Formato pdf - Il Porto di Toledo

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Ein Landarzt di Kafka: lo spazio, la scrittura, la traduzione
Ein Landarzt di Kafka: lo spazio, la scrittura, la traduzione
Lorenzo Licciardi
Il sangue m’incita a essere una reincarnazione di mio
zio, il medico di campagna, che talvolta chiamo “il cinguettante” (in tutta simpatia) perché ha una verve sottilmente inumana, un’arguzia perenne da celibe che gli
vien fuori come dalla gola stretta di un uccello. E vive
così, in campagna, inestirpabile, soddisfatto, poiché si
può essere soddisfatti di una follia leggera e frusciante
accettata come la melodia del vivere.
La ricezione di Kafka lungo quasi un secolo di storia sembra aver
indotto progressivamente un approccio alla sua opera sempre più distante da una osservazione circoscritta della sua narrazione. La
decodificazione della scrittura sembra aver perso la sua centralità a vantaggio di riflessioni non sempre inerenti allo specifico letterario, da cui
sembra discendere anche la convinzione di una sostanziale
“intraducibilità” del codice kafkiano, accettata talora sotto forma di rinuncia.
La base del problema interpretativo risiede senza dubbio nel complesso intreccio della prosa di Kafka, nella quale i piani si sovrappongono
costantemente, l’illusione e la realtà si scambiano continuamente le parti: penetrare questo mondo significa condividerne innanzitutto proprio
la confusione, sondarlo significa ammetterne l’indecifrabilità. Ma percorrendo la geografia di questo spazio narrativo, c’è tuttavia un modo
per orientarsi: seguire i segnali concreti e oggettivi, le indicazioni fornite dalla scrittura stessa. La parola di Kafka, che ha i toni secchi della
denotazione anche quando connota, è il solo dato certo che suggerisca
una direzione: la «nuda e dura precisione dell’arte» di cui parla Mittner
è forse l’unico fondamento che consente di recuperare una parvenza di
orientamento all’interno di una scrittura che è, fra le tante altre cose,
racconto di uno smarrimento che coinvolge il lettore non meno che l’autore stesso.
Lo spazio, la scrittura
Ich durchmaß noch einmal den Hof; ich fand keine Möglichkeit;
zerstreut, gequält stieß ich mit dem Fuß an die brüchige Tür des
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schon seit Jahren unbenützten Schweinestalles. Sie öffnete sich und
klappte in den Angeln auf und zu. Wärme und Geruch wie von
Pferden kam hervor. (Ein Landarzt, E 253) 1
Sotto la coltre di polvere accumulatasi negli anni, dietro lo strato d’ombra di luoghi a lungo dimenticati, si apre inaspettatamente uno spiraglio di luce fioca, grazie all’urto involontario di un piede, mosso da un
passo incerto e privo ancora di una meta sicura.
Lo spazio dei racconti di Kafka si schiude da sé, si rivela come per
caso, si apre come una vecchia porta di legno, scricchiolando, lascia uscire
il suo calore ed il suo odore, che dalla stalla giungono ai sensi del medico di campagna. I cavalli che, poco dopo, trainano la vettura del medico
fino alla lontana casa del suo paziente, galoppano maestosi sulle righe
stesse della pagina, balzano lanciati nella corsa dalla voce che li racconta, ma nel calpestare il foglio i loro zoccoli lasciano impronte visibili:
tracce linguistiche e narrative che disegnano le traiettorie dei loro movimenti. Inoltrarsi nel racconto significa seguire queste orme e seguire
queste orme significa seguire la sorte del medico, presto smarrito nel
mezzo di un’immensa distesa di neve.
Ma se sul bianco della pagina i cavalli lasciano le loro impronte, ciò
non è vero per il bianco del suolo innevato: il loro spostamento è un
volo senza traccia. Per Kafka, lo spazio della letteratura non consente
approdo né ritorno, privo com’è di vie di uscita: è insieme evasione e
trappola, salvezza e condanna. Ein Landarzt (1917) è un modello
paradigmatico della scrittura di Kafka, dello schema vettoriale della sua
narrazione: un terreno fertilissimo per individuare la possibilità di
spazializzare, addirittura in chiave geometrica, le forme della sua immaginazione. Già dieci anni prima di questo racconto, Kafka componeva
un breve schizzo intitolato Der Fahrgast:
Ich stehe auf der Plattform des elektrischen Wagens und bin
vollständig unsicher in Rücksicht meiner Stellung in dieser Welt, in
dieser Stadt, in meiner Familie. […] Ich kann es gar nicht verteidigen,
1
Per la datazione e per le fonti dei testi citati si rimanda all’edizione critica degli scritti di
Franz Kafka: Schriften Tagebücher Briefe, Kritische Ausgabe, a cura di J. Born, G. Neumann,
M. Pasley e J. Schillemeit, Frankfurt am Main 1982 sgg. I racconti e le prose sono citati dal
volume F. Kafka, Die Erzählungen und andere ausgewählte Prosa, a cura di R. Hermes,
Frankfurt am Main 1996 (che si basa sulla suddetta edizione critica) e indicati per brevità
con la sigla E, seguita dal numero della pagina cui si fa riferimento. I passi citati dai racconti
in italiano sono da me stesso tradotti, mentre per i passi tratti da quaderni e diari è indicata
la fonte e il traduttore.
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daß ich auf dieser Plattform stehe, mich an dieser Schlinge halte,
von diesem Wagen mich tragen lasse, daß Leute dem Wagen
ausweichen oder still gehn, oder vor den Schaufenstern ruhn. (E 17)
Il «passeggero» non ha bisogno di muoversi, non deve scegliere quale strada imboccare, può lasciarsi invece trasportare dal tram elettrico
su cui è salito. Il racconto rimane chiuso nei confini dello spazio in cui è
ambientato, il protagonista rimane immobile al suo posto, la narrazione
termina senza alcun effettivo spostamento da parte sua. A corsa finita,
però, il passeggero dovrà verosimilmente scendere dalla vettura, seppure
incerto sulla propria «posizione in questo mondo, in questa città», nella
sua stessa famiglia. Non si rischia di forzare troppo la scena immaginando che, una volta disceso dal tram, l’anonimo viaggiatore si ritrovi
ad affondare i piedi nella neve. Alzati gli occhi da terra, si guarderà
intorno, interrogandosi sugli oggetti che lo circondano, sui luoghi che
lo ospitano, in «questo mondo». Prima ancora di affannarsi a cercare
una via, egli dovrà riuscire a distinguere una meta, lontano, all’orizzonte. Lontano: è questo lo scenario che gli si para davanti agli occhi, appena
li alza dal suolo: l’infinita lontananza, che disperde la prospettiva e toglie ad essa ogni contorno2 . Ecco che su questo stesso suolo innevato,
lungo il confine remoto della linea dell’orizzonte, si potrebbe udire il
passo angosciato del medico di campagna. Sollecitato dall’urgenza di
una visita ad un malato grave, il medico è tuttavia gravato dall’impaccio di non poter raggiungere il suo paziente:
Ich war in großer Verlegenheit: eine dringende Reise stand mir bevor;
ein Schwerkranker wartete auf mich in einem zehn Meilen entfernten
Dorfe; starkes Schneegestöber füllte den weiten Raum zwischen mir und
2
Sul motivo ricorrente della lontananza, numerosi i riscontri possibili. La vitalità ingenua
dell’età infantile consente in Kinder auf der Landstraße (1910) di provare ancora ad inseguire l’orizzonte: così lo sguardo dei bambini si disperde in lontananza, insieme al loro canto,
rincorrendo ‹‹viaggiatori lontani›› che sfilano via in treno. Eine kaiserliche Botschaft (1917) è
la parabola di un messaggio mai portato a destinazione, proprio per la distanza che divide mittente e destinatario del messaggio. La separazione fra il punto di partenza e il punto d’arrivo – ovvero fra l’imperatore e un suo suddito cui è diretto il misterioso messaggio
– è data dalla ‹‹più lontana delle lontananze››. La distanza che separa il centro e la periferia dell’impero assume proporzioni che travalicano addirittura il limite dell’immaginazione umana in Unser Städtchen liegt…(1920): ‹‹Unser Städtchen liegt nicht etwa and der
Grenze, bei weitem nicht, zur Grenze ist noch so weit, daß vielleicht noch niemand aus
dem Städtchen dort gewesen ist. […] Aber doch noch weiter als bis zur Grenze ist, wenn
man solche Entfernungen überhaupt als bis zur Grenze ist es von unserem Städtchen zur
Hauptstadt. […] Man wird müde wenn man sich nur einen Teil des Weges vorstellt und
mehr als einen Teil kann man sich gar nicht vorstellen.›› (E 358 – c.vi miei).
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ihm; einen Wagen hatte ich, leicht, großräderig, ganz wie er für unsere
Landstraßen taugt; in den Pelz gepackt, die Instrumententasche in
der Hand, stand ich reisefertig schon auf dem Hofe; aber das Pferd
fehlte, das Pferd. (E 253 – c.vi miei)
Fra gli impedimenti, il primo è la distanza, che non può essere coperta dal medico con le sue sole forze; la libertà della vista diviene subito
oppressiva limitazione, perché da essa deriva solo la coscienza della
vanità di ogni movimento: non è possibile raggiungere alcun punto, né
prefiggersi alcuna meta. Se alla distanza incolmabile si aggiunge una
desolante distesa di neve, e se persino l’aria – ostruita da una fitta tempesta – è tanto densa che non è possibile fenderla, allora muoversi su
questo territorio diventa un’impresa eroica, che non sembra alla portata
di un semplice medico condotto. Come un attore spinto all’improvviso
su un palcoscenico, l’uomo di Kafka non sa cosa fare, si aggira goffo in
cerca di un segno, di una spiegazione, di una ragione su cui fondare un
obiettivo3 :
Mein eigenes Pferd war in der letzten Nacht, infolge der
Überanstrengung in diesem eisigen Winter, verendet; mein
Dienstmädchen lief jetzt im Dorf umher, um ein Pferd geliehen zu
bekommen; aber es war aussichtslos, ich wußte es, und immer mehr
vom Schnee überhäuft, immer unbeweglicher werdend, stand ich
zwecklos da. (E 253)
È il freddo a immobilizzare gli arti, congelandoli, rendendo persino
innaturale la sopravvivenza dell’essere umano, che vaga smarrito come
un animale spinto fuori del suo habitat. L’«inverno gelido» ha ucciso
anche il cavallo del medico, l’unico mezzo di trasporto a sua disposizione. Il freddo è qui figura di una paralisi: überhäuft, unbeweglich, zwecklos,
in questi tre aggettivi risiede la condizione di sovraccarico (über-), impossibilità (un-), privazione (-los).
Alla distanza (Ferne) si somma la componente del gelo (Frost),
configurando una «terra invernale»4 : il medico sarà vero e proprio por3
Cfr. W. Benjamin, Angelus Novus – Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Torino 1962,
p. 289: ‹‹Il mondo di Kafka è un teatro universale. Per lui l’uomo è naturalmente in scena››. Benjamin mette in evidenza la corrispondenza che esiste fra l’ambientazione delle
opere di Kafka e uno scenario specificamente teatrale, in cui i personaggi sono costretti ad
assumere un ruolo, senza reale cognizione né possibilità di scelta.
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La neve ricopre con singolare frequenza gli scenari della fantasia creativa di Kafka: è
sicuramente invernale lo spazio kafkiano. Si è appena visto come in Ein Landarzt la neve e
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tatore «epocale» di questo stato di desolazione: il momento conclusivo
della sua visita al paziente lontano lo vede abbandonato nel bel mezzo
dello stesso deserto di neve, superato dapprima solo grazie all’intervento di «cavalli ultraterreni». Eccolo, infine, nudo e vulnerabilissimo,
sfinito da un’improvvisa debolezza senile, che si trascina sopra un carro
ormai inservibile, disperso in un interminabile «deserto di neve»
(Schneewüste), «esposto» al gelo di un «inverno senza fine», perché inverno di un’intera «sventuratissima epoca»:
Nackt, dem Froste dieses unglückseligsten Zeitalters ausgesetzt, mit
irdischem Wagen, unirdischen Pferden, treibe ich mich alter Mann
umher. (E 259-260)
Il suo grido è un disperato appello che taglia in due parti il racconto,
solcandolo nel mezzo con cadenza tragica e solenne: «Was tue ich hier
in diesem endlosen Winter!» (E 256). In questo spazio fatto di distanza e
freddo, inospitalità e disagio, l’eroe kafkiano si perde disorientato, debole come un vecchio, e indifeso come fosse appena nato, posto di fronte ad uno spazio difficile, colmo di ostacoli e di impedimenti, fatto apposta perché egli vi inciampi e cada al suolo: «La vera via passa su una
corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra fatta più per far inciampare che per essere percorsa.»5 . Non rimane che prendere atto della sconfitta, dell’inevitabilità di subire lo spazio – subire gli spietati attacchi atmosferici, subire il peso della propria impotenza a muoversi,
subire la tragedia della paralisi. Si tratta di una trappola senza uscite, e
pure senza ingressi, dove si viene rinchiusi senza sapere come: «Una
gabbia andò a catturare un uccello» scrive Kafka nei suoi quaderni6 . Ed
è il trionfo del capovolgimento del rapporto fra uomo e spazio: l’uomo
è immobile, lo spazio prende vita e lo cattura, bloccandolo in una staticità insolubile - il colmo del paradosso: non solo è assurdo che qualcuno
si conduca da solo in una prigione (come invece succede spesso nei racconti di Kafka), ma qui è addirittura la prigione a cacciare e rinchiudere
la sua “preda”.
la bufera ostruiscano un percorso già arduo per la sua estensione. Ugualmente, sono
innevati i paesaggi di Beschreibung eines Kampfes (1902-1904), di Der Kübelreiter, in cui il
gelo penetra fin dentro casa (1917) e, per antonomasia, il paesaggio descritto già nelle
prime righe del romanzo Das Schloß (1922).
5
F. Kafka, Lettera al padre – Gli otto quaderni in ottavo, Milano 1972, p. 77 (trad. di I. Chiusano).
6
Ivi, p. 78.
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Per il medico, liberarsi dall’impaccio iniziale e raggiungere finalmente
la casa del malato (prima di abbandonarla in fuga e perdersi nel deserto), non significa altro che cacciarsi in un nuovo disagio, in una
claustrofobica angustia da cui non c’è scampo. I gesti e i comportamenti
dell’anziano padre di famiglia, nella casa del paziente, sono il principio
del suo malessere:
Ein Glas Rum wird mir bereitgestellt, der Alte klopft mir auf die
Schulter, die Hingabe seines Schatzes rechtfertigt diese
Vertraulichkeit. Ich schüttle den Kopf; in dem engen Denkkreis des Alten
würde mir übel; nur aus diesem Grunde lehne ich es ab zu trinken. (E
256 – c.vo mio)
Improvvisamente rinchiuso nell’angusto «cerchio»7 mentale di quel
vecchio, prigioniero di una dimora estranea, il medico desidera immediatamente la fuga, ma viene obbligato a rimanere vicino all’ammalato,
fino a ritrovarsi denudato e disteso nel letto del paziente, accanto alla
ferita infetta, privo di spazio vitale, con il muro da una parte e l’infezione brulicante del ragazzo dall’altra. Il paradosso qui è che lo stesso medico toglie spazio al giovane nel suo letto di morte: vittime l’uno dell’altro, i due si ritrovano a togliersi l’aria a vicenda, fino ai limiti del soffo-
7
Il cerchio è la figura geometrica, la rappresentazione grafica e simbolica di questa condizione di immobilità; la paralisi determinata dall’insieme di angustia e vertiginosa vastità
trova il suo schema visivo nella forma dei cerchi concentrici. Si è già preso in analisi il
disegno urbanistico delle città inserite l’una nell’altra descritta nel racconto Unser Städtchen
liegt…; di cerchi concentrici è composta pure la città imperiale in Eine kaiserliche Botschaft:
il messaggero non può che attraversarla andando avanti ad oltranza, senza raggiungere
mai la sua destinazione, in un viaggio interminabile. A disorientare il suo cammino è
proprio la circolarità dello spazio (i cui cerchi sono composti dalla folla di funzionari del
palazzo imperiale; dal palazzo stesso, fatto di stanze, scale, cortili ed ulteriori edifici; infine dall’immensa città imperiale, colma di persone e di rifiuti) che disperde ogni punto
nell’indifferenziata area del cerchio, in mancanza di linee dritte, di vie che portino ad un
bersaglio visibile (di qui lo smarrimento d’ogni meta, troppo lontana, troppo sfocata). Nei
Diari, Kafka scrive: «Sembrava che a me come a tutti gli altri fosse dato il centro del cerchio e come tutti gli altri io dovessi percorrere il raggio decisivo e poi tracciare il bel cerchio. Invece ho preso sempre la rincorsa verso il raggio, ma sempre ho dovuto interromperlo.» Smarrito in uno qualsiasi dei cerchi e in un punto qualsiasi di questo cerchio,
l’occhio perde la cognizione dello spazio, ogni superficie cresce senza possibilità di misurazione e la distanza di un punto dalla circonferenza più esterna – ammesso che esista,
un’ultima circonferenza – è incolmabile: uscire da questa concatenazione è un’impresa
non umana. La città imperiale, pur nella sua sconfinata estensione, finisce così per essere
la più soffocante delle prigioni, così che lo spazio infinito è più angusto dello spazio limitato; più è vertiginosa la sensazione di smarrimento, più è ristretto il posto che si occupa.
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camento. Le affermazioni del ragazzo malato denunciano tale condizione estrema: «Statt zu helfen, engst du mir mein Sterbebett ein» (E 258).
«La strettezza sarà per me sempre un’oppressione»8 : lo spazio è connotato a questo punto da un nuovo attributo, eng. Più precisamente, il
suo restringersi è solo momento di una forma più ampia della privazione, vale a dire la negazione. Lo spazio negato infatti non è solo inaccessibile, ma anche sottratto. Tale condizione è riconducibile – soprattutto se
letta in chiave biografica – alla figura paterna descritta nella Lettera al
padre: i soli luoghi che restano accessibili e vivibili per il figlio sono i
pochi angoli non occupati dalla sua troppo ingombrante presenza9 . Ne
deriva che l’universo si manifesta a Kafka - e ai suoi personaggi – anche
secondo un’altra forza vettoriale: l’esclusione. Accade al medico di campagna di venire allontanato a forza dalla sua dimora dal rozzo stalliere
che intende appropriarsi di tutto ciò che era suo (compresa l’indifesa
domestica Rosa) e di perdere infine il suo posto nel contesto umano.
Allo stesso modo il Kübelreiter termina la sua galoppata a cavallo di un
secchio nell’isolamento assoluto, nell’addio alla comunità da cui è stato
spietatamente estromesso. Lo spettatore di Auf der Galerie (1916-1917)
rimane emarginato nell’ombra del suo posto in loggione, e ugualmente
resta disperso nell’indistinta marginalità dei confini imperiali il misero
destinatario del messaggio dell’imperatore. Il «sesto» incomodo che si
intrufola fra i cinque conviventi di Gemeinschaft (1920) vive l’esclusione
come esperienza quotidiana, spinto via a gomiti e isolato nel silenzio.
Ancora, Georg Bendemann in Das Urteil (1912) è costretto dal padre ad
abbandonare la sua casa e addirittura la propria vita.
Ma se la categoria dello spazio si rivela una dimensione centrale,
occorre osservare come essa interagisca con quella del tempo: i salti e i
paradossi spazio-temporali sono frequentissimi nella narrazione di Kafka
e risaltano ancor più angoscianti nella ovvia necessarietà con cui vengono proposti. Tutti composti nello stesso periodo cui risale Ein Landarzt,
fra il 1916 e il 1917 Kafka scrive altri tre racconti – Eine alltägliche
Verwirrung, Das nächste Dorf, Gibs auf! – in cui il rapporto fra spazio e
tempo si sottrae alle leggi convenzionali della fisica. Se per i personaggi
dei due brevi schizzi Das nächste Dorf e Gibs auf! l’esito di questo sconFranz Kafka, Lettera al padre – Gli otto quaderni in ottavo, cit., p. 107.
La sagoma del padre di Georg Bendemann in Das Urteil, che ricopre con la sua figura
tutta la mappa del mondo, è inequivocabilmente il simbolo di quello che Guattari e Deleuze
definiscono, in modo efficace, una «edipizzazione dell’universo» (cfr. G. Deleuze, F.
Guattari, Kafka – Per una letteratura minore, Macerata 1996).
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volgimento è uno sconforto assoluto rispetto alla possibilità di raggiungere la propria meta; se Das nächste Dorf e Eine alltägliche Verwirrung
invece sono accomunati da una percezione deformata dello spazio che
risiede nella mente; se ancora Eine alltägliche Verwirrung mette in scena
una vera e propria confutazione dei principi della geometria euclidea e
della progressione lineare del tempo10 ; se, infine, tutti e tre rappresentano un collegamento fallito, un raggiungimento mancato (e in questo vicolo cieco hanno la loro origine creativa e il loro epilogo inevitabile), in
Ein Landarzt i salti spazio-temporali sono ingranaggi narrativi indispensabili, assumendo la funzione di un vero e proprio deus ex machina che
smuove una situazione di impasse.
Il primo dei due momenti di passaggio è il singolo istante in cui si
compie il tragitto d’andata: un percorso che pareva proibitivo, per distanza e condizioni atmosferiche, con l’aiuto di creature “ultraterrene”,
venute fuori da un porcile, diventa il percorso di un istante. Il carro
viene trascinato via dai cavalli, il medico avverte solo un sibilo assordante: sembrano piuttosto segni dell’attraversamento di un confine fra
due diverse dimensioni – una reale, una irreale. La rapidità del viaggio
fa sembrare prospicienti i due portoni, quello della casa del medico e
quello della casa del malato:
«Munter!» sagt er; klatscht in die Hände; der Wagen wird fortgerissen,
wie Holz in die Strömung; […] dann sind mir Augen und Ohren
von einem zu allen Sinnen gleichmäßig dringenden Sausen erfüllt.
Aber auch das nur einen Augenblick, denn, als öffne sich unmittelbar
vor meinem Hoftor der Hof meines Kranken, bin ich schon dort;
[…] (E 254-255)
10
In particolare, in Das nächste Dorf è la memoria l’agente deformante che altera soprattutto la percezione del tempo, comprimendolo, mentre in Eine alltägliche Verwirrung si assiste
a un totale fraintendimento delle relazioni spazio-temporali. Riguardo la geometria dello
spazio, qui i due personaggi – non casualmente denominati A. e B. (come per convenzione vengono in geometria indicati i punti sul piano) – pur spostandosi lungo uno stesso
segmento (la strada che divide le loro abitazioni), non si incontrano mai. Per quanto concerne la relazione fra spazio e tempo, A. percorre, almeno secondo quanto egli percepisce,
la stessa strada due volte in dieci minuti, un’altra volta in dieci ore, un’altra ancora in un
solo secondo – e questo malgrado la velocità con cui ogni volta si sposta gli sembri rimanere invariata. Inoltre, secondo quanto A. apprende da chi ha visto B. (che mai riuscirà a
incontrare), B. si sarebbe mosso di sera; secondo altre fonti, invece, B. sarebbe arrivato a
casa di A. già la mattina dello stesso giorno (come in una sorta di salto indietro nel tempo).
Indicativo è che Kafka presenti questo paradosso, all’inizio del racconto, come un comunissimo «evento quotidiano» («alltäglicher Vorfall» – E 348).
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Il secondo paradosso spazio-temporale è simmetrico al primo, ma si
realizza nel verso opposto: il ritorno è l’esatto capovolgimento dell’andata e il minaccioso deserto, apparso dapprima, come per miracolo, un percorso irrisorio, rivela una natura ben più spaventosa. Non è disteso più
davanti agli occhi del medico, ma intorno a lui, circondandolo e risucchiandolo senza scampo; analogamente il “tempo zero” del primo spostamento si dilata in un tempo infinito che sembra rasentare l’eternità.
Il ritorno stesso si rivela a questo punto un’impresa irrealizzabile: il
medico – già anziano – ed i suoi cavalli sono improvvisamente,
rapidissimamente invecchiati; la visita al paziente morente è durata
davvero una vita o è il tempo ad aver accelerato vorticosamente la sua
corsa. Che sia errore percettivo o incongruenza del rapporto spazio-tempo, l’inesorabilità sta nell’esito conclusivo, ancora una volta fallimentare, disarmante, forse, stavolta, davvero fatale: per il medico perdersi nel
deserto di neve, ormai senza più energie, né molto tempo da vivere,
forse vuol dire non uscire mai più da quella trappola.
È ancora possibile cercare una salvezza? Dove la terra ostile non dà
risposta, l’ultima speranza umana risiede da sempre nel cielo. Chiedere
aiuto al cielo: «Il cielo è muto, e fa da eco a chi è muto»11 , è la risposta
che a questo proposito Kafka registra nei suoi quaderni. Immaginando
lo spazio kafkiano come la scena di uno spettacolo teatrale, Benjamin vi
include anche il cielo come elemento scenico: «La scena su cui questo
dramma si svolge è il theatrum mundi, di cui il cielo costituisce lo sfondo.
Ma questo cielo è solo uno sfondo: e investigare la sua legge propria
sarebbe come voler appendere il fondale dipinto di una scena in cornice
in una galleria di quadri»12 .
In realtà, la volta celeste è tutt’altro che solo un fondale: la terra e il
cielo sopra di essa muovono contro l’uomo, che abita l’una e vive sotto
l’altro, schiacciandolo dentro una morsa13 . Rileggendo Ein Landarzt, il
cielo appare in continuo movimento, si oscura e si illumina a seconda
del corso degli eventi, tradendo il suo influsso nefasto: dopo la tempesta iniziale, all’arrivo alla casa del malato, tutto si acquieta, la bufera ha
F. Kafka, Lettera al padre – Gli otto quaderni in ottavo, cit., p. 87.
W. Benjamin, Angelus Novus – Saggi e frammenti, cit., p. 285.
13
Non è impassibile il cielo sopra la testa del «cavaliere del secchio», anzi rifiuta il proprio
soccorso, in modo ostile e spietato: «Verbraucht alle Kohle; leer der Kübel; sinnlos die
Schaufel; Kälte atmend der Ofen; das Zimmer vollgeblasen von Frost; vor dem Fenster
Bäume starr in Reif; der Himmel, ein silberner Schild gegen den, der von ihm Hilfe will. […]
hinter mir der erbarmungslose Ofen, vor mir der Himmel ebenso; […]» (Der Kübelreiter, E 277 –
c.vo mio).
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smesso di infierire, anche i cavalli sono ora più mansueti. Il cielo è sereno, poi però torna ad oscurarsi nel momento più cupo e angosciante del
racconto, quando il medico è rinchiuso nella stanza, lasciato nudo nel
letto di morte del giovane malato:
Dann gehen alle aus der Stube; die Tür wird zugemacht; der Gesang
verstummt; Wolken treten vor den Mond; warm liegt das Bettzeug
um mich, schattenhaft schwanken die Pferdeköpfe in den
Fensterlöchern. (E 258)
Ma torniamo ancora alla prima scena del racconto: affrontare lo spazio significa per il medico sforzarsi di infrangere i ceppi che bloccano gli
arti, di vincere le forze che li atrofizzano: superare il disagio esistenziale
significa superare l’antitesi fra stasi e moto. Vincere l’inerzia di quiete
non è impresa da poco per l’eroe kafkiano. Ma la parola, il linguaggio, la
letteratura stessa implicano il movimento.
Già all’inizio, il medico di campagna percorre le prime righe della sua
storia incapace di muoversi dalla sua posizione: si muove, semmai, restando sul posto, girando in tondo come a vuoto14 , senza cioè allontanarsi dalla soglia di casa, o meglio dai confini del suo cortile. Il problema
sembra essere quello di interrompere l’immobilità, ovvero - ricostruendo
in astratto la traccia del movimento - percorrere varie fasi che vanno dal
vacuo moto circolare all’oscillazione (che se non è ancora uno spostamento ne è tuttavia preludio), dalla polarità alto/basso al moto rettilineo (polarità
dentro/fuori), che si realizza nel compimento di un viaggio.
I gesti e gli spostamenti del medico disegnano tutte le fasi di questa
parabola. L’apertura casuale della stalla abbandonata significa per lui
l’improvviso superamento dei vincoli che lo bloccavano al suolo – il
primo movimento che si coglie è appunto quello dell’oscillazione:
Sie öffnete sich und klappte in den Angeln auf und zu. Wärme und
Geruch wie von Pferden kam hervor. Eine trübe Stallaterne
schwankte drin an einem Seil. (E 253)
La porta che sbatte sui cardini, avanti e indietro, e la lanterna che
dondola all’interno del porcile, riprendono un movimento che poco pri14
Si è già detto della ricorrenza della figura del cerchio. Qui il movimento circolare “a
vuoto” è sottolineato dal prefisso verbale umher, che sembra a sua volta chiudere il cerchio
del racconto, riferito dapprima alla domestica Rosa, poi, alla fine, al medico immerso
nella paralisi del deserto di neve.
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ma già la domestica Rosa, di ritorno dopo il vano tentativo di trovare un
cavallo per il medico, aveva descritto, facendo dondolare la propria lanterna:
Am Tor erschien das Mädchen, allein, schwenkte die Laterne;
natürlich, wer leiht jetzt sein Pferd her zu solcher Fahrt? (E, 253)
L’intransitivo schwanken e il transitivo schwenken sono i verbi che definiscono il moto oscillatorio. Ritornano ancora, più avanti nel racconto,
quando il medico è di nuovo rinchiuso in uno spazio claustrofobico, e
cioè nel letto del paziente: ad oscillare questa volta sono le teste dei cavalli («[…]schwanken die Pferdeköpfe in den Fensterlöchern»)15 . Tuttavia il moto periodico, ovvero il moto descritto in un’oscillazione, è – già
espressamente nel nome – ancora una forma di immobilità, nella sua
costante ripetizione. Funziona sull’inerzia (ossia, in fisica, la tendenza a
rimanere nel proprio stato di quiete o di moto) e su una forza di richiamo (che tende a riportare il corpo in una condizione di quiete), contiene
perciò il germe della staticità. Di nuovo, non per caso, non è grazie ad
un’energia autonoma che il medico di campagna riesce a partire verso
la sua meta, visto che a trascinarlo con il carro, «come legno nella corrente», sono i due cavalli, incitati dallo stalliere. È significativo il modo in
cui le tre creature – i due cavalli e lo stesso stalliere - vengono fuori dal
porcile, inserendosi nella scena del racconto:
Ein Mann, zusammengekauert in dem niedrigen Verschlag, zeigte
sein offenes blauäugiges Gesicht. «Soll ich anspannen?» fragte er,
auf allen vieren hervorkriechend. […] «Holla, Bruder, holla,
Schwester!» rief der Pferdeknecht, und zwei Pferde, mächtige
flankenstarke Tiere, schoben sich hintereinander, die Beine eng am
15
L’oscillazione è senz’altro il moto caratterizzante di Kinder auf der Landstraße: «Ich saß
auf unserer kleinen Schaukel, ich ruhte mich gerade aus zwischen den Bäumen im Garten
meiner Eltern. […] Dann flogen Vögel wie sprühend auf, ich folgte ihnen mit den Blicken,
sah, wie sie in einem Atemzug stiegen, bis ich nicht mehr glaubte, daß sie stiegen, sondern,
daß ich falle, und fest mich an den Seilen haltend, aus Schwäche ein wenig zu schaukeln
anfing. Bald schaukelte ich stärker, als die Luft schon kühler wehte und selbst der fliegenden
Vögel zitternde Sterne erschienen» (E 27). Anche in questo caso lo spazio d’azione è il
cortile davanti alla casa del protagonista-narratore, qui un bambino. L’oscillazione è data
stavolta dal verbo schaukeln, un dondolio d’altalena, che si fa sempre più forte e si risolve,
più avanti, nella corsa dei vari bambini, che sembrano disegnare anch’essi un’oscillazione, percorrendo le strade in discesa e in salita. La simmetria di hinunter e hinauf conferma
la natura di questo moto: «Wie Kürassiere in alten Kriegen, stampfend und hoch in der
Luft, trieben wir einander die kurze Gasse hinunter und mit diesem Anlauf in den Beinen
die Landstraße weiter hinauf.» (c.vi miei – E 28).
131
Lorenzo Licciardi
Leib, die wohlgeformten Köpfe wie Kamele senkend, nur durch die
Kraft der Wendungen ihres Rumpfes aus dem Türloch, das sie restlos
ausfüllten. Aber gleich standen sie aufrecht, hochbeinig, mit dicht
ausdampfendem Körper. (E 253-254)
Lo stalliere appare dapprima rannicchiato come un feto, poi nell’atto
di uscire allo scoperto, carponi, dal tepore della stalla, come coprendo in
pochi istanti le fasi di sviluppo dal neonato all’adulto. Tutt’altro che umana, la sua indole viene subito svelata dall’aggressione carnale ai danni di
Rosa: «“Du Vieh”», lo apostrofa il medico, «[…] willst du die Peitsche?»
(E 254) . Appena in piedi, lo stalliere chiama a sé il suo seguito: «“Hollah,
Bruder, hollah, Schwester!”». Come creature generate dallo stesso parto,
fra le più misteriose e suggestive della prosa di Kafka, i due cavalli non
hanno tuttavia nulla di umano, né alcunché della bestialità dello stalliere,
sono invece espressamente «ultraterrene». Se la figura animalesca dello
stalliere si presenta strisciando e il suo incedere «a quattro zampe» lo mantiene in una posizione orizzontale, quasi rasoterra (dunque in basso), i
cavalli invece si innalzano vigorosi, impennandosi sulle lunghe zampe,
protesi verso l’alto. La stessa pro-tensione dei corpi equini tradisce la loro
intima relazione con il cielo: costante sarà il loro accompagnamento, in
perfetta coordinazione con la volta celeste, delle azioni del medico; lui
stesso è costretto a constatarlo durante la visita:
Ich gehe zu ihm, er lächelt mir entgegen, als brächte ich ihm etwa
die allerstärkste Suppe - ach, jetzt wiehern beide Pferde; der Lärm
soll wohl, höhern Orts angeordnet, die Untersuchung erleichtern - und
nun finde ich: ja, der Junge ist krank. (E 257 – c.vo mio)
I cavalli sembrano dunque guidati dall’alto, due messi celesti che
controllano e indirizzano il cammino e le azioni del medico16 , anche se,
16
Nell’ottica di un mondo non governabile dall’essere umano, si assiste qui ad un ulteriore
ribaltamento di ruoli: i cavalli, animali storicamente asserviti all’uomo e addomesticati per
facilitare i suoi spostamenti, sono qui invece potenti e indomabili; sono loro ad imporre con
la forza una direzione al medico, quasi assumendo il comando con i propri nitriti. Così, con
un gesto di ribellione e di definitivo affrancamento dal rapporto di subordinazione all’uomo, si slegano dal carro, aprendo addirittura le finestre della stanza del malato: «Diese
Pferde, die jetzt die Riemen irgendwie gelockert haben; die Fenster, ich weiß nicht wie, von
außen aufstoßen; jedes durch ein Fenster den Kopf stecken» (E 255). È noto l’interesse per
l’ippica di Kafka che descrive inoltre frequentemente nei suoi diari figure equine imbizzarrite,
dall’energia febbrile e incontrollabile; i cavalli sono spesso presenti nei suoi sogni, come a
rivelare la propria matrice onirica. Cfr. a riguardo in particolare I. Porena, I cavalli di Ade. Una
lettura del Landarzt, in «AION- Studi tedeschi», n.s., VIII(1998) 1, pp. 211-218.
132
Ein Landarzt di Kafka: lo spazio, la scrittura, la traduzione
piuttosto che portarlo al compimento del suo dovere o al raggiungimento
del suo scopo, lo conducono invece alla rovina. È dunque improprio
pensare ad una natura celeste di queste due creature, a meno che non si
pensi al cielo come quella componente dello spazio ostile che si oppone
all’uomo kafkiano. Se l’aggettivo unirdisch non ne chiarisce la provenienza, ne stabilisce tuttavia la non-appartenenza alla dimensione terrestre. All’opposto, estremamente terreste, o quasi sub-terrestre nella sua
parvenza demoniaca, è lo stalliere, pronto a sfondare la porta di casa del
medico per possedere la sua domestica. Al medico tuttavia manca sia la
natura ultraterrena dei cavalli sia quella terrena dello stalliere: per sua
sventura, l’esistenza umana è vincolata a «questa terra», spazio ostico e
avverso, sovrastato da un cielo che ha poco di diverso dal tradizionale
mondo infero. Per questo, al movimento di innalzamento dei cavalli fa
da contrappeso un movimento opposto di caduta. Si è già messa in luce
la condizione del medico, heideggerianamente gettato nella scena, disorientato come un attore spinto sul palcoscenico nel mezzo di uno spettacolo che non conosce. Il modello paradigmatico per eccellenza di questo
movimento verso il basso è invece Georg Bendemann (Das Urteil). Il
collegamento non è arbitrario: l’aggettivo che denota la posizione dei
cavalli, aufrecht17, è lo stesso attribuito al padre di Georg che si solleva
minaccioso nel suo letto; la sua postura eretta è la stessa dei cavalli, anche nella solennità che incute timore:
«Nein!» rief der Vater, daß die Antwort an die Frage stieß, warf die
Decke zurück mit einer Kraft, daß sie einen Augenblick im Fluge
sich ganz entfaltete, und stand aufrecht im Bett. (E 56 – c.vo mio)
Come due piatti di una stessa bilancia, se uno sale, l’altro deve scendere, e all’innalzamento del padre segue la caduta del figlio. Quanto
più netta si staglia la figura paterna, tanto più inesorabilmente dovrà
affondare quella di Georg, che così va incontro alla sua fine, procurandosi la morte in apparenza da solo, mosso da una Legge incontrovertibile,
sancita dall’alto:
17
L’aggettivo contiene in sé sia il tratto semantico indicativo della posizione sovrastante
(auf-), che quello indicativo dell’essere dritto (-recht). Quest’ultimo significato indica tanto
la caratteristica di ciò che è lineare e non contorto, quanto quella di ciò che è giusto e non
sbagliato, e connota anche la postura di chi cammina sicuro di sé, forte, coerente (il riferimento ha anche tracce autobiografiche: nei diari Kafka chiama in causa di frequente la
propria debolezza e incostanza di carattere, oltre a sottolineare la propria postura ricurva).
133
Lorenzo Licciardi
Noch hielt er sich mit schwächer werdenden Händen fest, erspähte
zwischen den Geländerstangen einen Autoomnibus, der mit
Leichtigkeit seinen Fall übertönen würde, rief leise: «Liebe Eltern,
ich habe euch doch immer geliebt», und ließ sich hinfallen. (E 60 –
corsivo mio)
È questa la caduta del personaggio kafkiano18 , il suo sprofondare verso
l’abisso, verso la dimensione del disagio e del tormento. Sulla stessa
polarità fra alto e basso si articola il dramma del medico di campagna e
della sua «sventuratissima epoca», che non è soltanto dovuto alla discrepanza fra un ordine superiore e l’accadere terreno delle cose umane;
ma nasce piuttosto dalla constatazione – che capovolge la visione che
aveva di sé l’uomo rinascimentale – di non avere nulla né dell’una né
dell’altra dimensione, di essere condannato alla propria condizione di
ibridità, abbandonato sulla gelida superficie terrestre ad un destino infausto.
In una simile condizione, l’unico rifugio rimasto, rinunciando all’ambizione di attraversare lo spazio, sarebbe quello offerto dalla casa. Anche a questo proposito però Kafka capovolge un assunto millenario: la
casa, da sempre considerata come luogo di protezione e sicurezza per
l’uomo, diventa un ulteriore spazio angusto, estraneo, opprimente. Nella
fattispecie, il medico di campagna sembra particolarmente legato al suo
ambiente domestico, sebbene la sua dimora non abbia niente di rassicurante e “familiare” e anzi si riveli, con i suoi angoli bui e misteriosi, un
luogo assolutamente unheimlich in senso freudiano. La stalla abbandonata diventa uno spazio che vive di vita propria, una sorta di “grembo”
seppellito nell’ombra, che dà alla luce creature ambigue e spaventose.
Che la casa stessa sia uno spazio incerto e insidioso, lo dicono le parole
di Rosa in una battuta scherzosa, ma a dir poco eloquente: «“Man weiß
nicht, was für Dinge man im eigenen Hause vorrätig hat”, sagte es, und
wir beide lachten» (E 253).
Non sono meno unheimlich gli scenari domestici in cui sono ambientati altri racconti di Kafka. La casa ai suoi occhi è la casa del padre. In
questo senso il medico, elemento estraneo in casa propria, vive cioè il
18
Fra il 1917 e il 1918 Kafka scrive quasi ossessivamente della prima archetipica “caduta”,
che è la cacciata dal Paradiso, movimento filogenetico, e dunque condizione intrinseca
dell’essere umano. Ma una debole traccia dello stesso movimento è presente anche in Ein
Landarzt, manifestandosi come senso di vertigine: la ferita del malato appare come una
miniera aperta («offen wie ein Bergwerk obertags», E 257) nella quale si potrebbe avere la
sensazione di precipitare.
134
Ein Landarzt di Kafka: lo spazio, la scrittura, la traduzione
ruolo del figlio, come il parassita di Die Verwandlung, come Georg
Bendemann di Das Urteil, o come lo strano essere di nome Odradek di
Die Sorge des Hausvaters (1917). Il racconto Elf Söhne, composto nello stesso
anno di Ein Landarzt, è quasi un catalogo delle mancanze che un padre
può lamentare in un figlio: ciascuno dei figli di cui narra, pur dotato di
pregi indiscutibili, ha sempre qualche tratto di cui può dirsi scontento.
L’ultimo, però, è un vero concentrato di elementi negativi, e potrebbe
sembrare il ritratto di come Franz Kafka sentiva di essere visto da suo
padre Hermann:
Mein elfter Sohn ist zart, wohl der schwächste unter meinen Söhnen;
aber täuschend in seiner Schwäche; er kann nämlich zu Zeiten kräftig
und bestimmt sein, doch ist allerdings selbst dann die Schwäche
irgendwie grundlegend. Es ist aber keine beschämende Schwäche,
sondem etwas, das nur auf diesem unsern Erdboden als Schwäche
erscheint. Ist nicht zum Beispiel auch Flugbereitschaft Schwäche, da
sie doch Schwanken und Unbestimmtheit und Flattern ist? Etwas
Derartiges zeigt mein Sohn. Den Vater freuen natürlich solche
Eigenschaften nicht; sie gehen ja offenbar auf Zerstörung der Familie
aus. Manchmal blickt er mich an, als wollte er mir sagen: «Ich werde
dich mitnehmen, Vater.» Dann denke ich: «Du wärst der Letzte, dem
ich mich vertraue.» Und sein Blick scheint wieder zu sagen: «Mag
ich also wenigstens der Letzte sein.» (E 317)
Questo undicesimo figlio è la «rovina della famiglia», in particolare
per la sua predisposizione al volo19 . Inoltre, dice il padre, è «certamente
il più debole» fra tutti i fratelli, afflitto da una «debolezza»20 che lo vince
anche quando sembra risoluto.
19
La fase che precede il momento in cui si spicca il volo («Flugbereitschaft») viene vista
anch’essa come esempio di debolezza: non è un caso che Kafka subito dopo associ ad essa
il verbo schwanken, che ritorna ancora, a testimonianza che l’oscillazione è preludio del
movimento, ma non ancora tale, anzi ancora sintomo di incapacità di movimento attivo.
20
Il sostantivo Schwäche è ribadito per ben cinque volte in poche righe. È la mollezza del
carattere di Kafka un altro fattore della sua incapacità di distaccarsi dalla casa e l’autore
stesso se lo rimprovera più volte nei suoi diari. Ma la sua stessa debolezza, come quella
dei suoi personaggi, ha una sua sorgente proprio nelle radici domestiche. Il controverso
rapporto con il padre, il senso di estraneità verso la famiglia, finiscono per essere l’origine
del desiderio di allontanarsi dalla casa, ma anche la causa della fiacchezza e dell’incapacità di muoversi. Mittner osserva come ‹‹Rilke e Kafka […] sono due uomini che soffrono e
non riescono a vivere, perché non posseggono la casa e non credono più nella possibilità
della casa››; ma mentre Rilke in cinque anni cambia decine di volte la propria dimora,
spiega ancora Mittner, Kafka non riesce mai a distaccarsi dalla casa paterna, per quanto
essa non gli procuri altro che una condizione di costante disagio (L. Mittner, Kafka senza
kafkismi, in L. Mittner, La letteratura tedesca del Novecento, Torino 1975, p. 252).
135
Lorenzo Licciardi
La debolezza è il vincolo che lega gli arti e il padre è colui che mantiene strette le cinghie. Nei Quaderni in ottavo si legge questo agghiacciante
monologo, la cui voce sembra appartenere idealmente a Hermann Kafka:
«Vuoi andartene da me? È una decisione come un’altra? Dove mette
capo questa tua fuga da me? Sulla luna? Neanche lassù, dove, del resto,
non puoi arrivare. E allora, perché tutto ciò? Non preferisci sederti in un
angolo e startene tranquillo? Non sarebbe forse meglio? Là in quell’angolo, caldo e buio? Non mi stai a sentire? Cerchi a tastoni la porta. Già,
ma dov’è la porta? A quel che ricordo, non c’è mai stata qui dentro. Chi
ci pensava, allora, quando fu costruito quest’interno, che un giorno tu
avresti concepito dei propositi così rivoluzionari? Comunque, niente è
perduto, un pensiero simile non va perduto, ne discorreremo a tavola, e
le risate dei commensali saranno la tua ricompensa»21 . Non c’è porta
attraverso cui fuggire dalla casa-prigione; non c’è fiducia nelle capacità
reali del figlio, tanto meno nella sua volontà, solo scherno per i suoi
propositi ribelli. E visto che non c’è porta, è in volo che bisogna uscire
fuori, proprio quel volo a cui l’undicesimo figlio tende per natura22 .
Ma il movimento della fuoriuscita, il primo vero movimento, tracciato fra i due poli dentro e fuori, è anche, proprio per questo, il più difficile
da realizzare. S’illumina adesso di luce più chiara – e di forti rimandi
autobiografici – la posizione del medico di campagna: fermo nel cortile
di casa, privo dei mezzi necessari per abbandonarla, debole, fragile e
disorientato, egli non può farcela a lasciare la sua dimora, se non attraverso un volo, improvviso e brusco, reso possibile dai due cavalli23 . È
non può che essere un momento decisivo quello in cui si realizza infine
Franz Kafka, Lettera al padre – Gli otto quaderni in ottavo, cit., pp. 121-122.
È da pensare che il ‹‹volo›› che porta Kafka lontano dalla sfera del dominio paterno, alla
ricerca di una salvezza, sia proprio l’attività letteraria, nella quale si rifugiava sistematicamente per rifuggire dall’angustia domestica e dalla scarsa gratificazione derivante dalla
vita pubblica e dall’attività lavorativa. La sua vita di scrittore è tuttavia ancora parte della
quotidiana vita familiare e pubblica: le due esistenze dividono in due le sue giornate e
spezzano in due anche l’immagine di sé che Kafka restituisce a se stesso. Baioni in proposito ricorda che Kafka ‹‹fu burocrate di giorno e poeta di notte e, senza poter essere veramente né l’uno né l’altro, si trovò ben presto in quella angosciosa prigione della scelta
morale non compiuta.›› (F. Kafka, Skizzen – Parabeln / Aphorismen, a cura di G. Baioni,
Milano 1961, p. 14). La debole volontà che non gli ha mai permesso di compiere una vera
scelta si configura come un aut-aut kierkegaardiano lasciato senza soluzione.
23
Anche per il Kübelreiter, costretto a lasciare la sua casa gelida, il secchio volante è l’unica
fonte di salvezza. Resta il fatto che il personaggio kafkiano lascia la casa solo “per cause di
forza maggiore”: nella fattispecie, il medico non va via per propria volontà, ma per effetto
di una forza che lo espelle dall’interno (lo stalliere) e di una forza che dall’esterno lo trascina via (i cavalli ultraterreni). Sebbene dunque si possa riscontrare un movimento dentro21
22
136
Ein Landarzt di Kafka: lo spazio, la scrittura, la traduzione
l’abbandono della casa e l’inizio del viaggio. Per il medico si tratta di un
solo istante, di un sibilo nelle orecchie, ma in quell’attimo in cui si spezza la tensione, si verifica anche una violenta lacerazione, che non permetterà alcuna riconciliazione. Kafka scrive nei Quaderni in ottavo: «Qualunque cosa sia quella che mi tira fuori di tra le due macine da mulino
che mi stanno sempre a tritare, io la sento come un beneficio, a patto che
non comporti troppo dolore fisico»24 . In Ein Landarzt non si tratta di un
semplice dolore, ma di molto di più: la frattura è uno squarcio che non
può essere più ricucito, una ferita mortale. Il medico tuttavia non reca i
segni di questo taglio, ma piuttosto li osserva – come riflessi in uno specchio – nel paziente afflitto dall’infezione che egli stesso non è in grado
di curare.
Il momento dello strappo coincide proprio con l’inizio del viaggio:
la partenza. Il racconto comincia con l’immagine del medico in piedi, in
cortile, davanti alla soglia di casa, in attesa di una soluzione che gli permetta di compiere il suo viaggio. Sono note le numerosissime ricorrenze
di termini quali «Tor», «Tür», «Haustor», «Haustür», «Hoftor»,
«Wohnungstür» che riempiono le pagine di Kafka. Designano una linea
di confine, lo spazio di chi contemporaneamente è nella casa e fuori
della casa, di chi ne viene allontanato e vorrebbe restare, di chi vorrebbe
andarsene e viene trattenuto - una soglia attraversata da un sottile, taglientissimo filo invisibile: oltrepassarlo e andare via, partire, significa
accettare di venire reciso, dimezzato. In tedesco, il termine Aufbruch esprime il concetto di «partenza», con l’accento proprio sullo specifico momento in cui ci si mette in moto. Spogliato del prefisso Auf-, resta solo lo
scheletro: il lessema -bruch che reca il significato di «rottura, frattura,
spaccatura»25 . La lingua stessa dunque assume che partire significa mettere in atto una frattura. Max Brod intitola Der Aufbruch un breve schizzo del 1921 che si colloca a metà strada fra la narrazione letteraria e la
scrittura diaristica di Kafka. Nulla lo differenzia dai molti quadretti abbozzati dallo scrittore nei suoi diari. Il narratore immagina la decisione
fuori, si tratta ancora una volta di un moto subìto e perciò il vettore che spinge l’eroe di
Kafka fuori dalla casa non ha nulla a che vedere con atto di pura emancipazione da una
condizione di prigionia.
24
Franz Kafka, Lettera al padre – Gli otto quaderni in ottavo, cit., p. 126.
25
Rispettivamente, in italiano, francese e spagnolo i verbi partire, partir e partir derivano
tutti dal latino partior, che vuol dire ‹‹dividere››, verbo che porta in sé il concetto di separazione, spaccatura. E anche nel sostantivo inglese departure è riscontrabile – nel tratto
morfologico [-part-] – una parentela etimologica con le lingue neolatine.
137
Lorenzo Licciardi
improvvisa di mettersi in viaggio. Un suono di trombe è l’invito alla
partenza, come un richiamo in lontananza («In der Ferne hörte ich eine
Trompete blasen, ich fragte ihn, was das bedeute» E 384), che fa pensare
al segnale che dà la carica quando una cavalleria parte per un assalto: il
protagonista parte deciso, persino speranzoso e ottimista: «Es ist ja zum
Glück eine wahrhaft ungeheure Reise» (E 384). L’obiettivo è andare «viadi-qua», come spiega lui stesso al suo servo:
Beim Tore hielt er mich auf und fragte: «Wohin reitest du, Herr?»
«Ich weiß es nicht», sagte ich, «nur weg von hier. Immerfort weg
von hier, nur so kann ich mein Ziel erreichen.» «Du kennst also dein
Ziel?» fragte er. «Ja» antwortete ich, «ich sagte es doch, ‘Weg-vonhier’, das ist mein Ziel». (E 384)
L’abbandono della casa è l’obiettivo qui inseguito con fermezza e
convinzione. Tuttavia Der Aufbruch suona più come una fantasia che
come una reale possibilità; nella leggerezza dell’immaginazione c’è una
prospettiva lieta: la scoperta di non aver bisogno necessariamente di
una meta per partire, che coincide con la scoperta di un’inattesa audacia
e determinazione. «Esiste un punto d’arrivo, ma nessuna via; ciò che
chiamiamo via non è che la nostra esitazione»26 .
Quanto al medico di campagna, lui una meta precisa invece ce l’ha,
ma si è visto come essa divenga la sua nuova prigione. A ben guardare,
infatti, non è la destinazione a compromettere la natura salvifica del viaggio, ma piuttosto l’atto stesso della partenza, che è tutt’uno con la perdita
della casa. La spaccatura dello Auf-bruch ha diviso il medico idealmente
in due metà, delle quali una è rimasta intimamente dentro la sua dimora,
mentre l’altra, che si mette in viaggio, è come se si portasse dietro questa
ferita aperta e lentamente si spegnesse per dissanguamento, per rimanere
infine senza più energie vitali. Prima ancora di partire, il medico già sente
di non voler lasciare la sua casa e la sua domestica Rosa nelle mani bramose
dello stalliere: «“Du fährst mit”, sage ich zu dem Knecht, “oder ich
verzichte auf die Fahrt, so dringend sie auch ist”» (E 254). Trascinato via
contro la sua volontà, giunto presso il malato, non fa che tornare, insistentemente, col pensiero alla casa, desiderando il ritorno:
Jetzt erst fällt mir wieder Rosa ein; was tue ich, wie rette ich sie, wie
ziehe ich sie unter diesem Pferdeknecht hervor, zehn Meilen von ihr
26
F. Kafka, Lettera al padre – Gli otto quaderni in ottavo, cit., p. 80.
138
Ein Landarzt di Kafka: lo spazio, la scrittura, la traduzione
entfernt, unbeherrschbare Pferde vor meinem Wagen? […] »Ich fahre
gleich wieder zurück«, denke ich, als forderten mich die Pferde zur
Reise auf, aber ich dulde es, daß die Schwester, die mich durch die
Hitze betäubt glaubt, den Pelz mir abnimmt. (E 255-256)
E ancora, più avanti:
Nun, hier wäre also mein Besuch zu Ende, man hat mich wieder
einmal unnötig bemüht, daran bin ich gewöhnt, mit Hilfe meiner
Nachtglocke martert mich der ganze Bezirk, aber daß ich diesmal
auch noch Rosa hingeben mußte, dieses schöne Mädchen, das
jahrelang, von mir kaum beachtet, in meinem Hause lebte - dieses
Opfer ist zu groß, und ich muß es mir mit Spitzfindigkeiten
aushilfsweise in meinem Kopf irgendwie zurechtlegen, um nicht auf
diese Familie loszufahren, die mir ja beim besten Willen Rosa nicht
zurückgeben kann. (E 256-257)
Infine, disperso nel mezzo del deserto di neve, pensa ancora al ritorno, ormai impossibile:
Niemals komme ich so nach Hause; meine blühende Praxis ist verloren;
ein Nachfolger bestiehlt mich, aber ohne Nutzen, denn er kann mich
nicht ersetzen; in meinem Hause wütet der ekle Pferdeknecht; Rosa
ist sein Opfer; ich will es nicht ausdenken. (E 259)
Eppure, il medico sembrava inizialmente in una condizione diversa
da quella di un figlio: la casa era uno spazio in cui egli sembrava esercitare un diritto di proprietà assoluta; e invece ben presto deve accorgersi
che non è così: lo stalliere lo allontana con l’inganno, rivelando la natura
effimera di quel potere ed espropriandolo non solo della casa, anche di
Rosa (simbolo di un altro spazio a lui negato fin dal principio), unica
componente della sua famiglia. Il viaggio pertanto non porta alla salvezza: lasciare la casa significa scegliere l’autoesclusione, ovvero, nella migliore delle prospettive, lasciare una prigione per un’altra prigione. Il
mondo fuori dalla casa è infatti il luogo in cui inizia la rovina. Se ne
accorge solo alla fine il medico di campagna, quando è tardi per rimediare: «Betrogen! Betrogen! Einmal dem Fehlläuten der Nachtglocke
gefolgt – es ist niemals gutzumachen» (E 260). Il campanello era dunque
solo un illusorio richiamo, inseguire il miraggio della fuoriuscita significa
approdare alla vera destinazione del viaggio: lo smarrimento irreparabile, il vagare eterno, la perdita di se stessi e della misura del reale.
139
Lorenzo Licciardi
L’Aufbruch del medico non gli consente di recidere il cordone ombelicale che lo lega alla casa, ma piuttosto produce una lacerazione interiore.
Superare il limite proibito della soglia di casa vuol dire accettare il sacrificio di lasciarsi recidere. Affrontare il viaggio significa affrontare la sfida di
uno spazio aperto e sconfinato, la cui vastità mozza il fiato, diventa prigione. Allude a questo paradosso anche il breve quadretto intitolato da
Max Brod Kleine Fabel (1920), in cui il topo si caccia da solo in una strada
senza uscita, con una trappola da un lato e un gatto dall’altro:
«Ach», sagte die Maus, «die Welt wird enger mit jedem Tag. Zuerst
war sie so breit, daß ich Angst hatte, ich lief weiter und war glücklich
daß ich endlich rechts und links in der Ferne Mauern sah, aber diese
langen Mauern eilen so schnell auf einander zu daß ich schon im
letzten Zimmer bin und dort im Winkel steht die Falle, in die ich
laufe.» «Du mußt nur die Laufrichtung ändern», sagte die Katze und
fraß sie. (E 382)
Osserva Baioni: «Che cosa spinge il topo, che è libero, assolutamente
libero, nella trappola? Appunto la paura e l’angoscia di questa libertà
assoluta e senza legami. Incapace di sopportare la vastità di uno spazio
senza confini, il topo corre naturalmente in un mondo ben definito e
ben delineato»27 . Resterebbe per lui forse un’altra soluzione: non gettarsi nella trappola, né nella bocca del gatto, ma questo significherebbe
rimanere immobile, condannati alla paralisi. La stessa paralisi che trattiene Kafka sulla soglia, come «uno spettro, perché non capace di vivere
né nella casa, né fuori della casa»28 , la stessa che tiene il medico di campagna fermo nel suo cortile, nella zona franca fra la casa e il deserto
illimitato di neve. La sua meta è appunto solo un inganno29 . Una volta
giunto a destinazione, comincia infatti il viaggio di ritorno in cui i due
poli si invertono30 : la casa, da punto di partenza, si trasforma ora in
Franz Kafka, Skizzen – Parabeln / Aphorismen, cit., p. 10.
L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, III**, Torino 1971, pp. 1163-1164.
29
Occorre qui tornare a Kafka e alla sua dimensione biografica. Il richiamo “ingannevole”
della letteratura, il miraggio di uno spazio a propria misura, hanno come unica conseguenza l’isolamento, l’alienazione, la perdita d’ogni contatto concreto con la vita. Scrive
Baioni: «Convinto che l’uomo non possa conoscere altro che inganno, Kafka ha saputo
scrivere come nessun altro la favola negativa della poesia che proprio nella sua bellezza
rappresenta la menzogna e l’errore. La condanna della letteratura e soprattutto la condanna dello scrittore è dunque per Kafka inappellabile». (F. Kafka, Un medico di campagna,
trad. di R. Paoli, a cura di G. Baioni, Milano 1981, p. 168).
30
Mittner chiarisce il senso di questa inversione: «Ora è appunto qui che interviene un
27
28
140
Ein Landarzt di Kafka: lo spazio, la scrittura, la traduzione
meta agognata e irraggiungibile, che rivela e suggella lo stato di esclusione. Il ritorno stesso risulta negato: al medico non resta che attendere
la morte, già intuita come proprio destino al capezzale del malato e proprio dal suo “doppio” già invocata:
Noch für Rosa muß ich sorgen, dann mag der Junge recht haben
und auch ich will sterben. Was tue ich hier in diesem endlosen Winter!
(c.vo mio – E 256)
In questo «inverno senza fine», anche la morte diventa una possibilità se non di salvezza, almeno di fuga: « Questa vita ci sembra insopportabile, un’altra irraggiungibile. Non ci si vergogna più di voler morire;
si prega di venir trasferiti dalla vecchia cella, che odiamo, in una nuova,
che dobbiamo ancora imparare ad odiare. C’entra anche un briciolo di
fede che, durante il trasferimento, il Signore passi per caso nel corridoio, guardi in faccia il prigioniero e dica: “Costui non rinchiudetelo più.
Ora viene da me”»31 .
Lo spazio, la traduzione
Il lavoro di interpretazione fin qui condotto su Ein Landarzt e sulla
lettura comparativa di altri testi, ha cercato di rivelare alcune dinamiche relative alla dimensione dello spazio nella scrittura di Kafka, che
possono costituire un utile riferimento anche dal punto di vista della
traduzione. Per brevità espositiva verranno chiamati in causa solo alcuni passi del testo, estratti, per ordine di narrazione, da tre momenti –
l’inizio, il centro, la conclusione – del racconto, che verranno a loro volta
analizzati e discussi a fronte di alcune fra le più note versioni italiane32 .
fondamentale rovesciamento di posizioni che condiziona tutta la vita e tutta l’arte di Kafka.
Egli non cerca, come i mistici, un al-di-là per il bisogno di trascendere (o per l’incapacità
di sopportare) l’al-di-qua; al contrario: non possedendo ancora, non potendo mai possedere, l’al-di-qua, ne fa un al-di-là, una realtà trascendente›› (L. Mittner, Kafka senza kafkismi,
cit., p. 256). Ciò suggerisce, ancora una volta, come l’inganno del viaggio alluda per Kafka
al miraggio della letteratura.
31
Franz Kafka, Lettera al padre – Gli otto quaderni in ottavo, cit., p. 78.
32
Le traduzioni scelte sono in ordine cronologico: Anita Rho, Giorgio Zampa, Rodolfo
Paoli, Giulio Schiavoni, Andreina Lavagetto. (Cfr., nello stesso ordine cronologico, le seguenti edizioni: F. Kafka, Racconti, a cura di E. Pocar, trad. di R. Paoli, Milano 1970; F.
Kafka, Il messaggio dell’imperatore, trad. di A. Rho, Milano 1981; F. Kafka, Racconti, trad. di
G. Zampa, Milano 1957; F. Kafka, Racconti, trad. di G. Schiavoni, Milano 1985; F. Kafka, La
metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, trad. di A. Lavagetto, Milano 1991). La fonte
dei passi citati è stato per comodità sintetizzata con la sola iniziale del cognome di ciascun
traduttore, seguito dalla pagina di riferimento.
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La prima breve riflessione riguarda già il titolo. Sebbene le due traduzioni del termine Landarzt, vale a dire «medico di campagna» (Z 187;
P 225; S 140) e «medico condotto» (R 87; L 152), siano fedeli al significato
dell’originale tedesco, la prima opzione risulta più appropriata nel contesto dell’analisi qui proposta, in quanto contiene un riferimento diretto
allo spazio in cui si svolge l’azione, alludendo all’orizzonte specifico (e
insieme irrelato) nel quale si iscrive la parabola stessa del medico. L’inizio del racconto vede il medico allertato da un’urgente chiamata: il suo
paziente lo aspetta lontano dieci miglia.
Ich war in großer Verlegenheit: eine dringende Reise stand mir bevor;
ein Schwerkranker wartete auf mich in einem zehn Meilen entfernten
Dorfe; starkes Schneegestöber füllte den weiten Raum zwischen mir und
ihm; einen Wagen hatte ich, leicht, großräderig, ganz wie er für unsere
Landstraßen taugt; in den Pelz gepackt, die Instrumententasche in
der Hand, stand ich reisefertig schon auf dem Hofe; aber das Pferd
fehlte, das Pferd. (E 253)
Torna qui immediatamente utile il discorso fatto sulla ricorrenza e
sul valore cruciale dell’aspetto della lontananza, non a caso posto da Kafka
fra i primi elementi che disegnano la scena del racconto. Si è discusso
anche della tipica raffigurazione invernale dello spazio kafkiano e di
come qui il gelo, la neve e l’ostilità del tempo atmosferico oppongano
un ulteriore ostacolo al movimento del personaggio, già afflitto da una
sorta di “costituzionale” incapacità di moto. Paoli, Rho, Zampa,
Schiavoni, Lavagetto, in sequenza, traducono:
un nevischio fitto riempiva lo spazio fra me e lui; (R 89)
una violenta bufera di neve che riempiva lo spazio tra me e lui; (Z 187)
un fitto nevischio riempiva tutto lo spazio esistente fra me e lui; (P 225)
profonde distese innevate colmavano il grande spazio che mi divideva da lui; (S 140)
un forte nevischio riempiva il vasto spazio fra me e lui; (L 152)
Procedendo con ordine – e, gradualmente, secondo un’analisi
sintattica ridotta ai suoi elementi minimi – va prestata dapprima attenzione al significato del sostantivo «Schneegestöber» e allo stesso tempo
alla funzione di impedimento che il termine svolge rispetto al proposito
di viaggio del medico. Soltanto Schiavoni ne varia il significato letterale
scegliendo «profonde distese innevate», accentuando così la natura del142
Ein Landarzt di Kafka: lo spazio, la scrittura, la traduzione
l’ostacolo materiale che si oppone all’idea del viaggio. Tuttavia il significato primo del sostantivo tedesco è proprio «bufera di neve»: la fitta
nevicata ha l’effetto di suggerire tanto l’immagine del paesaggio ricoperto di bianco, quanto quella di un’aria resa densa dalla bufera in corso, e dunque di suggerire la duplice resistenza opposta al viaggio urgente del medico. Quanto al verbo füllen, bisogna di nuovo tener conto
del senso di ostruzione che Kafka vuole esprimere. A differenza degli
altri, Schiavoni sceglie di tradurre “colmavano”. C’è una sottile sfumatura che differenzia, in italiano, i verbi riempire e colmare. L’atto di riempire ha una valenza pressoché neutra e non presuppone altro che un vuoto a disposizione; gli usi del verbo colmare generano invece fra le righe
altre associazioni, per es. l’idea di un vuoto da riempire, ovvero una necessità di riempimento (è significativa la locuzione colmare una lacuna),
che nell’originale invece non è presente. Al contrario, la sensazione è
opposta: lo spazio è semmai fin troppo saturo, e, secondo lo sviluppo
del racconto, andrebbe svuotato piuttosto che riempito. Vero è che colmare significa anche riempire fino all’orlo, ma in ogni caso l’immagine del
paesaggio innevato, della neve posatasi a terra, non include – sempre
secondo Schiavoni – l’elemento di “occlusione” dell’aria.
Nella traduzione del sintagma successivo, «den weiten Raum
zwischen mir und ihm», sarebbe opportuno conservare il più possibile
le implicazioni di lontananza e separazione, non dimenticando quella di
ostruzione. L’aggettivo weit, unito al sostantivo Raum, va inteso come
indicazione dell’estensione considerevole della distanza, ossia le «dieci
miglia» che separano il medico dal suo paziente. Inoltre, occorrerebbe
recuperare a pieno l’insieme dei tratti semantici contenuti nella preposizione zwischen, che oltre a [frapposizione] ha come sema, appunto, anche [separazione]. In tal senso la traduzione di Rho, per quanto restituisca spesso felicemente la nuda lingua di Kafka, risulta qui fin troppo
scarna, in quanto omette proprio l’aggettivo weiten, fondamentale invece nello sviluppo del racconto: in particolare al ritorno, sembrerà al medico di dover camminare all’infinito, per portare a termine il suo viaggio.
Lo stesso discorso vale per la traduzione dell’ultimo sintagma proposta da Zampa: il testo italiano, ridotto all’essenziale, non restituisce
l’insistenza dell’autore sull’estensione dello spazio che separa medico e
malato. Schiavoni invece non trascura questo dettaglio e ritiene rilevante sottolinearlo, tuttavia adottando una soluzione un po’ generica (l’aggettivo grande) che non esprime con la dovuta precisione l’idea di ampiezza di un volume.
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Paoli sembra trovare una soluzione traducendo tutto lo spazio esistente fra me e lui, dove tutto richiama il fatto che lo spazio è stato poco prima
quantificato esattamente. La scelta di esistente inoltre rafforza sia l’idea
di occlusione (tutto lo spazio che c’è, risulta appunto riempito), sia quella di frapposizione, sia, infine, quella di distanza.
Proseguendo nella lettura del racconto, una volta raggiunto il malato, il medico si ritrova presto intrappolato in una condizione insolubile
di disagio. Colpito dell’avversità del tempo atmosferico, che non sembra tanto la tempesta di una sera, ma piuttosto la sventura di una bufera
eterna, esclama:
Was tue ich hier in diesem endlosen Winter! (E 256)
Questo grido, pur smorzato dal monologo interiore, è dichiarazione
di uno smarrimento e di un malessere dai connotati quasi apocalittici, che
sembrano travalicare i limiti del tempo (e implicitamente dello spazio).
Ha un’importanza – oltre che una posizione – centrale nel racconto: risuona in tutta la sua solenne gravità, quasi tagliando in due la narrazione
della storia. È fondamentale in traduzione restituire la drammaticità di
questa esclamazione. Si osservino di nuovo le cinque relative traduzioni:
Che faccio qui in questo inverno senza fine? (R 92)
Che cosa faccio lì, in quell’inverno interminabile? (Z 190)
Che faccio qui in quest’inverno senza fine? (P 228)
Che faccio qui in quest’interminabile inverno? (S 143)
Cosa faccio qui, in questo inverno senza fine? (L 154)
Il ritmo e la lunghezza della battuta originale hanno molta importanza. Nella traduzione di Rho, Paoli e Lavagetto, il numero delle sillabe e la posizione degli accenti sono quasi identici al testo di partenza: gli
accenti cadono sulla seconda, quarta, ottava e undicesima sillaba in tedesco; sulla seconda, quarta, settima e undicesima in italiano33 . L’aggettivo interminabile scelto da Zampa e Schiavoni sottrae inevitabilmente
ritmo all’originale, allungando la misura della frase. Anche sul piano
semantico, interminabile sembra inoltre meno efficace dell’ambiguità
33
Si prescinde qui da una comparazione fra la metrica italiana e tedesca, tralasciando le
differenze fra una struttura di tipo qualitativo – tipica della poesia italiana – e una di tipo
quantitativo – che la tradizione poetica delle lingue germaniche accoglie. Questo anche
perché si è comunque in presenza di prosa e non di poesia, sebbene la prosa di Kafka sia
molto attenta al ritmo e alla misura e induca talora alla logica del verso.
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Ein Landarzt di Kafka: lo spazio, la scrittura, la traduzione
poetica del tedesco, (resa in tal senso meglio da senza fine, che sembra
definire l’inverno come tempo-spazio destinato a durare in eterno). Zampa infine “delocalizza” la posizione del medico, modificando apparentemente senza ragione l’avverbio (hier) e l’aggettivo dimostrativo (diesem),
laddove la condanna esistenziale del personaggio è proprio che questa
condizione è ormai il suo qui (ed ora).
Il tragico epilogo del medico, che fugge dalla casa del malato in cerca
di salvezza, ma si trova invece intrappolato nella distesa sterminata di
neve, è concentrato tutto in uno degli ultimi periodi:
Nackt, dem Froste dieses unglückseligsten Zeitalters ausgesetzt, mit
irdischem Wagen, unirdischen Pferden, treibe ich alter Mann mich
umher. (E 259-260)
Qui figurano molti elementi significativi: la dimensione del gelo,
l’inerme abbandono del medico alla crudeltà di questa epoca, la
contrapposizione fra la sua umanità di vecchio e la natura ultraterrena
dei cavalli; infine il movimento del medico stesso, che vaga in tondo,
trascinandosi ormai privo di forze, prossimo alla fine della sua vita. Tenere insieme tutti questi elementi è piuttosto complesso, ma, almeno in
questo caso, non ci sono altre ambiguità a complicare il compito. Ecco,
elencate di seguito, le soluzioni proposte dai cinque traduttori:
Nudo, esposto al gelo di questo secolo sciagurato, su una carrozza
reale, con cavalli irreali, vado vagando pel mondo, io povero vecchio. (R 95)
Nudo, esposto al gelo di questa atroce stagione, con un calesse terreno e cavalli ultraterreni, povero vecchio, giro per il mondo. (Z 194)
Nudo, esposto al gelo di questa maledettissima epoca, su una carrozza realmente esistente, tirata da cavalli irreali, vado attorno vagando, povero vecchio. (P 232)
Nudo, esposto al gelo di questa stagione sventuratissima, con una
carrozza terrestre, ma con cavalli non terrestri, mi trascino di qua e
di là come un vecchio. (S 146)
Nudo, esposto al gelo di quest’epoca sciagurata, con una carrozza terrena, con cavalli non terreni, mi aggiro, vecchio, all’intorno. (L 157)
Se l’aggettivo nackt e il sostantivo Frost non creano nel testo particolari ambiguità, per quanto riguarda il sintagma dieses unglückseligsten
Zeitalters c’è invece da fare un’attenta riflessione, poiché si tratta di un
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punto assolutamente nodale del racconto: la differenza fra stagione ed
epoca è decisiva, e la scelta dell’una o dell’altra traduzione compromette
il senso dell’intero testo. Se da una parte sembra più plausibile che il
medico si senta vittima di una stagione (e non addirittura di un’epoca)
avversa, dall’altra va tenuto ben presente il significato del termine che è
appunto quello di epoca, era, età (vale a dire un arco di tempo ben più
ampio di una singola stagione). Solo Zampa e Schiavoni optano per stagione, ignorando come nella narrazione kafkiana il tempo sia una dimensione spesso alterata fino ai limiti del paradosso: qui è proprio l’amplificazione oltre misura del tempo a sancire il dramma del medico, già
prigioniero di un «inverno senza fine».
Per quanto riguarda l’aggettivo ausgesetzt, non c’è variazione alcuna
nelle traduzioni analizzate: tutte propongono esposto, con riferimento ai
vari significati del verbo tedesco, che includono anche quello di abbandonare, con particolare riferimento ai neonati abbandonati dai propri
genitori, che risulta opportuno in questo caso, perché la debolezza del
medico ormai privo di difese, come anche la sua nudità, ricordano proprio quella di un bambino inerme.
La traduzione dei due sintagmi mit irdischem Wagen, unirdischen
Pferden non riguarda solo scelte lessicali e stilistiche. È bene partire dalla
considerazione che se quanto a mit irdischem Wagen è quasi indifferente
la scelta fra «carrozza» o «calesse» (almeno dal punto di vista dell’attenzione allo spazio), un po’ meno lo è forse quella fra terreno o terrestre per
irdisch: terreno è qualcosa che riguarda “questo” mondo, in opposizione
spesso all’aldilà o al trascendente; terrestre invece normalmente allude
alla vita del pianeta, talora opposto alla sfera aliena dell’extraterrestre.
Detto questo, è invece più delicata la traduzione del secondo sintagma,
che presenta lo stesso aggettivo in forma negativa – in quanto unirdisch
non ha equivalenti diretti in italiano. La soluzione «irreali» è poco aderente alla scelta lessicale di Kafka (oltre a implicare un’equivalenza fra
“terra” e “realtà” estranea al suo immaginario). In questo senso la traduzione di Schiavoni risulta pertinente, in quanto riesce a salvare, attraverso la ripetizione simmetrica e la negazione terrestre/non terrestre l’evidente correlazione presente nel testo di partenza. Meglio ancora la soluzione di Zampa che propone l’opposizione terreno/ultraterreno che indica più opportunamente la natura trascendente dei cavalli.
Infine, anche il sintagma verbale treibe ich mich umher ha una connessione con il tema dello spazio, messa in luce dal prefisso separabile del
verbo, che denota un movimento circolare e vano, privo di meta. Considerata la situazione del medico, la sua carenza di energie e la sua debo146
Ein Landarzt di Kafka: lo spazio, la scrittura, la traduzione
lezza d’animo, la soluzione di Schiavoni sembra la più opportuna, in
quanto mantiene sia il senso di vanità del movimento sia quello della
fatica fisica: mi trascino di qua e di là come un vecchio. Tuttavia la scelta di
tradurre come un vecchio trascura in parte il contesto narrativo quanto ai
rapporti di spazio-tempo, dal quale si deduce che il medico è ormai,
complice un senso del tempo dilatato a dismisura, effettivamente vecchio, (cioè non solo simile a un vecchio). Quanto alle diverse soluzioni
degli altri traduttori: il giro per il mondo di Zampa suscita un retrogusto
più da romanzo d’avventura che non da racconto kafkiano inoltre restituisce in modo diverso il senso del paesaggio quasi allegorico della narrazione; vado attorno vagando di Paoli riesce invece a contenere sia la
circolarità del moto sia la vacuità del cammino del medico.
In conclusione, la riflessione traduttiva qui proposta, a valle dell’analisi della scrittura dello spazio in Kafka, muove dal tentativo di individuare, a partire dall’interpretazione, uno specifico criterio tematico da
far valere anche in sede di versione tedesco/italiano. Ovviamente la traduzione di un testo letterario deve tenere conto di un numero di fattori
molto maggiore. Questo lavoro ha inteso tuttavia sondare, in chiave
sperimentale, i vantaggi che una preventiva contestualizzazione tematica
può avere per la traduzione di un testo letterario.
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