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UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE - MILANO
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Lettere moderne
La fotografia astratta contemporanea:
Welling, Tillmans e Wolf.
Relatore: Chiar.ma Prof.ssa Elena DI RADDO
Tesi di laurea di:
Giulia VANDELLI
Matr. 3802069
Anno Accademico 2013/ 2014
Indice
Introduzione
3
James Welling
Tra astrazione e realismo
13
Wolfgang Tillmans
23
Una cosmologia di immagini
Silvio Wolf
34
La rivelazione della luce
Bibliografia
42
1
“Photography deals exquisitely with appearances, but nothing is what it appears to be ”
(Duane Michals)
2
Introduzione
La fotografia, che etimologicamente significa “scrittura di luce”, per sua definizione è riconosciuta come “l’arte della realtà”1. Sin
dalle origini la sua specificità è stata sempre colta nell’essere indissolubilmente legata alla concretezza del mondo, proprio
attraverso la luce, suo elemento costitutivo e fonte primigenia della sua forza espressiva.
I primi fotografi, da William Henry Fox Talbot (1801-1877) a Làszlò Moholy-Nagy (1845-1946) utilizzano la luce direttamente sulla
pellicola fotografica, realizzando i cosiddetti “fotogrammi”, chiamati dallo stesso Moholy-Nagy “compositions lumineuses” 2 ,
immagini create ponendo oggetti di varia natura direttamente sulla pellicola fotografica, senza il medium della macchina.
Il controverso legame con la realtà, che può rendere ossimorica la relazione tra fotografia e astrazione, viene però illuminato e
risolto, secondo la critica Lyle Rexer, nel suo fondamentale “The Edge of Vision: The Rise of Abstraction in Photography” (2009), se
si osserva il fenomeno fotografico con un occhio critico, anzi, con “occhi nuovi”, come direbbe Moholy-Nagy3. L’atto fotografico in
sè, infatti, comporta un’astrazione a molteplici livelli: nel passaggio dalle tre alle due dimensioni, dalla visione umana, binoculare,
a una monoculare e soprattutto nel porre la porzione di realtà “catturata” in una situazione di stasi, in una forma opposta al flusso
della vita4. La fotografia, come afferma Susan Sontag, può essere percepita “as a way of imprisoning reality […] of making it stand
still”5. In questo senso assume un’importanza notevole la riflessione su quale sia la realtà, laddove, sin dai primi esperimenti
fotografici, che verranno analizzati in seguito, è sempre stata presente una tendenza all’astrazione. Essa nasce nell’arte
Occidentale del Novecento e in fotografia come esigenza di una “true expression” dell’individuo, in opposizione al naturalismo e al
realismo, ossia a una concezione di fotografia intesa come “faithful recording”.6
Si configurano quindi le due grandi linee interpretative dell’arte fotografica, ampiamente analizzate in quella distinzione, a lungo
dibattuta ed esaminata, sulla sua artisticità e sulla sua competizione con la pittura7.
Il merito della fotografia, in tutte le sue accezioni, è lucidamente individuato da Susan Sontag: “Photography provides a unique
system of disclosures: that it shows us reality as we have not seen it before”8. Questa è la chiave di lettura che mi ha portata a
interessarmi alla fotografia astratta contemporanea. La possibilità che essa sia non solo un modo diverso, estremamente creativo
e personale, di “fare immagini” o creare opere d’arte, ma che sia prima di tutto una vera e propria “rivelazione” della realtà per
quella che è, al di là sia dell’apparenza concreta sia dell’infinita diffusione delle fotografie nella società contemporanea, che ha
condotto a una certa assuefazione e spesso a smettere di domandarsi le sue ragioni e le sue origini.
Analizzare lo sviluppo di una tendenza astratta, inoltre, significa cercare di ordinare un aspetto implicito nella realizzazione della
fotografia stessa, attraverso i tre procedimenti che abbiamo visto, nella convinzione che la macchina fotografica sia “ a fluid way
of encountering that other reality”, come disse il fotografo Jerry N. Uelsmann9, e che abbia creato un vero e proprio nuovo lessico
visivo, non riconducibile solamente al fotogiornalismo e alla riproduzione naturalistica della realtà.
Secondo Piet Mondrian l’arte non figurativa “shows that art is not the expression of the appearance of reality such as we see it,
nor the life which we live, but that it is the expression of true reality and true life… Thus we must distinguish between two kinds of
reality, one which has an individual character, and one which has a universal appearance”10.
1
R. Valtorta in Fotografia astratta dalle avanguardie al digitale, catalogo mostra (Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri, Verona, 2008) Marsilio,
Venezia, 2008, p. 15.
2
L. Moholy-Nagy, Compositions lumineuses 1922-1943, Centre George Pompidou, Paris, 1995, p.6.
3
Ivi.
4
L. Rexer, The Edge of Vision: The Rise of Abstraction in Photography, Aperture, New York, 2009, p. 28.
5
S. Sontag, On Photography, [1977] Penguin Classics, London, 2008, p.163., trad. it. Sulla Fotografia, Einaudi, Torino, 2004.
6
Ivi, p. 118.
7
Per il rapporto tra fotografia e pittura si veda C. Marra, Fotografia e Pittura nel Novecento, Mondadori, Milano, 1999.
8
Ivi, p.119.
9
Citato in S. Sontag, op. cit., p.200.
10
P. Mondrian, Figurative and Non Figurative Art in Artists on Art, eds. R. Goldwater and M. Treves, Pantheon, 1958, p. 428.
3
Moltissime altre sono state le riflessioni critiche sulla fotografia astratta, ma l’elemento che le accomuna è, come si può cogliere
dai passi e dagli autori citati, la sua realtà metafisica, la sua volontà di andare oltre e di cogliere il vero aspetto del reale.
Negli ultimi anni dell’Ottocento i pionieri della fotografia, William Henry Fox Talbot, Sir John Herscel (1792-1871) e Anna Atkins
(1799 -1871), iniziano sin da subito a porsi la questione del paradosso della fotografia ma allo stesso tempo continuano a
chiamare i fotogrammi “copies” del reale: gli oggetti posti sulla pellicola sono ancora ben individuabili, le dimensioni sono le
stesse, ma la bidimensionalità dei dettagli e le linee li configurano come astratti. La caratteristica sicuramente più importante
della fotografia di Talbot, pur sempre amatoriale, è sicuramente l’ambiguità, la confusione derivante dalla consapevolezza che la
fotografia non sia solo descrizione della realtà, bensì sia e possa essere, invece, ben altro, un potente mezzo di espressione e
immaginazione, come spiega Lyle Rexer.11
E’ importante sottolineare che agli inizi, con Talbot in particolare, il fotografo si affida all’aspetto tecnico della fotografia,
rinunciando al completo controllo dell’artista sull’opera, fatto che nei successivi sviluppi della produzione astratta sarà
contraddetto.
La fotografia, inserita in un contesto artistico che comprende tutta l’arte Occidentale del Novecento, si sposta poi lentamente ma
inesorabilmente sempre di più verso l’astrazione, una nuova realtà, una nuova scommessa rispetto alla tradizione del naturalismo
e del realismo imperanti all’epoca.
W.H.F.Talbot, Photogram
11
L. Rexer, op. cit., p.25.
4
L’ideazione e la maturazione dell’idea di una fotografia astratta consapevole nasce in seno al clima di fermento delle avanguardie
storiche, contestualmente alle innovazioni linguistiche e allo scardinamento delle tradizioni artistiche. Il luogo prediletto per
questo cambiamento di prospettiva è la Germania, un paese straziato dalla guerra, dove “si affermò un senso di libera
sperimentazione che offrì per la prima volta ai fotografi nuove possibilità di esplorare i propri sentimenti e tutto ciò che avveniva
intorno a loro”, come spiega Van Deren Coke. 12 I fotografi tedeschi, quindi, sviluppano una fiducia sempre più forte nelle
potenzialità estetiche della fotografia, attraverso quelle forme geometriche che caratterizzano il Modernismo sia in campo
meccanico sia nell’architettura, e che di conseguenza delineano la tendenza estetica principale della “nuova visione” fotografica,
come è anche chiamata la fotografia modernista.
Fondamentali in questo frangente storico sono il movimento della “Photo-Secession” e la contestuale rivista Camera Work,
fondata da Albert Stieglitz nel 1902. Essa è un vero e proprio catalizzatore di personalità di tutto il panorama artistico mondiale e
soprattutto permette una formulazione organica della tendenza alla soggettivizzazione che si sta diffondendo in tutti i campi
dell’arte: la fotografia inizia davvero a essere concepita come mezzo di espressione di sé. I foto-secessionisti sono anche grandi
innovatori tecnici, in quanto, apportando tecniche che garantivano sempre di più una flessibilità e un’ampiezza espressiva al mezzo,
piegano la fotografia alle esigenze espressive del soggetto.
Nelle file della rivista il più originale fu sicuramente Alvin Langdon Coburn (1882 – 1966), personalità controcorrente tra i suoi
colleghi e soprattutto il più strenuo sostenitore dell’infinita possibilità della fotografia di creare immagini, prima di tutto. A
contatto con il clima dell’epoca a Londra, con un poeta del calibro di Ezra Pound e con i Vorticisti, egli matura la convinzione che
la fotografia si debba differenziare dal mero documentarismo, liberandosi così dai suoi limiti. Nonostante, per gran parte della sua
carriera, Coburn rimanga imbrigliato nel metodo tradizionale di impiegare il mezzo fotografico, nel 1917 crea le Vortografie: la
prima serie di fotografie deliberatamente non rappresentative, che si fondano sui concetti di matrice cubista della prospettiva
multipla e della simultaneità, e sono quindi il primo vero approdo fotografico a un’indagine di una realtà altra.
12
V. D. Coke, Avanguardia fotografica in Germania 1919-1939, Shirmer/Mosel/Il Saggiatore, Munchen/Milano 1982, p. 11.
5
Langdon Coburn, Vortografia, 1917
Due grandissimi sperimentatori nell’ambito della fotografia sono poi Làszlò Moholy-Nagy, e Man Ray (1890-1976), che
conferiscono una vera svolta epocale al modo di concepire il mezzo fotografico.
E’ da notare, tuttavia, che nessuno dei due si riferisce esplicitamente a una possibilità di “fotografia astratta”, nonostante, di
fatto, i loro fotogrammi si configurino come tali, se li si osserva da un punto di vista storico formulato a posteriori.13 Lo strumento
fotografico è più che altro un modo per indagare la realtà attraverso i suoi elementi costitutivi, tra i quali spicca ovviamente la
luce.
Man Ray, che chiama i propri fotogrammi “rayogrammi”, scrive: “Colte nei momenti di distacco visivo, durante periodi di contatto
emozionale, queste immagini sono ossidazioni di residui, fissati dalla luce e dalla chimica, organismi viventi”14 . Egli parla quindi
d’immagini vive e soggettive, frutto di una consapevolezza interiore, di un contatto rivelatore con il proprio inconscio.
Il più fervente indagatore della realtà e del medium fotografico sarà però, senza dubbio, Làszlò Moholy-Nagy, definito da Giulio
Carlo Argan “il più moderno degli artisti della prima metà di questo secolo, anzi il modello o il prototipo dell’artista moderno,
cosciente della crisi della professione artistica in un’epoca caratterizzata dall’egemonia industriale e dalla conseguente
trasformazione di tutto il sistema del lavoro, della produzione, del consumo”15.
Egli, nella sua opera Fotografia, pittura, film (1925) definisce il fotogramma “visione astratta mediante registrazione diretta delle
forme prodotte dalla luce” 16 . Quest’ultima è un’affermazione molto significativa, sia per la rilevanza posta sul concetto di
astrazione sia sull’importanza posta sulla luce, elemento in grado di incidere la pellicola, di trasformare la realtà e permettere così
l’accesso a una “nuova visione” del mondo. Il grande merito di Man Ray e di Moholy-Nagy è stato sicuramente quello di conferire
13
Si veda R. Valtorta Fotografia astratta dalle avanguardie al digitale, op. cit., p. 17.
P. Eluard, A. Breton, Dictionaire Abregè du Surrealisme, Exposition Internationale du Surrèalisme, Galerie des Beaux-Arts, Paris, 1938, p.142.
15
Citato in I. Zannier, L'occhio della fotografia, Carocci, Roma, 1988, p.285.
16
L. Moholy-Nagy, Pittura Fotografia Film [1925] Einaudi, Torino, p.31.
14
6
alla fotografia lo status del medium artistico del futuro, come ha notato Lyle Rexer,17 e di garantire all’uomo “occhi nuovi” per
percepire la realtà che lo circonda e la sua stessa esistenza di conseguenza.
E’ necessario inoltre aggiungere che la dibattutissima questione sull’invenzione dei fotogrammi si configura come controversia
storica priva di un vero fondamento, in quanto, come spiega Herbert Molderings18, secondo la riflessione di Moholy-Nagy, alla luce
di tutte le diverse esperienze, proprie, di Man Ray e di Christian Schad in particolare, tutti i fotogrammi, pur essendo sempre stati
considerati “amatoriali”, siano in realtà riconducibili a quello che Walter Benjamin chiamò “inconscio ottico”19, un concetto che
riconosce al livello di percezione inaugurato dal fotogramma un grado di realtà superiore, un punto di partenza per una “nuova
visione oggettiva”20.
Se la fotografia, quindi, ha visto nascere con sé un’idea di pura manifestazione di luce, il fotogramma l’ha condotta a essere vera e
propria materia della conoscenza artistica, un medium primario e fondamentale, non più legato semplicemente all’utilizzo di
pigmenti neri, ma avente valore in se stessa e sempre più vicina a un esito astratto consapevole.
L. Moholy-Nagy, Photogram.
17
L. Rexer, op. cit., p.69.
H. Molderings in L. Moholy-Nagy, Compositions lumineuses 1922-1943, op.cit. p.6.
19
W. Benjamin, Petite histoire de la photographie [1931] in Poèsie et Revolution, Denoèl, Paris, 1971, p. 56. trad. it. Piccola storia della fotografia, Skira,
Milano, 2008.
Relativamente al concetto di “inconscio” fotografico si veda anche F. Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, Ed. Punto e Virgola, Modena, 1979.
20
L. Moholy-Nagy, op. cit., p.6.
18
7
Altri esiti interessanti delle avanguardie storiche sono stati realizzati all’interno del Surrealismo e del Futurismo, che basarono
però la loro riflessione artistica sull’utilizzo della macchina fotografica e non del fotogramma.
I futuristi italiani, in particolare, minano il concetto di fotografia tradizionale, atta a descrivere la realtà con quello che chiamarono
“fotodinamismo”. I fratelli Anton Giulio e Arturo Bragaglia, ispirati dall’opera di Umberto Boccioni, creano difatti fotografie
innovative, che vogliono, mediante una lunga esposizione, “fissare” il movimento, il fluire del reale arrivando a comporre così una
fotografia sfocata, catalizzatrice di attimi.
Il primo vero teorizzatore di una fotografia astratta sarà, però, uno dei maestri dell’Astrattismo italiano, Luigi Veronesi (1908-1998),
secondo il quale “il fotogramma rientra, nella maggior parte dei casi, in quell’orientamento “metafisico” o “astratto” che ha
influenzato o condizionato buona parte di tutta l’arte contemporanea”21 .
L.Veronesi, Fotogramma, 1978.
Un ritorno particolarmente energico di una fotografia anti-documentarista si verifica poi con la Subjektive Fotografie, movimento
del dopoguerra europeo fondato da Otto Steinert (1915-1978), che la promuoverà attraverso diverse mostre alle quali inviterà artisti
come Irving Penn e Aaron Siskind ma anche fotografi impegnati nel sociale come Henry Cartier-Bresson e Robert Doisneau.
Steinert definisce la Fotografia Soggettiva come “humanized and individualized photography”, atta a catturare “from individual
object a picture compounding to its nature”22. Essa, che si confronta ed è fortemente influenzata dalle coeve correnti filosofiche
dell’esistenzialismo di Sartre e della Fenomenologia di Husserl in particolare, ha le sue radici nella Fotografia della Nuova
Oggettività che si è sviluppata in Germania negli anni Venti. Quest’ultima, infatti, è ritenuta dallo stesso Moholy-Nagy
21
22
L. Veronesi, Il fotogramma, in “Ferrania”, marzo 1955, p.80.
Come citato in J. R. Hugunin, Subjektive Fotografie and Existentialist Ethic, in “Afterimage 15” n. 1 gennaio 1988, p. 48.
8
fondamentale per lo sviluppo di una nuova soggettività fotografica, siccome “that which is optically true, is explicable in its own
terms before he can arrive at any subjective position 23 ”. La fotografia soggettiva insomma, come spiega Hugunin 24 , porta a
compimento quegli obiettivi che si era posta la New Vision, riconoscendo nella soggettività come fonte della creatività. Essa
inoltre è concepita da Steinert come la “forma perfetta di fotografia”, alla quale si giunge attraverso quattro passaggi ben definiti,
che portano da un livello oggettivo a un sempre più forte grado di soggettività:
1) reproductive photographic image- mechanically applied photography […]
2) representative photographic image- personal interpretation of the subject occurs[…]
3) representative photographic creation- the subject is no longer photographed for what it is per se, but is subordinated to
personal transformative vision via photographic means […]
4) absolute photographic creation, the subject is abstracted, defamiliarized to such an extent that it remains only as a
formal armature of the construction of the image’s geometry25.
Solo gli ultimi due passaggi, quindi, costituiscono per Steinert la Fotografia soggettiva, e si può notare come assuma
un’importanza fondamentale il concetto di astrazione, che coincide con la “creazione fotografica assoluta”.
O.Steinert, Strenges Ballett, 1949.
23
L. Moholy-Nagy in Pittura Fotografia Film, op. cit., p.31.
J. R. Hugunin, op. cit., p. 136.
25
O. Steinert, Subjektive Fotografie2, Bruder Auer Verlag, Munchen, 1955, p.65.
24
9
La fotografia astratta, in seguito, diviene un comune denominatore nell’America degli anni Sessanta, con la mostra tenutasi presso
il MoMa di New York “The Sense of Abstraction in Contemporary Photography”.
Nell’exhibition, che comprende opere di artisti come Alfred Stieglitz, Paul Strand e Aaron Siskind, la critica Barbara Morgan, dalle
fila della rivista Aperture, percepisce una fotografia che crea una connessione tra la realtà emozionale dell’animo umano e il
mondo esterno, oggettivo, concreto; ora, la nuova frontiera della fotografia trova il suo vero significato nella coscienza del
fotografo, non nelle convenzioni e nelle richieste della società, come spiega Lyle Rexer.26
L’esito più originale è probabilmente quello raggiunto da Aaron Siskind (1903-1991), allievo di Moholy-Nagy all’Institute of Design,
concepito nel 1937 come il New Bauhaus. Egli astrae elementi dalla realtà, isolandoli dal contesto e agendo senza manipolare o
utilizzare tecniche particolari. Con Siskind l’occhio dell’osservatore è sfidato a cogliere nuovi significati, ad andare di là
dell’oggetto quotidiano, come egli scrisse nel 1956 nel testo Credo:
“Così, le rocce sono forme scultoree, una parte di una struttura decorativa in ferro dà origine a forme ritmiche; pezzi di carta
incollati su un muro sono una conversazione […]
L’oggetto, in un certo senso, è entrato nell’immagine, è stato fotografato in modo diretto, ma spesso è irriconoscibile, poiché è
stato prelevato dal suo contesto abituale, staccato dai suoi abituali vicini e forzato dentro nuove relazioni”27.
A. Siskind, Avizpe, 1966
Un singolare approccio all’astrazione fotografica verrà poi introdotto dal 1956 da Pierre Cordier (1933), allievo di Steinert e
inventore dei “chimigrammi”: in questo caso l’azione chimica sulla carta dà letteralmente origine a molteplici trame e motivi,
conferendo all’immagine un aspetto grafico, delicato come un dipinto e definitivamente astratto in una qualsiasi assenza di legami
con la realtà descrittiva. Un’esperienza agli antipodi rispetto a quella di Siskind quindi: in Cordier è totalmente assente qualsiasi
legame al reale, e l’astrazione ha origine nei processi stessi che costruiscono la fotografia.
26
27
L. Rexer, op. cit., p.99.
A. Siskind, Credo, in “Spectrum” vol.VI n.2 New York, 1956, p.46.
10
P.Cordier, Chimigramme, 1978 .
Questo tipo di approccio è stato al centro di una querelle molto accesa tra gli studiosi, tra i quali Gottfried Jäger28, che si è
domandato quale sia il confine tra l’astrazione e il dissolvimento della fotografia stessa, come sottolinea Roberta Valtorta29.
Infine ecco gli anni delle Neoavanguardie. Minimalismo e Pop Art in particolare lasciano un’impronta decisiva sull’arte fotografica,
la prima con una riflessione sulla riproduzione e sulla serialità, la seconda con la rivelazione del valore che le immagini hanno in
una società e sulla sua spersonalizzazione.
Sicuramente, come osserva Lyle Rexer, questi due movimenti hanno contribuito a creare uno slancio profondamente “sovversivo”,
poiché gli artisti da quel momento in poi hanno voluto “anatomize, undermine, reconfigure, and redeploy the photographic image,
to expand the range of its signification far beyond the literal, and finally to question the notion of such signification altogether”30.
Come ha scritto Judy Dater, “photography was exploding all around us”31 : il dissolvimento dell’ortodossia fotografica, basata sul
rapporto biunivoco tra fotografo e mondo, mediato dalla sua visione, ha portato la sperimentazione del mezzo, di cui il primo
grande fautore fu Moholy-Nagy, agli estremi, concretizzandosi in risultati originalissimi e non riconducibili a poetiche o movimenti
omogenei.
28
G. Jäger è stato curatore del convegno Abstrakte Fotografie: Die Sichtbarkeit des Bildes ( La fotografia astratta: la visibilità dell’immagine) che si è tenuto
presso la Fachhochschule Bielefeld nel 2000. Si veda il catalogo Die Kunst der Abstrakten Fotografie/ The Art of Abstract Photography, Arnoldsche
Verlagsanstal Stuttgart, 2002.
29
R. Valtorta, op. cit., p.21.
30
L. Rexer, op. cit., p.133
31
J. Dater, Finding IT in the Sixties, West Coast Style, in The Collectible Moment: Catalogue of Photographs in the Norton Simon Museum, ed. G. W. Sander,
Yale University Press, New Haven, Connecticut, 2006, p.98.
11
Tra questi casi particolare importanza ha l’opera ultima di Ugo Mulas, le “Verifiche”, realizzate tra il 1971 e il 1972. Esse sono
quattordici lavori fotografici che l’artista realizza con fine di analizzare e documentare il processo fotografico retrospettivamente,
alla luce della sua carriera, creando immagini che Lyle Rexer definisce “pre- and postvisual”.32
Gli sviluppi della fotografia astratta, da qui in poi, come accennato, saranno molteplici, e per questo ho scelto di indagare e
analizzare nello specifico il lavoro di tre artisti che hanno fatto della fotografia astratta la loro cifra stilistica ma con approcci
estremamente diversi: James Welling, Wolfgang Tillmans e Silvio Wolf. Attraverso le loro opere cercherò di cogliere alcune delle
tendenze e delle riflessioni più interessanti e appassionanti per comprendere la situazione della fotografia astratta contemporanea
oggi.
32
L. Rexer, op. cit., p.141. Per maggiori notizie si veda G. Celant, Ugo Mulas, Motta, Milano, 1993.
12
James Welling
“The photograph itself is the only thing that is real”
(Robert Heinecken)
Negli anni Ottanta emerge un gruppo di artisti, tra i quali Jack Sal e Carel Balth, che hanno come comune denominatore la volontà
di unire l’elemento percettivo e concettuale della fotografia. In particolare si afferma tra di loro l’americano James Welling, nato
nel 1951.
Egli dedica la propria ricerca fotografica a uno sperimentalismo che trova il suo fondamento in un’indagine sulla fotografia intesa
come “open-ended experience”33, cioè come una pratica spalancata al mondo, alle più diverse interpretazioni e tecniche artistiche,
e che conduce a sviluppi che fanno delle esperienze fotografiche passate un punto di partenza e non un solco da seguire. Welling,
pur non avendo mai formalmente studiato fotografia, nel 1975 inizia la sua carriera artistica privilegiando l’utilizzo delle Polaroid,
servendosi di lunghe esposizioni, di una macchina fotografica senza otturatore34 e scaldando le fotografie durante lo sviluppo, al
fine di intensificare i colori: egli rivela così uno spirito innovativo, ribelle rispetto alla tendenza documentarista abbastanza diffusa
in quel periodo. Nel 1979 Welling si trasferisce a New York. La grande metropoli ha un effetto liberatorio e stimolante sulla
produzione dell’artista, che crea alcune delle sue serie più caratteristiche e diviene grazie a esse una personalità influente nel
mondo dell’arte contemporanea. La produzione astratta di Welling nasce quindi con la serie delle Abstract Photographs (1980-87),
che comprende quattro serie di fotografie “materiche”: gli Aluminium Foils, i Drapes, le Gelatin Photographs e le Tile Photographs.
Esse sono immagini di fogli di alluminio, tendaggi di velluto cosparsi di pasta sfoglia, gelatina infusa d’inchiostro e piastrelle di
plastica, fotografati con l’idea che il processo fotografico sia tanto il mezzo quanto l’obiettivo stesso della sua opera, laddove il
soggetto non è più il protagonista in senso stretto com’era sempre stato, generalmente, fino ad allora.
Innanzitutto è necessario notare l’importanza che l’approccio per serie ripetitive nel campo della rappresentazione pittorica assume
nell’opera di Welling. Molti studiosi hanno ravvisato in questa scelta una possibile ispirazione alla Pop Art, dalla quale però allo
stesso tempo l’artista si allontana creando serie che non sono mai un cerchio chiuso ma che sono “always capable of generating
internal interferences and differences”35, come sottolinea il critico Jean-Marc Prèvost. L’adozione della serie è quindi una possibile
soluzione che Welling adotta al fine di superare i limiti di una visione immutabile della realtà, limitata e limitante rispetto a un
reale composto da molteplici sfaccettature. Si può dire, quindi, che la serie si configuri come un punto di vista multiplo che vuole
e riesce, in parte, a cogliere le sfumature della realtà, in quanto “Welling’s photos are close to paintings when the latter abandon
their pretension of mirroring reality and attempt rather to comment on the world around them”36.
Lampante è l’innovazione che l’artista introduce con i primi lavori fotografici, nello specifico con le Tile Photographs (1985), che
consistono in alcuni pezzi di plastica dalla forma di un parallelepipedo posizionati casualmente su uno sfondo bianco. In esse sono
rintracciabili varie influenze, tra le quali quella dei frattali matematici, della consapevolezza della logica della casualità che sta
alla base dell’ordine, e quella della geometria euclidea, che viene indagata e analizzata.37
33
L. Rexer, op. cit., p. 145.
L’otturatore è propriamente il dispositivo meccanico ed elettronico che controlla la durata dell’esposizione alla luce della pellicola o, nel caso del digitale,
del sensore.
35
J.M. Prévost, James Welling, Dissolution of the Sublime, in Musèe Departmental d’Art Contemporain de Rochechouart 10 avril-14 juin 1992: Musee de La
Roche-Sur-Yon 20 juin- septembre 1992, Centre Impression, Limoges, 1992, p.15.
36
Ivi.
37
Ivi.
34
13
Tile Photograph 1, 1985
Gelatin silver print.
Tile Photograph 32, 1985
Gelatin silver print
Le Tile Photographs non sono, quindi, immagini descrittive quanto piuttosto manifestazioni e allo stesso tempo astrazioni in bianco
e nero derivanti da oggetti ben definiti, e rimandano definitivamente alla tradizione storica della pittura geometrica astratta,
secondo quanto osservato da Ulrich Loock.38
E’ nelle parole stesse dell’artista che si ritraccia il principio fondamentale, la base di tutta la sua ricerca artistica: “Even when […]
they imagine themselves as something other than photographs, Welling’s pictures insist that their status as art is entirely
dependent on the fact that they are photographs”39. Welling, in pratica, rende impossibile proprio quel recupero salvifico “dell’arte
dalla macchina fotografica” anelato dai critici del XIX e del XX secolo e presupposto di qualsiasi indagine e riflessione sul tema
per lungo tempo.40 L’artista americano scardina alla base questo modo di concepire la fotografia: non la difende poiché non ne ha
bisogno e soprattutto non deve nobilitarla ad arte prima di considerarla tale, perché le sue opere sono arte proprio in quanto sono,
innanzitutto, fotografie.
Le prime conseguenze visibili di questo principio innovativo sono sicuramente la preoccupazione e l’attenzione che l’artista
americano ha nei confronti delle superfici, come sottolinea Michaels41. E’ necessario notare come la questione della superficie,
sempre centrale in fotografia, che per sua natura è ciò che viene fotografato, di fatto, acquisti un valore ancora più emblematico
nell’opera di Welling. I materiali che egli fotografa, infatti, che siano l’alluminio, stoffa o carta, coincidono essenzialmente con la
loro stessa superficie. Questa corrispondenza però, individua allo stesso tempo una differenza sostanziale tra la levigata superficie
della carta fotografica e la sfaccettatura materica dei materiali in questione. La possibile similitudine dei materiali, della carta
38
U. Loock, Introduction, in Photographs (1977-90), Kunsthalle Bern, Berna, 1990, p.99 e ss.
W.B. Michaels, The Photographic Surface in James Welling, Photographs (1977-90), Kunsthalle Bern, Berna, 1990, p.104.
40
Nel dettaglio W.B. Michaels spiega : “ Writers on postmodern photography […] thus respond to the problem of the camera by ignoring it, denying, in effect,
not only that photography has made a difference to art but also that it has made a difference to photography. Indeed the late 20th century attack on
photography as an art might be said from this perspective to repeat the late 19th century defense of photography as an art”. Ivi, p.103-104.
41
Ivi.
39
14
fotografica e dell’alluminio ad esempio, viene resa una differenza che diventa una delle caratteristiche specifiche della fotografia
stessa mentre la pittura, invece, dà la possibilità di ricreare varie superfici sulla superficie della tela.
La seconda osservazione indispensabile riguarda poi il rapporto tra l’aspetto realistico delle immagini e l’astrazione. La critica
Rosalind Krauss, parlando delle opere dell’artista americano, ha scritto che molti critici hanno visto queste immagini “as holding
the referent at bay, creating as much delay as possible between seeing the image and understanding what it was of “42, nonostante
la fotografia stessa in quanto tale possa essere sempre vista come registrazione fotochimica del reale. Proprio questo riferimento
a un concetto di astrazione rimanda alla possibilità di trovare un possibile referente, non tanto alla sua volontà di opporsi a esso.
In questa prospettiva si delinea un bivio interpretativo: quello della fotografia astratta e quello della fotografia trompe-l’oeil, come
ha argomentato Michaels.43 Esse sono due opzioni che per Welling sono parti della stessa linea estetica, momenti diversi ma
connessi, nonostante l’apparente inconciliabilità. La serie che più si avvicina a un effetto trompe-l’oeil è senza dubbio quella delle
Tile Photographs, che di per sé pongono in essere la domanda proprio su cosa siano, non tanto su cosa rappresentino. Esse
portano naturalmente con sé due livelli percettivi, quello dell’illusione che siano qualcosa di astratto e quello sulla consapevolezza
del loro essere traccia fotochimica concreta di qualcosa. Welling quindi, con le Tiles Photographs soprattutto, vorrebbe creare una
fotografia che “might after all escape the condition of being of something, by seeming to be the thing it’s of and/or by being
something else altogether”, come ha osservato Michaels44. L’obiettivo ultimo dell’artista riconduce al fondamento stesso della
fotografia astratta e al suo paradosso di fondo: l’impossibilità intrinseca della fotografia di essere pienamente astratta, poiché
ontologicamente essa è traccia della realtà sensibile, dalla quale, pertanto, non si può “astrarre” in senso assoluto.
Palese è inoltre il debito di queste immagini, nella loro apparente casualità e creatività, alla tradizione del collage di Marcel
Duchamp e di Hans Arp e di molti altri, nel momento in cui la fotografia stava iniziando a sollevare la questione dell’artisticità e
dell’autorialità. È possibile costatare quindi, riprendendo le parole di Loock, che : “By using photography to imitate abstract art,
considered as the very essence of modernist painting- what defines its precise nature, its autonomy, its uniqueness,- Welling
tackles the current state of things and makes us ponder on how history is written”.45
Altra serie fondamentale per l’affermazione di Welling è sicuramente quella degli Aluminium Foils del 1980-81. Partendo dal
presupposto che tutte le fotografie siano frutto dell’impronta fisica della luce su una pellicola sensibile, estremamente
interessante è l’approccio al mezzo. Il foglio di alluminio, che coglie e assorbe la luce in ogni suo punto, ha la capacità di
modellarla e fissarla in un numero infinito d’immagini che corrisponde alle possibili variazioni del foglio. Le rappresentazioni così
create donano diverse sensazioni a seconda dei punti di vista: in lontananza, sembrano dei veri e propri dipinti, ma avvicinandosi,
l’osservatore incuriosito può cogliere come “their shiny metallic appearance comments ironically both on the status of
photography as analogical representation and on the inevitable appeal of precious objects and glossy images”.46
42
R. Krauss, Photography and Abstraction, New York, 1989, pp. 63 e ss., citato in W.B. Michaels, The Photographic Surface in James Welling, Photographs
(1977-90), Kunsthalle Bern, Berna, 1990.
43
W.B. Michaels, op. cit., p.106 e ss.
44
Ivi.
45
U. Loock, op. cit., p.99 e ss.
46
Ivi.
15
2-29 I (B15), 1980 Gelatin silver contact print
August 16a (B78), 1980 Gelatin silver contact print
Gli Aluminium Foils rappresentano appieno quell’infinita possibilità dell’immaginazione. Il loro aspetto permette all’osservatore di
lasciare fluire i pensieri e di configurare le immagini ogni volta in modo diverso, come movimenti immortalati, configurazioni
effimere ma forse anche come le autentiche strutture del reale, che rivelano ciò che è nascosto al distratto occhio nudo. La
questione fondamentale, in questa serie più che nelle altre, diventa come una registrazione che è vera e propria manifestazione,
del foglio di alluminio e della luce in questo caso, possa produrre un’immagine che è ben diversa dalla realtà che cogliamo, così
reale da sembrare, paradossalmente, irreale.
Il labile confine tra il naturalismo e l’astrazione è indagato poi nelle Gelatin Photographs (1984) : sono composizioni astratte, che
ricordano costellazioni, limitate esclusivamente dai bordi della fotografia, come se l’immagine riuscisse a racchiuderne solo una
parte. Infatti il materiale di cui sono fatte è estremamente sensibile alle variazioni di luce, e le possibilità espressive, come già
visto nelle altre serie, sono infinite. Le composizioni possono sembrare così carboni, grazie all’effetto volumetrico ottenuto dalla
modulazione della luce, ma talvolta anche immagini simili ai dipinti dell’Espressionismo Astratto, quando la distorsione produce
contrasti così forti da far sembrare che la superficie fotografica sia stata nettamente marcata.
Gelatin Photograph 45, 1984, Gelatin silver print
Gelatin Photograph 40, 1980
16
Queste fotografie sono il regno della libertà. Esse, come sottolinea Loock, sono assolutamente indipendenti da qualsiasi idea o
principio e non sono analizzabili in nessun termine predefinito, al di fuori di un’analisi formale, in quanto sono “photographs of
photographic emulsion, and enter into an endless process of self-reproduction”47.
Infine con i Drapes (1980-1) Welling torna a focalizzarsi su materiali che aveva già utilizzato in precedenza, ossia su tessuti colorati
inquadrati verticalmente così da sembrare tende. Cambia però il punto di vista dell’artista, ora il risultato ottenuto è un realismo
maggiore, arrivando molto al di là di ciò che è rappresentato, anche grazie alla presenza della cornice e del chiaro riferimento al
materiale fotografato. Lo stesso Welling in proposito ha dichiarato :
“… a feeling of mortality, of elegy and also of sails, flags, bunting, of things which in themselves are worth considering, not
waiting to reveal, or of something missing, of things although distant still with us, of Brown Decade interiors, of other interiors
and exteriors, and also of fields, of brick factories, of railroads, of other things…”48.
C47, 1981
IN SEARCH OF (C68), 198
Innegabile è il riferimento che Welling fa con le Draperies al concetto di quadro come finestra, nel momento in cui i tendaggi
oscurano la finestra-quadro proprio come farebbe una tenda. Il tessuto può essere, inoltre, considerato come una metafora della
superficie fisica dell’immagine, e soprattutto, “as an image of the dismissal of the convention […] which involves the picture
surface being treated as a transparent membrane in order to do justice to spatial representation”.49 Anche il tipo di tessuto scelto,
ossia il velluto, ha la sua valenza: esso può essere metaforicamente collegabile a tutte le strutture materiche di cui è composto il
47
Ivi.
J. Welling. March 1988. Dichiarazione non pubblicata, citata in James Welling, Photographs 1977-90, Kunsthalle Bern, 1990, p.100.
49
U.Loock, Photography and Non-Portrayability- James Welling, in James Welling- Kunstmuseum Luzern 7.2- 22.3.1998, catalogo della mostra,
Kunstmuseum Luzern, 1998, p.46.
48
17
processo e il prodotto fotografico, dai pixel alla pellicola stessa. In pratica acquistano un rilevanza sostanziale sia la superficie e
sia la materia stessa della fotografia, e proprio dal loro dialogo è possibile all’osservatore identificare l’immagine rappresentata.
Dal 1986 al 2010 Welling poi si dedica alla produzione dei Photograms, riprendendo la tradizione inaugurata da William Henry Fox
Talbot e sviluppata da artisti del calibro di Man Ray e Làszlò Moholy-Nagy. In questa tipologia di opere spiccano i Degradés, dove
l’artista utilizza lo stesso approccio al medium fotografico utilizzato nelle Draperies, anche se qui sembra isolare e sintetizzare
tutte lo possibilità del mezzo fotografico, chiudendo loro e se stesso all’interno della camera oscura e creando fotografie che
sembrano essere complete in se stesse, come ha osservato Ulrich Loock.50
Untitled, 1998-2003
IWCI, 1998-2003
50
Ivi.
18
Particolarmente rilevante è inoltre la serie delle New Abstractions (1998-02), composta da sedici fotogrammi nei quali linee nere
di vario spessore si incrociano, o meglio, si incontrano, creando un reticolato privo di qualsiasi volumetria o volontà di superare la
bidimensionalità dell’immagine.
#1, 1998
Gelatin silver print .
#15, 2000
Gelatin silver print.
L’artista affronta, così, in un modo totalmente innovativo, come ha fatto con le Tile Photographs, l’astrazione dell’immagine. Egli si
dimostra sempre consapevole del rapporto che la fotografia ha con la pittura, anche se, come ha osservato Alain Cueff, ha sempre
lavorato e analizzato la pittura nelle sue diverse soluzioni, non considerandola un concetto globale e indivisibile.51 La convergenza
tra pittura e fotografia sarà, perciò, una delle peculiarità della ricerca artistica di Welling, sebbene la sua opera rimarrà sempre,
alla fine, nell’ambito del fotografico, nonostante le incursioni d’implicazioni tecniche e concettuali. E’ inoltre necessario tenere in
conto che l’astrazione fotografica come quella pittorica, e l’influenza della prima sulla seconda, derivino, come ha notato Peter
Galassi52, da una nuova visione del mondo, data dalla consapevolezza che sia impossibile cogliere la realtà nella sua interezza,
senza scomporla. La possibilità di una fotografia che non sia mero strumento documentario ma anche un mezzo d’indagine
metafisica di una realtà frammentaria e nascosta.
Un altro interessante elemento da analizzare, nella produzione delle New Abstractions in particolare, è quello del tempo, che in
Welling è principalmente il presente “which is the present of light itself, an instant called to perenniality in the meantime of
light”53, secondo quanto scritto da Cueff. In questo senso quindi l’opera di Welling si contrappone concettualmente al principio del
“Ca a etè” individuato da Roland Barthes54 come fondamento della fotografia: per quest’ultimo, infatti, essa era necessariamente
51
A. Cueff, The Meantime of Light, in James Welling, New Abstractions, DG BANK-Forderpreis Fotografie 1999- Sprengel Museum Hannover, 1999, p. 9.
P.Galassi, Before Photography, Painting and the Invention of Photography, Museum of Modern Art, New York, 1981, p. 24 e ss.
53
A.Cueff, op. cit., p.11.
54
Vedi R. Barthes, La Camera Chiara. Nota sulla Fotografia [1980] Einaudi, Torino, 2003, ed. originale R. Barthes, La Chambre Claire: Note sur la
Photographie [1980] Gallimard Seuil, Paris, 2002.
52
19
connessa alla dimensione del passato, certamente valido per un discorso sulla fotografia di reportage o commemorativa, legata a
una dimensione affettiva ed emozionale, ma quindi non applicabile a tutti i suoi campi.
Oltre all’astrazione temporale però sono presenti altri due tipi di astrazione nelle New Abstractions: quella della forma e quella del
principio stesso della fotografia che “requires that the image always pre-exists and is sought by the lens of the camera which is
mobile”55. Quindi Welling concepisce l’astrazione quasi come un ready-made, ossia una realtà pronta per essere colta dalla lente
fotografica nella quale la cornice come in pittura opera una funzione determinante per la composizione finale dell’immagine.
Il merito di Welling, nel realizzare queste opere, è dunque quello di relazionarsi in modo nuovo alla qualità dell’immagine,
consapevolmente, forte della coscienza storica che trova le sue radici nelle ricerche astratte della avanguardie. Welling, infatti,
realizza opere che hanno la qualità di essere allo stesso tempo astrazioni, fotogrammi e ready-mades, creando così, per dirla con
le parole di Cueff “a kind of historical short-circuit and critique in which the mataphysical aspirations of painting, the materialist
expectations of the ready-made and the photosensitivity of time become inseparably entwined”56.
Dal 1992 al 2001 Welling crea, infine, Light Sources, una serie estremamente eterogenea nella quale tutte le grandi fotografie in
bianco e nero, tecnicamente stampe Iris su carta, risultano indipendenti e isolate tra di loro. E’ un’opera molto differente da quelle
precedentemente realizzate dall’artista, che in proposito ha dichiarato : “I was looking for things I couldn’t decipher quickly” 57. La
serie è divisibile in due gruppi distinti, ossia fotografie di luci oppure varie altre immagini, come paesaggi, piante e interni.
Abbiamo quindi alcune immagini, nel complesso, che sono di fatto astratte, sebbene derivino da una ricerca che l’artista questa
volta imposta in altri termini, ben distanti dalla fotografia soggettiva e dal pittorialismo e più vicini al documentarismo dei suoi
primissimi lavori.
Plants, 1994, Inkjet print
55
A. Cueff, op. cit., p.11.
Ivi.
57
Come citato da C. Squires, A Slice of Light, in ARTFORUM, Gennaio 1998, p.78.
56
20
Baffle,1996, Inkjet Print
Con Light Sources Welling intende la fotografia come una registrazione fattuale, concreta di un soggetto, e porta così alla
neutralizzazione dell’autore, ma non alla sua scomparsa, in quanto egli comunque si manifesta in scelte tecniche e concettuali che
sono e rimarranno sempre sottointese allo scatto, come l’inquadratura, la scelta del soggetto e il modus operandi. Come
sottolinea Ulrich Loock, infatti, riprendendo la teoria di Barthes del “writing degree zero” 58 nella serie Light Sources si può
individuare a “a zero degree of authorial intervention” che è “regarded as the appropriate modus operandi for photography”59. Nel
dettaglio ogni fotografia che immortala un corpo luminoso è scattata in controluce, situazione che crea contrasti nettissimi tra
luce e ombra: è una tendenza a rompere l’oggettiva leggibilità delle fotografie, che risultano misteriose, spesso enigmatiche,
soprattutto negli esiti astratti. Infatti Welling dà vita a immagini che potrebbero sembrare “equivocal in terms of their
representational content, but not in terms of their abstract construction”60. La messa in discussione del realismo fotografico
avviene quindi nel momento in cui l’artista sceglie di fotografare i soggetti in controluce, ottenendo così un risultato di “nonrepresentionalism”61, enfatizzato da una certa formalizzazione e dalla presenza di dettagli inusuali che minano spesso il modo più
comune di percepire la realtà circostante. Osservando le Light Sources, definite da Welling “lyrical”62, ossia in un certo senso
58
Vedi R. Barthes, Le Degrè zèro de l’ècriture [1953], Le Seuil, Parigi. Trad. it. Il Grado zero della scrittura, Lerici, Milano, 1960.
U.Loock, Photography and Non-Portrayability- James Welling, op.cit., p.44 e ss.
60
Ivi.
61
Ivi.
62
Ivi.
59
21
nostalgiche, riflessive, non bisogna dimenticare che sono uno degli ultimi approdi della sua arte, ed è come se vi fosse un vero e
proprio ritiro della realtà, che invece era la protagonista delle sue ricerche antecedenti come le Draperies e le Tile Photographs.
Nonostante Welling sia stato spesso associato a un gruppo di fotografi, tra i quali Cindy Sherman e Richard Prince, che hanno
rifiutato il mito della trasparenza fotografica e qualsiasi riferimento a un possibile significato nel soggetto fotografico, è evidente
che la sua opera vada ben oltre la semplice critica culturale o della rappresentazione. Egli, mettendo l’osservatore in una
situazione di sospensione nell’indecisione tra una lettura documentarista e astratta delle immagini, crea infatti una sorta di
indovinelli visuali.63 Questo ruolo di primo piano dell’osservatore, che ha il compito e il piacere di decifrare la fotografia, dandole
un’interpretazione ricorda, secondo Lyle Rexer, un fatto fondamentale:
“[…] that the status of seeing is always at issue and is precisely what photography must alway be about. Beauty resides in the
possibility of surprise and recognition, an elusive possibility vested in the viewer as much as in the artist”.64
63
Vedi R.Krauss, Photography and Abstraction, in a Debate on Abstraction: Systems and Abstraction, Bertha and Karl Leubsdorf Art Gallery, Hunter College,
New York, 1989, p.66.
64
L. Rexer, op.cit., p.146.
22
Wolfgang Tillmans
“I am a camera with its shutter open”
(Christopher Isherwood)
Quando la fotografia, negli anni Sessanta, inizia a essere considerata parte del mondo dell’arte, è inevitabilmente soggetta a
infinite declinazioni e interpretazioni, che per la maggior parte l’hanno resa tanto uno strumento di indagine e di critica su stessa
quanto sulle altre arti. Di fatto la caratteristica principale che differenzia la fotografia è il suo rapporto imprescindibile con la
realtà e, di conseguenza, con la coscienza dell’uomo: tutto ciò ne rende tuttora impossibile un’analisi meramente formale,
elemento caratteristico della linea modernista, laddove essa, a differenza della pittura, non ha “gestures to purge” o “need to
enforce frame and flatness”65, come ha osservato Lyle Rexer.
Wolfgang Tillmans, fotografo tedesco nato nel 1968, è stato sicuramente colui che negli ultimi decenni ha maggiormente
esplorato la fotografia come strumento di indagine della realtà, rendendola parte di un progetto più grande, che va al di là della
singola opera ed è partecipe delle molteplici sfaccettature della vita, anche dal punto di vista sociale e politico. Tillmans, che
esordisce negli anni Ottanta, deve il suo folgorante successo iniziale a scatti che ritraggono la realtà giovanile dell’epoca,
scardinando le convenzioni attraverso un realismo estremo, dipingendo l’atmosfera e lo stile di vita giovanile dell’epoca, dei quali è
il cantore per antonomasia.
Parallelamente a questo filone documentarista, è ravvisabile però, a partire da alcuni dei suoi primi approcci alla fotografia,
un’implicita ma fortissima tendenza all’astrazione. Infatti, nonostante Tillmans abbia raggiunto la notorietà grazie a istantanee e
fotografie realistiche, fondamentale è il primo vero approccio alla disciplina, che avviene nel 1986 grazie a una fotocopiatrice,
trovata per caso nel suo paese natale e con la quale crea le photocopies, le sue prime opere. In particolare si vedrà come da
questo singolare inizio si delineerà un percorso artistico assolutamente anticonvenzionale e fuori dagli schemi, che sfocerà, poi, in
una ricerca astratta consapevole che tutt’oggi è il campo d’indagine privilegiato nella sua produzione. Altrettanto importante e
significativa, nel solco della ricerca astratta, è la passione per i cieli stellati e gli orizzonti: immortalarli nelle situazioni più
estreme, come da un finestrino di un aereo, diviene per l’artista una vera e propria sfida. Le immagini ottenute, infatti, nonostante
siano semplicemente “a bunch of docts on paper”, sono in realtà, agli occhi di Tillmans, molto di più, ossia “abstract-looking
images of the real in the most extreme form”. 66 Questa presa di coscienza arriva nelle fotografie celesti più recenti, come in
flight astro (ii), realizzata nel 2010, a raggiungere una perfezione che non sarebbe stata possibile senza il progresso e alle
possibilità che le macchine fotografiche offrono oggi. L’artista ora più che mai, quindi, ribadisce che tutto il suo lavoro è
assolutamente fedele al mezzo, di cui ne rispecchia le capacità e che costituisce l’essenza della sua produzione astratta: “It’s only
doing what the process does: collecting light. Different coloured light is being transformed into different colours on paper. All my
works come from the very same nature of the medium: it transforms light into coloured pictures on paper”67
65
L. Rexer. op.cit., p.181.
W. Tillmans in Interview with Wolfgang Tillmans, J. Peyton-Jones e H.U. Obrist, in Wolfgang Tillmans, Serpentine Gallery, catalogo della mostra
(Serpentine Gallery, London, 2010) Koenig Books, London, 2010, p. 25.
67
Ivi.
66
23
Venus, transit ,2004
In flight astro (ii), 2010
All’insegna della sperimentazione più estrema, dunque, Tillmans mostra di volersi discostare dallo stampo documentarista e di
cronaca, nonostante sia il motivo principale del suo successo, orientandosi verso soggetti e tecniche nuove; egli dà un nuovo
slancio vitale a generi come la natura morta e il ritratto, facendo sin da subito dell’eterogeneità la sua cifra stilistica. Uno stile
fluido e scattante, che, come sottolinea il critico Dominic Eichler “as its core […] demands a constant reconsideration of what and
where can be thought of as beautiful or compelling-and by whom”68.
Solo nel 1992 l’artista cambia rotta definitavamente: “I actively felt the need for a complete shift of grammar”69, ha spiegato
nell’intervista a Julia Peyton-Jones. Questo bisogno di cambiamento lo indirizza verso una ricerca astratta matura che, priva
dell’inconsapevolezza degli inizi, viene influenzata soprattutto dalla necessità di rallentare “given the ever-increasing flow of
images in our lives”. 70 La decisione suscita nella critica e nel pubblico il dubbio che l’artista abbia scelto un disimpegno politico,
un “alleggerimento” del contenuto a scapito di un coinvolgimento sociale che, ormai, identifica le sue opere. Nelle parole stesse
di Tillmans si trova, però, la risposta alla questione: “Even though the abstract pictures don’t represent anything outside of
themselves reality is central to them. Their objecthood and their physical contemporary context all constitute their meaning”71.
Ecco dunque una delle chiavi interpretative che illuminano e allo stesso tempo rendono assolutamente peculiare l’astrazione nella
sua opera. Essa deve essere letta come una delle possibilità del reale e quindi non si sottrae a nessun tipo d’impegno e situazione
contemporanea, ma ne è a suo modo, parte integrante, così come le fotografie astratte, nel dettaglio, sono parte del grande
insieme delle fotografie possibili oggi72, alla luce del fatto che, come ha continuato l’artista:
68
D. Eichler, Thinking Pictures, in W. Tillmans, Abstract Pictures, Hatje Cantz, Ostfildern, 2011, p.4.
W. Tillmans in Interview with Wolfgang Tillmans, J. Peyton-Jones e H.U. Obrist, op.cit., p. 22.
70
Ivi.
71
W. Tillmans, Excerpts from Interviews, Lectures, and Notes, a cura di C. Brunner e M. Eknaes, in W. Tillmans, Abstract Pictures, Hatje Cantz, Ostfildern,
2011, p.23.
72
D. Eichler, op.cit., p.4.
69
24
“The underpinning of my work has always been the use of my medium and everything it offers in order to make a new picture. […]
my sense of duty is that I want to make new pictures. I believe that every time and every historical situation allows for the making
of new things and demands a new reponse”73.
Riconoscere queste caratteristiche conduce, anche, alla consapevolezza che Tillmans ha un atteggiamento profondamente
generalista, come spiega la critica Lane Relyea.74 Non c’è una sua fotografia che non sia stata creata anche come parte di una
sinfonia visiva, di un possibile allestimento che le conferirà di volta in volta una diversa sfumatura e possibile lettura. Tale
approccio rispecchia quello che lo stesso Tillmans individua come uno dei fil rouge della propria opera, cioè, “the interest in our
being-in-the-world with others and his own wish to relate to these others”75. Molto rappresentativa è, a proposito, l’affermazione
di Bob Nickas, curatore e scrittore della prima grande mostra nella quale ha dominato la produzione astratta, Freedom From the
Known, tenutasi nel 2006 al P.S.1 Art Center di New York, che ha scritto: “In a media-dominated, advertising-flooded world, the
refusal to offer an immediately recognizable picture-a seemingly subject-less picture-is a political gesture. Simply stated:
abstraction challenges accepted reality”76.
Il leitmotiv più evidente e forse più caratterizzante nella produzione del fotografo tedesco è, però, quella che lui stesso chiama
“the alchemy of light”, definita come “a kind of painting practice with photographic means (with his hands, not with the
camera)”77. Tillmans nella maggior parte delle opere astratte, in particolare nelle prime, come i Blushes e Freischwimmer, realizza
immagini che non descrivono ma creano una realtà, spesso fisica, viscerale ed erotica, attraverso “pure experiments of light” che,
nonostante la loro apparente volatilità, creano “a […] sense of flesh” addirittura più forte di quello dato da immagini di veri corpi
nudi78.
Evidente è il rapporto che l’artista ha instaurato con la pittura, in particolare con l’Espressionismo astratto, così com’è ravvisabile
un’impronta warholiana nell’utilizzo delle fotocopie o addirittura dei fax, sintomo della “mass mediation”, secondo quanto
osservato da Michael Bracewell79. Analizzando l’arte di Tillmans si giunge alla consapevolezza che essa ha “at its heart a tension
of opposites: the precise balance of enigma and certainty”80: questo elemento contraddittorio la riconduce all’arte romantica,
laddove le tematiche attuali e politiche, come si è visto, sempre e comunque presenti, convivono con quel sentimento di intenso
attaccamento alla vita che pervade le sue opere, il cui potenziale fotografico “is intimately related, at a profound level of
empathetic understanding and philosophical awareness, to the messy but complicated business of being alive”81.
Da un punto di vista tecnico il lavoro astratto di Tillmans è divisibile in cinque grandi famiglie di fotografie “camera-less”,
realizzate interamente nella camera oscura, senza l’ausilio della macchina fotografica ma servendosi solo della luce e della
pellicola fotografica. Esse sono individuabili in base alla tecnica utilizzata, anche se le categorie82 si possono sovrapporre e ogni
73
W. Tillmans in Interview with Wolfgang Tillmans, J. Peyton-Jones e H.U. Obrist, op.cit., p.22.
L. Relyea, Photography’s Everyday Life and the End of Abstraction, in Wolfgang Tillmans, MCA Chicago / Hammer Museum LA, Yale University Press, New
Haven / London, 2006, p. 90.
75
D. Birnbaum, A New Visual Register For Our Perceptual Apparatus, in Wolfgang Tillmans, MCA Chicago / Hammer Museum LA, Yale University Press, New
Haven / London, 2006, p.24.
76
B. Nickas, Pictures to Perceive the World, in Wolfgang Tillman: Freedom From the Known, catalogo della mostra (P.S.1 Contemporary Art Center, New York,
2006) Gottingen, 2006, p.2.
77
D. Birnbaum, op. cit., p.24.
78
Ivi.
79
M. Bracewell, Everywhere, all the time, all at once : the art of Wolfgang Tillmans, in Wolfgang Tillmans, Serpentine Gallery, op. cit., p.11
80
Ivi.
81
Ivi.
82
Per le definizioni dei termini tecnici vedi il glossario in G. Jäger (a cura di) The Art of Abstract Photography, Stuttgart, 2002, pp. 286-289 : un photogram
“is a negative silhouette of an object static or moving on photosensitive material”; un luminogram “is an expression of the interaction of light and
photosensitive material which in contrast to the photogram develops its form without objects and is a kind of self-representation of light” e un chemigram
74
25
grande gruppo è, di fatto, totalmente aperto.
Vi è prima di tutto la grande famiglia dei luminograms, come Blushes, Einzelgänger (Loner), Urgency and Freischwimmer (2000present), che sono C-prints oppure inkjet prints e comprendono campi colorati con venature e striature, come fossero delle onde.
In secondo luogo vi sono i chemigram works: Silver and Impossible Colour (2000-a oggi) che consistono in campi monocromi
caratterizzati dalle tracce d’impurità ottenute con varie modalità, come i “drum” o il riscaldamento di componenti chimici.
Quindi ecco le Super Collider (2001-2003) e le Mental Pictures, centoventi immagini che uniscono il luminogramma al fotogramma
e sono inscrivibili all’interno di una terza famiglia di “composizioni di luce”.
Infine le Intervention Pictures e le Photocopies, insieme a molte altre, sono raggruppabili all’insegna di un’astrazione ottenuta
mediante l’aggiunta o la sottrazione di elementi visivi.
I Blushes sono tra le prime opere pienamente e consapevolmente astratte di Tillmans. Molti critici hanno riconosciuto in queste
immagini un elemento sensuale ed erotico, riconducibile al rossore dell’imbarazzo e dell’eccitazione, al calore che riscalda il corpo
umano, in quanto “the photographic print seems to act as a stand-in for skin; the touch of the artist’s process and later the
viewer’s eyes are posited as quasi-sexual encounters”, come osserva Eichler 83 . Non sono presenti quindi, espliciti riferimenti
sessuali, quanto possibili riferimenti a una corporeità sensuale estremamente camaleontica, tanto da comparire, appunto, anche
nelle opere astratte. Una sensualità che, secondo l’artista stesso “is ultimately all about what we notice and what sensations we
notice- to be aware and finely tuned receiving beings, to listen to what we’re desiring and feeling, physically, but also to what we
see and feel visually. I’m constantly studying and receiving visual information that’s sensual”84.
Blushes #59, 2000
“is generally produced when substances –also non photographic ones-influence the texture of the photographic emulsion. Light thereby is a necessary
catalyst, but is not pictorially determinative”.
83
D. Eichler, op. cit., p.5.
84
W. Tillmans in Interview with Wolfgang Tillmans, J. Peyton-Jones e H.U. Obrist, op.cit., p. 21.
26
Lo stesso Tillmans, infatti, nonostante la chiara connotazione che ha dato ad alcune singole immagini, chiamandole ad esempio
Muskel and elbow, ha poi spiegato che: “They are photographs made without camera, purely with light… they evoke all sorts of
associations, like skin, or astronomy, or chemical dissolving, and it’s all done by the brain.”85 Oltre a sottolineare quest’aspetto va
aggiunto che l’unicità dei Blushes stia sia nel fatto che non possano essere fotografati allo stesso modo una seconda volta,86 sia
nel loro essere intrise di una caducità pienamente umana, un sentimento che percorre queste immagini, caratterizzate “by the
idea of passing youth, death, loss of intimacy, and emotional alienation”,87 che si sostanzia nelle venature delle immagini, nella
cui delicatezza è nascosto un profondo senso di stupore.
Realizzate con una tecnica molto simile e sullo stesso filone estetico vi sono Freischwimmer e Urgency, considerabili
un’evoluzione dei Blushes in quanto ne approfondiscono la dimensionalità, come spiega il loro creatore.88
A proposito delle Freischwimmer, realizzate a partire dal 2003, Tillmans, illustra il significato del titolo stesso e il principio creativo
alla base dell’opera: “In German it has a beautiful sound and meaning, swimming away into freedom, swimming into indipendence.
It’s also the name of the first youth swimming test”89. Le immagini appaiono eleganti e dischiudono sulla loro superficie volatili
sostanze dai colori tenui; sono composizioni materiche profondamente intrise di un senso di libertà e gioia, ma, che allo stesso
tempo trattengono l’osservatore prima del salto finale nell’indipendenza e nella libertà assoluta, per le quali è necessario un
ultimo sforzo, perché “the sea of indipendence and freedom is wide. A strong will and sincere convinctions are required to continue
swimming in it proficiently” 90 . Questo è l’obiettivo finale dell’artista, la cui inesausta sperimentazione fotografica vuole
sicuramente oltrepassare i limiti posti dalla tradizione artistica e dal pittorialismo, varcando nuovi oceani e realtà, disorientando
l’osservatore, che deve imparare a nuotare nel mondo di cui l’astrazione è simbolo, attraverso un senso intimo da conferire
all’immagine.
85
Come dichiarato da Tillmans in un’intervista con Pirkko Vekkeli, in Wolfgang Tillmans, sukopulvensa silmä, Gloria Syyskuu, 2006, pp.64-67, citato in D.
Eichler, op.cit., p.5.
86
Come dichiarato da Tillmans in N. Kernan, What They Are, a conversation with Wolfgang Tillmans, su Art On Paper, p.67, consultabile all’indirizzo web:
http://tillmans.co.uk/images/stories/pdf/nathan_kernan_interview_web.pdf.
87
D. Eichler, op.cit., p. 6.
88
W. Tillmans in Interview with Wolfgang Tillmans, op. cit., p.23.
89
Da una conversazione via e-mail con Tillmans, citato in Freischwimmer, catalogo della mostra personale (Tokyo Opera City Gallery, Tokyo, 2004) Tokyo
Opera City Gallery, Tokyo, 2004, p.104.
90
Ivi.
27
Freischwimmer 93, 2004.
Freischwimmer 15, 2003
Freischwimmer 151, 2010
La Freischwimmer 151, ad esempio, appare coperta di linee scure che sembrano galleggiare su un indefinito e profondo spazio
28
fluttuante, e nel suo disordine apparente risveglia domande fisiche universali sulla complessità del mondo. Nella mostra alla
Walker Gallery Liverpool del 2010, allestita dall’artista stesso, essa ha sostituito una grandissima tela fiamminga del 1525, The
Triumph of Fortitude, di argomento storico-religioso, posta nel fondo della sala. La scelta della posizione è inizialmente dovuta al
fatto che le dimensioni della tela originaria (4 metri per 5) combacino perfettamente con le dimensioni della Freischwimmer 151.
Solo in un secondo momento Tillmans si accorge del contenuto profondamente simbolico di questa coincidenza: laddove la tela
fiamminga parla di certezze e di verità assolute, l’astrazione della fotografia è perfettamente agli antipodi, portatrice di domande e
del bisogno di aprire gli occhi e la mente, permettendo alla libere associazioni di scorrere libere, come l’artista stesso ritiene sia
fondamentale fare davanti a ogni opera d’arte.91
Sono uno spettacolo per gli occhi e per tutti i sensi, rapiti da quella sensualità implicita, anticipata nei Blushes, che è una delle
peculiarità di Tillmans. Oltretutto queste immagini evocative e misteriose, che si ripetono in variazioni sempre diverse,
suggeriscono, secondo Eichler, “the idea that pictures perhaps can’t be new anymore or that everything made in the present can
only be a variation or reconfiguration of past innovations”92. Esse diventano immagini universali, che richiamano a un presente
perpetuo e soprattutto alla verità intrinseca del reale, che, nascosta sotto la sua mutevolezza, cela principi imprescindibili,
immagini primigenie di una visualità originaria. Il potere di rappresentare queste scene attraverso una pellicola fotografica è
esercitato a pieno titolo da Tillmans, innamorato dell’idea del “nuovo”, che ritiene “loaded with a kind of utopian belief or ethos
that possibilities in picture-making and life can and do exist” 93 . Le Freischwimmer, dunque, come tutte le sue opere, sono
inscrivibili nell’universo delle infinite possibilità della vita e, di conseguenza, dell’arte.
Nei paper drop e nei Lighter compare una nuova frontiera dell’astrazione, che ora l’artista concepisce soprattutto nei termini di
“struttura” e non tanto d’immagine in sé.
In particolare, nei paper drop essa è ottenuta attraverso la focalizzazione su un dettaglio, che viene così decontestualizzato e
astratto geometricamente, utilizzando una fotografia tradizionale e discostandosi così dalla “camera-less photography”.
Paper Drop (window), 2006
L’astrazione si presenta, in queste immagini, in due diverse modalità: prima di tutto “it becomes abstract in the sense that it is
91
Vedi W. Tillmans, Commentary in Wolfgang Tillmans, catalogo della mostra personale (Walker Art Gallery, National Museums Liverpool 2010) consultabile
all’indirizzo web: http://www.artscouncilcollection.org.uk/uploads/assets/Tillmans_catalogue_FINAL_14.09.10.pdf
92
D. Eichler, op.cit., p. 3.
93
Ivi.
29
broken down into fields of color” e in secondo luogo “conceptually in that it is a study of photography looking at itself”. 94 Inoltre,
così come in generale nell’intera produzione astratta, è ravvisabile, come ha osservato Eichler, l’azione dell’artista come
“colorista” dall’enorme sofisticazione. Il colore è, infatti, uno degli aspetti più importanti e tipici delle fotografie di Tillmans, che
lo considera sia come un’esperienza primaria sia come parte di un’indagine sul funzionamento delle immagini e della loro
significazione, sulla base di una prospettiva tanto soggettiva quanto storica e culturale. Quest’ultima è visibile soprattutto in
un’opera come Memorial for the Victims of Organized Religions (2006), dove i colori scuri e le sfumature tetre agiscono
sull’immaginazione dell’osservatore attraverso una simbologia dai connotati universali.
Memorial for the Victims of Organized Religions, 2006
Il colore assume una posizione di rilievo anche nelle Lighter, fotografie manipolate in diversi modi, spesso sgualcite o piegate,
poste sotto coperchi di plexiglas, così da formare vere e proprie sculture astratte, caratterizzate da giochi di ombre che variano di
pari passo allo spostamento dell’osservatore. Ecco dunque che le immagini diventano oggetti tridimensionali e vibranti : esse sono
la testimonianza più evidente di quel passaggio che l’artista effettua dalla fotografia come immagine alla fotografia come oggetto
e contemporaneamente rimandano alla sensazione di stupore provocata dalla pittura colour-field di Barnett Newman e Morris
Louis. Inoltre le immagini, nel loro bisogno di protezione, incorniciate come fossero reperti scientifici, conservano un senso di
decadimento e un desiderio di essere preservate dal tempo, poichè “their inevitable demise is an active ingredient in the
photograph’s hold on the present”, come sintetizzato da Eichler.95
94
95
Ivi.
Ivi.
30
Lighter, Blue Up V, 2009;
2010.
Lighter, Green Vi, 2010;
Lighter, Blue Up Ii, 2008;
Lighter, Green Concave Iv,
Museo de Arte de Lima, Lima, Perú, 19 Marzo – 16 June, 2013
Mental Pictures e Super Collider sono, infine, due serie che possono essere considerate alla luce dell’analogia individuata da
Tillmans tra la camera oscura e i locali notturni. Già le due immense Ostgut Freischwimmer, left e la Ostgut Freischwimmer, right
(entrambe del 2004) erano state pensate per un nightclub, ossia il Berghain, erede dello storico locale berlinese Ostgut: la club
culture è sempre stata una vera e propria fonte di ispirazione per Tillmans, che ne ha fatto, soprattutto agli inizi della sua carriera,
la sua musa e il suo principale campo d’indagine. Entrambi gli ambienti sono caratterizzati da un’equivalenza tra il giorno e la
notte, da una luminosità artificiale che sospende il ciclo naturale della luce portando a una sorta di anestesia sensoriale;
ambedue sono luoghi alienanti, che sottraggono il soggetto, pur sempre in modi diversi, alla vita che scorre al di fuori di essi.
In questo caso le Mental Pictures, il cui titolo rimanda alla pazzia, con i loro colori abbaglianti, quasi psichedelici, le forme
caleidoscopiche e artificiose fanno pensare alle luci dei locali notturni o a qualcosa di spaziale e straordinario, a “everything from
cosmic maps to intracellular machinations”96. Oltretutto potrebbero essere considerate un’evoluzione delle thought photographs di
Louis Darget, come osserva Lyle Rexer, in quanto potrebbero voler dire “this is what thinking looks like”97.
96
Ivi.
L. Rexer, op.cit., p. 183.
97
31
Mental Picture 45
Mental Picture 63
32
Le Super Collider, invece, con i loro lampi di colore che creano composizioni quasi geometriche, come fossero griglie, richiamano
alla mente finestre rivolte verso un mondo in cui la luce domina sulla sostanza98. Su di esse l’artista ha agito delimitando le
immagini secondo un formato industriale, come ha osservato Lane Relyea99, contrapponendosi così all’approccio per eccellenza
degli espressionisti astratti, che “tagliavano” le tele basandosi sulla loro sensibilità e visione personale.
Un altro originalissimo e sorprendente approccio si trova anche nelle fotografie intitolate faltenwurf, che consistono in panni e
materiali diversi inquadrati così da sembrare sculture indefinite e astratte, che attraggono l’occhio e, come sempre, lo stimolano a
trovare una risposta sulla loro natura.
Super Collider #2, 2001
Faltenwurf (blau), 1998
“In Tillman’s art image is infinite- everywhere, all the time and at once” ha scritto Michael Bracewell100. Le fotografie analizzate,
pur essendo solo una piccola parte dell’immensa produzione dell’artista, racchiudono in sé il senso profondo di un’opera che nel
suo enciclopedismo riassume perfettamente lo stato contemporaneo della fotografia, le cui preoccupazioni e attitudini sono
molteplici e sempre più spesso legate all’astrazione, oggi un metodo di indagine pari ad altri e non semplice esercizio di stile. Le
creazioni astratte sono il frutto di un mondo e di una cultura satura di immagini, dove l’individuo, immerso nel relativismo, è alla
continua ricerca di un senso. Fondamentale quindi, diventa l’opera degli artisti che, come Tillmans, anche grazie all’astrazione
creano nuove realtà e svelano nuovi mondi; così, riprendendo la lucidissima analisi di Marshall McLuhan si può dire che: “Antienvironments or counter-situations made by artists provide means of direct attention and enable us to see more clearly”101.
98
Ivi.
Vedi Relyea, op.cit., p. 9.
100
M.Bracewell, op.cit., p. 14.
101
M.McLuhan- Q.Fiore, The Medium is the Massage: an inventory of effects, Penguin, Harmondsworth, 1967, p.68.
99
33
Silvio Wolf
“The true mistery of the world is what can be seen, and not the invisible”
(Oscar Wilde)
La fotografia è sempre stata caratterizzata dalla possibilità di essere interpretata in modo metaforico o descrittivo. Per Roland
Barthes, ad esempio, l’arte della fotografia è latrice di un significato altro e profondo, attraverso il cosiddetto punctum102, capace
di trasportare emotivamente l’osservatore al di là della natura fisica e oggettiva dell’immagine. A lungo grandi critici e artisti
famosissimi, invece, hanno considerato la fotografia semplicemente come un “indice”, uno strumento neutro indispensabile per
determinate funzioni, come la propaganda e il documento. Robert Rauschenberg, Andy Warhol e Gerard Richter, solo a citarne
alcuni, hanno ampiamente utilizzato il mezzo fotografico, ma sempre ed esclusivamente con l’intento di eliminarne, addirittura, il
valore di culto, rendendola semplice “prosa del mondo”, secondo la celeberrima definizione di Maurice Merleau-Ponty. 103
Solamente in seguito la fotografia diviene anche strumento di riflessione su se stessa ed è nobilitata a “arte” in sé; grande
importanza in tale frangente avrà senza dubbio il progresso tecnologico in ambito digitale, che spesso lascerà alla fotografia
chimica la prerogativa metaforica.
Negli ultimi decenni, però, ci sono stati autori innovativi, come Luigi Ghirri e Franco Vaccari, che hanno consolidato la propria
ricerca sul tentativo di unire i due volti della fotografia, descrittivo e metaforico, spingendo a fondo lo sguardo e la tecnica nel
sottile equilibrio che può permetterne la co-esistenza al fine di evitare quella che Lyle Rexer chiama “fotografia ingenua”.104 Grazie
all’apporto di queste personalità si afferma una pratica fotografica auto-consapevole, che permette una più profonda
comprensione, in un costante rinnovamento, di una delle grandi invenzioni della modernità.
In questo panorama storico-artistico spicca Silvio Wolf, artista milanese nato nel 1952. Dopo gli studi di filosofia e psicologia, egli
si rivolge all’arte con uno stile eclettico e concettuale, creando opere e installazioni che lo metteranno in luce come una
personalità unica. Anche se inizialmente Wolf fa della metafora il suo punto fermo, ben presto il suo stile fotografico si evolve
attraverso un’indagine linguistica che si risolverà in risultati astratti. Di certo l’assenza del soggetto pone un accento sull’aspetto
casuale della loro composizione, sottolineata dallo stesso Wolf in riferimento particolare a certe opere, tra le quali gli Horizons.
Questo ha permesso ad alcuni critici, come Augusto Pieroni105 , di obiettare che, se la casualità è così importante, allora cercare di
trarre un significato metaforico nonostante l’artista stesso non dia una risposta definitiva, forse non ha molto senso.
Sono domande che potrebbero apparire spontanee e legittime ma che in realtà sono la chiave di lettura dell’intera opera di Wolf e
degli altri artisti dalla simile “poetica”: la fotografia è, per loro, un “meditational instrument”, come l’ha definita Lyle Rexer106.
L’osservatore, infatti, ponendosi costantemente domande sulla natura dell’opera è portato dal suo occhio a viaggiare, a librarsi
metafisicamente mentre una fotografia “classica” trattiene la mente all’apparenza fenomenica. E’ interessante notare come
l’analisi filosofica peculiare di Wolf, sorgente delle sue azioni artistiche, sia riconducibile ai principi della cabala 107 ebraica,
secondo la quale la consapevolezza si raggiunge inizialmente attraverso la contemplazione del reale per poi superarla, arrivando a
toccare un sopraelevato piano simbolico.
102
Vedi R. Barthes, La camera chiara, op.cit..
Vedi La prose du monde, a cura di C. Lefort, Gallimard, Paris, 1969, trad. it. La prosa del mondo, Editori riuniti, Roma, 1984.
104
Ivi.
105
Vedi A. Pieroni, Più guardo il quadro, più vedo la fotografia, in Hotshoe, saggio monografico, Hotshoe International, London, 2007, pp.30-29.
106
L. Rexer, The Edge of Vision, op. cit., p.193.
107
Vedi l’intervista sulla cabala ebraica in L. Rexer, The Edge of Vision, op. cit., pp. 205-206.
103
34
L’intero lavoro di Silvio Wolf rivela, nella pluralità di linguaggi e nel carattere tipicamente astratto dei suoi risultati, un’omogeneità
tematica che nelle sue declinazioni ruota attorno alla soglia e alla luce, gli orizzonti principali all’interno dei quali la sua arte
indaga la realtà e che, quindi, necessitano di essere illustrati per poter comprendere al meglio le sue opere.
Secondo Wolf la soglia “è il luogo reale, fisico e simbolico che attraversiamo tutti i giorni e che rappresenta metaforicamente la
distanza tra l’assenza e la presenza, tra il qui e l’altrove, tra la luce e la sua assenza. E’ quel luogo che connette mentre separa”.108
La fotografia, di conseguenza, è la soglia per antonomasia, una superficie di discontinuità che trattiene l’osservatore hic et nunc,
ma che allo stesso tempo lo proietta altrove, nella fissità del tempo riprodotto, rendendosi così limite “della percezione e
dell’esperienza”109, che è indagato sia nella sua natura fisica, poiché linguaggio, sia nel suo immaginario, come spiega Giorgio
Verzotti.110
Silvio Wolf, inoltre, è profondamente interessato al ruolo dell’uomo-spettatore, cioè a chi usufruendo della sua arte diviene il
soggetto della percezione e l’interprete della sua opera, anche in virtù delle aspettative culturali e sentimentali innate nella natura
umana. La società odierna è sempre più gremita d’immagini che, qualunque sia la loro natura, sono connotate da “irrimediabile
polisemia e ambiguità statuaria” 111 , fattori che spesso conducono il rapporto dell’uomo con le immagini a basarsi sulla loro
“istanza fantasmatica”112. Proprio questa mancanza, questo senso di perdita di riferimento con la realtà è basilare nella ricerca
dell’artista. Nelle opere di Wolf, infatti, si vive l’assenza del soggetto, ossia l’astrazione, che poi diventa, a un’analisi più
approfondita, mancanza di qualsiasi tipo di referente in grado di conferire un significato univoco all’immagine. E’ presente una
sensazione d’irrealtà e di spaesamento che è in grado di attrarre inevitabilmente l’osservatore, e che l’artista plasma nelle sue
opere attraverso la luce. Quest’ultima, intesa fisicamente e non metafisicamente, è il fil rouge che lega le opere, il suo stimolo ma
anche la sua ossessione, una costante intrinseca nel suo pensiero. Wolf stesso ha spiegato: “Nel mio lavoro la luce è attivamente
soggetto e mezzo; avverto un vincolo inscindibile tra processo e forma, linguaggio e realtà: l’uno è l’altra. Fotograficamente
parlando la luce opera uno strappo virtuale, che mi consente di materializzare in un luogo intenzionato l’altrove. Essa genera una
condizione d’ubiquità, un legame immateriale tra corpo reale e corpo virtuale: i due esistono simultaneamente in un unico, nuovo
spazio-tempo”.113 Nelle sue fotografie la luce viene smembrata, analizzata, ricostruita, cancellata ma anche percepita e colta così
com’è attraverso opere che se ne servono a livello strutturale. In pratica, come ha osservato Sandra Bonfiglioli114, Wolf “si avvale e
rende sensibile il carattere paradossale della luce”, che consiste nel suo essere “veicolo di molti di trascrizioni e inscrizioni” ma
anche nella capacità di “darsi corpo nelle immagini”. Oltretutto è interessante notare che così com’è indispensabile la luce lo è
anche l’ombra ed è proprio dal loro dialogo-scontro che nasce la possibilità di narrazione e di concretizzazione del pensiero. Come
ha spiegato Vittorio Fagone: “L’opera di Wolf ha il rigore lucido della sperimentazione che ama tenersi vicino al gioco strutturale
(tecnico e linguistico) dell’atto fotografico; dentro questo orizzonte scopre icone che non richiedono venerazione idolatre o
estatiche, ma slittanti aperture di senso, riconoscimenti dentro l’articolata, costruita densità di un linguaggio ancora
generativo”.115
Infine Wolf ha un’altra grande ossessione che merita di essere indagata più a fondo: il tempo, già oggetto di indagine delle
maggiori correnti artistiche del Novecento, come il cubismo e il concettualismo. Wolf vuole cogliere il tempo nel suo sovrapporsi
alla luce che “in modo terreno, incontra ogni oggetto, segno visibile, con un’intensità tale da ricavarne un’impressione nel
108
Come dichiarato da Wolf nella video-intervista visibile all’indirizzo web: http://www.dailymotion.com/video/xlw4md_fotografia-luce-soglie-ascolto-silviowolf-al-pac-di-milano-mostra-multisensoriale-l-osservatore-div_news in occasione della mostra personale Sulla Soglia, ( Pac, Milano, 2011).
109
Come dichiarato da S. Wolf nella video intervista rilasciata a S. Iovine per Fotografia: parliamone!, Milano, 2011, visibile all’indirizzo web:
http://www.youtube.com/watch?v=NZTgwcymKJM.
110
Vedi G. Verzotti, in Silvio Wolf, Sulla Soglia/On the treshold, catalogo della mostra ( Pac, Milano, 2011) Silvana Editoriale, Milano, 2011, p.14.
111
Ivi.
112
Ivi.
113
S.Wolf, Luce, in Sulla Soglia/On the Treshold, op.cit., p.82.
114
S. Bonfiglioli, Un altrove dello spazio e del tempo, in “Il colpo del barbaro”, n.8, Nes Lerpa, Milano, 1991, p.88.
115
V. Fagone, Silvio Wolf, in documenta 8 katalog, catalogo della mostra (Kassel, 1987).
35
momento stesso in cui l’immagine viene bruciata nel fuoco di una evidenza assoluta”, come ha sottolineato Fagone116. Questa è la
consapevolezza che sta alle fondamenta di ogni fotografia, certo, ma che in Wolf si situa all’interno di una riflessione ben precisa.
Il tempo, infatti, può essere percepito da vari punti di vista, come attimo, come momento della percezione della luce e soprattutto
come “il canone in cui l’immagine acquista identità e possibilità di trasmutazioni, fisicità allusa, densità” 117 . Dunque che è
soprattutto nel rapporto luce-tempo, nella loro intrinseca correlazione e in tutte le possibili interpretazioni che si può ravvisare il
fondamento dell’opera di Wolf e l’aspetto più peculiare della sua ricerca in termini di astrazione.
Le fotografie di Silvio Wolf sono inscrivili all’interno di un percorso cui dà vita lo studio sulla e con la luce, della quale, nella sua
opera più che mai, sono espressione le fotografie astratte, divisibile nei tre grandi gruppi esposti nella sua mostra monografica
Sulla Soglia, tenutasi al Pac di Milano da 7 ottobre a 6 novembre 2011. Il primo grande gruppo di lavori è quello che fa della luce
il suo oggetto particolare d’indagine, e comprende opere come Icone di Luce (dal 1991) e Light Wave (2009).
Le prime sono emblematiche per il doppio ruolo svolto dalla luce, che è sia il mezzo che rende possibile la fotografia sia lo
strumento che cancella, abbagliando, l’immagine dei dipinti ad olio fotografati, dei quali rimangono visibili solo la superficie
pittorica e la cornice prospettica. Ora il vero soggetto, inquadrato, è la luce stessa. Viene mostrato, così, in che modo il visibile
stesso possa nascere “dall’illuminazione e dalla cecità”, come spiega Wolf.118 Le prospettive dei quadri, inoltre, sono amplificate
dall’inquadratura, e diventano il sinonimo perfetto dei punti di vista diversi che ogni osservatore assume davanti a un’opera; ecco
che il soggetto occupa un posto di spicco, tanto che la sua possibile “posizione mentale” diventa un connotato fisico
dell’immagine stessa. Lo stesso osservatore prende coscienza di come nella convivenza due realtà, quella fotografica e quella
pittorica, “si fondono e danno vita a nascite e morti spontanee”119, in un “ciclo iconografico auto-generativo” che fa della luce
“soggetto e mezzo d’un processo potenzialmente infinito”120.
Icone di luce, 1993
Icone di luce, 1993
La spettacolare aurea magica di Light Wave, presentata per la prima volta alla 53° Biennale di Venezia, è stata creata attraverso la
ripresa della luce generata da un proiettore cinematografico in un unico grande fotogramma, grazie a delle esposizioni
116
V. Fagone, L’abbagliante spiraglio di una visione futura, catalogo della mostra (Galleria Cavallini, Milano, 1989) Edizioni Nuovi Strumenti, Brescia, 1989,
p.56.
117
Ivi.
118
S. Wolf, Luce, op. cit., p.82.
119
Ivi.
120
Ivi.
36
lunghissime. L’artista si è immerso, letteralmente, nella luce, “ordinandola” e sviluppando quella che ha chiamato una
“architettura di luce”, ossia una sua “immagine organica” 121 in cui l’autore è totalmente eclissato, tanto che, riprendendo il
famoso saggio di Roland Barthes, si potrebbe parlare di una vera e propria “morte dell’autore”122. Essa è legata inscindibilmente,
occorre ricordare, a una ritrovata funzione dell’osservatore, il cui ruolo bilancia pienamente l’assentarsi dell’artista.
Light Wave, On the Threshold, 2011
Proprio partendo da questi due principi Wolf ha realizzato un’altra importante riflessione artistica: gli Horizons. Essi sono
tecnicamente gli spezzoni iniziali della pellicola fotografica, esposti in automatico alla luce nel momento del caricamento della
macchina. L’autore li sceglie, ingrandisce e combina eliminando i fori di trazione della pellicola e creando immagini che spesso
possono richiamare alla mente le campiture colorate di Rothko.
Gli Horizons, definiti da Wolf “immagini prima del tempo”, sono parte di “un processo off-camera che avviene in camera: un
paradosso che produce immagini pre-fotografiche scritte direttamente dalla luce”123. Il loro mistero risiede, pertanto, nel fatto che
l’autore renda oggetto della propria opera non tanto il mondo, quanto lo stesso linguaggio come concretizzazione del mondo
visibile e lo faccia attraverso i codici che gli sono propri, ossia la bidimensionalità e la luce. Le immagini di questa serie sono
concepite come attuazioni di vere e proprie chances, da cui il titolo di alcune, intese come occasioni d’incontro tra il tempo, la luce
e la materia, che si configurano, a detta dell’autore, come “le ultime «vere» fotografie del XX secolo”124. Esse, infatti, si oppongono
ontologicamente alla diffusione d’immagini descrittive, icone spesso vuote di una realtà globalizzata, che hanno paradossalmente
superato quantitativamente, grazie della riproducibilità tecnica, gli oggetti esistenti.125 Ogni Horizon è pensato come la soglia in cui
si ricompone la realtà, composta di luce e ombra così come di materia e linguaggio. Essa, così, ritrova sulla pellicola fotografica la
capacità di “parlare”, attraverso un “cortocircuito linguistico”126 che facendola coincidere con l’oggetto rappresentato le restituisce
la sua natura autentica. La luce, quindi, rivelata e trascritta dalla fotografia, permette all’artista di interpretarla a posteriori: nella
composizione dell’immagine Wolf si manifesta esclusivamente “nella scelta di quanto bianco (eccesso d’informazione) e di quanto
121
Ivi.
Vedi R. Barthes, La morte dell’autore, in Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino, 1988, p.51.
123
S. Wolf, in Astrazioni, op.cit., p.62.
124
Ivi.
125
Cfr nota 8.
126
Ivi.
122
37
nero (assenza d’informazione) includere nell’immagine, la posizione dove collocare la soglia, la linea che separa fisicamente la
luce dalla sua assenza [… ] la potenza dall’atto.”127
Horizon 14 – Yellow, 2002
Horizon 16- Chance 03, 2002
127
S. Wolf, Astrazioni, op.cit., p.62.
38
Attraverso queste opere si realizza appieno la concezione dell’astrazione per Silvio Wolf, secondo il quale essa è propriamente
“l’astrazione dal fiume del tempo”128, ossia la cristallizzazione di un instante reale che, grazie al mezzo fotografico, è in grado di
elevarsi metafisicamente al di là di forme riconoscibili all’occhio, in “immagini mentali che nel reale si riconoscono
simbolicamente”.129 Tutta la sua creazione artistica sboccia e si sviluppa da questo presupposto, che porta necessariamente a
un’astrazione in cui il tempo è una nozione fondamentale, così come lo è nelle Meditations. Esse, fotografie specchiate
completamente nere e retro-illuminanti, sono per definizione stessa di Wolf “strutture cromatiche astratte, auto-referenziali, atemporali, a-spaziali”.130 La loro caratteristica peculiare, il nero, è la metafora per antonomasia della sovraesposizione “a tutte le
immagini del mondo”, che “ha annerito la superficie fotosensibile, rendendo la Realtà retinicamente invisibile”, come spiega
Wolf.131 Nell’assorbimento passivo d’immagini, alle quali il mondo è esposto, abbiamo ancora la possibilità, sembra voler dire
l’artista, di scorgere noi stessi: ecco che “l’immagine di tutte le immagini”132 si fa specchio, e allo stesso tempo luce, che viene
irradiata e permette all’osservatore la visione di se stesso.
Meditation, 2009
128
Ivi.
Ivi.
130
S. Wolf, Specchi, op.cit., p.36.
131
Ivi.
132
Ivi.
129
39
Lo stesso rapporto biunivoco è presente nelle Soglie a Specchio, ottenute con la tecnica della stampa a getto d’inchiostro che, non
potendo creare il bianco su superfici ad alto potere riflettente dello stesso colore, si presenta come uno specchio. In sostanza è
proprio dove vi è assenza di colore che lo spettatore si riflette, diventa il vero Soggetto dell’opera e, come spiega Wolf, “l’immagine
è presentazione, non rappresentazione: una relazione nella quale il soggetto vede sé e l’altro da sé- il mondo e l’immagine del
mondo-contemporaneamente.” 133 L’astrazione, quindi, viene ricondotta a una rappresentazione del reale, attraverso la propria
fisicità , che, essendo stata attivata, ne è la caratteristica principale. Oltretutto, rifacendosi sempre alla nozione di “astrazione dal
fiume del tempo”, è interessante notare come proprio in questo caso, grazie allo specchio, essa si renda filtro della “Realtà
dell’Immagine” che “è mentre accade”,134 e si faccia testimone di un attimo che coincide con la pienezza compositiva dell’opera.
La partecipazione nella creazione dell’opera stessa è portatrice di una sacralizzazione del soggetto, che si sente nobilitato
nell’osservare se stesso in un’opera d’arte. Quest’ultima, però, è caratterizzata da una duplice via interpretativa: laddove il nero è
sinonimo di morte della percezione, il suo potere riflettente corrisponde alla sua funzione più autentica, cioè “emblematizzare una
fine e al tempo stesso dar vita ogni volta a un nuovo inizio”, come osserva Giorgio Verzotti.135
Soglia a specchio / Mirror Treshold, Aperture 2009
Soglia a specchio / Mirror Threshold 16, 2011
Si può, infine, osservare come il potere evocativo delle immagini astratte e la loro innata capacità di porre quesiti abbiano
raggiunto il loro apice proprio nell’opera di Silvio Wolf, che ha dichiarato: “La fotografia è la forma di una domanda che ha
133
Ivi.
Ivi.
135
Vedi G. Verzotti, op.cit., p.28.
134
40
espressioni e risposte multiple”136 . Di conseguenza perlustrarla è il modo per permettere al reale di realizzarsi in interpretazioni
che parlano all’osservatore, sempre che sia in grado di ascoltare. Oltretutto è proprio la fissità dell’immagine, se si trattiene lo
sguardo, che permette a chi la osserva di percepire i propri cambiamenti man mano che le interpretazioni cambiano e si evolvono,
proprio come il tempo. L’enigma della fotografia e la sua soluzione insomma, secondo Wolf, dipendono dall’uomo, che può capire
se stesso, le proprie aspettative e il proprio rapporto col reale. Essa si conferma come uno strumento meditativo che, citando
Fagone, “può rivelarsi un saliscendi fruttuoso che muove la finestra della nostra immaginazione facendoci intravedere un
abbagliante spiraglio della visione futura”.137 E’ proprio in virtù di ciò che Silvio Wolf mostra di essere esattamente come lo aveva
definito Lyle Rexer, ossia un ”divinatore”138 della fotografia dall’intuito straordinario.
136
Cfr nota 8.
V. Fagone, L’abbagliante spiraglio di una visione futura, op. cit., p.56.
138
L. Rexer, Silvio Wolf: La porta verso la soglia, in Paradiso, Photography and video by Silvio Wolf, catalogo della mostra (Galleria Gottardo, Milano, 2006)
Contrasto, Roma, 2006, pp.122-131.
137
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