo, quindi li depose davanti a sé, osservando tutta
la classe.
«Bene, bene, bene. Naturalmente, ragazzi, mi aspetto che
nessuno di voi, oggi, abbia bisogno di copiare. Ormai l’anno
scolastico è terminato, e sarebbe oltremodo deludente, nonché
oltraggioso, un atteggiamento tanto immaturo. Tuttavia, conosco
le vostre testoline, la vanagloria che vi spinge a osare» e fece un
sorrisetto compiaciuto, «perciò sarò buona: sappiate che i fogli
distribuiti non sono tutti uguali, casomai il concetto non fosse
penetrato a sufficienza.»
In classe si levò un leggero brusio di dissenso mentre la megera
distribuiva i fogli.
«Shhh, iniziate a lavorare. O sarò costretta ad abbassare di un
punto il voto all’intera classe.»
Sottovoce, dalle retrovie, le augurarono le più terribili malattie
purulente.
Sforzandomi di non ridere, gettai un’occhiata alla verifica. Era
impegnativa, con parecchi esercizi da svolgere, ma non
impossibile. Trassi un profondo respiro e cominciai a scrivere.
Di tanto in tanto qualcuno sbuffava, qualcun altro tossiva, altri
ancora si reggevano la testa con entrambe le mani, in preda alla
disperazione, ma in qualche modo le due ore scivolarono via,
lente e pesanti.
Quando la campanella annunciò la fine dell’agonia, avevo
appena completato l’ultimo esercizio. Raccolsi in fretta i fogli e
mi misi in coda per consegnarli.
«Com’è andata?» dissi a Sally, sbuffando, mentre uscivamo
dalla classe.
«Boh, spero di averci preso. E a te? Ma cosa te lo chiedo a
fare» rispose dandomi una leggera spinta.
«Credo bene» sospirai.
«Che fai oggi?» chiese cambiando discorso.
«Ho una montagna di panni da stirare che mi attendono»
risposi, arricciando le labbra. «E tu?»
«Non so… forse vado a vedere mio fratello che si allena…»
«Solo lui?» la provocai.
«Certo che no! Ci vediamo domani» e dopo avermi strizzato
l’occhio se ne andò.
3
L'INCIDENTE
La giornata di sole che di prima mattina mi aveva inebriato, nel
pomeriggio si incupì, favorita da un vento fresco e robusto che
poco a poco aveva radunato cumuli di nuvole scure e minacciose.
Verso sera, il cielo era ormai congestionato, pronto a scaricarsi.
Dopo cena, salii in camera e mi attaccai al pc, sperando che il
maltempo non interferisse troppo con la connessione. Da
qualche mese avevo cominciato a curiosare sulle homepage delle
università, nel tentativo di farmi un'idea sul percorso che
offrivano. In particolare, tenevo d’occhio i forum degli studenti
per avere qualche dritta sui corsi migliori, i servizi offerti e le
lezioni, insomma il polso degli atenei. Tuttavia, ben presto la linea
internet iniziò a singhiozzare, e navigare divenne una tortura.
Spensi tutto e mi coricai, riaprendo il libro che avevo
abbandonato sul comodino, ma la stanchezza che era in agguato
sopraggiunse repentina, facendomi ben presto crollare.
Un rombo davvero potente e vicino mi svegliò di soprassalto:
là fuori si stava scatenando una bella tempesta. Mi alzai e
raggiunsi la finestra, scostai le tende e rimasi contro il vetro, a
scrutare nell’oscurità. Nel cielo di un nero profondissimo di tanto
in tanto si scorgeva una luce lontana, un bagliore dietro gli
ammassi di nubi, rivelando quanto il temporale fosse imponente.
Stavo per tornare a letto, quando una grossa saetta solcò il cielo,
perdurando per alcuni istanti e abbattendosi in direzione del
frutteto.
Rimasi abbagliata diversi secondi, poi inevitabilmente
considerai il punto d'impatto del fulmine e, seguendo l'istinto –
non certo la ragione – infilai le scarpe e scesi di corsa al piano di
sotto. Passando accanto all'attaccapanni, afferrai il k-way e mi
catapultai verso il frutteto, sotto il diluvio.
Ero convinta che la saetta avesse colpito una pianta e quando,
avvicinandomi, vidi un bagliore crepitante, il mio timore
aumentò: qualcosa stava bruciando per davvero. Affrettai il
passo, ma l'erba fradicia e scivolosa mi costrinse a rallentare.
Notai che gli alberi erano tutti integri mentre la recinzione era
ancora in fiamme, nel punto in cui era stata colpita dalla folgore.
A differenza della pioggia che continuava a cadere copiosa e
incessante, i lampi e i tuoni parvero allontanarsi, e ciò mi
convinse che, nonostante la staccionata fosse in parte incenerita,
tutta quell'acqua sarebbe bastata a estinguere il principio di
incendio.
Mi voltai per tornare a casa, ma uno strano ronzio in mezzo
agli alberi mi trattenne. Lentamente, mi volsi cercando di acuire
la vista, sperando di non riconoscere la sagoma di un istrice
spaventato. Il fatto che piovesse non rendeva le cose più
semplici, tuttavia, poco alla volta i miei occhi si adattarono fino a
scorgere un insolito alone azzurrognolo. Perplessa, osservai quella
piccola aura ronzante che sembrava avvolgere qualcosa a livello
del suolo, a pochi metri da me.
Esitante, feci un passo in quella direzione e, d'un tratto, ebbi la
sensazione di non essere sola. Tutto si svolse in una manciata di
secondi. Davanti a me, nel buio, avvertii un brusco movimento.
Presa dal panico, scattai in direzione opposta nel tentativo di
scappare, dimentica della staccionata danneggiata. Scivolai
sull'erba bagnata e, d'istinto, misi le mani avanti per attutire la
caduta, ma il legno incenerito cedette sotto il mio peso,
facendomi precipitare oltre il parapetto.
Poi il buio.
Quando riaprii gli occhi, non sapevo dove mi trovavo e,
nell’oscurità, impiegai alcuni minuti per capire che ero finita in
fondo alla scarpata, distesa in una strana posizione. Ero
completamente bagnata e avevo il sapore del fango in bocca.
Imprecai. Solo una stupida poteva pensare di uscire sola, in
una notte così, e avventurarsi in un frutteto avvolto dal buio. Feci
per alzarmi, ma un dolore acuto mi aggredì la gamba destra.
Anche la fronte mi doleva, vicino all'attaccatura dei capelli.
Quando vi passai sopra le dita, avvertii una superficie irregolare,
sollevata, che bruciava da morire. Tentai di nuovo di mettermi in
piedi, ma scivolai sul terreno fangoso e una fitta lancinante mi
attanagliò la caviglia, costringendomi a urlare. Tra i singhiozzi,
allungai una mano tremante per toccarla: era gonfia e priva di
stabilità.
Gridai ancora, consapevole di quanto inutile fosse quel gesto.
Ero troppo lontana dalla casa del nonno, e comunque lo
scrosciare dell’acqua avrebbe coperto la mia voce. Lacrime di
dolore e desolazione scesero lungo le mie guance, mescolandosi
alle gocce di pioggia che ricadevano su di me.
«E adesso?» mormorai avvilita. Poi, di nuovo, mi sentii
osservata.
Con il cuore in gola, guardai su, verso il ciglio della scarpata:
c’era una sagoma sul bordo. Che fosse Joe?
«Nonno, nonno! Sono qui!» gridai con voce strozzata,
allungando le dita verso l’alto.
Non udii alcuna risposta, e nell’oscurità, persi ogni riferimento.
La disperazione si fece largo dentro me, e strillai di rabbia. Stavo
male, avevo freddo e mi girava la testa. Con voce sempre più
fioca implorai aiuto, ma un capogiro terribile mi investì e poi
tutto si spense.
«Ecco, così! Piano, attenzione alla testa.» Era una voce appena
percepibile, come se fosse lontana.
Mi spostarono di peso su una superficie dura e fredda, mi
sollevarono, poi qualcuno sfiorò la gamba strappandomi un
gemito di dolore.
«Jessica, mi senti? Forza, apri gli occhi» disse di nuovo la voce
di poco prima, che si stava facendo più chiara.
A fatica, socchiusi le palpebre e intravidi un uomo con la divisa
del Pronto Intervento che mi osservava attentamente. Anche gli
altri sensi si stavano riprendendo, e nonostante la mia posizione
coricata, riuscii ad avvertire la presenza di altre persone nelle
immediate vicinanze, con un continuo viavai attorno a me.
«Chiamate Joe. Si sta riprendendo» disse lo sconosciuto che
avevo accanto, facendo un cenno a qualcuno.
Poco dopo il nonno sopraggiunse chiaramente turbato e,
vedendo che ero cosciente, mi accarezzò il viso.
«Jess, grazie a Dio! Mi hai fatto prendere una bella paura,
sai?»
Il paramedico che mi stava fissando le cinture di contenzione
disse che era ora di andare e spinse la barella sulla quale mi
avevano adagiato verso l'ambulanza; in attesa di essere caricata,
notai che aveva smesso di piovere.
«Cos’è successo?» chiesi confusa.
«Sei caduta giù per la scarpata» rispose il nonno.
Non mi andava di starmene sdraiata ma, quando tentai di
mettermi seduta, un'improvvisa vertigine mi assalì e dovetti
stendermi di nuovo.
«Non riesco a ricordare» mormorai, portando una mano alla
testa.
«È perfettamente normale. Sei svenuta e forse hai una leggera
commozione cerebrale» replicò l'uomo in divisa.
Ora che gli occhi avevano recuperato l’acuità, mi concentrai
sulla sua giacca e, cucito sul taschino, riuscii a leggere Dott.
Marchinson.
«Come… avete fatto a trovarmi?»
Joe scosse il capo. «Grazie alla tua scarpa. È stato un colpo di
fortuna che tu ne abbia persa una.»
Un attimo prima che i paramedici mi caricassero, il Dott.
Marchinson si chinò a esaminarmi di nuovo, illuminandomi le
pupille con una strana penna che emetteva luce.
«Hai fatto un bel ruzzolone, Jessica. Ora andiamo in ospedale
per gli accertamenti: non preoccuparti, vedrai che andrà tutto
bene.»
Mi sistemarono sull’ambulanza che partì svelta, e il nonno salì
dietro, accanto a me, cercando di mantenermi sveglia. Forse era
un modo per scaricare la tensione, oppure stava seguendo le
indicazioni dei paramedici, tanto per controllare le mie reazioni.
«Sei stata davvero fortunata… se penso a quel che è
accaduto… ero sceso a prendere un bicchiere d'acqua e, mentre
passavo davanti alla tua camera ho visto il letto vuoto. Era chiaro
che dovevi essere uscita, anche se non capivo il perché. Sono
venuto a cercarti e, se non fosse stato per quella scarpa vicino alla
staccionata, non mi sarei accorto che era rotta e non mi sarei
avvicinato al bordo.» Fece una pausa e sospirò. «Ho puntato la
torcia sul fondo del dirupo e ti ho visto laggiù. Ti ho chiamato e
richiamato, ma tu non rispondevi… a momenti mi prendeva un
colpo.»
Joe continuò a parlare durante il tragitto, ma ero ancora molto
confusa, stordita, e percepivo la conversazione a tratti, come se le
parole fossero ovattate, lontane.
Giunti al Pronto Soccorso, mi sottoposero ad alcuni test per
assicurarsi che non vi fossero deficit neurologici, dopodiché
venne il turno della radiologia, per le radiografie alla caviglia.
Quando mi svegliai, ero in una stanza d’ospedale, stesa in uno
dei due letti che la occupavano. Una flebo era collegata al mio
avambraccio sinistro e immaginai si trattasse di antidolorifico
perché non percepivo molto dolore. Avvertii qualcosa di estraneo
sulla fronte e la sfiorai per controllare l'entità del danno,
trovando un voluminoso cerotto vicino al sopracciglio. Cercai
allora di muovere le gambe, ma con il piede sinistro urtai
qualcosa di duro e massiccio: sbirciai sotto il lenzuolo e vidi la
caviglia destra rinchiusa nell’ingessatura.
Sbuffando spostai lo sguardo altrove. Nel letto alla mia sinistra
giaceva una signora anziana, apparentemente addormentata;
sulla destra invece, accanto alla grande finestra, c'era una
poltroncina, sulla quale Joe si era appisolato.
«Nonno» dissi con un filo di voce. Si destò intorpidito e,
appena si rese conto che ero sveglia, si accostò preoccupato.
«Ehi, come stai?»
«Non c’è male. Ho un taglio sulla testa, vero?»
«Sette punti di sutura, ma non preoccuparti. Il Dott.
Marchinson ha detto che non rimarrà quasi nulla. È andata bene
anche alla caviglia: una piccola frattura composta e in un mesetto
dovresti essere a posto.»
Sbuffai di nuovo, affondando la testa nel cuscino; l’odore di
disinfettante e il sapore di sangue mi stavano dando il
voltastomaco.
«Sei stata fortunata. Lo sai, vero?»
«Immagino di sì» dissi sempre più nauseata. «Nonno… avresti
una caramella alla menta? Ho un terribile sapore in bocca.»
Joe sorrise e infilò la mano in tasca, quindi la estrasse colma di
incarti verdi. Ne afferrai uno, lo srotolai e iniziai a succhiare
avidamente; così andava molto meglio.
«Allora, mi dici cosa ci facevi fuori, in piena notte e con un
tempo simile?»
«Ecco… non me lo ricordo. Ho le idee confuse» ammisi,
corrugando la fronte. «Non ricordo nemmeno di essere ruzzolata
giù dalla scarpata.»
«Di una sola cosa sono certo: sei caduta per colpa della
staccionata. La notte scorsa una saetta l’ha colpita e ne ha
bruciata una parte. Magari sei arrivata fin lì e col buio non l’hai
notato, ti sei appoggiata, il legno ha ceduto e sei precipitata»
tentò Joe.
Gli sorrisi dolcemente: povero nonno, doveva essersi
spaventato parecchio.
«Ma per fortuna non è successo niente di grave, ammaccature
a parte» minimizzò.
Annuii e appoggiai la testa al cuscino, socchiudendo gli occhi.
Per un attimo ebbi l'impressione di rivedermi laggiù, dolorante,
in mezzo al fango, mentre chiamavo aiuto. Poi, sul margine del
pendio… qualcosa… qualcuno, o era la mia immaginazione?
«Non so, è tutto così sconnesso, però… mi sembra di
ricordare un forte boato, un tuono… chissà perché sono andata
fin là?»
«In effetti, il temporale era bello forte e anch'io mi sono
svegliato per colpa dei tuoni.»
Di nuovo, qualcosa si agitò nella mia mente. Mi puntellai sui
gomiti e mi sedetti, seguendo l’ispirazione di un’idea.
«Forse stavo correndo, oppure… scappavo?» pensai a voce
alta.
«Scappavi, e da chi?»
«Mh, non so, ho come l’impressione che ci fosse qualcosa in
basso…» dissi perplessa.
«Ora ho capito!» disse Joe animandosi. «Arnold ha trovato
delle tracce di animali tra le piante, magari istrici o procioni, e a
giudicare dalle impronte dovevano essere almeno due. Forse li
hai sorpresi durante un combattimento, ti hanno spaventato e sei
caduta.»
«Può darsi». Questa teoria aveva un suo perché, tuttavia
sembrava incompleta. Mi accasciai sfinita sul cuscino.
«Non sforzarti, è meglio che riposi. Tra qualche giorno ti sarai
ripresa e tutto sarà più chiaro. Ah, ha telefonato tua madre.
Appena puoi, richiamala.»
Era trascorso un mese dall’incidente e stavo molto meglio. Mi
avevano tolto i punti sulla fronte e, grazie alle stampelle, avevo
recuperato un minimo di libertà. Salire le scale mi aveva messo in
difficoltà, ma il nonno si era prodigato allestendo il divano-letto
nel salotto, a piano terra.
In quel periodo particolare, avevo sentito molto la mancanza
della mamma, della sua allegria, del suo ottimismo, della sua
ironia. Fortunatamente però, i miei più cari amici si erano
adoperati per non farmelo pesare troppo. Danny, mi passava a
prendere quasi tutti i giorni per accompagnarmi alla fermata
dell'autobus, con la scusa che tanto era di strada. Sally invece mi
raggiungeva nel pomeriggio e, dopo i compiti, mi aggiornava sulle
imboscate che metteva in atto per incontrare “casualmente” Alan.
Frequentare gli ultimi giorni di scuola non sarebbe stato poi così
terribile e, quando arrivarono i risultati della verifica di
matematica, rimasi più che soddisfatta, aggiungendo un'altra A in
pagella.
Quella mattina dovevo recarmi all’ospedale, per il controllo
ortopedico della caviglia. Dopo un colloquio sull’andamento
della convalescenza, arrivò il momento di togliere il gesso.
L’infermiere, un ragazzo molto gentile e carino, tirò fuori un
apparecchio – simile a una smerigliatrice – dall'aria tutt'altro che
innocua. Notando la mia espressione perplessa, il giovane si
prodigò affinché mi tranquillizzassi, e mi assicurò che,
nonostante il rumore terribile, il dispositivo era assolutamente
inoffensivo. Decisi di concedergli un po' di fiducia, ma con
riserbo, soprattutto appena lo ebbe acceso: quell'aggeggio
emetteva un frastuono agghiacciante, richiamando alla mente
immagini di tortura. In breve, l'infermiere completò il lavoro e,
quando mi scoprì la gamba, fu un attimo di puro sollievo.
«Molto bene» disse l’ortopedico valutando le radiografie a
monitor e facendomi muovere il piede. «Ora mettiamo il tutore:
lo porterai per una quindicina di giorni, poi sarà sufficiente una
normale cavigliera elastica. Da oggi, per dieci giorni, potrai
camminare usando una sola stampella, poi altri cinque con il solo
tutore: in questo modo aiuterai la muscolatura e la mobilità
articolare. Tornare a caricare il peso sul piede sarà doloroso, ma
più insisterai, prima l'articolazione tornerà efficiente.»
«Perfetto!» affermai felice.
Uscii sorridente, e senza gesso, dall’ambulatorio di ortopedia e,
mentre raggiungevo l'ascensore, intravidi il corridoio del reparto,
dove si trovavano le stanze di degenza. Cambiai direzione e lo
imboccai, cercando la stanza con il letto numero dodici. La
caposala mi vide e fece un cenno, raggiungendomi.
«Ti trovo molto bene» disse guardando la caviglia stretta nel
tutore.
«Sì, grazie. Sta andando tutto secondo il programma» sorrisi.
«E la mia compagna di stanza? Sa come sta?»
«Benone direi: l’hanno dimessa una ventina di giorni fa!»
«Beh, meglio così» e la salutai.
Mentre percorrevo il pezzo di strada che portava alla fermata
dell’autobus, mi concentrai sulla caviglia: grazie al tutore
camminavo molto meglio, tuttavia, priva del sostegno del gesso,
l'articolazione sembrava più debole.
Durante l'attesa ripensai all'incidente, a come mi ero rotta la
gamba, al ruzzolone che avevo fatto, a ciò che sarebbe potuto
accadere. Quella notte ero davvero stata molto fortunata.
L’autobus si fermò e aprì le porte. Con maggior scioltezza,
seppure con prudenza, salii a bordo, strisciai la tessera nel lettore,
quindi mi accomodai nel primo posto libero. Era strano e
piacevole abituarsi a camminare di nuovo usando il piede.
Venti minuti dopo ero già arrivata alla mia fermata, poco
distante dal negozio di generi alimentari del signor Gross e dalla
gelateria. Con cautela, scesi e mi avviai lungo la strada laterale,
continuando a concentrarmi sui movimenti del piede. Udii un
rombo provenire da dietro, e un attimo dopo, una moto arancio e
nera mi affiancò.
«Ehi! Che ne dici se ti do uno strappo?» Era Danny, sorridente
sulla sua ATK GV650.
«Molto volentieri. Ma tu da dove sbuchi?»
«Ehm… ero venuto a fare una commissione» disse, fingendo
indifferenza mentre mi prendeva in braccio per caricarmi sul suo
bolide. «Ho notato che ti hanno tolto il gesso.»
«Sì, è tutto a posto. Fra due settimane potrò togliere anche il
tutore!»
In breve arrivammo davanti a casa del nonno, Danny mi aiutò
a scendere e, dopo avermi strizzato l'occhio, se ne andò allegro.
«Allora, qual è la prognosi, signorina Dawson?» chiese Joe.
«Due settimane di tutore e potrò riprendere a correre e
saltare» dichiarai soddisfatta.
«Ottimo!» applaudì, e mi aiutò a entrare.
Con il suo sostegno provai a salire le scale, anche se non fu
semplice: una fitta mi tormentava ogni volta che il peso si
concentrava sulla caviglia, comunque insistetti e ci riuscii. Ormai
ero a cavallo e conscia di potercela fare.
Nel pomeriggio tornai di sopra decisa a riprendermi la mia
camera; il nonno propose d’aiutarmi, ma rifiutai, determinata a
cavarmela da sola.
Per praticità, da quando ero caduta, avevamo trasferito parte
dei miei vestiti in una grossa scatola in soggiorno, accanto al
divano-letto, ma ora non era più necessaria, e l'unica incombenza
che lasciai al nonno fu quella di portarla al piano di sopra. La
svuotai sul letto e iniziai a sistemare le magliette, i jeans, e la
biancheria intima nell'armadio, poi giunsi alle scarpe e mi ritrovai
in mano le All Star. Provai un moto di gratitudine verso quelle
sneakers e le strinsi al petto: in un certo senso mi avevano
salvato, era grazie a loro che il nonno mi aveva trovato in fondo
alla scarpata. Mentre le riponevo con cura, rammentai un
particolare di quella notte: dalla fretta di uscire, le avevo infilate
così, senza allacciarle.
Finito con i vestiti, accesi il pc. Era da parecchio che non
navigavo, e poi volevo mandare una mail a mio padre. Da
quando Joe lo aveva informato del mio incidente, ci
scambiavamo SMS quasi tutti i giorni. Il mio piccolo infortunio
aveva attirato la sua attenzione e ci sentivamo con una frequenza
di cui non avevo il ricordo. Il che, ovviamente, mi rendeva felice.
Spedii la posta elettronica ed entrai in rete, aprendo un sito
universitario e aggiornando la mia pagina Facebook. Ero intenta
a leggere il regolamento delle borse di studio, quando si levò il
fischio del vento, contro la finestra, con acuti sempre più vivaci, e
in breve la connessione divenne difficoltosa.
Sbirciai fuori, attirata da un rumore crescente: aveva
cominciato a piovere, con folate che costringevano la pioggia a
cadere di traverso. Socchiusi un attimo il vetro e inspirai a fondo.
Mi piaceva il profumo di erba bagnata che d’estate si alzava,
durante i temporali. Era un odore particolare, che si sentiva solo
nei mesi caldi, quando il fieno tagliato rimaneva nei campi a
essiccare.
Sbadigliando, richiusi la finestra; fuori si stava preparando una
tempesta simile alla sera in cui ero caduta. Un altro sbadiglio mi
raggiunse, chiaro segno di stanchezza incombente. Era stata una
giornata importante e impegnativa, mi ero affaticata parecchio e
forse era giunto il momento di riposarsi. Mi coricai nel mio letto
e assaporai di nuovo il comfort del materasso dopo parecchie
notti passate sul divano e, in breve, scivolai nel sonno.
Ero in un sogno.
All’inizio, ero stata svegliata di soprassalto da un tuono potente
e mi ero alzata per guardare dalla finestra, poi quella luce, un
flash, in una frazione di secondo aveva raggiunto terra, seguita da
un altro boato. Ero rimasta abbagliata, con le mani sugli occhi,
accanto ai vetri: una saetta si era schiantata poco distante da casa
nostra, in direzione del frutteto. Una volta ripreso il controllo
visivo, avevo temuto per gli alberi ed ero scesa per andare a
controllare.
Le immagini cambiarono.
Ero nel frutteto, adesso. Avevo appena oltrepassato alcune
piante ed ero a pochi passi dal ciliegio, accanto alla recinzione, in
parte distrutta. C’era un forte odore di bruciato, sui bordi delle
assi di legno alcune fiammelle ardevano ancora, ma pioveva
talmente forte che di lì a poco si sarebbero spente.
Mi svegliai che era già giorno. Continuavo a pensare a ciò che
avevo visto in sogno. Alcuni particolari erano andati a posto da
soli, nel tempo, altri erano ancora confusi. Ero certa del motivo
che mi aveva spinto a uscire quella notte, tuttavia non ricordavo
cosa fosse accaduto dopo.
Che avesse ragione il nonno e qualcosa mi aveva spaventato?
Mi alzai e cominciai a camminare per testare la caviglia. Era un
po' strana e un tantino instabile, però non faceva tanto male.
Continuai a passeggiare lentamente nella mia stanza, per darle il
tempo di scaldarsi e seguire i consigli del dottore, poi decretai
che era ora di uscire. Mi lavai e mi vestii, quindi dovetti decidere
che scarpe mettere. I sandali non erano adatti, potevo scivolare e
non era il caso. Quando le vidi, scelsi le All Star, le mie scarpe
fortunate; inoltre mi avrebbero fasciato un po' la caviglia,
dandole un leggero sostegno. Infilai la sinistra, poi presi la destra
e con cautela, v’inserii il piede avvolto dal tutore. In quell’attimo,
mentre la scarpa andava al posto giusto, qualcosa nella mia
mente scattò, e ricordai.
Rimasi ferma un istante, fissando la scarpa, mentre rivivevo gli
attimi di paura di quella notte, di quel brusco movimento
nell'oscurità, della mia reazione istintiva, della staccionata che
cedeva sotto il mio peso. All'appello, mancavano alcuni momenti
del risveglio in fondo alla scarpata, ma il resto cominciava a
essere chiaro. Un'altra immagine sbiadita ma degna di attenzione
mi tornò alla mente: un uomo sul ciglio del pendio. Non capivo
se fosse un vero ricordo o piuttosto un'invenzione della mia
fantasia.
Forse la mia memoria non era ancora del tutto pronta e magari
alcuni fatti avvenuti in seguito, durante i soccorsi, mi sembravano
invece antecedenti. O tutto era dovuto allo stress posttraumatico.
Il mio cellulare vibrò rumorosamente: era un SMS di Sally, e
proponeva di passare a trovarmi, con una novità. Accettai
divertita: avevo la convinzione che le piacesse particolarmente
l’idea di dover passare davanti a casa dei Muller per
raggiungermi.
Rifeci il letto e sistemai la stanza, dopodiché scesi con cautela
al piano di sotto, seguendo il delizioso profumino che proveniva
dalla cucina. Il nonno aveva preparato gli spaghetti con il suo
mitico sugo di pomodoro e basilico e, mentre mangiavamo, lo
avvisai dell'imminente comparsa di Sally.
«Bene, magari fate una bella passeggiata. È ora che ricominci a
stare all'aria aperta» commentò mentre sparecchiavamo.
L'arrivo di un'auto davanti a casa ci incuriosì: uscii svelta sotto
il portico e rimasi senza parole.
«Ehilà! Come ti butta?» chiese Sally, scendendo da una
Corolla grigio metallizzato.
«Alla grande!» risposi raggiungendola e osservando il bolide
datato.
«Hai tolto il gesso, fantastico!» mi abbracciò. «Però, ti muovi
bene. Ti fa male?»
«Non tanto. E quella da dove viene?» chiesi indicando l’auto.
«È questa la novità: sto contrattando con mio fratello, ma
prima di pagargliela ho voluto provarla. Perciò… eccomi qui»
disse compiaciuta.
«E come mai hai scelto proprio questa zona?» scherzai
ammiccante.
Sally si fece seria.
«Come, non sei contenta che sia venuta a trovarti?»
«Ma se ci siamo viste ieri» le ricordai, guardandola di
sottecchi.
Scoppiò a ridere.
«Ok, beccata! Va bene, la verità: volevo davvero venire a
trovarti, e in più… qui c’è una splendida visuale, potrebbe
capitare di fare incontri interessanti. E se forassi una gomma
proprio davanti a quella bella villa…»
«Ti va di fare due passi? Magari chiacchieriamo un po’»
proposi sorridendo e mi avviai nel frutteto.
«Certo! Raccontami del controllo: era bello il medico?» disse
prendendomi a braccetto.
«Sally! L’ortopedico, era un uomo di mezza età, non male, ma
era più carino l’infermiere. Comunque, ha detto che vado alla
grande e fra quindici giorni sarò a posto.»
«Meno male, temevo che ti saresti giocata l’estate.»
Annuii mentre raggiungevamo il ciliegio, vicino alla scarpata.
Mi fermai davanti alla riparazione grossolana che il nonno e
Arnold avevano approntato. Feci qualche passo e vi appoggiai
cautamente le mani, facendo scorrere le dita.
«È qui che è successo» dissi sporgendomi appena per guardare
giù.
«Cavolo, Jess! Chissà che volo» mormorò Sally, portandosi una
mano alla bocca.
«Già… e pensa che stanotte, l’ho pure sognato.»
«Dai, racconta.»
Feci un sospiro, e l’accontentai.