Capitolo 7 - Dall` import substituion alla “globalizzazione”

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Capitolo 7 - Dall` import substituion alla “globalizzazione”
Capitolo 7 - Dall’ import substituion alla “globalizzazione” - Marco Missaglia
Introduzione
In questa lezione cercherò di delineare le caratteristiche fondamentali delle diverse strategie
attraverso le quali, nel corso della loro storia, i paesi che oggi chiamiamo “in via di sviluppo” (d’ora
in poi PVS) hanno cercato di affrancarsi dalle catene della povertà.
Il periodo storico che prenderò in considerazione è piuttosto limitato: indicativamente, dal termine
del secondo conflitto mondiale ad oggi. La ragione di questa scelta è che, per quanto qualsiasi rigida
periodizzazione sia sempre almeno in parte arbitraria, la storia dei modelli di sviluppo che si sono
succeduti nel ‘900 inizia in realtà dopo la seconda guerra mondiale. Solo allora, infatti, molti PVS
ottennero l’indipendenza dalle potenze coloniali; solo allora, perciò, si pose per quei paesi (cioè per
la gran parte dell’umanità, basti pensare all’India) la necessità di pianificare il proprio futuro e
quindi di riferirsi a qualche modello di sviluppo, a qualche “strategia”; solo allora, ancora, le grandi
potenze mondiali cominciarono a guardare con occhio diverso al mondo povero: non più colonie da
depredare, ma potenziali alleati da attrarre nella propria sfera di influenza politica e, quindi, da
“aiutare” attraverso il sostegno del processo di sviluppo1. E’ proprio alla fine della seconda guerra
mondiale, a Bretton Woods nel 1944, che fu costituita la Banca Mondiale, organizzazione
sovranazionale finanziata con i fondi devoluti dai paesi ricchi ed il cui scopo era ed è di
incoraggiare il flusso degli investimenti verso i paesi poveri.
Certo, partire dalla fine della seconda guerra mondiale significa tagliar fuori la Rivoluzione
d’Ottobre e l’esperimento della pianificazione sovietica. Una simile scelta è sostenuta tuttavia da
due ragioni. Primo, le strategie di sviluppo di alcuni paesi dopo la seconda guerra mondiale si sono
più o meno esplicitamente, in maggiore o minor misura, ispirate a quell’esperimento, di cui perciò
metteremo comunque in luce alcune caratteristiche salienti. Secondo, dell’esperimento sovietico si è
cosi ampiamente scritto e detto che pare opportuno, in questa sede, concentrare l’attenzione su paesi
ed esperienze che la storia ufficiale ha talvolta messo in ombra.
Uno schema concettuale utile per inquadrare e capire meglio le strategie di sviluppo che si sono
succedute nel corso di questo periodo è il “modello dei due gap”, illustrato nella lezione 9. Qui ci
limitiamo a ricordarne i tratti essenziali. A livello macroeconomico, la crescita di un’economia può
essere vincolata dalla disponibilità di risparmio interno, necessario a finanziare gli investimenti in
capitale fisico ed umano (a questo proposito si veda anche la lezione 6 sulla crescita endogena)
oppure dalla disponibilità di valuta straniera, necessaria all’importazione di beni intermedi e beni
capitali non prodotti internamente. Ora, come sottolineato da Mahalanobis (1953), mentre in
economie di grande dimensione, potenzialmente in grado di produrre tutto ciò di cui si ha bisogno e
perciò relativamente chiuse al commercio con l’estero (per esempio Cina e India), si riteneva che il
vincolo fondamentale alla crescita fosse la disponibilità di risparmio interno, nella maggior parte
delle economie africane, asiatiche e latino-americane, economie di dimensione medio-piccola, la
capacità di ottenere valuta straniera e quindi di importare beni intermedi e beni di investimento era
considerato il vincolo cruciale al processo di crescita. La maggior parte delle economie africane,
asiatiche e latino-americane si trovò perciò di fronte al problema di individuare una strategia che
consentisse loro di generare una quantità sufficiente di valuta straniera a sostegno dell’obiettivo
fondamentale di quella fase storica: l’industrializzazione.
1
Non è affatto sorprendente che con la fine della guerra fredda, e quindi della necessità di attrarre i PVS nella propria
sfera di influenza politica, gli aiuti allo sviluppo siano sostanzialmente crollati. Guardando ai dati relativi all’ODA
(Official Development Assistance) si nota infatti che i 29 donatori OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico, l’organizzazione dei paesi ricchi del pianeta) complessivamento destinano lo 0,22% del loro
Prodotto Interno Lordo (PIL) agli aiuti, che è un impressionante record negativo storico, meno di un terzo del famoso
obiettivo dello 0,7% solennemente dichiarato in sede ONU. I soli paesi del G-7 hanno ridotto il loro contributo di 15
miliardi di dollari dal 1992, cioè del 30% in termini reali. Per questi ed altri dati si veda la lezione……
10.1
Il modello autarchico
All’indomani della seconda guerra mondiale divenne chiaro che il modello di sviluppo scelto da
molti PVS, e specialmente da quelli di grandi dimensioni, era un modello autarchico, basato sulla
guida statale e non sulla (prevalenza della) libertà di mercato. Il clima intellettuale di quegli anni era
infatti tale che la maggior parte degli economisti dello sviluppo ritenesse impossibile che le sole
forze del mercato, lasciate a se stesse, potessero realizzare obiettivi giganteschi quali
l’industrializzazione di un paese e l’ottenimento di una quantità di valuta estera sufficiente a
sostenere l’industrializzazione stessa. Gli ingredienti fondamentali di questo approccio erano
sostanzialmente due:
La cosiddetta “sostituzione delle importazioni”
La proprietà pubblica di una larga parte dell’apparato produttivo
La sostituzione delle importazioni. La sostituzione delle importazioni è una strategia di sviluppo
industriale che si basa su un’idea molto semplice ed apparentemente convincente. Un paese non può
svilupparsi, cioè innanzitutto garantire una crescita rapida e sostenuta del reddito pro capite,
limitandosi alla produzione e vendita di prodotti primari, estratti dalla terra o coltivati sulla terra.
Non esiste nessun esempio al mondo di paese ricco che sia prevalentemente agricolo. Un paese le
cui forze produttive, di lavoro e capitale, sono per la maggior parte impiegate nel settore primario è
un paese che per definizione sta producendo la propria sussistenza, non molto di più (al meglio!) del
proprio pane quotidiano. Un paese che si vuole sviluppare deve perciò riuscire a far crescere delle
proprie industrie manifatturiere. Non lo può fare, però, se non al riparo dalla concorrenza
internazionale, in special modo dalla concorrenza dei paesi già sviluppati i quali, disponendo di
tecnologie più avanzate e lavoratori più produttivi, sono in grado di fornire prodotti più competitivi.
La Tailandia, tanto per fare un esempio, non riuscirebbe mai secondo questo punto di vista a
sviluppare una propria industria di orologi se permettesse ai propri cittadini di acquistare orologi
svizzeri. Di qui la necessità di impedire o limitare le importazioni di prodotti industriali. Si trattava
appunto di sostituire le importazioni con produzione locale. Produzione locale che, secondo questo
punto di vista, non si potrebbe affermare senza la limitazione “di legge” delle importazioni. Gli
strumenti attraverso i quali i paesi che hanno adottato una strategia di sostituzione delle
importazioni2 hanno cercato concretamente di limitare le importazioni sono tanti e variabili nel
tempo e nello spazio. Tipicamente: dazi doganali, cioè l’imposizione di tasse che fanno aumentare il
prezzo dei beni importati; meccanismi di razionamento della valuta (le banche venivano cioè
autorizzate a cedere valuta estera solo a determinate categorie di operatori: importatori di beni di
prima necessità e di beni capitale avevano la precedenza sugli importatori di beni di consumo,
sempre ammesso che questi ultimi avessero accesso ad una qualche quantità di valuta); quote di
importazione, cioè concessione da parte governativa di licenze di importazione a determinati
soggetti e per determinate quantità di determinati beni; credito agevolato; ecc. Un esempio concreto
di sostituzione delle importazioni è raccontato da C. Freeman3 (p.54),
2
I paesi più citati come esempio di strategia di sostituzione delle importazioni sono India e Brasile (il Brasile iniziò
questa strategia ben prima della fine della seconda guerra mondiale, all’inizio del ‘900). Bisogna però aggiungere alla
lista anche molti paesi dell’Africa nera, l’Indonesia di Suharno, l’Argentina di Peron ed altri ancora. In generale,
all’origine di questa strategia non vi furono soltanto, e nemmeno prevalentemente, motivazioni strettamente
economiche, ma anche cause di carattere storico: dopo decenni, e a volte secoli, di depredamento coloniale, molte
nazioni hanno comprensibilmente individuato nella libertà dei commerci e dei capitali stranieri una minaccia alla
sovranità nazionale.
3
C.Freeman, “La creatività scientifica nello sviluppo economico”, Di Renzo Editore, 1998. Faccio notare che il caso
coreano è di norma presentato, nel dibattito e nella pubblicistica economica, come un caso di sviluppo “trainato dalle
esportazioni”, e non avvenuto per sostituzione delle importazioni. Il caso della Samsung, e anche alcuni studi più
sistematici (per esempio Amsden, A.H, 1989, “Asia’s next giant: South Korea and late industrialization”, New York,
Oxford University Press), dimostrano invece che le due strategie – di promozione delle esportazioni e di sostituzione
delle importazioni – sono invece compresenti nella storia dello sviluppo coreano.
“Nel 1969 il governo della Corea del Sud convocò la ‘SamSung’, una ditta di commercio all’ingrosso e al
dettaglio…; pur non essendo una grandissima impresa, disponeva di molto denaro, essendo i profitti del
commercio piuttosto buoni. Le autorità coreane, avendo esaminato i dati relativi ai prodotti industriali a
crescita più elevata, come ad esempio le auto e l’elettronica, dissero alla SamSung: ’Vogliamo organizzare un
settore industriale nel campo dell’elettronica. Ci state? Intendiamo favorire la nascita di industrie coreane in
questi settori, perché lì risiede il futuro, le industrie sono in rapida crescita. Se voi riorganizzerete la vostra
attività e vi metterete a produrre elettronica, noi vi favoriremo in molti modi, con prestiti a tasso di interesse
bassissimo, fino a zero, e vi garantiremo che il mercato coreano interno sarà protetto, non ci sarà concorrenza!
Inoltre, vi aiuteremo ad ottenere tecnologia avanzata dal Giappone, dagli Stati Uniti e dall’Europa. Tra una
decina d’anni avrete ed avremo sfondato’….il governo coreano fece loro notevoli pressioni ed alla fine
accettarono; oggi sono una delle prime ditte mondiali di apparecchi elettronici”.
Per quanto suggestiva, ed in buona parte ragionevole, l’idea sottesa al racconto di Freeman si presta
a molte critiche. E, in effetti, sono state queste critiche a determinare, a partire dalla seconda metà
degli anni ’70, un progressivo allontanamento, nelle idee e nei fatti, dal paradigma della
sostituzione delle importazioni. Vediamo alcune di queste critiche.
La prima critica è di carattere dinamico. La protezione che i governi offrono alle imprese locali
dovrebbe permettere, come mostra l’esempio relativo alla Corea del Sud, alle stesse imprese locali
di sviluppare delle proprie capacità tecnologiche, commerciali ed organizzative. Al riparo dalla
concorrenza di chi si è sviluppato prima, si ha il tempo di sviluppare tali capacità. La Tailandia può
imparare a produrre orologi solo facendoli (learning by doing), ma nessun tailandese si metterà a
fare orologi se poi, a causa della presenza sul mercato degli orologi svizzeri, non riesce a venderli.
Questo modello, però, può funzionare soltanto se la protezione che i governi offrono alle imprese
locali è temporanea e viene percepita come tale. Se la SamSung avesse pensato che la protezione e
le condizioni di favore offerte dal governo coreano fossero durate all’infinito, essa non avrebbe
probabilmente avuto alcuno stimolo ad acquisire capacità tecnologiche, organizzative e
commerciali. Non avrebbe perciò giovato in alcun modo allo sviluppo del paese. Semplicemente, si
sarebbe creato un gruppo di potere economico protetto dal ceto politico e che al ceto politico, in
cambio di questa protezione, avrebbe offerto sostegni di varia natura. La storia dell’India
dall’indipendenza fino al 1991 è un buon esempio di come la strategia di sostituzione delle
importazioni, quando la protezione offerta ai produttori locali è troppo duratura nel tempo, non sia
garanzia di sviluppo sufficiente della ricchezza materiale. In quel periodo (1947-1991), infatti, il
PIL reale indiano pro capite è cresciuto molto lentamente (in media, 2% all’anno), molto più
lentamente di quanto sarebbe stato necessario per garantire un tenore di vita dignitoso alla maggior
parte della (immensa) popolazione; la corruzione e la connivenza si sono ampiamente diffusi, al
punto che il crollo del partito storico (il Congresso), lo stravolgimento elettorale del 1996 e l’uscita
di scena di alcuni importanti uomini politici sono stati legati a numerosi scandali a sfondo
finanziario; infine, l’eccessiva ed eccessivamente perdurante protezione offerta ai produttori locali,
ha provocato una stagnazione della produttività del lavoro ed una progressiva erosione della quota
indiana sul totale del commercio mondiale, cioè una perdita di competitività.
Un’altra critica che viene tradizionalmente mossa alla strategia di sostituzione delle importazioni è
di carattere statico (i suoi effetti, cioè, non si manifestano nel tempo, ma “qui ed ora”). Essa, dicono
molti economisti, provoca una riduzione del benessere complessivo della società. Il ragionamento è
il seguente. Il governo del paese che applica la strategia in questione sta meglio, perché, almeno nel
caso dei dazi doganali, gode di entrate fiscali prima inesistenti; i produttori del paese in questione,
pure loro, stanno meglio, perché realizzano profitti e percepiscono salari che non avrebbero
realizzato e percepito nel caso in cui fossero stati esposti alla concorrenza dei paesi più avanzati; i
consumatori, però, stanno decisamente peggio: perché possono scegliere i prodotti da acquistare fra
una gamma più ristretta e perché pagano prezzi più elevati di quelli che produttori più efficienti
potrebbero applicare. Fatti i conti, dice la teoria economica tradizionale, lo star peggio dei
consumatori più che compensa lo star meglio dei produttori e del governo: per la società nel suo
complesso, dunque, si ha una riduzione del benessere complessivo. In realtà questa è una critica a
mio avviso molto più debole della precedente4, ma ha avuto comunque una certa importanza nel
determinare il cambiamento nel clima intellettuale nei confronti delle strategie di import
substitution.
Infine, una terza critica alla strategia di import substitution è di carattere meno teorico e più legato
ai risultati pratici ottenuti dai paesi che l’hanno perseguita. Dell’India si è già detto. Altri casi da
citare sono quelli dell’Argentina, dove le politiche autarchiche hanno provocato un peggioramento
del tenore di vita5, e di gran parte dell’Africa nera dove pure la strategia di chiusura trovava,
all’indomani della riconquistata indipendenza, fortissime ragioni storico-politiche per affermarsi:
“scambi” e “capitale straniero” in quel contesto non potevano significare altro che sfruttamento e
dolore. Anche questa critica, però, non è del tutto convincente. Accanto ai casi appena citati di
fallimento della strategia di sostituzione delle importazioni vi sono casi di successo. Il Brasile, per
esempio, che l’ha applicata per tutto il secolo con l’eccezione del decennio 1965-75, ha sviluppato
la propria ricchezza materiale, per tutto il secolo, ad un ritmo inferiore al solo Giappone6; le
cosiddette “tigri asiatiche” (Corea del Sud, Malesia, Taiwan, Singapore, Cina, Indonesia) si sono e
si stanno sviluppando a ritmi prodigiosi, del tutto sconosciuti a qualsiasi altro paese dopo la seconda
guerra mondiale, facendo uso anche – laddove le dimensioni del paese lo consentono - dello
strumento della sostituzione delle importazioni. Probabilmente un giudizio più sereno e meno
ideologico deve portarci a riconoscere che gli strumenti tipici di una strategia di sostituzione delle
importazioni (dazi, credito agevolato, ecc.) possono funzionare se previsti soltanto per un certo
periodo e accompagnati da altre politiche ed altri incentivi (nel caso sud coreano, per esempio, i
profitti realizzati grazie alla protezione non potevano essere esportati, ma reinvestiti per ottenere,
questa volta, prodotti idonei ad essere esportati secondo certi target quantitativi). Non esiste una
ricetta miracolosa, ma un policy mix la cui adeguatezza va giudicata in relazione a ciascun paese e
in relazione alla particolare fase storica.
La proprietà pubblica. Se, come abbiamo detto, svilupparsi significa di norma industrializzarsi, chi
si deve incaricare di impiantare nuove industrie in economie prevalentemente agricole? I paesi nei
quali la produzione primaria è dominante sono anche paesi nei quali le infrastrutture sono spesso
calibrate sulle necessità di esportazione di pochi prodotti primari: le autostrade e le ferrovie sono
posizionate rispetto a queste esigenze, le attrezzature portuali possono stoccare questi prodotti e non
altri, ecc.. Ancora: la forza lavoro addestrata è spesso un bene molto scarso, il personale scientifico
(ingegneri, chimici, informatici, fisici, ecc.) necessario a qualsiasi tipo di sviluppo industriale o non
c’è o tende ad andarsene7. Quale imprenditore privato si sobbarcherà il costo di adeguare le
4
Una “contabilità” del benessere come quella appena esposta, infatti, presuppone che un dollaro guadagnato dal
governo conti tanto quanto un dollaro perduto da un consumatore, il che è del tutto insoddisfacente nel caso in cui – per
esempio, il bene a cui viene applicato il dazio è un bene di lusso. Il consumatore, in quel caso, è un ricco signore che
ora deve pagare 1 dollaro in più per pagare la Mercedes; se quel dollaro, entrato nelle casse dello Stato come dazio
doganale, serve a finanziare programmi di assistenza ai poveri, è ben difficile sostenere che la perdita del ricco signore
debba valere, dal punto di vista sociale, quanto il guadagno del povero.
5
Riporto a questo proposito un passo di N.G. Mankiw, contenuto in Principi di Economia, Zanichelli, 1999 (p.460): “il
PIL dell’Argentina è equivalente a quello della sola città di Philadelphia ed è facile immaginare che cosa accadrebbe se
il Consiglio Comunale di questa città impedisse ai residenti di commerciare con individui e imprese al di fuori dei
confini municipali….Il tenore di vita a Philadelphia crollerebbe immediatamente….questo è esattamente ciò che è
accaduto in Argentina quando il governo ha cominciato a perseguire politiche autarchiche..”.
6
Qualche cifra può essere d’aiuto: il PIL reale pro capite del Giappone è cresciuto, tra il 1900 e il 1990, del 3%
all’anno; quello brasiliano del 2,39%; quello italiano del 2,1%; quello statunitense dell’1,76%; quello indiano dello
0,65%; quello del Bangladesh (fanalino di coda) dello 0,08%.
Che poi il Brasile non sia riuscito a distribuire equamente questo aumento di ricchezza è un altro problema, collegato
ma distinto.
7
Il fenomeno cosiddetto della “fuga dei cervelli” non è solo un ricordo del passato. Ci sono oggi 30.000 africani titolari
di un dottorato di ricerca che lavorano fuori dai loro paesi, attratti da salari più elevati e un clima politico più stabile.
Ma non è solo questione di “fuga”. Gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, per esempio, praticano una politica attiva per
attirare lavoro qualificato dai paesi meno sviluppati, offrendo speciali visti di ingresso e altri incentivi. In Africa c’è uno
infrastrutture e addestrare la forza lavoro? Chi fornirà incentivi ai “cervelli” per evitare che
scappino? Ammesso e non concesso che in un paese povero vi siano le risorse finanziarie ed
imprenditoriali perché tali compiti possano essere lasciati all’iniziativa privata, come si potranno
coordinare tanti molteplici sforzi? Immaginate una regione8 prevalentemente agricola, nella quale vi
è perciò il potenziale per investimenti industriali di diverso tipo. Supponete inoltre che tutta la
produzione industriale futura della regione possa essere venduta soltanto entro i confini nazionali9.
Supponete ancora che in questa regione venga impiantata una enorme fabbrica di scarpe che
produce scarpe per un valore complessivo di 1 miliardo di lire. Ciò significa che tale impresa
distribuisce salari (ai lavoratori), profitti (agli azionisti-capitalisti) e rendite (ai proprietari del
capannone entro cui si svolge l’attività produttiva, del terreno su cui sorge il capannone, ecc.) per
un valore complessivo pari a 1 miliardo di lire. Riuscirà questa impresa a sopravvivere, cioè a
vendere tutte le scarpe che produce? Poiché per ipotesi essa non potrà vendere nulla all’estero, la
nostra impresa sopravviverà soltanto se tutto il miliardo di redditi che essa distribuisce viene speso
nell’acquisto di scarpe, ciò che è palesemente assurdo! I percettori di quei redditi vorranno
comprarsi scarpe, magliette, automobili e quant’altro possa soddisfare i loro molteplici desideri di
consumo. Ma ciò significa che i potenziali produttori di scarpe decideranno di effettuare per
davvero il loro investimento solo se sono convinti, se si aspettano, che qualcun altro si metta a
produrre magliette e automobili. Lo stesso dicasi per i potenziali produttori di magliette e di
automobili. C’è quindi, nei processi di sviluppo, un problema cruciale legato alle aspettative. Ed è
del tutto evidente che in una regione la cui storia è una storia di stagnazione e povertà, è ben
difficile che le aspettative siano ottimistiche, che il potenziale produttore di scarpe si convinca che il
potenziale produttore di magliette produrrà effettivamente le magliette10.
Queste sono le ragioni di fondo per le quali in molti PVS, all’indomani della seconda guerra
mondiale, la proprietà pubblica dell’apparato produttivo si è molto diffusa, al di là del ruolo dello
Stato come fornitore di infrastrutture, beni pubblici in generale e beni prodotti in regime di
monopolio naturale: perché, per tornare al nostro esempio, l’unico soggetto singolo che può
simultaneamente produrre scarpe, magliette e automobili, tagliando alla radice il problema del
coordinamento e delle aspettative, è il soggetto pubblico11. Detto per inciso: queste sono anche, al di
là delle polemiche contingenti e dei casi di malversazione, le ragioni profonde per le quali pure
l’Italia nel secondo dopoguerra costituì un esteso sistema di proprietà pubblica delle attività
produttive, il sistema cosiddetto delle partecipazioni statali guidato dall’IRI.
scienziato o un ingegnere ogni 10.000 persone (per avere un’idea, è come se in una città come Pavia ci fossero solo 8
ingegneri!).
8
L’esempio che segue è tratto da un famoso articolo di un grande economista dello sviluppo, Paul Rosenstein-Rodan,
1943, Problems of Industrialization of Eastern and SouthEastern Europe, Economic Journal.
9
L’ipotesi è meno peregrina di quel che sembri. E’ ragionevole immaginare, infatti, che almeno durante i primi anni di
industrializzazione un paese non abbia ancora sviluppato le capacità necessarie a competere sui mercati internazionali e
che perciò non sia in grado di esportare la propria produzione. Teoricamente, ed in alcuni casi anche praticamente,
questo problema si può risolvere facendo ricorso agli investimenti diretti dall’estero (IDE), cioè lasciando che siano
imprese multinazionali a iniziare il processo di industrializzazione in una data regione. Ma, al di là di tutti i problemi
legati all’operare delle multinazionali e sui quali in questa sede sorvolo, le multinazionali non si muovono certo per
decreto governativo o solo perché trovano manodopera a basso costo. Prova ne sia il fatto che, secondo i dati forniti
dalla Banca Mondiale nel suo ultimo World Development Report, i movimenti delle multinazionali sono per il 70% da
paese ricco a paese ricco e solo per il 30% da paese ricco a paese povero; e che degli investimenti delle multinazionali
nei PVS più della metà si sia concentrata in soli 5 paesi: Argentina, Brasile, Messico, Cina e Polonia.
10
Un articolo molto interessante sull’importanza fondamentale della storia e delle aspettative per capire i processi di
sviluppo economico è quello di Paul Krugman, 1991, History versus Expectations, Quarterly Journal of Economics,
pp.651-57
11
Si potrebbe sostenere, anche qui, che questo compito potrebbe essere svolto dalle imprese multinazionali. Si veda
però la nota 9, e si rifletta sul fatto che negli anni successivi alla seconda guerra mondiale le multinazionali erano molte
di meno e molto meno multi-nazionali di quanto non siano oggi. Una strategia di industrializzazione fondata
prevalentemente sugli investimenti diretti dall’estero, ammesso che oggi ne abbia uno, allora non aveva davvero alcun
fondamento.
10.2 Il ritorno del liberismo
Tra la fine degli anni’70 e l’inizio degli anni ’80 molti paesi che avevano perseguito una strategia di
sostituzione delle importazioni sperimentarono serie difficoltà esterne, al punto che alcuni di essi
vissero una vera e propria crisi di insolvenza. La “bomba” del debito del Terzo Mondo scoppiò
ufficialmente nel 1982, quando il Messico dichiarò unilateralmente di non poter ripagare i debiti
contratti con il resto del mondo. Non mi soffermerò a lungo sui meccanismi interni alla crisi del
debito (che saranno affrontati nella lezione 16); è importante però realizzare che le politiche
autarchiche ed interventiste descritte nella prima parte di questo lavoro non furono responsabili
della crisi del debito (per alcuni versi, come vedremo, la esacerbarono) e che ciò nonostante fu
proprio la crisi del debito a determinare l’abbandono del modello autarchico e l’affermarsi del
nuovo modello di libero mercato ed apertura al resto del mondo.
Crisi del debito, stabilizzazione e aggiustamento strutturale. Tra i molteplici effetti che lo shock
petrolifero del 1973-74 (i prezzi del greggio si moltiplicarono per 4 nel giro di poche settimane!)
produsse il più importante per il nostro discorso fu la creazione di una massa enorme di ricavi
finanziari (i cosiddetti “petroldollari”) che i beneficiari, cioè i paesi produttori di petrolio, decisero
per la gran parte di depositare presso le banche statunitensi. Che cosa fecero le banche statunitensi
di questa improvvisa iniezione di liquidità? Il mestiere delle banche è prestare e in quegli anni i
PVS erano buonissimi clienti, tant’è che i tassi di interesse con essi contrattati erano mediamente
superiori del 2% ai tassi di interesse prevalenti sul mercato. Nei PVS, quasi per definizione, si
potevano finanziare progetti potenzialmente molto redditizi e, per di più, dietro a quei prestiti c’era
quasi sempre una garanzia governativa12.
Venne tuttavia il secondo shock petrolifero (1979) e, nel tentativo di arrestare un processo
inflazionistico sempre più grave, le banche centrali cercarono di raffreddare le economie attraverso
un rialzo dei tassi di interesse. Ciò provocò due effetti nefasti sui PVS debitori: a) un effetto diretto,
giacché aumentavano gli interessi sul debito contratto dai PVS; b) un effetto indiretto, giacché il
rallentamento delle economie occidentali fece ridurre la domanda di materie prime e quindi i prezzi
delle stesse. Piccolo particolare: le materie prime costituivano per molti paesi debitori la principale
fonte di ricavi da esportazione……Inevitabilmente il rapporto debito/esportazioni (si tratta di un
rapporto molto importante nell’indicare la solvibilità di un paese: se un paese si indebita ma le sue
esportazioni crescono almeno allo stesso ritmo – ragion per cui quel rapporto o resta identico o si
riduce – allora non c’è ragione di preoccuparsi circa la solvibilità del paese in questione) cresceva
pericolosamente e ciò nonostante le banche occidentali, nel biennio 1979-81, continuavano a prestar
danaro ai PVS, specialmente ai paesi dell’America Latina. Presto o tardi, inevitabilmente, ci
sarebbe stato lo scoppio della crisi. Così fu: nel 1982 il Messico dichiarò di non onorare il debito
pregresso, e ovviamente i prestiti ai PVS crollarono drasticamente.
Se sei piuttosto povero e nessuno ti presta più un soldo è abbastanza facile capire che cosa possa
succedere: il sistema bancario dispone di minori fondi da prestare alle imprese private; le imprese
private, quindi, riducono gli investimenti e/o fronteggiano maggiori oneri par l’aumento dei tassi di
interesse; lo Stato, da parte sua, dispone di minori fondi per finanziare gli investimenti pubblici e le
spese correnti. Ma alcune spese pubbliche non sono assolutamente comprimibili, in primo luogo
quelle per il pagamento degli interessi sul debito pregresso; per far fronte a queste spese, quasi
invariabilmente, i governi ricorrono a due strumenti: l’emissione di prestiti obbligazionari, ciò che
tuttavia fa aumentare i tassi di interesse reale, e la stampa di moneta fresca, ciò che tuttavia fa
aumentare il tasso di inflazione. La storia non è ancora finita. L’elevata inflazione deprime il valore
della valuta locale e quindi tutti coloro che detengono attività finanziarie denominate in quella
valuta cercano di cambiarla e di portare i soldi all’estero: è questo il fenomeno cosiddetto delle
12
Il Presidente della Citicorp, Walter Wriston, dichiarò che “i governi non possono fare bancarotta”. Da cui la
spavalderia con cui le banche occidentali prestavano soldi ai PVS.
“fughe di capitale”, e se il capitale se ne va da una nazione con che cosa quella nazione finanzierà il
proprio sviluppo futuro?
E’ chiaro che simili situazioni non potevano durare a lungo. Se i capitali privati stranieri avevano
ormai abbandonato le economie dei paesi debitori, queste potevano essere salvate solo
dall’intervento di qualche organismo internazionale. E’ in questo periodo, infatti, che il Fondo
Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM) acquistano una visibilità politica loro
sconosciuta dall’atto della loro creazione a Bretton Woods. FMI e BM, in sostanza, si incaricarono
di predisporre dei prestiti di emergenza alle economie debitrici sotto il vincolo della
“condizionalità”. Prima della crisi del debito l’ottica del FMI e della BM era grosso modo questa: io
ti presto tot dollari per finanziare un certo progetto di investimento; dopo la crisi del debito e con
l’introduzione della condizionalità l’ottica cambiò: io ti presto tot dollari per salvarti, perché
altrimenti non riesci più neppure ad importare alcuni beni essenziali per il funzionamento
dell’economia, però per cortesia non ti incastrare più in questa situazione maledettamente
complicata! Anzi, visto che ti sto finanziando con i soldi della comunità mondiale, te lo dico io che
cosa devi fare per evitare il ripetersi di questo disastro: devi fare questo, questo e quest’altro. O
firmi questa lettera di condizionalità (detta anche lettera di intenti) dove prometti che farai questo,
questo e quest’altro o altrimenti non vedi neppure un dollaro. Di più: comincia a fare questo e ti do
una prima tranche di dollari, quando avrai fatto quest’altro ti darò la seconda tranche.
Che cosa erano “questo, questo e quest’altro”? Erano i cosiddetti piani di stabilizzazione e
aggiustamento strutturale. Vale la pena di spendere alcune parole su di essi perché sono stati a mio
avviso cruciali (insieme ad altre cause, prima fra tutte l’evoluzione della tecnologia) nel determinare
la cosiddetta globalizzazione dell’economia mondiale.
La stabilizzazione dell’economia consiste essenzialmente in una politica monetaria restrittiva (non
bisogna stampare troppa moneta) e in una politica fiscale che riduca al minimo il disavanzo
pubblico (la differenza tra uscite ed entrate del bilancio pubblico). Bisogna perseguire una politica
monetaria restrittiva per arrestare i processi di inflazione e iperinflazione che spesso caratterizzano
le economie debitrici (abbiamo già detto che i governi di tali economie tendono a stampare troppa
moneta per finanziare le spese incomprimibili o ritenute tali). Fu per esempio il caso della Bolivia
(inflazione all’8000% nel 1985), e quali siano i costi dell’iperinflazione è facilmente intuibile dalla
lettura di questo passo13:
“Il giorno in cui Edgar Miranda riceve il suo stipendio di insegnante (25 milioni di peso) non ha un solo minuto
da perdere….Sua moglie corre al mercato e fa la scorta di riso e pasta per un mese intero, mentre lui cerca di
cambiare il resto dei peso in dollari americani al mercato nero.
….E’ molto facile scoprire che cosa accadrebbe allo stipendio del signor Miranda se egli non riuscisse a
cambiare celermente i peso in dollari: il giorno in cui ha ricevuto i suoi 25 milioni, al mercato nero un dollaro
valeva 500.000 pesos, il che significa che aveva ricevuto il controvalore di 50 dollari. Il giorno dopo il cambio
era già salito a 900.000 peso e i suoi 50 dollari erano già diventati 27”
Come si evince chiaramente da questo passo, il signor Miranda deve impiegare tempo ed energie
per minimizzzare la liquidità che detiene in peso, sprecando così risorse che potrebbe usare in modo
più produttivo (per seguire corsi di aggiornamento, per svolgere qualche altro lavoro che gli
consenta di arrotondare lo stipendio, ecc.). Se non ci fosse iperinflazione, e se quindi il peso non si
svalutasse a questo ritmo rispetto al dollaro, il signor Miranda potrebbe impiegare più
produttivamente le sue scarse risorse. Di qui la necessità di perseguire una politica monetaria
restrittiva, che riducendo la quantità di moneta riduca il tasso di inflazione. La Bolivia la perseguì
ed il tasso di inflazione effettivamente si ridusse. Certo, queste “stabilizzazioni” non sono mai prive
di costo: stampare meno moneta significava anche dover comprimere alcune spese pubbliche, tra
cui per esempio le spese sociali.
L’altra componente delle politiche di stabilizzazione è la riduzione del disavanzo pubblico, anche
questa costosa perché implica la riduzione tanto delle spese correnti (come per esempio le spese
13
The Wall Street Journal, 13 agosto 1985.
sociali) quanto della spesa per investimenti (infastrutture, formazione, ecc.). Perché allora FMI e
BM imponevano la riduzione del disavanzo pubblico alle economie debitrici? Le ragioni addotte
erano fondamentalmente due. Primo: ridurre il disavanzo significava ridurre la necessità di
finanziarlo attraverso l’emissione monetaria14, ed è il punto che abbiamo appena illustrato; secondo,
quand’anche il disavanzo pubblico non venga finanziato dall’emissione monetaria, esso – secondo
il punto di vista delle istituzioni di Bretton Woods – sottrae risorse agli investimenti e quindi allo
sviluppo dell’economia, giacché, per essere finanziato, richiede l’emissione di titoli del debito
pubblico che sono appetibili per i risparmiatori solo se garantiscono tassi di interesse elevati; ma
tassi di interesse elevati scoraggiano l’investimento.
Non è finita: può anche succedere che gli investimenti non si riducano in presenza di un
significativo disavanzo pubblico finanziato con l’emissione di titoli, ma ciò significa che gli
investimenti non sono finanziati dai residenti (i quali appunto impiegano il loro risparmio per
acquistare i titoli del debito pubblico), bensì da soggetti stranieri che stanno prestando soldi
all’economia in questione. Questo, tuttavia, è esattamente ciò che il FMI e la BM volevano evitare:
che una nuova ondata di prestiti ai PVS li ricacciasse in una situazione debitoria dalla quale le
politiche di stabilizzazione servivano a farli uscire.
Insomma, comunque la mettiate, la riduzione dei disavanzi pubblici era, nell’ottica degli organismi
internazionali, un sacrificio duro ma necessario per uscire dal pantano della crisi del debito.
Comunque un sacrificio: sia in senso diretto, perché la riduzione dei disavanzi non poteva che
passare per il taglio delle spese sociali e degli investimenti pubblici; sia in senso indiretto, perché la
riduzione degli investimenti pubblici, per esempio in dotazione infrastrutturale, diminuisce le
capacità di un sistema economico di creare posti di lavoro.
Le politiche di stabilizzazione avevano lo scopo di “rimettere i conti a posto”, di tornare a vivere
secondo i propri mezzi e senza ricorrere a un eccessivo indebitamento. L’aggiustamento strutturale
– l’altro insieme di politiche cui si condizionava l’erogazione dei prestiti da parte del FMI e della
BM – aveva invece lo scopo di ridare vigore alle economie debitrici, di sviluppare i loro stessi
mezzi in accordo ai quali avrebbero potuto vivere. Prima si spegne il fuoco (stabilizzazione), poi si
pensa a ricostruire la casa (aggiustamento strutturale).
Come si fa a ricostruire la casa? Che cosa è stato (e in buona parte continua ad essere)
l’aggiustamento strutturale? E’ stato, in buona sostanza, l’adozione di provvedimenti che nel loro
insieme dovevano servire a reintrodurre la logica di mercato in economie dalle quali questa logica,
dove più dove meno, era stata espulsa. Quindi: libero commercio internazionale invece di import
substitution, privatizzazioni invece di proprietà pubblica dell’apparato produttivo. Fu proprio in
quel periodo, inizio degli anni ’80 che torna in voga la fede nella “mano invisibile” di Adam Smith:
“…l’uomo ha continuamente bisogno della cooperazione e dell’assistenza di un gran numero di persone….e
invano se l’aspetterebbe solo dalla loro benevolenza. Egli potrà più facilmente ottenerlo se saprà catturare a
proprio favore la loro vanità, dimostrando loro che il loro stesso vantaggio è nel fare ciò che egli sta
chiedendo…Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare,
ma dalla considerazione del loro personale interesse….Ciascuno mira soltanto al proprio guadagno ed è in
questo, come in molti altri casi, condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non rientrava nelle
sue intenzioni….Promuovendo il proprio interesse, egli promuove quello della società con più efficacia di
quanto potrebbe fare volendolo perseguire volontariamente”15.
14
Ci sono tre possibili modo per finanziare la spesa pubblica e l’eventuale disavanzo di bilancio che ne deriva. O si
aumentano corrispondentemente le tasse (ed in tal caso non si produce alcun disavanzo), ma aumentare le tasse è un
provvedimento assolutamente impopolare e inoltre, perché produca gli effetti sperati, bisogna poter disporre di un
apparato tecnico-amministrativo sufficientemente sviluppato, cosa che spesso non si verifica nei PVS; o si emettono
obbligazioni richiedendo prestiti al mercato, ma in un paese povero i possibili compratori sono pochi (il mercato, come
si dice, è “sottile”). Oppure, ed è l’alternativa più comoda, il governo ordina alla banca centrale di stampare moneta. Per
questo una raccomandazione tipica che il FMI e la BM facevano alle economie debitrici era quella di adottare statuti di
autonomia dal potere politico per le rispettive banche centrali.
15
Tratto da “Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni”, lo straordinario libro che Smith scrisse nel
1776.
Naturalmente questa rinnovata fede nella mano invisibile aveva delle ragioni anche politicocontingenti (i primi anni ’80 sono quelli in cui alla testa delle potenze che contano nel decidere le
politiche degli organismi internazionali ci sono Ronald Reagan e Margareth Tacher), ma tutto
sommato io credo che ci fu un autentico convincimento dietro alle nuove direttive impartite dal FMI
e dalla BM: prova ne sia che, come vedremo, le politiche di liberalizzazione cominciate negli anni
’80 sotto l’etichetta dell’”aggiustamento strutturale” sono proseguite fino ai giorni nostri e, in
numerosi casi, decise autonomamente dai governi nazionali, senza il diktat della condizionalità.
Dunque: lo Stato non doveva più, come all’epoca della strategia di sostituzione delle importazioni,
interferire nel libero funzionamento del commercio internazionale, imponendo quote e tariffe
all’importazione che servivano soltanto: a proteggere i produttori locali dalla competizione straniera
e quindi a far mancare loro quel pungolo della concorrenza che solo può favorire lo sviluppo di
prodotti migliori e meno cari (e quindi lo sviluppo del benessere materiale); a far pagare prezzi più
alti ai consumatori; a sviluppare corruzione e malcostume nella ricerca di rendite di posizione (nella
ricerca, per esempio, di ottenere una licenza di importazione, la quale di fatto dà il diritto di
importare pagando 100 e di rivendere sui mercati locali a 110: perché allora non pagare una
tangente pari a 5 per ottenere la licenza?); a disincentivare, infine, il settore esportatore: perché è
chiaro che le risorse di capitale e lavoro che, all’ombra della protezione statale, vengono impiegate
nella produzione di beni sostituti delle importazioni, sono risorse sottratte alla produzione di altri
beni e servizi, tra cui quelli destinati all’esportazione, con tutto ciò che questo significa in termini di
minori entrate valutarie e quindi minore capacità di ripagare i debiti esistenti e futuri.
I piani di aggiustamento strutturale non prevedevano solo le privatizzazioni e la liberalizzazione dei
commerci con l’estero in beni e servizi, ma incitavano anche, e sia pure in misura più ridotta, alla
liberalizzazione dei flussi di capitale. I PVS, cioè, erano invitati ad abolire i controlli sulle entrate e
sulle uscite di capitale (oggi la gran parte dei PVS ha effettivamente abolito questi controlli) perché,
anche qui, sono i mercati, cioè la libera iniziativa individuale, a determinare l’allocazione ottimale
delle risorse. Faccio notare che privatizzazioni dell’apparato produttivo e liberalizzazione dei
movimenti di capitale erano e sono scelte quasi necessariamente complementari: se in un paese
povero si decide di mettere un’impresa pubblica sul mercato, chi se la compra? I residenti
probabilmente sono mediamente troppo poveri per poterlo fare, e quindi bisogna permettere che ad
acquistare le azioni sia il capitale straniero.
Abbiamo visto allora in che modo, a partire dalla crisi del debito dei primi anni ’80, il mondo abbia
stabilito le condizioni di politica economica per potersi “globalizzare”: libertà di commercio
internazionale, libertà nei movimenti di capitale, privatizzazione dell’apparato produttivo.
3.
La globalizzazione
Che cos’è la globalizzazione? Per definirla è utile riferirsi ad alcuni indicatori, molti dei quali
riguardano proprio il commercio internazionale e i movimenti di capitale da paese a paese, cioè
quelle dimensioni economiche che abbiamo appena analizzato e intorno alle quali abbiamo definito
tanto il modello “autarchico” quanto il modello di “libero mercato”. Eccone alcuni:
Le esportazioni mondiali (oggi pari a 7 mila miliardi di dollari) rappresentano il 21% del PIL
mondiale, contro il 17% degli anni ’70. Una quota sempre maggiore, in senso sia assoluto che
relativo, di beni e servizi, attraversa i confini mondiali.
Gli investimenti diretti esteri (IDE), pari a più di 400 miliardi di dollari, sono sette volte
maggiori, in termini reali, di quanto non fossero negli anni ’70. Gli IDE sono gli investimenti
che le multinazionali compiono al di fuori del paese in cui ha sede la casa madre. Ciò significa
che lo sviluppo dell’apparato produttivo di un paese è sempre più dipendente da decisioni che
vengono prese al di fuori del paese stesso, da entità la cui nazionalità è persino difficile da
individuare con precisione.
I flussi di portafoglio internazionali (es: quando il fondo comune di investimento o il fondo
pensione cui abbiamo affidato i nostri risparmi utilizza i nostri soldi per acquistare
un’obbligazione emessa da un’impresa brasiliana sta compiendo un investimento di portafoglio.
Non vuole acquistare la maggioranza delle azioni per decidere la strategia dell’impresa – in quel
caso si tratterebbe di un investimento diretto all’estero – ma ottenere il più alto rendimento
possibile dal possesso di quell’obbligazione) ammontano oggi a più di 2 mila miliardi di dollari,
circa tre volte il livello degli anni ’80. Questo significa che le risorse a disposizione del sistema
finanziario di ciascun paese sempre più dipendono dalle scelte compiute dai risparmiatori di
altri paesi.
Il volume d’affari quotidiano nei mercati delle valute è cresciuto dai circa 20 miliardi di dollari
degli anni ’70 agli attuali 1500 miliardi. Se un numero crescente di soggetti compera e vende
una quantità crescente di valute sul mercato dei cambi, ciò significa che è sempre più difficile
per le banche centrali nazionali tenere sotto controllo il valore delle valute stesse.
Malgrado le sempre più severe restrizioni (qui non c’è stata alcuna liberalizzazione, anzi!), la
migrazione internazionale è in continua crescita. Ogni anno ci sono 2-3 milioni di persone che
emigrano, e lo fanno essenzialmente verso 4 destinazioni: USA, Germania, Canada, Australia. Il
fenomeno (che meriterebbe una relazione a parte) è in gran parte positivo sia per i paesi
riceventi che per i paesi d’origine, ma crea – specialmente nelle arre urbane – grandi difficoltà
sociali e tensioni sul mercato del lavoro;
Questa “aritmetica della globalizzazione” potrebbe continuare all’infinito, ma non sarebbe utile.
Prima di commentare alcuni di questi dati e cercare di trarne qualche conclusione, vorrei però, per
dovere di completezza, ricordare che il modello di libero mercato che si è imposto all’indomani
della crisi del debito e le politiche economiche che ne sono conseguite (privatizzazioni,
liberalizzazione del commercio estero, ecc.) non sono le sole cause della globalizzazione. Ce ne
sono almeno altre due che è importante sottolineare: la causa tecnologica e la causa demografica.
L’espansione del commercio internazionale non è possibile soltanto in quanto il modello di libero
mercato abbia imposto l’eliminazione di tariffe, quote ed altre restrizioni al commercio
internazionale, ma anche grazie all’impressionante riduzione dei costi di trasporto e di informazione
che le nuove tecnologie hanno reso possibili. Un solo esempio tra i moltissimi che si potrebbero
proporre: da un paio d’anni la General Electric, per il suo fabbisogno di parti componenti, rende
pubblici degli annunci su Internet, il che significa che le imprese di tutto il mondo, attraverso una
vera e propria asta telematica, competono per ottenere la commessa da General Electric. I materiali
di cui General Electric ha bisogno, d’altra parte, non sono più, come 25 anni fa, materiali pesanti e
difficilmente trasportabili, ma leggeri e facilmente trasportabili.
Allo stesso modo, e affronto qui quella che ho chiamato causa demografica, se oggi il fondo
pensione cui parzialmente affidiamo i nostri risparmi decide di acquistare le azioni emesse da
un’impresa brasiliana, ciò accade non solo perché il Brasile ha eliminato i controlli sui movimenti
di capitale, ma anche perché – insicuri della pensione pubblica a causa dell’invecchiamento della
popolazione– cerchiamo di delegare la gestione del nostro risparmio a chi professionalmente prova
a farlo fruttare al massimo grado, e per questo scopo è disposto a investirlo in tutto il mondo
(facilitato in questo, ancora una volta, dalla tecnologia, che gli permette di spostare capitali in
tempo reale da una parte all’altra del globo).
Detto questo, stiamo meglio o peggio nel mondo dell’economia globale? E come si devono
modificare le politiche e le istituzioni che le decidono e le attuano in un contesto così radicalmente
mutato?
Sono domande difficilissime e non è mia intenzione, in una lezione cui ho cercato di dare nei limiti
delle mie capacità un’impronta storica, provare ad abbozzare delle possibili risposte. Propongo solo
alcune osservazioni, nel modo più “neutrale” possibile.
Oggi la quota di popolazione che gode di uno sviluppo umano medio (lo sviluppo umano è
misurato dalla UNDP – United Nations Development Program – sulla base di indicatori quali:
aspettativa di vita, numero di medici per abitante, tassi di scolarizzazione primaria e secondaria,
libertà politica e possibilità di partecipare a libere elezioni, qualità ambientale, apporto calorico
quotidiano, disponibilità di acqua potabile, disponibilità di abitazioni, ecc. Su questi temi si
veda in particolare la lezione 19) è cresciuta dal 55% del 1975 al 66% del 1997, mentre quella
che dispone di uno sviluppo umano basso si è ridotta dal 20% al 10%. Poiché questo
miglioramento è misurato a partire dal 1965, non è facile stabilire se esso sia dovuto
all’adozione di un modello autarchico (1965-1980) o di libero mercato (dopo il 1980).
Questo miglioramento, che pure va riconosciuto e salutato come una grande conquista, non può
ritenersi soddisfacente. Ancora oggi, infatti: (a) 1, 3 miliardi di individui non hanno accesso
all’acqua potabile; (b) un bambino su sette in età scolare non va a scuola; (c) 840 milioni di
bambini sono malnutriti; (d) 1,3 miliardi di persone vivono con l’equivalente di meno di un
dollaro al giorno in termini di parità di potere d’acquisto (cioè: è esattamente come se noi, qui e
ora, disponessimo di meno di 2.000 lire al giorno per la nostra sopravvivenza!); (e) anche nei
paesi ricchi una persona su 8, cioè il 12,5% della popolazione, è colpita da qualche aspetto di
povertà (disoccupazione di lungo periodo, reddito individuale al di sotto della soglia nazionale
di povertà, mancanza di alfabetizzazione necessaria per cavarsela nella società); (f) anche nei
paesi ricchi le disuguaglianze stanno aumentando, specialmente – secondo i dati della UNDP –
negli USA, in Svezia e in Gran Bretagna16; (g) è aumentata anche la disuguaglianza fra paesi.
Nel 1990 il rapporto fra il reddito dei paesi ricchi e quello dei paesi poveri era di 60 a 1, nel
1997 questo rapporto era pari a 74 a 1. Questa “aritmetica della disperazione” potrebbe
continuare, ma credo sia già sufficiente a dare l’idea della dimensione straordinaria di questi
problemi.
Più di 80 paesi del mondo – ed è questo a mio parere un dato su cui riflettere molto – hanno
ancora redditi pro capite più bassi rispetto a un decennio fa. Inoltre, 55 paesi appartenenti
soprattutto all’area dell’Africa sub-sahariana e all’Europa dell’Est e alla Comunità degli Stati
Indipendenti (CSI) hanno diminuito i loro redditi pro capite.
Quindi, una risposta del tutto provvisoria ma sensata alla domanda “stiamo meglio o peggio
nell’economia globale” è questa: stiamo mediamente un po’ meglio rispetto al 1965, ma molti fra di
noi stanno ancora molto male ed alcuni stanno sicuramente peggio. Si impone allora una riflessione.
La globalizzazione apre delle grandi opportunità – per me che via Internet posso acquistare un libro
dagli Stati Uniti pagandolo, ammesso che lo trovi, meno di quel che farei in una libreria di Pavia;
per il fornitore della General Electric che ottiene una commessa che solo 10 anni fa sarebbe stata
impossibile; per il PVS che può ottenere finanziamenti da mercati finanziari da cui prima era
sostanzialmente separato; per la nascente impresa venezuelana che può ottenere molto rapidamente
un servizio di consulenza, via Internet, da una società tedesca, ecc. ecc. – ma, se alcuni stanno
peggio di prima, questo significa che tali opportunità non sono distribuite equamente e che la
globalizzazione comporta anche dei rischi.
Dirò brevemente delle une – le opportunità iniquamente divise – e degli altri – i rischi della
globalizzazione. Abbiamo visto che la globalizzazione ha comportato una sempre più massiccia
presenza nell’economia mondiale delle grandi multinazionali, le quali possono ora trasferirsi senza
vincoli (anzi, spesso con significativi vantaggi di ordine fiscale) in moltissimi PVS. Supponiamo di
considerare una multinazionale agricola, la quale grazie alle sue attività di ricerca e sviluppo
introduca una nuova varietà di riso. E’ chiaro che l’interesse della multinazionale è di proteggere
tramite un brevetto la sua scoperta; l’interesse del paese ospitante, invece, è che tale scoperta sia
diffusa al massimo grado. Bene, l’accordo TRIPS (sui diritti della proprietà intellettuale) firmato a
Marrakesh nel 1994, protegge l’interesse della multinazionale, giacché prevede che tutta la
produzione basata sulla conoscenza sia ora soggetta alla stretta protezione della proprietà
16
Davvero tutto si tiene. Le richieste di maggiore “flessibilità” nell’uso della forza lavoro e nelle modalità della sua
remunerazione sono strettamente legate all’evolversi dell’economia in senso “globale”. Oggi un venditore al dettaglio
può, grazie alle tecnologie informatiche, descrivere le preferenze dei consumatori che serve a moltissimi fornitori sparsi
in tutto il mondo; i produttori, a loro volta, possono, grazie a quelle stesse tecnologie, modificare il design e le
caratteristiche dei loro prodotti in accordo a quelle indicazioni e con grande rapidità. Di qui la crisi della catena di
montaggio, del lavoro fordista e della produzione di massa, in ultima analisi del “posto fisso”.
intellettuale. A beneficiare della globalizzazione sarà perciò più la multinazionale del paese
ospitante. Le opportunità, appunto, sono iniquamente divise.
I rischi della globalizzazione. Il rischio fondamentale è quello dell’esclusione. Esclusione,
innanzitutto, per il lavoro non qualificato. In una economia che diventa sempre più terziaria, il
lavoro non qualificato o finisce a servire da MacDonald o non riesce a collocarsi: il suo salario – ed
è quello che sta massicciamente accadendo negli Stati Uniti – tipicamente si riduce. Di fronte a
simili difficoltà l’immigrazione di lavoro non qualificato da altri paesi è giudicata sempre più
pericolosa e, quindi, ad essa si oppongono restrizioni sempre più vincolanti.
Anche i paesi, oltre che le persone, rischiano l’esclusione. Si diceva della libertà dei movimenti di
capitale, della possibilità di investire i propri risparmi ovunque nel mondo. Se io sono un pakistano
ricco finalmente libero di portare i miei capitali dove voglio e se il Pakistan, magari per instabilità
politica o magari per quei problemi cruciali di coordinamento e aspettative sui quali ci siamo
soffermati in precedenza, non è un’economia dove valga la pena di rischiare il proprio denaro,
allora, proprio perché l’alternativa mi è data, investirò in Brasile, cosa che in epoca preglobalizzazione, per vincoli normativi e tecnologici, non era così facile fare. Il Pakistan, dunque,
resterà senza capitali da investire. Sembra una storiella banale, ma i dati dell’economia mondiale la
confermano. E’ bensì vero, come abbiamo ricordato, che i flussi di portafoglio si sono triplicati
rispetto agli anni ’80, ma questi capitali freschi hanno raggiunto soltanto pochi paesi: attualmente
solo 25 paesi in via di sviluppo (e ce ne sono ben più di 100) hanno accesso ai mercati privati delle
obbligazioni, dei prestiti commerciali bancari e del capitale netto di portafoglio (azioni).
4.
Conclusioni
Abbiamo velocemente ripercorso mezzo secolo di modelli di sviluppo. Che cosa abbiamo imparato?
Meglio il libero mercato o il modello autarchico? In alcuni casi il modello autarchico (sostituzione
delle importazioni, abbinata però alla promozione delle esportazioni17) ha funzionato, come per
esempio in Corea; in altri, come in alcuni paesi latino-americani, esso non ha prodotto risultati
soddisfacenti; in alcuni casi l’intervento dello Stato in una attiva politica industriale (sussidiare e
favorire alcuni settori) è stato di grande utilità per lo sviluppo (pensiamo al Giappone e a tanti
cosiddetti “dragoni asiatici”), in altri, come nei paesi dell’Africa nera in cui si è tentato questo
esperimento, l’esito è stato un semi-fallimento. In alcuni casi la liberalizzazione dei mercati e delle
economie e una magari parziale privatizzazione dell’apparato produttivo ha clamorosamente
accelerato il ritmo di sviluppo (è il caso della Cina), in altri lo ha drammaticamente rallentato
(Russia18).
Non si tratta allora, alla luce di questi fatti e delle osservazioni compiute in precedenza, di
abbracciare un modello piuttosto che l’altro, come se un particolare modello di sviluppo fosse, al
pari di una formula matematica, applicabile in ogni tempo e in ogni luogo per risolvere il problema
dello sviluppo e del benessere. Si tratta, ed è un problema difficile, di individuare il giusto mix
Stato-Mercato. Di fronte alla difficoltà di risolvere un simile problema, non ci resta probabilmente
17
La promozione delle esportazioni è una strategia utile, come la sostituzione delle importazioni, a guadagnare valuta
estera per poter importare beni intermedi e beni di investimento. Mentre però, nel caso della sostituzione delle
importazioni, si cerca di raggiungere l’obiettivo impedendo o limitando le importazioni di beni di consumo, nel caso
della promozione delle esportazioni esso si persegue attraverso lo stimolo delle esportazioni di beni e servizi. In
entrambi i casi, se le cose vanno bene, si ha infine a disposizione un ammontare più elevato di valuta estera per
l’importazione di beni intermedi e di investimento. Gli strumenti principali di una strategia di promozione delle
esportazioni sono il credito agevolato (concesso agli esportatori) e i sussidi all’esportazione. Il principio dei sussidi
all’esportazione è molto semplice. Se il prezzo sui mercati internazionali di un certo bene è pari a 100 e se il potenziale
esportatore del paese che vuole promuovere le esportazioni è in grado di offrire quel bene a un prezzo non competitivo,
diciamo 110, allora il governo di quel paese dice all’esportatore: “ Vendi il tuo bene all’estero a 100 (così riesci ad
esportare), le restanti 10 che ti servono per coprire i costi te le do io (le tasse dei cittadini) sotto forma di sussidio”.
18
In Russia il prodotto reale pro capite si è ridotto di un terzo nell’ultimo decennio!
che guardare ai casi storici di maggior successo tra i PVS (Corea, Taiwan e, prima di loro,
Giappone). Come molti autori hanno sottolineato, in queste economie i mercati hanno giocato un
ruolo importantissimo, ma la guida pubblica del processo di sviluppo e industrializzazione non è
mai venuta meno. In tali paesi, infatti:
Prima della spinta verso l’industrializzazione ci si è preoccupati, attraverso le riforme agrarie, di
distribuire più equamente le terre e, più, in generale, gli asset produttivi. L’idea è che non sia
possibile industrializzarsi senza prima avere accresciuto la produttività agricola (in modo che si
liberi forza lavoro impiegabile nell’industria) e che la produttività agricola, a sua volta, non
possa crescere quando la proprietà della terra è troppo concentrata: se ho tantissima terra, che
incentivo ho a farla fruttare?
Prima del e durante il processo di industrializzazione si è favorita, finanziandola pubblicamente,
il diffondersi dell’educazione di base e di altri servizi sociali. L’educazione di base non è, di per
sé, un bene pubblico: se gli individui sanno, come effettivamente sanno, che migliorare i propri
skill attraverso l’educazione consentirà loro di percepire salari più elevati, allora essi
domanderanno educazione e, di fronte a questa domanda pagante, il settore privato sarà disposto
ad offrirla. E’ noto, tuttavia, che l’educazione produce esternalità positive (a questo proposito si
veda la lezione 6 su crescita endogena e capitale umano): se i miei colleghi di dipartimento
seguono, pagandoli, validi corsi di formazione professionale, anch’io, che per ipotesi non li ho
seguiti e non ho speso nulla, ne beneficerò. Avrò modo infatti di lavorare a stretto contatto con
persone divenute professionalmente più valide, ciò che senza dubbio favorirà la mia stessa
crescita professionale. Dunque: parte dei vantaggi dell’investimento in capitale umano
realizzato dai miei colleghi andrà a mio favore. I miei colleghi, nella loro qualità di agenti
economici razionali, investiranno allora meno di quello che sarebbe socialmente ottimale, dal
momento che non si appropriano della totalità dei benefici generati dall’investimento che essi
hanno compiuto. Sorge per questo una valida giustificazione teorica per il finanziamento
pubblico di quei corsi di formazione, finanziamento che, sgravando i miei colleghi di una parte
del costo dell’investimento, li indurrà a realizzarlo nella misura socialmente ottimale.
Nel corso del processo di industrializzazione e sviluppo, si è riusciti a sfuggire al vincolo della
scarsità di valuta estera (che abbiamo detto essere il vincolo rilevante per molti PVS)
utilizzando sapientemente un mix di sostituzione delle importazioni e promozione delle
esportazioni. Semplificando, il modo di procedere è stato il seguente. Un certo insieme di settori
veniva protetto (sostituzione delle importazioni), in modo tale che potesse gradualmente
affermarsi. I profitti realizzati grazie alla protezione non potevano essere impiegati in
investimenti di natura speculativa, dal momento che in questa fase iniziale i flussi di capitale da
e verso l’estero venivano strettamente regolamentati. Mano a mano che i settori in questione
riuscivano a costruire delle abilità tecnologiche e manageriali la protezione dalle importazioni
veniva loro revocata e sostituita da incentivi all’esportazione (promozione delle esportazioni). In
questo modo il paese guadagnava la valuta estera necessaria all’importazione dei beni di
investimento necessari ad impiantare un nuovo insieme di settori produttivi, ad un livello
tecnologico più avanzato. A questi nuovi settori veniva poi inizialmente offerta protezione dalle
importazioni; e così via, in un processo di upgrading dinamico che ha fatto di questi paesi delle
potenze industriali.
Per concludere: mercato, politiche pubbliche per promuovere l’educazione di base ed una più equa
distribuzione degli asset produttivi, “distorsione” dei segnali di mercato attraverso la simultanea
(anche se in settori diversi in ogni momento del tempo) applicazione delle strategie di sostituzione
delle importazioni e promozione delle esportazioni, regolamentazione dei flussi di capitale; ecc.
Non si tratta, come ho cercato di chiarire, di strategie alternative per perseguire lo sviluppo
economico e sociale, ma, come la storia dei pochi casi di successo ci insegna, di diversi ingredienti
che devono comporre una più complessa strategia di sviluppo. Ed è proprio questa complessità che
richiede uno Stato forte, istituzioni stabili e una classe dirigente capace di districarsi di fronte a
questa complessità. Se si pensa ad alcuni PVS specialmente africani, alla debolezza delle loro
strutture statuali e al grado di conflittualità civile, è difficile essere ottimisti, capire in che modo essi
potranno immaginare un così complesso disegno di sviluppo.