Voto di povertà

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Voto di povertà
CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 1,70
SPED. IN ABB. POST. - 45% ART.2 COMMA 20/
BL 662/96 - ROMA ISSN 0025-2158
ANNO XLI . N. 122 . MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
ITALIA
IN GINOCCHIO
Loris Campetti
U
n paese invecchiato, sfibrato e sfiduciato. Un
paese in ginocchio. È
questa la radiografia dell'Italia
berlusconizzata in cui crollano
le aspettative di lavoro, i giovani cervelli fuggono all'estero,
quelli che restano conducono
una vita precaria sostenuta dai
genitori che però stanno impoverendo. Diminuisce il risparmio, persino la scolarizzazione
è in caduta libera. Si lavora e si
studia sempre di meno, non si
fanno investimenti, si ammazza la ricerca. Ieri ce l'ha raccontato l'Istat, domenica l'abbiamo visto in una delle più efficaci puntate di Report, sabato è
stata la volta del Censis.
Altro che luci e ombre, come
goffamente sostiene, arrampicandosi su specchi insaponati,
qualche pierino in forza al governo: l'Italia è al collasso,
sempre più diseguale tra nord
e sud e tra ricchi e poveri, tra
uomini e donne e tra lavoratori (o aspiranti tali) indigeni e
migranti. Certo, lo sapevamo,
ce l'ha raccontato qualche mese fa Marco Revelli nel suo ultimo libro Poveri noi. Il fatto grave è che non si vede inversione di tendenza; anzi la crisi,
che ormai è anche sociale e
culturale, si sta aggravando e
il tunnel sembra sempre più
lungo e scuro.
Questa debacle che ci getta
nel sottoscala dell'Europa non
è tutto «merito» di Berlusconi,
ma nessun altro sarebbe riuscito meglio del telepredicatore
delle paure in questo miracolo
al rovescio. Con una politica
economica dissennata che ha
distrutto risorse intellettuali e
materiali. E viene ancora a raccontarci che dovremmo avere
paura dei comunisti, dei rom,
dei minareti, dei centri sociali,
quando è proprio da Berlusconi, dal suo governo e dalle sue
politiche che dobbiamo guardarci. Già parlare di politica
economica – per non dire industriale – è un eufemismo: Berlusconi lo sfrontato e Tremonti il
contabile non hanno progetti
per il paese, sanno solo tagliare, tutto tranne i sottosegretari, i capital games e i loro interessi. Siamo rimasti uno dei pochi paesi in cui parlare di reddito di cittadinanza è una bestemmia, ci riempiono la testa
con l'amore e la famiglia mentre sterilizzano l'amore (fare figli è un lusso per pochi) e immiseriscono l’ultimo ammortizzatore sociale per un paio di generazioni di giovani precarizzati o espulsi. Poi ci dicono che
dobbiamo riprendere a consumare. Finalmente dal paese
qualche segnale di vita è arrivato: dai giovani, dagli operai e
dagli studenti che portano in
piazza la loro dignità, e dalle
urne, domenica prossima, potrebbe arrivare un secondo segnale generale: l'Italia ha paura, sì, ma di Berlusconi ed è
pronta a libera rsene.
EURO 1,30
Voto di povertà
Nella settimana dei ballottaggi di Milano e Napoli, arrivano i dati dell’ultimo rapporto Istat sull’Italia:
quindici milioni di persone «sperimentano il rischio di povertà o di esclusione sociale». Un valore del 23,1%
superiore alla media dell’Unione europea. È la radiografia dell’Italia di Berlusconi, un paese invecchiato,
degradato, impoverito. Un malgoverno che si accanisce sui giovani e le donne PAGINE 2, 3
MILANO
BERLUSCONI
La destra allo sbando
si attacca a al Qaeda
Con un videomessaggio ai suoi Silvio
Berlusconi torna all’attacco di Giuliano
Pisapia che «prende il caffè tutti i giorni
con i rappresentanti dei centri sociali» e
insiste con la «zingaropoli islamica assediata dagli stranieri». Borghezio tira fuori Al Quaeda che tifa Giuliano. Il segretario del Pd Bersani: «Il premier fa ridere».
Il candidato del centrosinistra, preoccupato per il clima «instaurato dal centrodestra», incontra il questore. E stringe la
mano a Letizia Moratti, «come faccio
sempre con le persone che me la porgono, perché sono gentile».
|PAGINA 5
PAR CONDICIO
Maxi-multa dell’Agcom
ai tg occupati dal premier
Berlusconiani in rivolta
Mediaset fa ricorso
Micaela Bongi |PAGINA 4
In fondo al barile
del Caro Leader
Marco Rovelli
«M
ilano non può, alla vigilia dell’Expo 2015, diventare una città islamica, una zingaropoli piena di campi
rom e assediata dagli stranieri a cui
la sinistra dà anche il diritto di voto».
Il Caro Leader - trovandosi d’un tratto di fronte alla catastrofe personale,
frantumatosi lo specchio narcisista
come per Dorian Gray - invoca gli spiriti, raschiando il barile. E in fondo al
barile c’è un humus fatto appunto di
fantasmi evocati per dar corpo a
quello stato generalizzato di paura
da sempre funzionale alla richiesta
di ordine.
CONTINUA |PAGINA 14
NUCLEARE | PAGINA 4
ELEZIONI AMMINISTRATIVE IN SPAGNA l PAGINE 8 E 9
Vincono i popolari. Anzi no, perdono i socialisti
Il partito di Zapatero perde 9 punti rispetto all’ultima tornata elettorale. Clamoroso risultato di Bildu, la coalizione «abertzale», nei Paesi baschi: 25%
Nella Puerta del Sol il Movimento M-15 degli «indignati» accoglie con circospezione il successo del Pp e decide di andare avanti con la «acampada»
Non solo decreti legge,
per silurare il referendum
ora arriva la «fiducia»
CALL CENTER | PAGINA 6
Lettere di licenziamento
sotto dettatura alla Snai,
il caso arriva in procura
GERMANIA | PAGINA 9
Regionali, débâcle Merkel
Avanzano i verdi, un voto
contro le centrali atomiche
GERMANIA | PAGINA 7
Assalto taleban a Karachi
E a Kabul la tv annuncia
la morte del mullah Omar
FÚTBOL E LETTERATURA
PALMA D’ORO 2011
In onore del Barça
e di Vázquez Montalbán
Malick e il festival
di «Strauss-Cannes»
EDUARDO GALEANO l PAGINA 8
ROBERTO SILVESTRI l PAGINA 12
pagina 2
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
VOTO DI POVERTÀ
Istat •
Dal rapporto annuale la radiografia di un paese invecchiato, sfibrato, sfiduciato.
Un paese a cui è stata sottratta la speranza di un futuro almeno decente
Italia povera
e degradata
Quindici milioni di persone «sperimentano il rischio
di povertà o di esclusione sociale». Un valore
del 23,1% superiore alla media dell’Unione europea
Galapagos
P
er un decennio - dimostra, numeri
alla mano, l’Istat - l’Italia ha galleggiato con performance inferiori a
quelle di tutti gli altri paesi della Ue, ma negli ultimi due anni non c’è più stato neanche il galleggiamento: il paese è andato a
fondo. Non solo economicamente (il Pil ha
fatto un balzo all’indietro di 35 trimestri)
ma soprattuto socialmente: il 24,7% della
popolazione - 15 milioni di persone - «sperimenta il rischio di povertà o di esclusione
sociale». Si tratta di un valore del 23,1% superiore alla media Ue. Il rischio emarginazione sociale è conseguenza anche dell’aumento della disoccupazione: nel biennio
2009-2010 oltre 532 mila persone hanno
perso il posto. E va peggio per gli immigrati: ogni 100 disoccupati in più, 20 erano
stranieri.
L’economia che affonda incide sui i fenomeni sociali: nel 2010, gli abbandoni scolastici prematuri sono stati il 18,8% con una
punta del 22,0% dei ragazzi contro il 15,4%
delle ragazze. L'obiettivo fissato dal piano
del governo (15-16%) non appare particolarmente ambizioso e non consente un avvicinamento deciso rispetto agli obiettivi
comunitari. E due milioni sono i «Neet 1», i
giovani che non hanno un impiego, non
studiano e non fanno alcun tipo di pratica
professionale o apprendistato. E sono due
milioni anche gli scoraggiati, coloro che
nel 2010 non hanno più cercato un lavoro,
o perché in attesa degli «esiti di passate
azioni di ricerca», o più semplicemente perché convinti che non avrebbero trovato alcunché. Infine le donne: su di loro, causa i
tagli sempre più profondi, viene scaricato
il welfare in dosi massicce, un carico «sempre più insostenibile». E, sempre di più, il
loro lavoro fuori casa è dequalificato.
Nelle oltre 400 pagine del «Rapporto annuale» Istat presentato ieri si percepisce
una senzazione di impotenza per un paese
che sta precipitando, e al tempo stesso di
rabbia per la mancanza di una politica economica e sociale - una violenza enorme che sta distruggendo il tessuto produttivo
e soprattutto quello sociale. Sul fronte economico non ci sono molte novità, ma una
preziosa opera di puntualizzazione. «Nel
decennio 2001-2010 l’Italia ha realizzato la
performance di crescita peggiore tra tutti i
paesi dell'Unione europea». In numeri,
quella italiana «è l'economia europea cresciuta di meno nell'intero decennio», con
un tasso medio annuo pari allo 0,2%, contro l'1,1% dell'Ue. «Il ritmo di espansione
dell’economia è stato inferiore di circa la
metà a quello medio europeo nel periodo
2001-2007». Insomma, una «crescita dimezzata» e il divario «si è allargato nel corso della crisi e della ripresa attuale». Nella media
dello scorso anno l'economia italiana è cresciuta dell'1,3%, contro l'1,8% dell'Ue. Nel
primo trimestre del 2011, in Italia la cresci-
LA GIORNALISTA
«Dieci euro a pezzo
ma cerco di tenere duro»
Antonio Sciotto
«I
dati dell’Istat? Deprimenti. E dopo aver visto la puntata di Report di ieri sera, mi sento ancora più a terra». Valeria Calicchio è una giornalista precaria: ha 30 anni, viene da Camerota in provincia di Salerno, e
dopo una laurea in Scienze della comunicazione con 110 e lode e una scuola
di giornalismo («quella di Salerno, diretta da Biagio Agnes») è costretta a lavorare in nero. «La nostra è una generazione bloccata: oggi stanno male quelli
che hanno 25-30 anni, ma domani staranno male tutti, perché noi non stiamo pagando contributi e non partecipiamo a una crescita sana del Paese».
Valeria lavora per un piccolo giornale free press della capitale: un pezzo di 2000 battute le viene retribuito
10 euro, foto incluse, e così dopo
svariate ore di lavoro ogni giorno alla fine del mese porta a casa tra i
200 e i 250 euro. «Me li dà in contanti lo stesso direttore. È giovane come me, e in realtà siamo un po’ tutti
d’accordo con questo sistema, perché vogliamo lanciare il giornale, che oggi a fatica si regge solo sugli sponsor.
E alla fine mi va "di lusso", se pensiamo che i principali quotidiani sportivi oggi pagano solo 4 euro una notizia». Ma certo con 250 euro a Roma si fa ben
poco, e infatti Valeria deve «arrotondare» facendo la guida turistica, lavorando negli stabilimenti balneari in estate, o nella ristorazione. Sta pure scrivendo una serie di guide turistiche, «ma anche lì mi pagano in nero».
E dire che Valeria è giornalista professionista e ha fatto tre stage in importanti testate: «Al Giornale di Milano, ma non mi interessava restarci. All’Adnokronos, ma ci ho litigato perché saltò fuori che dovevo fare i festivi senza la copertura assicurativa; e all’Unità, dove pareva si aprissero buone prospettive,
ma poi Renato Soru ha perso le elezioni ed è cominciata la crisi». L’unico contratto «regolare», pochi mesi a prestazione come ufficio stampa al Consorzio
ulivicultori: «1000 euro lordi, pagato l’affitto me ne restavano 400».
«Però non voglio dare l’immagine della sfigata – ci tiene a dire Valeria – perché non mi sento tale. Credo nel mio lavoro, e con altri colleghi abbiamo fondato il primo coordinamento giornalisti precari di Roma: si chiama Errori di
stampa, abbiamo un blog e siamo anche su Facebook».
Valeria scrive
articoli in nero per
una «free press»
romana. La paga il
direttore in contanti
ta è stata dello 0,1% e dell'1% in termini
tendenziali, mentre nell'Uem la crescita è
stata dello 0,8% su base trimestrale e del
2,5% rispetto ai primi tre mesi del 2010. E
se ci sono circa 295.000 imprese che sono
riuscite a prosperare persino nel biennio
della crisi (tra il 2007 e il 2009), con conseguenze positive su occupazione, redditività e competitività, il ritorno ai valori precrisi della produzione appare lontanissimo:
l'attività produttiva del settore industriale
L’era del disagio:
poca crescita, tanti
disoccupati, donne
sempre più sfruttate,
sud al collasso
si colloca su livelli inferiori di oltre il 19% rispetto ai massimi dell'estate 2007, il punto
di svolta negativo del ciclo.
La crisi ha prodotto una crescita della disoccupazione: «nel biennio 2009-2010 il numero di occupati è diminuito di 532 mila
unità». I più colpiti sono stati i giovani tra i
15 e i 29 anni, fascia d'età in cui si registrano 501 mila occupati in meno; cresce, invece - di 291 mila unità - il numero degli occupati tra gli over 50 che appaiono come
l’unica fascia garantita. Drammatico è il
quadro della condizione femminile. Si sta
assistendo a un peggioramento della qualità del lavoro acompagnato da una crescita
della disparità salariale rispetto agli uomini del 20% (30% per le immigrate). La mancanza di protezione sociale delle donne è
rappresentata da un dato: 800.000 donne,
con l'arrivo di un figlio, sono state costrette
a lasciare il lavoro, perchè licenziate o messe nelle condizioni di doversi dimettere.
L'occupazione qualificata, tecnica e operaia, è scesa di 170 mila unitá, mentre è aumentata soprattutto quella non qualificata
(+108 mila unità): si tratta soprattutto di
«italiane impiegate nei servizi di pulizia a
imprese ed enti e di collaboratrici domestiche e assistenti familiari straniere». Ma ciò
che su tutto emerge è il ruolo di «ammortizzatore sociale» svolto dalle donne, un carico di cura e assistenza degli altri che si è fatto «insostenibile». Le famiglie che possono
per salvaguardare il livello dei consumi,
hanno progressivamente eroso il loro tasso
di risparmio, «sceso per la prima volta al di
sotto di quello delle altre grandi economie
dell'eurozona». Lo scorso anno la propensione al risparmio delle famiglie si è attestata al 9,1%, «il valore più basso dal 1990».
«Il tasso di crescita dell'economia italiana è del tutto insoddisfacente - secondo il
presidente dell’Istat - e anche i segnali di recupero congiunturale dei livelli di attività e
della domanda di lavoro non sembrano
sufficientemente forti e diffusi per riassorbire la disoccupazione e l'inattività, rilanciando redditi e consumi». Risultato: «l'occupazione sta ora crescendo prevalentemente nei servizi a più basso contenuto
professionale, a fronte della riduzione del
numero delle posizioni più qualificate. Ciò
implica, a parità di altre condizioni, un sottoutilizzo del capitale umano, guadagni
più bassi, minori prospettive di sviluppo».
Il danno peggiore si è prodotto nell'industria (404.000 posti di lavoro persi) e la cassa integrazione che ha fatto in parte da paracadute, ormai è in via di esaurimento:
«circa un quarto di quanti erano in Cig nel
2009 lo sono anche un anno dopo; uno su
due ritorna al lavoro, ma uno su cinque
non è più occupato».
L’OPERATRICE AL CALL CENTER
«Teleperformance ci cestina
e delocalizza in Albania»
A
ssunta Linza ha 32 anni, è calabrese –
della provincia di Cosenza – ma vive a
Roma ormai da diversi anni. Ha una laurea in Psicologia e due master, in Risorse umane e Psicosomatica. È dipendente della Teleperformance, azienda di call center un tempo giudicata tra le più virtuose, perché nel 2007 applicò la «circolare Damiano», stabilizzando non
solo gli operatori inbound (quelli che ricevono
le chiamate) ma pure quelli outbound (quelli
che le fanno): «Ben 3 mila persone che uscirono dalla giungla dei contratti a progetto –
spiega Assunta, Rsu Slc Cgil –
Un sogno che si realizzava:
non salari alti, ma almeno certi. Io sono riuscita a comprarmi un motorino con le rate, e
mi sono pure sposata».
Una storia a lieto fine, se si
fosse conclusa allora. Ma poi nel 2010 sono arrivate le prime crepe: ben 847 esuberi, gestiti con
la cassa integrazione. «I nostri salari – continua
Assunta – sono crollati a precipizio: la mia busta paga è passata da 850 euro mensili a poco
più di 400, e parlo del mese in cui non ho lavorato per nulla. Ma almeno abbiamo evitato i licenziamenti, e l’azienda ha messo da parte risorse che avrebbe dovuto reinvestire per noi».
Avrebbe, sì il condizionale è d’obbligo.
Infatti i sacrifici dei tremila dipendenti Teleperformance sembrano non essere serviti a nulla: il 14 aprile scorso, il gruppo annuncia a sorpresa un piano «lacrime e sangue», con nuovi
esuberi, che addirittura raddoppiano, passando a 1464. «Una doccia gelata per noi – spiega
la lavoratrice, ieri in protesta con i colleghi da-
vanti a Montecitorio – Tra il mio centro, a Roma, e gli altri due di Fiumicino e Taranto avevamo pensato di aver già contribuito a risanare
l’azienda. E invece, siamo beffati: è come se
avessimo partecipato ai tagli, perché dal 2008 a
oggi Teleperformance è passata da 50 postazioni a ben 700 in Albania, praticamente ci ha delocalizzato mentre eravamo in cassa».
Il problema è che le aziende cercano costi
sempre più «competitivi» e così Teleperformance, che proprio nel 2007
aveva accettato di sostenere un corretto costo del
lavoro (anche favorita dal
clima del governo di centrosinistra), adesso per restare sul mercato taglia:
«Mi rendo conto – dice Assunta – che stiamo pagando quella regolarizzazione, anche perché il resto del settore è rimasto
un far west e certo il governo Berlusconi non ha
aiutato. Però è anche vero che oggi Teleperformance non solo ha delocalizzato in Albania, dove trovano operatori che parlano discretamente italiano, ma qui nel nostro Paese ha già assunto circa 200 lavoratori a progetto che paga 3
euro l’ora, quando a me, prima della stabilizzazione, ne dava 7. Insomma, è un taglio continuo, questa storia pare non finire mai».
«Mi sento l’emblema della precarietà – conclude Assunta – Ero a progetto, poi ho avuto l’illusione del posto garantito, e dal 30 giugno potrei ritrovarmi in mezzo a una strada. Sto già
mandando i curriculum, ma a differenza che in
passato le aziende oggi non ti rispondono più
neanche con il messaggio automatico». an. sci.
Assunta lavora
per il gruppo che
stabilizzò 3 mila
addetti. Ora 1400
sono a rischio
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
pagina 3
VOTO DI POVERTÀ
800
mila le donne licenziate o messe in condizione di doversi dimettere a causa di una
gravidanza. Si tratta dell'8,7% delle madri che lavorano o che hanno lavorato in passato
ESPLOSIONE AL PORTO DI AUGUSTA
E' di un morto ed un ferito il bilancio di un incidente sul
lavoro avvenuto ieri mattina alle 8 nel porto di Augusta.
Secondo una prima ricostruzione, l'esplosione sarebbe
avvenuta durante le fasi di pulizia degli idrocarburi di
scarto da un deposito galleggiante. I vapori emanati, per
cause ancora da chiarire, avrebbero subito un innesco
avrebbero subito un innesco causando la deflagrazione
che ha investito i lavoratori.
METRO ROMA, UN INDAGATO
Per la morte di Bruno Montaldi, avvenuta in un
cantiere della metropolitana di Roma, la procura ha
indagato per omicidio colposo il responsabile della
sicurezza della Icotekne di Napoli, società per cui
lavorava l'operaio, impegnata nei lavori per Metro B1.
Tra gli accertamenti avviati dal magistrato anche la
verifica se Montaldi fosse equipaggiato secondo
quanto previsto dalle misure antinfortunistiche.
DIARIO DELLA CRISI
Cina in frenata
e debito pubblico.
Paura in Borsa
Tommaso De Berlanga
INTERVISTA · Il sociologo Franco Ferrarotti: «Fino a quando reggeranno le famiglie?»
I nostri giovani azzerati
Francesco Paternò
I
l sociologo Franco Ferrarotti ha anticipato la fotografia Istat della situazione del nostro paese - e dei suoi
giovani in particolare - nel suo ultimo recente libro, dal titolo fin troppo eloquente: «La strage degli innocenti».
Professore, che cosa lo ha più ha colpito dell'ultimo rapporto Istat sull'Italia?
Quello che tutti sanno: che l'Italia è ferma, che non si produce ricchezza o se ne
produce pochissima, più o meno quella
fisiologica che producono anche i cadaveri. Siamo in una posizione grave, perché non producendo ricchezza non si
amplia il ciclo economico e non ci sono
nuovi posti di lavoro. E dunque cosa succede in un simile momento che prevedo
per altro molto lungo, forse un lustro o
due? Chi ha il posto se lo tiene, e giustamente dal loro punto di vista i sindacati
proteggono questa fascia sociale. Però
qui c'è un'intera generazione che cerca
di entrare nel mercato del lavoro e non
ce la fa. Tra i 18 e 25 la disoccupazione è
del 30%, più di tre volte del dato nazionale. Stiamo per diventare l'unico paese tra
quelli tecnicamente progrediti che sta azzerando una generazione di giovani da
cui dipende il suo futuro.
Cosa ci tiene ancora in piedi?
Mi chiedo: come mai non si ribellano i
giovani, quantomeno come stanno facendo in Spagna? Perché in Italia c'è un
ammortizzatore segreto che si chiama famiglia allargata, fatta di zii e nonni oltre
che di genitori. Ma è una situazione che
sta in piedi fino a quando i risparmi familiari reggeranno. L'1% della popolazione
possiede il 5% della ricchezza, la maggioranza della popolazione è sempre più povera. I dati ci dicono che c'è una proleta-
L’INTERINALE ALLA PREVIDENZA
«L’Inps non ci rinnova
ma di noi ha bisogno»
NELLA FOTO GRANDE,
CERVELLI IN FUGA AD
UNA MANIFESTAZIONE
DI PRECARI/FOTO
EIDON A
DESTRA/FOTO
EMBLEMA
«S
e in Spagna si definiscono indignati, noi come dovremmo chiamarci? Gli incazzati?». Pasquale Cesarano, 32 anni, napoletano,
affronta con una battuta la lettura del rapporto Istat. Anche lui
ha visto la puntata di domenica sera di Report, «e mi ci sono ritrovato in
pieno»: «In Italia non puoi più vivere del tuo lavoro», dice amaro.
Laurea in Scienze politiche a 25 anni e con 102 di voto, due corsi regionali di 160 ore sulla sicurezza sul lavoro e la gestione del personale, subito
dopo gli studi Pasquale non ha trovato di meglio che un impiego come
scaffalista all’Ipercoop di Afragola: «Prima con un’agenzia interinale, e poi
alle dirette dipendenze: ma sempre a termine. Lavoravo solo a Pasqua, a
Natale e in estate, quando il personale garantito era in ferie».
Nel 2009, è arrivato finalmente il
«colpaccio», ovvero l’occasione per
emanciparsi dall’ipermercato e fare
un lavoro adatto ai suoi studi: l’agenzia Tempor gli offre una «somministrazione» (il lavoro interinale ormai
si chiama così) all’Inps. Come lui, altri 1800 interinali lavorano all’istituto di previdenza ormai dal 2006. Ma da quest’anno sono per strada.
«Ho prestato servizio all’Inps per 25 mesi, acquisendo anche una certa
professionalità – spiega Pasquale – Prima ero addetto all’inserimento dati
nel reparto che gestisce le disoccupazioni, poi mi hanno spostato alle invalidità. Io dico: siamo 202 interinali solo in Campania, 1800 in tutta Italia, e
rappresentiamo il 6% del personale Inps. Chi si occuperà di quelle pratioche adesso che noi abbiamo perso il nostro posto?».
Alla fine del 2010 è arrivata una prima disdetta per 550 interinali, in aprile è toccato agli altri 1240: l’Inps sta applicando il blocco del turn over e i
pesanti tagli ai contratti «flessibili» imposti dalla finanziaria. Sono così
scattate le proteste, i sindacati hanno scritto al ministro del Lavoro Sacconi, al titolare dell’Economia Tremonti e della Funzione pubblica Brunetta,
ma non hanno ricevuto risposte soddisfacenti: «Prima le priorità erano tutte su Ruby – dice Pasquale, che è Rsa del Nidil Cgil – Poi si è parlato solo di
processo breve. Ma ai problemi del lavoro, in Italia, chi ci pensa?».
I 1800 interinali adesso percepiscono il sussidio di disoccupazione, per
8 mesi: ironia della sorte, a erogarlo è proprio il loro istituto, l’Inps. an. sci.
Pasquale è
rimasto a spasso
con 1800 colleghi.
Seguivano
pratiche delicate
«Il paese è affetto
da una crisi di
orientamento. E basta
col tabù del lavoro
intellettuale-manuale»
rizzazione del ceto medio, ceto che pur
di non confondersi con l'inferno dell'egualitarismo socialista, continua a votare il centrodestra, un segno di analfabetismo politico che fa paura. Non ci sono
nuovi investimenti, chi ha ricchezza la
porta all'estero, le rendite finanziarie sono le meno tassate del mondo e nemmeno c'è obbligo di dichiararle. Insomma,
tra i paesi sviluppati l’Italia è l'unico dove si può essere nullatententi ad altissimo reddito.
E domani?
Molti giovani cercano un posto a tempo indeterminato e trovano solo call center con contratti di tre mesi. Non si può
vivere così. Ormai, di questi tre milioni di
giovani disoccupati, più di un milione ha
rinunciato a cercar lavoro. Io credo che
ci sia un problema molto serio, non solo
di coesione sociale immediata, ma anche di formazione del cittadino. Siamo
in presenza di un governo che non governa, che mira a durare e non a dirigere. Sono d'accordo sull'importanza di tenere
in ordine i conti pubblici, ma non si possono tenere a posto i conti di un povero
cadavere, cioè di una intera popolazione. Abbiamo pure gli stipendi più bassi
d'Europa. Pensi che l'altro giorno negli
Stati Uniti il presidente Obama ha concesso una franchigia a 4 milioni di dollari
per le eredità venture, cioè soldi non tassabili in modo che li diano ai figli. Significa che bisogna trovare un compromesso
positivo fra la difesa dei conti pubblici,
ma anche operare degli investimenti per
dare speranze e lavoro ai giovani. Il paese è affetto da una crisi di orientamento.
Lei ha insegnato per più di cinquant'anni: oggi consiglierebbe ai suoi studenti
di andare all'estero?
I miei sempre cari giovani devono in
primo luogo capire che non ci sono più
studenti italiani, greci, tedeschi. Siamo
cittadini europei, bisogna sapere le lingue europee e capire che la vecchia frattura tipicamente italiana tra lavoro intellettuale e lavoro manuale non ha più senso. Ogni attività lavorativa è degna, il lavoro non è merce, qui invece siamo in
qualche modo condizionati dalla qualità
del lavoro. Bisogna far cadere questi tabù. E capire che casa e bottega non è più
possibile, che bisogna andare là dove c'è
lavoro. Essere nello stesso tempo abitanti del villaggio e cittadini del mondo.
L'Istat segnala un peggioramento della «qualità dell'occupazione». Come
legge questo dato?
Oggi, evidentemente, il laureato non
solo del Mezzogiorno è il morto in casa,
aspetta di trovare chissà che lavoro. Mentre in realtà, grazie alla immigrazione del
sommerso, l'economia italiana ha ancora un certo grado di mobilità di cui ha
estremo bisogno. Esempi? Fonderie nel
nord est, verniciature delle scocche di automobili al Lingotto, pomodori in Puglia,
olive in Calabria. Chi li fa questi lavori?
Conosco bene gli Stati Uniti: lì in estate i
ragazzi di qualunque famiglia si guadagnano da mangiare facendo i lavori più
strani. Come accadeva una volta, si riconosce dignità anche al lavoro qualunque. Questo nella struttura italiana non
ha fatto breccia: mi chiedo se non ci sia
anche una responsabilità sindacale. Certamente c'è una responsabilità culturale:
vale a dire la mitizzazione della laurea,
del pezzo di carta. Credo che in Italia si
stia tornando a queste vecchie stratificazioni che non hanno più senso.
L
o schiaffo è arrivato. Violento,
ma quasi uguale per tutti. Si attendeva la reazione dei mercati
al declassamento del rating sul debito
pubblico italiano da parte di Standard&
Poor’s e si è visto un -3% abbondante
in PiazzaAffari, oltre alla prevista caduta dei prezzi dei titoli di stato. Ma tutte
le borse mondiali hanno vissuto una
brutta giornata, a cominciare da quelle asiatiche.
Timori per il debito sovrano di Eurolandia, si è detto. Ma Tokyo ci ha aggiunto di suo il bilancio negativo di Tepco (perdite per 10 miliardi di euro), la
società che gestisce la centrale nucleare di Fukushima. E Shangai (-3%) e
Hong Kong hanno diffuso nel mondo
la buona novella (o il panico): la crescita cinese sta finalmente rallentando.
Poco, ma rallenta; proprio come voleva il governo, per «raffreddare» l’inflazione. La scossa si è subito trasmessa
alle materie prima, a cominciare dal
petrolio, naturalmente; in base all’assioma «meno crescita uguale meno
consumo». E quindi calo sia dei prezzi
(per il petrolio, in serata, circa tre dollari al barile in meno), sia dei valori azionari delle multinazionali del settore.
Continuava sullo stesso passo l’Europa, tutta impegnata a strangolare la
derelitta Grecia. La «troika» (Ue, Fmi e
Bce) aveva fatto credere nei giorni scorsi di aver abbandonato la missione;
ma era solo un modo per «convincere»
il governo Papandreou a privatizzare
subito molte attività controllate dallo
stato (persino la strategica energia elettrica) e approvare a tambur battente
un piano di tagli straordinari da 6,5 miliardi (ancora stipendi, pensioni e sussidi sociali). Che serviranno soltanto a
ottenere un’altra tranche di prestiti
che aggraveranno il debito e così via.
L’Italia, si diceva, ha pagato dazio al
rating, nonostante sia Fitch che Moody’s abbiano spiegato ufficialmente
che non intendono condividere il giudizio negativo di S&P. Ma ha pagato
dazio anche alle banche private. Un report dell’Abi, infatti, spiega che hanno
ricavi in calo e un boom della «sofferenze» (il modo elegante standard per
indicare i crediti inesigibili). Se vi si dovessero aggiungere svalutazioni dei titoli pubblici o di grandi clienti privati –
si guarda con terrore alle ipoteche
iscritte su un patrimonio immobiliare
vastissimo, sopravvalutato e pressoché invendibile ai prezzi ufficiali – le
«sofferenze» potrebbero trasformarsi
in grida di dolore.
Sarà un caso, ma quando anche
Wall Street ha aperto perdendo quota
anche l’oro – zitto zitto – ha ripreso a
guadagnare sopra quota 1.514 dollari
l’oncia. L’euro, comprensibilmente, invece si deprimeva fino a sfiorare l’1,40
contro la divisa Usa. Non lo dice nessuno apertamente, ma l’impressione è
che la fase di «ripresa» si sia già fermata. E in Italia un po’ di più.
FINCANTIERI · Il piano dell’amministratore delegato Bono conferma chiusure e pesanti tagli
La nave non va. Qui si licenzia, negli Usa si assume
Riccardo Chiari
U
na rivolta, non solo operaia dalla Sicilia
arriva alla Liguria passando per la Campania. È il primo effetto del piano industriale presentato da Fincantieri ai sindacati nella totale assenza del governo Berlusconi alla voce «politiche industriali»: inevasa la richiesta fatta mesi fa da Fiom, Fim e Uilm di un tavolo di
discussione sul più importante gruppo navalmeccanico. Il piano prevede 2.551 esuberi, la
chiusura dei cantieri di Castellamare di Stabia e
Sestri Ponente e il ridimensionamento dell’altro
cantiere ligure di Riva Trigoso. L’ad Giuseppe
Bono lo definisce un «piano anticrisi» di cui il
gruppo, pubblico, avrebbe bisogno. Intanto ha
firmato una ricca commessa con il governo Usa,
per la costruzione di navi militari. A condizione
di assumere migliaia di lavoratori statunitensi.
Dagli uffici centrali di Fincantieri ci si affretta a
precisare: «Non è un piano prendere o lasciare. È
la fotografia di una situazione drammatica, attuale e in prospettiva». Insomma c’è spazio per una
trattativa con la pistola puntata alla tempia di sindacati e lavoratori. Quelli di Castellamare ieri hanno riempito sei pullman per arrivare a Roma, sotto la Confindustria. Avvertiti di quanto Bono ufficializzava, hanno risposto per le rime: «Buffone,
vergognati». Lo hanno accusato di essersi venduto alla «politica del nord». Se il progetto del management, e soprattutto del governo, è la guerra fra
poveri, tutto sta andando per il verso giusto.
Da Palermo ecco l’analisi di Francesco Piastra
della Fiom Cgil: «Si vuole ridurre drasticamente
la capacità produttiva del settore in Italia. Sono
inaccettabili le chiusure, con 1.500 esuberi. Ma bisogna aggiungere i 1.150 esuberi spalmati nei
cantieri di Palermo, Muggiano, Marghera, Ancona e Monfalcone». Maurizio Landini guarda ancora più in là: «La proposta di Fincantieri, oltre alle
chiusure di due cantieri e il taglio di 2.500 posti di
lavoro e di altre migliaia nell’indotto, chiede in
modo ingiustificato un peggioramento delle condizioni di lavoro e dei diritti». Fim e Uilm si limitano a parlare di «piano rinunciatario», comunque
i confederali decidono insieme le prime otto ore
di sciopero. Sia in Campania che in Liguria la protesta sta aumentando di ora in ora.
il manifesto
pagina 4
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
LO SFACCIATO
Record •260mila
L’Authority impone la sanzione massima per
le violazioni perché i condannati sono «recidivi»
Multato il premier show
Per la prima volta L’Agcom ci va pesante
con Tg1 e Tg4. Penali anche per Tg2, Tg5
e Studio Aperto che avevano trasmesso
Berlusconi a reti unificate. Confalonieri
annuncia ricorso, Minzolini si indigna
Micaela Bongi
T
ra le tante offerte last minute fatte agli
elettori per ottenere il loro voto ai ballottaggi, Silvio Berlusconi ha infilato pure
una tassa: la «tassa Minzolini», come la chiama
il Pd. L’Agcom infatti ieri ha nuovamente multato il Tg1 e il Tg4 per violazione della legge sulla
par condicio, infliggendo alle due testate il massimo della sanzione, perché recidive: 258.230
euro. Sanzioni da 100 mila euro ciascuno a
Tg2, Tg5 e Studio Aperto. Chi paga? Gli abbonati, per quanto riguarda la tv pubblica. E dunque
il sindacato dei giornalisti Usigrai chiede all’azienda di rivalersi sui direttori. Lo chiede anche Matteo Orfini, responsabile informazione
del Partito democratico.
Il «direttorissimo» Augusto Minzolini, che
aveva già procurato a viale Mazzini una multa
da 100 mila euro, è a dir poco «esterrefatto».
Una sanzione per aver fatto il giornalista, riuscendo a procurarsi un’intervista al premier
muto da cinque giorni? Certo, non si è trattato
esattamente di uno scoop, visto che venerdì
scorso l’uomo di Arcore era riapparso a reti unificate (Tg1, Tg2, Gr, Tg5, Tg4, Studio Aperto). E
più che un’intervista l’apparizione ricordava
molto uno spot preconfezionato. O meglio un
«messaggio autogestito», per dirla con la legge
sulla par condicio, infilato di straforo nei tg della sera: stesse domande e stesse risposte e un
grande simbolo del Pdl. La violazione, scrive
dunque l’Authority per le comunicazioni, si è
determinata perché le «interviste» contenevano «opinioni e valutazioni politiche sui temi
della campagna elettorale» ed erano «omologhe per modalità di esposizione mediatica».
L’Agcom, intervenendo nuovamente dopo i
ripetuti esposti dell’opposizione, ha però sferrato un duro colpo alla libertà d’informazione.
Non è solo Minzolini a pensarla così, ma tutti i
berlusconiani. Quelli dell’Agcom, ad esempio, i
quattro commissari contrari alle sanzioni decise a maggioranza dall’organismo guidato da
Corrado Calabrò, tuonano: «La decisione costituisce un precedente che vulnera la certezza
del diritto e il principio di legalità». E, proseguono Antonio Martusciello, Stefano Mannoni, Ro-
Governo/ CAMERA PERICOLOSA PER LA MAGGIORANZA
Nucleare, ora anche la fiducia
Voto blindato anti referendum
ROMA
N
on bastava il decreto legge, per cercare di far saltare il referendum sul nucleare il governo ha bisogno anche
della fiducia. Ieri pomeriggio alla camera il
ministro per i rapporti con il parlamento Elio
Vito ha immediatamente bloccato la discussione sugli emendamenti al decreto «omnibus» - quello che assieme ai fondi per la cultura, alle accise sulla benzina e alla proroga del
divieto di incroci tra stampa e tv contiene le
norme che sospendono il rilancio del nucleare nazionale. Il governo ha deciso di porre la
questione di fiducia che sarà votata oggi pomeriggio. Il decreto
sarà votato senza dibattito così da blindare la maggioranza.
Le ultime prove
dell’esecutivo alla camera, dopo la sconfitta del centrodestra nel primo turno
delle elezioni amministrative, costringono Berlusconi alla massima prudenza. Lasciati liberi di votare, i deputati di maggioranza
voltano le spalle al governo che la settimana
scorsa è andato sotto cinque volte di fila nell’unico giorno di votazioni. Domani si ricomincia e per non rischiare scherzi dai deputati «responsabili» rimasti senza la ricompensa
della poltrona da sottosegretario ecco la fiducia. Le opposizioni e i comitati per il sì ai referendum (oltre a quello sul nucleare ce ne sono altri due sull’acqua e uno sul legittimo impedimento) denunciano il «furto di democrazia». Ma persino questa manovra spericolata
potrebbe non bastare a nascondere la crisi di
un centrodestra ormai in rotta. Dopo il voto
di fiducia infatti dovranno essere approvati alcuni ordini del giorno che potrebbero esporre l’esecutivo a qualche altra figuraccia. Non
per nulla Berlusconi ha rimesso in circolo le
voci sulle nuove nomine. In palio nell’ultima
settimana di campagna elettorale c’è il boccone più grosso: il posto di ministro per le politiche comunitarie che manca da sei mesi. E
che però giusto da ieri è tornato a essere indispensabile per il ministro degli esteri Frattini.
Il decreto legge «omnibus» va approvato
entro lunedì prossimo 30 maggio perché altrimenti decade. Ma non è affatto scontato che
varrà a far saltare il referendum più temuto
da Berlusconi, quello sul nucleare, il quesito
che tutti i sondaggi indicano abbondantemente sopra il quorum di partecipazione e
che dunque sarebbe in grado da solo di trascinare gli elettori alle urne nonostante l’esecutivo abbia indetto le consultazioni a giugno
inoltrato (12 e 13). A decidere se la moratoria
introdotta con il decreto automaticamente
escluda la necessità del referendum infatti sarà la corte di Cassazione. Che la prossi12-13 GIUGNO
ma settimana dovrà
Sarà la Cassazione a
valutare se il riferistabilire se la consulmento previsto nel
tazione è superata
decreto a quelle «uldalla nuova legge.
teriori
evidenze
Proteste dei comitati
scientifiche» in attecon l’ambientalista
sa delle quali il gogiapponese
verno ha deciso di
sospendere la costruzione delle centrali nucleari non denuncia chiaramente l’intenzione di riprendere la scelta nucleare non
appena l’emozione per il disastro di Fukushima si sarà calmato. Del resto è proprio quello
che ha detto Berlusconi quando con Sarkozy
accanto ha svelato il bluff del decreto al puro
scopo di aggirare il referendum.
Secondo i comitati contro il nucleare e per
l’acqua bene comune, la fiducia sul decreto è
«l’ennesima scelta antidemocratica dettata
dalla paura di dare la parola ai cittadini e ricevere, come è avvenuto in Sardegna, una batosta». I comitati erano ieri in presidio davanti
alla camera e ci torneranno ancora oggi e domani, quando è prevedibile che ci sarà il voto
finale sul decreto. Oggi con il presidente dei
verdi Angelo Bonelli ci sarà il leader dei verdi
giapponesi Satoko Watanabe, protagonista di
numerose mobilitazioni contro il nucleare in
Giappone. Per decisione della maggioranza e
contrariamente a quello che accade di solito,
questa volta le dichiarazioni di voto sulla fiducia non saranno trasmesse in diretta tv. r. pol.
berto Napoli e Enzo Savarese, «occorre ribadire
che nel periodo elettorale gli equilibri tra le varie forze politiche nei notiziari devono essere
garantiti su base settimanale», il che sarebbe ovviamente avvenuto. Perché l’intervista al presidente del consiglio andata in onda venerdì
«non ha alcuna autonoma rilevanza». Con la
sanzione invece si «limitano» e si «mortificano»
le «legittime scelte editoriali agitando lo spettro
di violazioni inesistenti o modificando in corso
d’opera i criteri sulla base dei quali rilevarle».
Conclusione: zelo a senso unico, perché per Annozero non si fa niente, e dunque Calabrò e gli
altri commissari hanno deliberato per le «pressioni» politiche della sinistra (solo «valutazioni
tecniche e giuridiche», risponde il presidente).
Fin qui, i commissari di centrodestra dell’Authority «indipendente». Dal cda di viale Mazzini si fa invece sentire il berlusconiano Antonio
Verro: la multa crea «senza dubbio un pericoloso precedente per la libertà di espressione delle
testate giornalistiche». Inoltre «non è chiaro su
quali basi giuridiche poggi tale decisione e
aspetto di leggere le motivazioni dell’Autorità,
che comunque ha alzato i toni di questa campagna politica». Forse Al Qaeda fa il tifo anche per
Calabrò, oltre che per Pisapia. Della questione
domani si occuperà anche il cda Rai, su decisione del presidente Paolo Garimberti.
E Mediaset? Annuncia subito un ricorso contro le sanzioni (lo aveva anticipato Fedele Confalonieri prima che la decisione dell’Agcom venisse resa nota). L’Accusa all’Agcom: essere
«parte del confronto politico anziché arbitro». I
direttori tuonano contro la «pesante intimidazione» (Clemente Mimun, Tg5), la «palese disonestà politica» (Emilio Fede, Tg4), la «decisione
lesiva della libertà di stampa» (Giovanni Toti,
Studio Aperto). Ma i giornalisti del comitato di
redazione del del Tg5 non si sentono per nulla
intimiditi: ritengono che la decisione dell’Agcom, «organismo super partes che svolge
una missione di garanzia a tutela dei cittadini»,
vada rispettata, «così come vanno rispettate le
regole, da parte di tutti». I giornalisti della testata Mediaset si augurano dunque che il Tg5
«prenda atto concretamente delle regole della
par condicio e delle indicazioni» fornite dal garante. E segnalano il problema dei problemi: la
mancata soluzione del conflitto d’interessi.
CALABRIA · Missione a Cosenza e Crotone per rimediare ai pasticci. Impossibile
Bersani tra i cocci della sinistra
Claudio Dionesalvi - Silvio Messinetti
COSENZA
C
osenza alla rovescia. La città più rossa di Calabria pare volersi gettare nelle braccia di Casini e Berlusconi. Appoggiato da un’inedita grande alleanza di tutte le famiglie del feudalesimo locale, al ballottaggio Mario Occhiuto (Pdl-Udc), può contare sul cospicuo vantaggio di quasi 20 punti.
Difficile la rimonta per il suo avversario Enzo
Paolini, sostenuto da Sel, Verdi e Idv. Ora si
accoda anche un imbarazzato Pd, nei mesi
scorsi agitato dalle consuete faide interne:
da una parte il presidente della provincia,
Mario Oliverio e il consigliere regionale Carlo Guccione, decisi a giocare la carta Paolini.
Dall’altra, il consigliere regionale iscritto al
gruppo misto Nicola Adamo, e Enza Bruno
Bossio della direzione nazionale, sponsor
del sindaco uscente, Salvatore Perugini. All’inizio di aprile erano già pronti i manifesti
per Paolini. Ma da Roma è scattato il contrordine: scommettere su Perugini. Che ha rimediato un misero 15%. Crollo del Pd: 3.332 voti, contro i 6.394 ottenuti dai Ds nel 2006.
Sullo sfondo, l’eterno conflitto che a Cosenza oppone socialisti manciniani e radicali di sinistra ai democristiani e al vecchio
gruppo dirigente del Pci. Situazione ingarbugliata anche dentro Sel. In contrasto col nuovo gruppo dirigente guidato da Ferdinando
Aiello, qualche vendoliano della prima ora
ha sostenuto la candidata a sindaco della
Fds, Alessandra La Valle. Lei ora invita i suoi
a battere le destre al ballottaggio, però al primo round ha rosicchiato un ulteriore 3,50%.
Per correre ai ripari a Cosenza è calato ieri
Pier Luigi Bersani, al Cinema Citrigno, in pieno centro. Si è tenuto alla larga da grandi di-
scorsi sulla città. Sa bene che il contesto cosentino è un rompicapo. Un dato impressiona, l’enorme quantità di riempilista: degli oltre mille candidati consiglieri, ben 192 non
hanno ottenuto neanche un voto. La dispersione è tattica. La fomentano i colonnelli di
partito, che però sanno come e quando ricompattarsi. Al primo turno, ad esempio, il
terzo polo ha viaggiato diviso. Al ballottaggio, invece, pende a destra. Anche i rutelliani
dopo una piroetta sosterranno Occhiuto: vogliono sperimentare il governo della città in
condominio con l’Udc. Solo i finiani si mantengono fuori dallo schieramento, ridotti nei
consensi allo zero virgola.
Sul versante opposto Paolini sta pagando
la scappatella preelettorale a destra. Lui
smentisce che, prima di gettarsi a sinistra,
avrebbe tentato di farsi battezzare dal neosottosegretario Tonino Gentile pur di ottenere udienza dal presidente della regione, Peppe Scopelliti. Che s’è precipitato a confermare: «È venuto pure a trovarmi a Reggio. Voleva essere il nostro candidato». Non se ne fece nulla perché sarebbe prevalso l’accordo
con l’Udc del plenipotenziario Franco Talarico. Dopo aver vinto il duello in casa con Perugini, Paolini è impegnato a studiare la normativa sull’attribuzione dei seggi. Ne esistono
due interpretazioni: avendo superato il 50%
dei voti di lista, il centrodestra potrebbe ottenere la maggioranza consiliare anche in caso
di sconfitta al ballottaggio. Ma gli avversari citano una sentenza del Consiglio di Stato che
dice il contrario: sarebbe lecito attribuire i
seggi solo a ballottaggio avvenuto, premiando il risultato finale ottenuto dal sindaco,
non quello della coalizione. La commissione
elettorale si pronuncerà dopo il round finale.
Frattanto nelle scuderie del centrodestra
si delineano i destini di Katia Gentile e Luca
Morrone, rampolli del notabilato locale. Erano illustri sconosciuti fino a un mese fa. Hanno fatto il pieno di voti, si apprestano a ricoprire ruoli importanti. Ne va degli equilibri
futuri. L’aggiramento del rapporto poco idilliaco tra le famiglie Gentile e Occhiuto è stato possibile grazie a precisi patti di spartizione. In ballo, la gestione del bilancio da quasi
un miliardo dell’azienda sanitaria. In settimana Scopelliti ha nominato Gianfranco Scarpelli, gradito a Gentile, commissario dell’Asp
cosentina. Dunque nessuno dovrebbe tendere agguati. A meno che non resusciti il genius loci della città, non servirà invocare il
«vento del nord». Qui spira uno scirocco che
non promette nulla di buono.
Bersani è convinto che, ricomposti i cocci
della sinistra cosentina, «la vittoria di Paolini
è certa». Ma in Calabria il campo progressista pare davvero minato. Pensiamo a Crotone, dove il segretario Pd arriva per sostenere
la causa del sindaco uscente, Peppino Vallone (Pd) che, folgorato sulla via «fasciocomunista» di un’alleanza con Pasquale Senatore
(Forza nuova + altri), ha intanto sfasciato la
sua, di alleanza. La Fds e il movimento Slega
la Calabria hanno salutato la carovana «perché coi fascisti nemmeno un caffè». E anche
Senatore in 24 ore l’ha mollato, firmando in
extremis l'apparentamento con Dorina Bianchi (Pdl-Udc) che ha, però, scatenato le ire di
Casini che vede come il fumo negli occhi
l’unione con l’estrema destra. Le avances di
Senatore a Vallone erano chiaramente una
mossa per alzare il prezzo. Il sindaco c’è cascato, si è screditato a sinistra e ora le probabilità di riconferma si son ridotte di molto.
Un capolavoro tattico. E nemmeno Bersani
ha potuto dare «un senso a questa storia».
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
pagina 5
LO SFACCIATO
-5
A cinque giorni dal ballottaggio, Berlusconi continua ad attaccare a testa bassa
dicendo che Milano diventerà «una zingaropoli islamica». Bersani: «Fa ridere»
CEI: «POLITICA INGUARDABILE»
Politica rissosa, elettorato disamorato, media
fomentatori di tifo da stadio ma soprattutto
pochi politici in grado di esibire il certificato di
cattolico d.o.c. Di loro avremmo bisogno - dice
Bagnasco all’assemblea dei vescovi - e non di
chi corrompe i costumi e distrugge la famiglia.
Il pensiero vola al «bunga bunga» ma quella di
Bagnasco non è certo un’indicazione di voto.
FOTO EMBLEMA
Impossibile che appoggi Pisapia e improbabile
che le gerarchie vaticane si abbassino alla
misera ragioneria delle amministrative. Che fa,
allora, Bagnasco? Aspetta. E nell’attesa lancia
segnali ai politici di buona volontà - terzo
polo? - che come lui hanno a cuore scuola,
famiglia e fine vita. A tutti però chiede cambio
di passo e immediato ricambio generazionale.
Altrimenti saranno saldi di fine stagione.
NAPOLITANO: «NON SIATE GELOSI»
Al premier che chiede una revisione dei
poteri del presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano risponde con un’alzata di
spalle. «In Italia c'è un eccesso di
partigianeria politica ma penso che per i
politici italiani non ci sia motivo di
ingelosirsi. Viaggiamo su pianeti diversi. E
non ci sono comparazioni possibili».
MILANO · Il candidato del centrosinistra, preoccupato per il clima, incontra il questore
Pisapia chiama la polizia
SUPER SINDACO
Luca Fazio
MILANO
In carcere il ladro
bloccato da Giuliano
Se non fosse per l’ansia di non spaventare i moderati, ci sarebbe un altro
bel lavoretto da fare per Super Pisapia. Ieri è stato convalidato l’arresto
per Domenico Montrone, l’uomo che
sabato scorso avrebbe cercato di rubare un’automobile in via Vincenzo Monti. E ci sarebbe anche riuscito se non
fosse intervenuto lo staff di Giuliano
Pisapia ad impedire il furto, bloccando il ladro e chiamando la polizia.
Ora, Montrone è un tossicodipendente
in cura al Sert, ha già avuto problemi
con la giustizia per casi analoghi e
siccome il carcere non fa bene a nessun ladruncolo - l’avvocato Pisapia lo
sa bene - bello sarebbe immaginare il
«nostro» che sventola la toga per garantire il reinserimento del malcapitato. Vabbé, per ora deve accontentarsi
di un avvocato d’ufficio: «Cercheremo
di far derubricare il reato da tentata
rapina a tentato furto».
S
ì, il vento sta cambiando. Qui a Milano
tutti (almeno la metà, il 48,1%) per una
volta la pensano come Pier Luigi Bersani:
«Berlusconi fa ridere». Oddio, se non conoscessimo il personaggio non si potrebbe pensare altro di un tizio che per ribaltare un risultato elettorale disastroso invia messaggi video registrati
per dire che «Milano diventerà una città islamica, una zingaropoli di campi rom assediata dagli stranieri», o che «Pisapia prende il caffé tutti
i giorni con i rappresentanti dei centri sociali».
Gli fa eco il leghista Borghezio, limitandosi a dire che Al Qaeda vota Pisapia.
Invece di ridere, Giuliano Pisapia, tanto per
mettere le mani avanti, ha preferito chiamare
la polizia (con l’aria che tira, non si sa mai).
Non proprio il 113, ma poco ci manca. «Ho ritenuto di incontrare il questore Marangoni – ha
detto – perché sono particolarmente preoccupato del clima che si è instaurato in città, clima
di cui a mio avviso è responsabile il centrodestra. Ho chiesto al questore di essere più presente sul territorio per quanto possibile». Di
fronte alla comica disperazione della destra si
fa davvero fatica ed evocare la strategia della
tensione, però tutti – forse anche solo per esor-
NAPOLI AL FOTOFINISH kbbbbbbbbbb
Ultimi fuochi, si gioca
sui rifiuti il voto degli indecisi
Francesca Pilla
NAPOLI
U
ltimi cinque giorni di campagna elettorale e lo scontro tra Luigi De Magistris e Gianni Lettieri si fa sempre più
serrato. Instancabili, i candidati napoletani
che vanno al ballottaggio domenica e lunedì,
continuano a rintuzzarsi e a polemizzare. Ieri
hanno passato parte della giornata a guardarsi negli occhi, per due ore nella redazione de
Il mattino poi a Roma negli studi di Bruno Vespa, lanciandosi accuse al limite dell’insulto.
«Se salisse De Magistris saremmo di fronte
a un ritorno dei soviet nel nostro paese, con
in consiglio molti iscritti al Partito dei comunisti italiani e rappresentanti dei centri sociali»
attacca Lettieri che ha trascorso la domenica
al fianco del cardinale Crescenzio Sepe annunciando un assessorato alla famiglia. «Sono favorevole alle unioni civili, che devono essere legalizzate perché di fatto esistono già»
ha invece spiegato De Magistris, dopo aver intascato il tutto esaurito al fianco di Roberto
Vecchioni in una piazza Dante gremita. Quindi risponde all’ex-presidente degli industriali:
«La nuova giunta non avrà un carattere ideologico, visto che nel caso in cui io dovessi occupare la poltrona di sindaco, vi troverebbero
posto anche riformisti, liberali del centrosinistra, esponenti dell’area moderata».
Ma è sui rifiuti che si giocano i voti degli indecisi. E infatti a Porta a Porta lo scontro si accende, l’ex magistrato propone la raccolta al
70 per cento, il no all’inceneritore, i siti di
compostaggio, Lettieri lo accusa di demagogia e rilancia l’export della spazzatura all’estero, pur con costi esorbitanti.
Sostanziali le differenze. Il candidato del
Pdl si fa portavoce di un programma che punta sul berlusconismo, ancora una volta per risolvere i problemi endemici della città invoca
leggi speciali, poteri straordinari e interventi
esterni («Bertolaso sarà mio consulente»). Il
premier ieri ha anche registrato un messaggio
web per tirare la volata a Lettieri, attaccando
l’ex pm con gli stessi argomenti del metodo Pisapia: «È esponente di quella sinistra estrema,
rivoluzionaria, inquisitoria, giustizialista, che
rappresenta il peggio del sistema politico italiano».
Ma le accuse a Napoli come a Milano si potrebbero trasformare in un boomerang politico. Qui De Magistris è riuscito a interpretare
la voglia di cambiamento e lo scontento verso
la classe dirigente che ha amministrato la città, ma che non è propensa a consegnarla alla
destra. Il ragazzo del Vomero ha incarnato
quello che lui stesso definisce un movimento
popolare. Ha caratterizzato la sua ascesa oltre
i partiti, si è fatto promotore di un programma ecologista, solidale e di rottura con il passato: «All’inizio - dice - ho trovato una città demoralizzata, ora invece c’è entusiasmo».
Così il Pdl ha paura di perdere anche perché il Terzo polo si è smarcato da Lettieri. Il
mantra dell’estremismo non tange i centristi
dove prevale l’interesse a far cadere Berlusconi piuttosto che la preoccupazione dell’avanzata della sinistra. Ieri Italo Bocchino ha dato
chiaramente un’indicazione di voto: «Siamo
usciti dal partito perché volevamo l’allontanamento di Nicola Cosentino ora non possiamo
stare con il suo candidato». D’altra parte i democratici e i vendoliani dopo il flop di consensi del prefetto Mario Morcone, sostengono il
candidato di Idv e Fds. Non chiedono poltrone ma è probabile che il ruolo di vicesindaco
andrà a un democratico non bassoliniano. E
Umberto Ranieri si sta spendendo molto.
LAZIO · Dopo la gaffe di Montino, Gasbarra: sfiducia a Alemanno e Polverini
«Noi contro le destre». Il Pd torna in sé
Daniela Preziosi
ROMA
L
o scontro nel Pdl ha raggiunto
toni così «violenti» che il Pd del
Lazio deve tentare la carta di
una «convocazione straordinaria»
dei consigli di comune e regione «per
presentare una mozione di sfiducia a
Alemanno e a Polverini». Con questa
proposta ieri il romano ex ppi Enrico
Gasbarra ha provato a mettere un
punto finale sulle polemiche scatenate dalla proposta di Esterino Montino, il potente capogruppo in regione,
di votare le liste Polverini nei comuni
dove sono andate al ballottaggio con-
tro il Pdl. Coro di sì a Gasbarra da parte del commissario laziale Vannino
Chiti, del segretario cittadino Marco
Miccoli e del capogruppo al Campidoglio Umberto Marroni. A leggere
bene, in realtà, i tre apprezzano l’appello all’unità del Pd e alla battaglia
contro le destre. Quanto al voto, invece, sorvolano. La rottura fra Polverini
e Pdl è evidente (lei nega), Alemanno
ha tutta l’aria di voler tornare alla politica nazionale, dopo il tonfo romano. Ma nonostante il disastro del Pdl,
le opposizioni non hanno né le firme
né i voti per la sfiducia.
Il coro di sì a Gasbarra tradisce soprattutto l’ansia di cancellare l’inspie-
gabile gaffe di Montino. Che ha scatenato la rivolta nella base dei laziali,
stanchi dei sofisticati giochi di palazzo. «Capisco l’idea di mandare in tilt
il Pdl, ma dal voto viene un segnale
chiaro: abbiamo ricostruito una ’piazza democratica’, siamo alternativi,
marchiamo la differenza», spiega Gasbarra, che pure viene da un’area tutta moderazione e centrismo. Che
quindi si riposiziona, con un occhio
alle primarie regionali che saranno
lanciate nell’assemblea del 24 giugno. Primarie in cui proprio Gasbarra è in pole position se, come sembra
probabile, l’europarlamentare David
Sassoli dovesse dare forfait.
cizzare la paura – sono convinti che «prima o
poi questi si inventeranno qualcosa». Cosa,
non si sa. E non bisogna farsi impressionare
dalla stretta di mano veloce che si sono scambiati i due avversari durante la commemorazione della strage di Capaci. «Le ho stretto la mano come faccio sempre con le persone che me
la porgono, io sono gentile e cortese», ha chiuso il gustoso incidente Giuliano Pisapia.
Certo, per vincere al ballottaggio alla Moratti
non basterà una replica della farsa dell’altro
giorno, con la finta aggressione alla madre di
un assessore (la signora Rizzi), cavalcata senza
ritegno da Berlusconi con una visitina quasi di
stato in ospedale, il capo del governo al capezzale della scivolata autoprodotta: una testimone, Shirin Kieayed - «mi espongo con nome e
cognome perché sono pronta a testimoniare in
tribunale» - ieri ha detto a Radio Popolare che
non c’è stata alcuna aggressione. Lei era lì, e
nel caso potrà dire qualcosa al pm Armando
Spataro, che sta ancora aspettando le «informative» del caso preparate dalla Digos.
E nemmeno saranno sufficienti le promesse
da quattro soldi, come se i milanesi fossero così
straccioni da farsi comprare dalle multe condonate - operazione impossibile visto che sono
già partite 600 mila cartelle esattoriali relative
al periodo gennaio/aprile – o dall’Ecopass abolito o da altre promesse che risulterebbero incredibili, quand’anche fossero vere: appena
aprono bocca perdono di credibilità.
Resta insidiosa la questione dell’immigrazione. Una paranoia reiterata in ogni dove come
un mantra. I berluscones infatti stanno battendo la città zona per zona per spaventare i residenti: «Lo sapete che Pisapia vuole fare la moschea nel vostro quartiere?», in questo modo si
millantano una trentina di moschee al giorno.
Tanto una vale l’altra. Sono così nel pallone
che Letizia Moratti, su Twitter, ha addirittura
socializzato lo sdegno di un certo Lucah vivamente preoccupato: «Il quartiere Sucate dice
no alla moschea abusiva in via Giandomenico
Puppa». Moratti prima gli ha promesso che
non ci sarà alcuna moschea a Sucate, poi qualcuno deve aver fatto notare alla signora che a
Milano non esiste un quartiere con questo nome – che a occhio sembra un poco elegante invito declinato all’imperativo presente.
Meno male che c’è la Rete. Altrimenti dovremmo continuare a rincorrere il vice sindaco
De Corato, che in questi giorni sta frustando la
sua polizia locale perché pretende un surplus
di accanimento contro i poveri. Vuole almeno
uno sgombero di zingari al giorno, per raccontarci quanti ne arriveranno: «Il numero almeno
si decuplicherà non appena si saprà che a Milano, anche se rubi, ti danno la casa gratis: e i nomadi accorreranno dalle altre province e dalle
altre regioni, ma il tam tam arriverà in Romania, dove ci sono due milioni di rom richiamati
dalle elargizioni di Pisapia». Milioni di zingari...
e se non basta «Milano con Pisapia sarà graffittopoli». Ha ragione Bersani, fanno ridere. Se è
davvero tutto qui, almeno si svelenisce il clima.
OMOFOBIA
La legge torna
in aula, Pdl, Lega
e Udc fanno muro
C. L.
ROMA
P
arolacce e pseudo ragionamenti in cui l’omosessualità viene paragonata alla pedofilia. Che non sarebbe stata
una discussione semplice si sapeva ma Pdl, Lega e Udc ieri hanno
trasformato l’esame della legge
contro l’omofobia, cominciata a
Montecitorio, in una rissa verbale
che poco ha a che vedere con un
dibattito parlamentare. E il cui esito, ancora una volta appare purtroppo scontato. Con la presentazione di tre pregiudiziali di costituzionalità, e grazie alla complicità
dell’Udc, la maggioranza tenterà
infatti ancora una volta di affossare la legge lasciando così l’Italia a
fare da fanalino di coda tra i paesi
che garantiscono i diritti delle persone omosessuali. «Abbiamo di
fronte un muro di gomma», commenta alla fine Paola Concia, la deputata del Pd che la scorsa settimana, dopo che il testo era stato bocciato per l’ennesima volta in commissione, si è dimessa da relatrice
del provvedimento. A poco è infatti servito il tentativo fatto dalla stessa Concia di trovare una mediazione facendo proprie alcune obiezioni della maggioranza con un
emendamento (ripresentato anche ieri in aula) che estende l’applicazione dell’aggravante prevista inizialmente solo per i reati
compiuti contro le persone omosessuali e transessuali, anche ai reati commessi contro persone anziane e disabili. Emendamento
che recepisce quanto previsto dal
Trattato di Lisbona, per altro ratificato dal parlamento italiano nel luglio del 2009. «Ho voluto fare questa aggiunta - spiega Concia nel
suo intervento - non tanto perché
vi sia un’oggettiva esigenza giuridica, quanto piuttosto per venire incontro per l’ennesima volta alle
perplessità di natura costituzionale, che non condivido, suscitate da
alcuni gruppi». Niente da fare.
Il livello toccato ieri dall’aula
non è certo di quelli per i quali si
può andare fieri. A dar fuoco alle
polveri ci hanno pensato il pidiellino Giorgio Stracquadanio e l’Udc
Luisa Santolini. Il primo facendo
arrabbiare la vicepresidente di turno Rosy Bindi ripetendo più volte
che le donne del suo partito sarebbero state definite «puttane» dal
movimento «Se non ora quando»,
al punto che dopo aver sentito
l’ennesima parolaccia Bindi decide di togliergli la parola. La seconda elaborando una personalissima teoria in base alla quale anche
la pedofilia potrebbe essere considerata come un orientamento sessuale, al pari dell’omosessualità.
Ma non ha fatto mancare il suo
contributo neanche Rocco Buttiglione. L’esponente Udc, che proprio alle sue frasi contro gli omosessuali deve la bocciatura della
sua candidatura a commissario
europeo, è tornato all’attacco:
«Non crediamo che l’omosessualità come tale possa essere considerata come un bene giuridico meritevole di tutela, al di là delle persone che la esercitano», spiega all’aula. «L’effetto vero di questa legge è promuovere l’omosessualità
come stile di vita». «L'omosessualità non è un detersivo, non una
scelta, non è un capriccio ma è
una condizione umana», è la replica secca di Concia.
La legge tornerà in aula a giugno per il voto finale. Nel frattempo non manca chi ritiene un errore considerare gli omosessuali come una categoria da proteggere.
«Penso che un Paese civile debba
contrastare comportamenti di
odio e violenza come quelli compiuti contro le persone omosessuali, altrimenti si rischia di mettere in discussione anche la legge
Mancino», risponde Concia a chi
la critica. «Chi picchia un nero lo
fa perché mosso da un odio verso
i diversi. Certo, occorre creare
una cultura del rispetto fin dalla
scuola, ma serve anche punire
comportamenti che sono antisociali».
pagina 6
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
L’INCHIESTA
Call center •
Lavoratori costretti a firmare un accordo siglato da un fantomatico sindacalista
della Cisl, pena il trasferimento in un’altra città, lettere di dimissioni scritte sotto dettatura
Massimo Giannetti
ROMA
I
dirigenti della Festa Srl, società
del gruppo Snai, non si fermano
davanti a nulla. Si sentono dei
piccoli Marchionne e sulla scia del
modello imposto dalla Fiat a Pomigliano ne stanno combinando di tutti
i colori sulla pelle dei dipendenti dei
due call center romani di Tor Pagnotta e della Bufalotta. Non si fanno scrupolo di niente. Sono stati perfino capaci di mettere in mezzo a questa storia gli affetti familiari delle lavoratrici
in maternità per costringerle a rinunciare al Contratto collettivo nazionale
(fanno riferimento a quello del Commercio) e ad accettare un «accordo
sindacale», siglato tra l’azienda e un
esponente esterno della Fistel Cisl,
del quale hanno saputo dell’esistenza soltanto a cose a fatte. «O firmate
la rinuncia del Contratto nazionale e
accettate il nuovo accordo, o sarete
trasferite nella sede di Lucca, lontane 350 chilometri da casa. Valutate
voi quale sia l’interesse dei vostri figli e se vi conviene firmare o meno»,
così in sintesi il ricatto aziendale, poi
messo in pratica nei confronti di una
decina di dipendenti, tutti della Cgil,
che non hanno piegato la testa. Una
tecnica brutale, basata sull’intimidazione, che ha costretto una giovane
dipendente, appena rientrata al lavoro dalla maternità, a firmare una lettera di dimissioni sotto dettatura dei
dirigenti aziendali. Roba da codice
penale. E infatti, questa «barbarie» come la definisce l’avvocato Pierluigi Panici, legale storico della Cgil,
che difende i dipendenti della Festa
sbattuti per ritorsione nella sede toscana - è ora finita sul tavolo della
procura della repubblica di Roma,
dove venerdì scorso è stata presentata una denuncia per estorsione nei
confronti dei dirigenti aziendali Armando Antonelli e Luca Maria Petrini, rispettivamente direttore e responsabile del personale dei due call
center. Per la stessa ipotesi di reato è
stato querelato il sindacalista della
Fistel Cisl, Salvatore Capone, firmatario del nuovo «accordo sindacale».
«Questo signor Capone, che viene fatto passare come delegato della Cisl, noi in azienda non l’abbiamo mai visto - accusa Ilaria De Angelis, una delle lavoratrici trasferite
in punizione a Lucca nonostante
fosse in congedo per allattamento
del figlio - Non conosciamo neanche come è fatto fisicamente. Perché dovrei sottoscrivere un accordo
che fa schifo sotto ogni profilo, che
azzera i miei diritti acquisiti in dieci
anni di lavoro, e che per di più è stato firmato da un sindacato che non
esiste, che non ha neanche un iscritto nel nostro posto di lavoro?».
I «dissidenti», così li chiama ora
l’azienda, sono infuriati. E ieri hanno
partecipato, chiedendo udienza ai
gruppi parlamentari, a una manifestazione di precari davanti a Montecitorio. Altre ne seguiranno. «In questa
storia ci stupisce il silenzio della
Snai (concessionaria dello Stato per
i giochi e le scommesse legali, ndr),
che è proprietaria al cento per cento
della Festa Srl - aggiunge Igor Viglione, neodelegato Cgil nel call center
di Tor Pagnotta - Dell’accordo che i
GLI ALTRI OPERATORI IERI ALLA CAMERA
Teleperformance, 1400 fuori
mentre assume in Albania
I lavoratori del call center Snai ieri erano a Roma
per protestare insieme a quelli della Teleperformance, pure loro a rischio e in sciopero. Il gruppo
francese gestisce tre sedi in Italia (Fiumicino, Roma e Taranto), ha 3 mila addetti ma ben 1464
sono stati dichiarati in esubero. Centinaia di lavoratori, arrivati anche dalla Puglia, hanno manifestato davanti a Montecitorio, in un presidio indetto
da Cgil, Cisl e Uil. «Diritti, lavoro, stipendio, uguale dignità e futuro - No alla delocalizzazione», le
scritte sui cartelli. «La multinazionale licenzia in
Italia mentre in Albania assume dipendenti a 3
euro lordi l’ora che lavorano per il mercato italiano – spiega Luca Alessandrini, operatore e Rsu
Cgil – Vogliamo sapere quali iniziative la politica
intende prendere per garantire i 1464 lavoratori.
Il governo italiano deve tutelarci, bisogna impedire
alle multinazionali di speculare, riducendo i costi
del lavoro e aumentando i profitti. I movimenti
di borsa di Teleperformance parlano chiaro: il 14
aprile sono state aperte le procedure di licenziamento e pochi giorni dopo sono schizzati i titoli».
UN CALL CENTER/FOTO EMBLEMA SOPRA, I LAVORATORI DI «TELEPERFORMANCE»
Il ricatto della Snai
fa la Festa ai dipendenti
nostri datori di lavoro stavano facendo con la Fistel Cisl non sapevano
nulla. Contrariamente a quanto sostiene l’azienda, non c’è stata nessuna consultazione, nessuna spiegazione dell’accordo da parte del sindacalista che stava trattando con i
dirigenti. Hanno fatto tutto di nascosto, siamo stati informati a cose fatte e soltanto per ratificarlo».
E forse non potevano fare altrimenti, i dirigenti della Festa, visto che nei
due call center romani (diversamente da quello di Lucca dove invece i sindacati esistono da tempo e le relazioni con l’azienda sono ritenute buone)
non hanno mai consentito la presenza delle organizzazioni dei lavoratori.
Questo fino a marzo, quando si è saputo che l’azienda lavorava fitto con
un esponente esterno della Cisl spuntato dal nulla, alcuni dipendenti, tutti
giovani, si sono guardati intorno e
hanno deciso di costituire le Rsa della
Filcams Cgil in entrambi call center.
«Abbiamo deciso di tutelarci e avere
voce in capitolo - prosegue Viglione
- Come Cgil abbiamo chiesto un con-
fronto formale con l’azienda offrendo la nostra disponibilità a discutere
del nuovo contratto. Ma la risposta è
stata sempre negativa. Anzi, nei colloqui individuali avviati nel frattempo dalla Festa, l’azienda ha ripetuto
a tutti lo stesso concetto, e cioè che
‘non c’era niente da discutere, che
l’unica proposta in campo era la rinuncia al Contratto collettivo nazionale e l’adesione al nuovo accordo.
La chiusura è stata totale. In ogni caso per noi questo accordo è nullo,
anche perché la maggioranza dei dipendenti non lo ha firmato».
«Abbiamo cento motivi per difendere le nostre ragioni e lo faremo in
tutte le sedi in cui ci sarà consentito
affinché questo accordo non venga
applicato - riprende agguerrita Ilaria
De Angelis, che proprio ieri è stata
reintegrata nel call center di Roma
con una sentenza urgente del giudice
del lavoro - È un accordo penalizzante sotto ogni punto di vista. La nostra
posizione viene retrocessa quasi allo
stesso livello dei collaboratori a progetto. Se passa questo accordo non
avremo mai uno stipendio dignitoso». L’accordo contestato prevede
meno diritti, più flessibilità e retribuzioni più basse.
I dipendenti a cui è rivolto sono
una ventina, quelli assunti a tempo
indeterminato e che fanno parte dello staff dell’azienda. Sono una piccola parte rispetto ai circa 150 collaboratori a progetto (cocopro) di cui si avvale Festa per vendere prodotti e servizi per conto di altre aziende (i maggiori committenti sono attualmente
Seat Pagine gialle, la multinazionale
assicurativa Aegon). A loro, ai precari,
l’azienda ha promesso la stabilizzazione ma anche questa con ricatto:
solo se accettano anche loro il nuovo
accordo e «rinunciano al pregresso»,
non devono cioè rivendicare nulla
del lavoro svolto in passato.
Ma torniamo alla protesta dei dipendenti in pianta organica. Per la ratifica del nuovo modello contrattuale, l’azienda aveva escogitato una procedura singolarissima: li aveva invitati, attraverso una convocazione via
email, a recarsi 19 aprile all’Ufficio
vertenze della Fistel Cisl di via Palestro 30 - trasformato per l’occasione
in una sorta di camera mortuaria del
Contratto nazionale - dove avrebbero dovuto appunto firmare un cosiddetto «verbale di conciliazione» nel
quale si affermava che il suddetto «accordo sindacale è stato spiegato con
dovizia di particolari ai dipendenti
dal rappresentante Cisl, Capone», e
che «lo stesso atto diviene unica fonte regolatrice del rapporto di lavoro
con la Festa srl con rinuncia a ogni
pretesa connessa con il Contratto collettivo nazionale di lavoro del Commercio». Nella stessa missiva i dipendenti venivano inoltre informati «che
per rendere più agevole» il loro ingresso nella sede della Cisl, l’azienda metteva a loro «disposizione dei taxi gratuiti». Una mezza presa in giro che
non ha fatto altro che farli incavolare
ancora di più. Su quei taxi ci sono comunque saliti soltanto sette dipendenti, tra cui la moglie di un dirigente
e altre due persone di famiglia.
I tredici ribelli Cgil, ottenuto il sostegno non scontato del loro sindaca-
to di categoria, la Filcams di Roma,
hanno fatto invece un altro percorso:
hanno avviato una serie di azioni legali volte a difendere i loro diritti.
Quindi una denuncia per comportamento antisindacale (articolo 28), un
ricorso d’urgenza per violazione delle
norme sul diritto alla maternità e alla
ritorsione (articolo 700) - accolto ieri
dal giudice nei confronti di Ilaria de
Angelis - e infine la querela penale
per estorsione, violenza privata e minacce contro i vertici aziendali e il sindacalista della Fistel Cisl. Denunce a
raffica che però non hanno indotto i
dirigenti Festa - difesi nelle cause dallo studio di Tiziano Treu, ex ministro
del lavoro del primo governo Prodi e
attuale vicepresidente Pd della commissione lavoro del senato - a più miti consigli. Sono infatti andati avanti
con i loro metodi come se nulla fosse.
Lo testimonia la denuncia di un’altra
dipendente, ultima vittima in ordine
di tempo. Si chiama Tiziana Ascenzi,
I «dissidenti»
si difendono,
il caso finisce
sul tavolo della
procura di Roma
32 anni, e venerdì scorso avrebbe dovuto riprendere servizio nel call center della Bufalotta dopo un periodo
di congedo per maternità. Non le è
stato consentito ed è tornata a casa
piangendo. I dirigenti di Festa l’hanno infatti convocata nel loro ufficio e
le hanno ripetuto ciò che hanno detto a tutti gli altri. «Volevano che firmassi la rinuncia del Contratto nazionale - racconta - Ho risposto che non
l’avrei fatto, che non volevo rinunciare ai miei diritti. Loro hanno insistito
minacciando che se non l’avessi fatto
sarei stata trasferita immediatamente
e per sempre a Lucca. Ho risposto
che non potevo lavorare lontano da
Roma perché ho due bambini, uno di
quattro anni e uno di nove mesi. Non
hanno avuto pietà: mi hanno fatto
prima uscire dalla stanza e dopo un
po’ mi hanno richiamata per dirmi
che avevo un’altra alternativa: dimettermi. Ho avuto paura, ero nel panico. Pensavo ai miei figli. Ero nella confusione più totale. Mi hanno fatto scrivere la lettera di dimissioni sotto dettatura e me l’hanno fatta firmare. Ma
per me quelle dimissioni non sono valide. Le ho firmate perché ero sotto
pressione, sono stata costretta a farlo». Le sue dimissioni saranno impugnate «perché illegali ed estorte con il
ricatto», annuncia l’avvocato Pierluigi Panici.
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
pagina 7
INTERNAZIONALE
PAKISTAN · Un commando armato irrompe in un compound della marina militare. Diciassette ore di combattimenti
Assalto taleban in una base di Karachi
AFGHANISTAN
Che fine ha fatto
il mullah Omar?
G.B.
A
KARACHI, FORZE SPECIALI AFGHANE NELLA BATTAGLIA DELLA BASE/REUTERS A DESTRA, IL MULLAH OMAR
Marina Forti
U
no spettacolare attacco armato, rivendicato dai Taleban
pakistani, ha tenuto impegnate le forze di sicurezza per ben 17 ore
in una base militare a Karachi, la metropoli affacciata sul mare arabico - e
ha inferto una nuova umiliazione all’esercito, già investito dalle polemiche dopo il raid in cui le forze speciali
Usa hanno ucciso Osama bin Laden il
2 maggio scorso.
Di spettacolare nell’attacco di ieri
c’è in primo luogo l’obiettivo: una base navale della Marina militare, Naval
station Mehran, uno dei luoghi più
protetti. Vi si trovano tra l’altro gli aerei da pattuglia P-C3 Orion (forniti all’esercito pakistano dagli Stati uniti) e
missili antinave Harpoon: nell’attacco due di questi aerei sono stati distrutti e un terzo danneggiato. Spettacolare per i modi: secondo quanto dichiarato in serata dal ministro dell’in-
L’operazione
è stata rivendicata
come una risposta
all’uccisione
di Osama bin Laden
terno Rehman Malik, un commando
di almeno 6 persone è penetrato nella base; quattro sono stati poi uccisi
nella battaglia, uno si è fatto esplodere e un altro è riuscito a fuggire. Gli
attaccanti avevano granate lanciate
da razzi, due lanciarazzi e mitragliatori leggeri, ha detto ancora il ministro; vestivano di nero per non essere visibili nella notte («abiti occidentali», riferiscono le autorità, pantaloni e camicia e non il tradizionale camicione maschile); sono entrati da
tre direzioni, tagliando i reticolati e
scavalcando alti muri.
Quando l’attacco è cominciato, alle 22,40 di domenica sera, all’interno
della base navale si trovavano 17 stranieri che sono stati rapidamente portati al sicuro, riferiscono le autorità:
erano 6 addestratori dell’esercito
americano e 11 tecnici militari cinesi. Da quel momento, e fino a oltre le
15 di ieri, la base è stata circondata
dai Pakistan Rangers (un corpo paramilitare) mentre all’interno avveniva
una vera e propria battaglia: le tv
hanno mostrato aerei in fiamme nella notte, crepitii di mitraglia sono
proseguiti per ore.
Non è la prima volta che ribelli armati attaccano installazioni militari
in Pakistan - nel 2009 erano penetrati
per qualche ora nel quartier generale
dell’esercito a Rawalpindi - ma questa volta sono arrivati ben più in profondo. La stazione navale Mehran, a
una decina di chilometri dall’aeroporto internazionale Ali Jinnah, era considerata tra i luoghi più sicuri ma non è
tra le installazioni militari più strategiche: a 24 chilometri di distanza c’è la
base aerea Masroor, con un sito in cui
si pensa siano depositate testate ato-
miche. Anche così però l’attacco rivela ancora una volta quanto sia vulnerabile il Pakistan.
Il Tehrik-e Taleban Pakistan (Ttp,
«movimento dei Taleban pakistani)
ha rivendicato l’attacco di Karachi,
che ha definito una risposta per l’uccisione di Osama bin Laden; il portavoce ha aggiunto che il commando aveva cibo e munizioni per tre giorni e
non si aspettava di sopravvivere all’attacco. Attacchi per vendicare il leader
di al Qaeda erano attesi; ieri il ministro Malik ha detto che le intercettazioni dell’intelligence pakistana segnalavano che i Taleban nella regione
semiautonoma del Waziristan (presso la frontiera afghana) stavano preparando attacchi contro installazioni militari nel paese.
Diversi esperti di antiterrorismo dicono che i Taleban pakistani non possono aver condotto un’operazione
così complessa a Karachi senza l’aiuto di gruppi locali della galassia isla-
mista armata. E a Karachi non manca il sostrato. La capitale economica
del paese è un agglomerato che sfiora i 18 milioni di abitanti ed è cresciuta per stratificazioni: dai «rifugiati» musulmani venuti dall’India dopo la Spartizione del 1947 alle successive ondate di persone venute a
cercare lavoro e fortuna dal gigantesco entroterra rurale e poi da tutto il
paese, i profughi afghani (si dice che
Karachi sia la più grande città afghana dopo Kabul), gli emigranti dalle
province del nord. Spaccato del paese e di tutte le sue tensioni, Karachi
è stata risparmiata dall’ondata di attentati che negli ultimi due anni hanno fatto centinaia di vittime civili
nelle grandi città pakistane. Il motivo è che Karachi è il retroterra logistico dove anche i Taleban e gli alleati di al Qaeda fanno affari, riposano,
si curano, riorganizzano le finanze.
Ora hanno dimostrato che possono
scendere in campo anche qui.
chi dare retta, in una guerra, come quella afghana,
in cui notizie vere o presunte contano più dei fatti, e in
cui la propaganda è spesso più efficace di droni e attacchi suicidi?
Dopo l’annuncio dell’uccisione
di Osama bin Laden, che continua ad alimentare i sospetti dei
complottisti, la posta in gioco
ora è la sorte del mullah Omar, il
leader dei Talebani e della shura
di Quetta, l’organo politico degli
studenti coranici.
Secondo quanto riferito ieri all’emittente televisiva Tolo da un
anonimo funzionario dell’Afghan National Directorate of Security (Nds), il servizio segreto afghano, il mullah Omar sarebbe
stato fatto fuori. Ad ucciderlo,
l’Isi, il servizio segreto pakistano,
aiutato dal network di Jalaluddin
Haqqani, un gruppo affiliato alla
galassia taleban e accusato di alcuni dei crimini più efferati compiuti sul suolo afghano.
La fonte anonima, non ha avuto per ora conferme: lo stesso
portavoce dei servizi segreti afghani, Lutfullah Mashal, ieri ha
detto di non poter certificare la
morte del mullah Omar. Aggiungendo però che tre giorni fa l’Isi
avrebbe trasferito il leader dei taleban da Quetta, nel Belucistan,
nel Nord Waziristan, una delle zone in cui i gruppi jihadisti operano indisturbatamente.
A guidare l’operazione, secondo Lutfullah Mashal, sarebbe stato il generale Hameed Gul, già a
capo dei servizi pakistani, e uno
degli uomini cardine nella promiscuità, costruita negli ultimi due
decenni, tra l’intelligence del «paese dei puri» e i movimenti antigovernativi che turbano le notti
del presidente Karzai e dei generali a stelle e strisce. Da parte
sua, il generale Gul ha subito
smentito, sostenendo di non
aver mai incontrato in vita sua il
mullah Omar. E lasciando intendere che a lasciar trapelare la notizia potrebbero essere stati gli
americani, per chiudere il cerchio della partita – dopo l’annuncio della morte di bin Laden – e
proseguire, con margini di manovra più ampi, nel graduale disimpegno militare previsto dal presidente Obama.
Anche i Taleban, con un comunicato postato sul sito ufficiale
dell’Emirato islamico d’Afghanistan, smentiscono: il mullah
Omar, questo il messaggio del
portavoce Zabihullah Mujahid,
continua a guidare le operazioni
dei mujahedin, e lo farà con una
determinazione che non verrà
compromessa «da mere bugie e
propaganda», diffuse dai media
per «sollevare il morale delle truppe internazionali» come antidoto rispetto al successo dell’offensiva di primavera lanciata dai turbanti neri il 2 maggio.
Per ora, anche dall’Isaf fanno
sapere di non poter confermare.
Mentre gli analisti si interrogano
sulle ragioni dell’annuncio: una
polpetta avvelenata lanciata dai
servizi afghani per screditare ulteriormente i loro omologhi pakistani? Oppure i pakistani sono rimasti col «cerino in mano», mentre stavano preparando un annuncio in grande stile dell’uccisione del mullah, concordata
con gli americani in cambio di
un posto in prima fila nel tavolo
negoziale tra Stati uniti e taleban? Per ora, domande senza risposta.
USA/M.O. · Obama all’Aipac, la potente lobby filo-Israele: «Il patto Hamas-Fatah contro la pace»
Il presidente Usa cede a Netanyahu
e gela le speranze dei palestinesi
Michele Giorgio
GERUSALEMME
È
un pugile a metà il presidente dell’Anp
Abu Mazen. In attacco non riesce a combinare un granché ma, in compenso, è
un buon incassatore. Pochi avrebbero assorbito, come ha fatto lui, i colpi bassi che gli ha sferrato tra giovedì e domenica Barack Obama. Il discorso pronunciato domenica dal presidente
americano davanti all’Aipac, la più influente delle lobby statunitensi filo-Israele, lo ha messo alle corde ma non l’ha mandato ko. Così da due
giorni Abu Mazen esorta il suo entourage a non
criticare pubblicamente il discorso di Obama,
in «attesa di capire».
Riprendersi da una batosta del genere però
non sarà semplice anche per il fin troppo accomodante leader dell’Anp. In giro si legge di «confronto acceso» e di «tensione» tra il presidente
americano e il premier israeliano Netanyahu
sulla questione del ritiro di Israele «alle linee del
1967». Ma alla Muqata di Ramallah sanno bene
che Obama, più di ogni altra cosa, ha stroncato
le velleità dei palestinesi di giocare ad armi pari
una partita che il governo israeliano vuole vincere con un netto 5 a 0 e non con un sofferto 2 a 1,
fidando sull’arbitraggio americano.
No alla riconciliazione nazionale palestinese,
no alla proclamazione dello Stato di Palestina il
prossimo settembre all’Onu, sì all’annessione
ad Israele di porzioni della Cisgiordania occupata, no al «diritto al ritorno» per i profughi palestinesi. Questo il succo del discorso di Obama che
domenica non ha mai pronunciato la parola
«occupazione», assai indigesta ai delegati dell’Aipac, e neppure «colonie». E se venerdì Netanyahu era apparso teso al termine dell’incontro
alla Casa Bianca, ieri sera intervenendo a sua
WASHINGTON, IL PRESIDENTE OBAMA ALL’AIPAC/FOTO REUTERS
volta di fronte all’Aipac era sereno e tranquillo e
ha calcato la mano solo per ribadire i punti fermi della sua linea contro l’Iran.
Obama è apparso così soft con Israele che i
coloni e i rappresentanti dell’estrema destra
quasi ci sono rimasti male. Si preparavano a proteste, ad alzare la voce, a lanciare anatemi e invece hanno capito che possono starsene tranquilli nelle loro case nei Territori occupati. Ieri
Tzvi Ben Gedalyahu, firma nota del giornalismo
vicino all’estrema destra, ha sottolineato sul sito di Arutz7 (la radio dei coloni) che Israele ha
approvato circa 2 mila nuovi alloggi per coloni
in Cisgiordania e a Gerusalemme Est (1.550 a Pisgat Zeev e Har Homa, 294 a Beitar Illit) proprio
nei giorni della visita di Netanyahu negli Usa e
Washington non ha fiatato.
«L’autorizzazione di queste nuove costruzioni è un messaggio per il mondo intero», ha det-
to alla radio statale Yair Gabai, della commissione del ministero dell’interno responsabile per le
autorizzazioni per l’edilizia.
Nel weekend il conservatore Wall Street Journal ha riportato il malumore che regna tra diversi «donatori» ebrei americani, generato dalle
pressioni che il presidente aveva fatto su Israele
per fermare la colonizzazione (illegale secondo
le leggi internazioali) delle terre palestinesi.
Prima del discorso all’Aipac uno dei democratici responsabili per la raccolta dei fondi, Michael Adler, aveva esortato il campaign manager di
Obama, Jim Messina, a lavorare per eliminare
l’immagine di un presidente «troppo critico»
nei confronti di Israele.
Robert Copeland, un ricco e storico finanziatore dei democratici, avrebbe deciso di non votare ancora per Obama nel 2012. «Mi ha deluso
molto – ha spiegato Copeland al Wsj riferendosi
al presidente – la sua Amministrazione è stata
fallimentare nei rapporti con Israele».
Da parte sua Malcolm I. Hoenlein, vice presidente della «Conference of Presidents of Major
American Jewish Organizations», prevedeva
qualche giorno fa problemi per il finanziamento della campagna di Obama. «Non ho dubbi
sull’impegno dell’Amministrazione verso (la sicurezza di) Israele ma la Casa Bianca deve migliorare la sua comunicazione», aveva spiegato.
Obama ha rassicurato gli americani ebrei e
Israele con il suo discorso all’Aipac? In parte sì,
ma Netanyahu da lui vuole di più. Il vero test
perciò sarà l’annuncio della visita, la prossima
estate, del presidente americano a Gerusalemme.
In quell’occasione potrebbe affermare un sostegno senza precedenti alle posizioni di Israele, isolando ancora di più il governo palestinese
(forse) di unità nazionale.
SIRIA
Nuove sanzioni Ue
contro Assad
I ministri degli esteri dell'Unione
europea hanno approvato ieri
nuove sanzioni contro la Siria,
estendendo il bando dei visti e il
congelamento dei beni al presidente Bashar al Assad e ad altre
nove personalità del regime, «alla
luce della continua repressione
contro la popolazione civile». La
Ue ha esortato le autorità siriane
«a rispondere alle legittime richieste del popolo», promuovendo
«un dialogo nazionale inclusivo e
sincero» e mettendo in atto «senza rinvii e attraverso un calendario concreto riforme politiche significative»: l'unico modo «per
iniziare una transizione pacifica
verso la democrazia e per dare
stabilità alla Siria nel lungo periodo». In risposta, il governo siriano ha condannato le decisioni
Ue, rivolte - ha dichiarato - «contro il popolo siriano proprio nel
momento in cui si sta impegnando per salvaguardare la sicurezza
del paese e per avviare un dialogo nazionale e inclusivo». Un dialoto - aggiunto - «che porti a conclusione i piani di riforme economiche, politiche e sociali secondo la tabella di marcia stabilita».
Per la Siria, le sanzioni dell'Unione europea e quelle annunciate
dagli Stati uniti, costituiscono
una «ingerenza inaccettabile negli affari interni e un tentativo di
mettere a rischio la sicurezza del
paese». L'accusa viene rivolta in
particolare alla Gran Bretagna e
alla Francia, «due Paesi che hanno un noto passato colonialista»,
e che hanno «svolto un ruolo fondamentale per l'applicazione di
queste sanzioni». La Siria ribadisce comunque «la propria intenzione a completare i piani di riforma» e a mantenere inalterata «la
linea d’azione del governo».
TURCHIA
Scoperto attentato
contro Erdogan
La gendarmeria turca ha scoperto 36 kg di esplosivo piazzati sotto un ponte dell'autostrada per
Sirnak (una provincia del sudest), nel tratto in cui avrebbe dovuto transitare il premier Recep
Tayyip Erdogan. Una segnalazione anonima ha invece consentito
ai gendarmi di trovare l'esplosivo
collegato a un comando a distanza sotto il ponte Sogutcay. Secondo i media locali, l'ordigno avrebbe dovuto esplodere al passaggio
del convoglio del primo ministro,
che ieri sera doveva tenere due
comizi elettorali a Sirnak e Batman in vista del voto del 12 giugno. Gli inquirenti hanno nuovamente attribuito il fallito attentato ai separatisti kurdi del Pkk.
ARABIA SAUDITA
Incriminata
donna al volante
La giovane femminista saudita
Manal al-Charif, arrestata sabato
a Khobar (nell’est del paese), è
stata incriminata per aver «incitato le donne» a mettersi al volante. Manal, un'informatica di 32
anni, era stata arrestata dopo
aver diffuso un video su Facebook e Youtube, che sfidava il
divieto di guidare imposto alle
donne. Liberata qualche ora più
tardi, è stata arrestata di nuovo
l’altroieri mattina all'alba, e secondo il suo avvocato, dovrebbe
restare in carcere per cinque giorni, per permettere lo svolgimento
delle indagini. Nel video diffuso
su Youtube, Manal affermava che
«nessuna legge islamica proibisce
alle donne di guidare», aggiungendo che il divieto è frutto del
regime ultraconservatore. Le femministe hanno chiesto al re Abdallah di intervenire in favore di Manal e dai social network hanno
rivolto un appello a tutte le saudite a sfilare al volante delle loro
auto il 17 giugno.
pagina 8
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
MADRID REAL
Spagna •
Non è stato il Pp di Riajoy a vincere le elezioni amministrative di domenica
ma il Psoe di Zapatero a perderle per la sua sciagurata gestione delle crisi
Indignati
E ora
che si fa?
Il movimento M-15 della Puerta del
sol accoglie con circospezione la
notizia della valanga Pp e decide di
andare avanti con la «acampada»
almeno fino a domenica prossima
Daniele Adornato
MADRID
I
l 22-M (qui in Spagna si mette una
sigla a tutto), il giorno delle elezioni
amministrative, è piombato sul
15-M, il movimento degli indignati partito il 15 maggio, che ha ricevuto la notizia dello schiacciante trionfo del Partido popular con un certo distacco.
Da una parte, domenica problemi e
preoccupazioni sembravano essere altri. La logistica, da un lato, e le proposte
politiche, dall’altro. Tutti sono d’accordo a continuare con la protesta e la
acampada anche dopo il giorno del voto di domenica scorsa almeno fino a domenica prossima, ma temono un riflusso (fisiologico) dopo le elezioni – e in alcune zone, per il caldo feroce. Ci si chiede poi se le forze dell’ordine saranno ancora così concilianti come nella settimana prima dell’appuntamento elettorale,
o di fronte a una diminuizione dei presenti, interverranno per far gomberare
la piazza di Madrid e delle altre città. E
poi, come dar corpo alle tante proposte
partorite in questi giorni, o come snellire le procedure di decisione delle assemblee, aperte e orizzontali, quando
in piazza si può arrivarea ad avere fino
a 25 mila persone.
Insomma, una forte preoccuapazione riguarda come si articolerà il movimento. Per molti poi, anche se non per
tutti, i due partiti si equivalgono (e vengono uniti nella sigla «PPSOE»), la vittoria di uno piuttosto che dell’altro non fa
quasi differenza. Però il movimento è
abbastanza variegato (vi si incontrano
anche scontenti di centro-destra), e proprio in nome della sua spontaneità e libertà, sabato e domenica in tutte le
piazze di Spagna non si è fatto nessun
appello a questo o a quel voto, ma volontari del movimento hanno spiegato
ai manifestanti tutte le diverse opzioni:
votare un partito, in bianco, nullo, o
astenersi.
In che modo quindi si possono valutare gli effetti del 15-M su queste elezioni? Se volessimo giudicarlo con il metro
dell’astensione, l’opzione apparentemente più diffusa a Sol, anche se non la
unica, questa è stata in linea con le precedenti amministrative di quattro anni
fa, anzi, è diminuita leggermente (passando dal 36,1 al 33,8%). La protesta
contro il bipartitismo potrebbe, ma appare difficile, aver favorito a Madrid il
partito fondato da una transfuga del
Psoe, Unión Pueblo y Democracia
(UpyD), populista nella sua essenza,
che ha raccolto l’8%, quadruplicando la
media nazionale.
Il risultato del Psoe lascia capire che
molti, presenti o simpatizzanti, erano
elettori delusi del partito di Zapatero.
Izquierda unida ha beneficiato certo di
questo, ottenenendo 200 mila voti in
più rispetto alle ultime amministrative,
passando da dal 5,5 al 6,3%. Ma è sempre poca roba, rispetto alla ondata popular. E la stessa Iu non ha molto di cui
GLI INDIGNATI ALLA SAPIENZA
Gli studenti spagnoli in Erasmus a Roma incontreranno i movimenti degli studenti italiani oggi
alle 18 alla facoltà di Fisica della Sapienza. Il
29 maggio sfileranno insieme in corteo a piazza
di Spagna, come hanno già fatto spontaneamente centinaia di ragazze e ragazzi iberici sabato e domenica scorsi in solidarietà con il movimento «Democracia Real Ya» che ha piantato
le tende in piazza Puerta del Sol a Madrid ed è
dilagato in pochissimi giorni in tutta la Spagna.
LA DESTRA ULTRÀ XENOFOBA
A Madrid, in Catalogna e Valencia
partitini anti-immigrati crescono
La destra xenofoba si è aperta un varco nelle elezioni di domenica. Un varco piccolo ma un varco, maggiore che nelle elezioni
amministrative del 2007. Diversi partitini ultrà hanno eletto consiglieri in diversi municipi, specie nelle regioni di Madrid e della
Catalogna. La «Falange española de las Jons» (FE) e «Alternativa
Española» (AES) hanno avuto domenica 11.162 voti, lo 0.34%, «España 2000» ha avuto 4.400 voti nel
municipio madrileno Alacalá de Henares, il terzo più popoloso della Comunidad di Madrid (e con un’alta
presenza di immigrati). Lo slogan della campagna elettorale di questo partito era «Ni uno más. Los
españoles primero» (ricorda qualcosa?). Il leader di «Democracia nacional», altro partito xenofobo, Rafael Ripoll, spiega che «siamo un gruppo di patrioti spagnoli che vogliamo ridare la città agli spagnoli, che
si sentono assediati dall’immigrazione». A livello nazionale «España 2000» ha avuto una presenza preoccupante, soprattutto nella Comunidad valenciana (12.200 voti) divenendo la sesta forza politica della
regione. Un’altro partito ultrà è «Plataforma Catalunya» che nei diversi municipi della regione è passata
da 17 consiglieri comunali e 67.Vic, un Comune che si era già fatto una fama per aver deciso di negare
l’iscrizione degli immigrati irregolari alle liste comunali per la scuola e l’assistenza medica (decisione poi
revocata ma non per questo meno grave), è il posto in cui è più cresciuta «Plataforma x Catalunya»: era
già la seconda forza politica municipale prima delle elezioni con 4 consiglieri comunali, ora ne ha 5.
giore. La speranza di diventare un partito cerniera necessario per eventuali alleanze nei diversi municipi e regioni con
il Psoe, si è sgretolata sotto l’onda d’urto della marea azzurra popular (a parte
nella sola Extremadura). E con una nota particolarmente dolorosa: la perdita
di Córdoba, l’unica capitale di provincia governata dal partito, nota come il
califfato rosso, (in ricordo dello splendente califfato Omeiade) per la sua fedeltà a Iu e patria dello storico leader Julio Anguita. Iu non solo ha perso la città, ma è passata ad essere dalla prima alla terza forza. Dietro il Pp, e dietro la lista civica guidata dall’imprenditore Rafael Gómez, noto come Sandokán, al
centro di un enorme scandalo di corruzione per il quale è stato multato dal
proprio comune di Córdoba, ma che
non sembra avere influito sugli elettori
(come in altre parti del paese che non
hanno affatto penalizzato i candidati
sotto inchiesto o sotto processo).
La presenza di vari imputati nelle liste elettorali, qualcosa di non così comune in Spagna come da noi in Italia,
era stata uno dei detonanti della mobilitazione di questi giorni. Eppure, se è
certo che c’è una parte del paese che si
sdegna per tutto questo (le proposte
presentate nelle assemblee degli indiganti in questi giorni per evitare che un
imputato possa presentarsi a un’elezione sono tantissime), è evidente che a
un’altra parte dell’opinione pubblica
spagnola, in questo caso maggioritaria,
non importa molto: l’altra faccia della
medaglia di un paese che sembra avvicinarsi terribilmente al modello italiano.
Francisco Paco Camps, riconfermato
presidente della Comunidad di Valencia, coinvolto in un colossale caso di
corruzione e concorsi truccati, noto come «caso Gürtel» (che ha riguardato addirittura la visita del papa a Valencia),
non solo non ha pagato scotto, ma ha
addirittura visto aumentare i suoi voti.
E come lui, moltri altri candidati del Pp,
a Madrid per esempio, o nella settentrionale regione delle Asturie.
Tutto ciò sembra animare ancora di
più il 15-M, è un nuovo stimolo alla lotta. Come canta il famoso cantautore Joaquín Sabina, idolo della sinistra, Nos
sobran los motivos (abbiamo motivi in
eccesso) per sdegnarsi, protestare, proporre, e per riprendersi la calle.
Ma il momento più difficile per gli indignati viene adesso.
Eduardo Galeano
A Vázquez Montalbán e al Barça
Questo è il discorso che Eduardo Galeano, grande scrittore e giornalista uruguayano, pronuncerà oggi quando il Fútbol Club Barcelona gli consegnerà il Premio Manuel Vázquez Montalbán,
il grande scrittore e giornalista catalano morto
all’improvviso nel 2003, a Barcellona nel palazzo delle Generalitat.
ché non c’è da fidarsi dei solenni gentiluomini,
né delle dame esemplari che non sono capaci
di prendersi in giro: e né Manolo né io confondiamo la noia con la serietà, come capita anche
ad altri colleghi di idee politiche analoghe alle
nostre.
E prego notare che non parlo al presente per
errore né per distrazione, bensì perché fonti
ben informate mi hanno assicurato che la morte non è altro che uno scherzo di cattivo gusto.
Voglio dedicare questo premio alla memoria
di Josep Sunyol, il presidente del Barça che nel
1936 fu assassinato dai nemici della democrazia.
E un altro ambito condiviso, molto importanE voglio anche rendere omaggio agli sportivi
te per entrambi: la rivendicazione della buona
pellegrini, che un anno docucina come una celebraziopo, nel 1937, si fecero carico
ne della diversità culturale.
Il testo del discorso
della dignità, ferita ma viva,
Diceva bene Antonio Madi tutta la Spagna. Mi riferichado che adesso qualsiasi
di Eduardo Galeano
sco ai giocatori del Barça,
sciocco confonde il valore
insignito oggi
che nel 1937, viaggiarono in
con il prezzo, e quell’adesso
lungo e in largo per gli Stati
del poeta è anche il nostro
a Barcellona
uniti e il Messico, disputanto
adesso, perché lo stesso capidel premio dedicato
partite di calcio a beneficio
ta nei nostri giorni.
della repubblica, e alla seleLa miglior cucina non è la
allo scrittore catalano
zione di giocatori baschi che
più cara, e ben ha detto Mamorto nel 2003
fece lo stesso in diversi paesi
nolo che spesso accade che
euriopei.
la cucina più cara non è altro
Per loro ricevere questo premio mi emozioche una trappola per gonzi.
na, per loro e anche per i giocatori del Barça dei
E anch’io credo, come lui, che il diritto all’aunostri giorni, degni eredi del Barça di quegli antodeterminazione dei popoli include il diritto alni: questo premio, se non bastasse, porta il nol’autodeterminazione dello stomaco. Ed è più
me del mio carissimo amico Manolo Vázquez
che mai necessario difendere questo diritto, soMontalbán.
prattutto adesso, di questi tempi di macdonalizCon lui abbiamo condiviso diverse passioni.
zazione coatta del mondo, ogni volta più difforCalciofili entrambi, ed entrambi mancini,
me nelle opportunità che offre e ogni volta più
mancini per pensare, credevamo che il miglior
uniforme nelle abitudini che impone.
modo di giocare a sinistra consistesse nel rivendicare la libertà di coloro hanno il coraggio di
E qui mi fermo. Perché so che quando bevo
giocare per il piacere di giocare in un mondo
troppo corro il grave rischio di dire stupidaggiche obbliga a giocare per il dovere di vincere. E
ni, e ho voluto alzare queste parole come fossesu quella strada abbiamo cercato di combattere
ro calici di vino, un buon vino rosso dei vostri,
i pregiudizi di molta gente di destra, che crede
per brindare con Manolo e a Manolo: un modo
che il popolo pensi con i piedi, e anche i pregiudi bere alla dignità umana e alla solidarietà,
dizi di molti compagni di sinistra, che credono
al piacere di giocare e alla allegria di vedere
che sia il calcio il colpevole se molta gente non
giocare quando si gioca pulito,
pensa.
all’allegria di ritrovarci insieme e al pane e vino condivisi,
Siamo uguali, Manolo e io, anche nel piacere
ai soli che ogni notte nasconde,
dell’ironia e della risata franca e di tutte le fore a tutte le passioni, a volte dolorose, che indime di humor, nel nostro modo di dire quello
cano la strada e il senso al viaggio umano, alche pensiamo e quello che sentiamo, negli artil’umano andare,
coli e nei libri e nelle chiacchere da caffé. Peral vent del món, il vento del mondo.
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
pagina 9
MADRID REAL
25%
Il clamoroso risultato di Bildu,
la coalizione «abertzale» in Euskadi
9
i punti percentuali persi dai socialisti
rispetto alle amministrative del 2007
ZAPATERO · Dice che arriverà alle politiche del 2012. Rajoy chiede il voto anticipato
GERMANIA-REGIONALI
Il giorno dopo lo tsunami
A Brema volano
i Verdi. Puniti
Cdu e liberali
Maurizio Matteuzzi
L’
UN RISVEGLIO "ELETTORALE"
A PUERTA DEL SOL:
«I NOSTRI SOGNI NON C’ENTRANO
NELLE VOSTRE URNE» /FOTO REUTERS
immagine della (annunciata) debacle socialista del 22 maggio è
quella di un uomo (Zapatero) che
sa che sta per arrivare lo tsunami sulla
spiaggia in cui vive ma sa di non poter fuggire, e quindi aspetta l’onda. L’onda, anomala se non altro per le sue dimensioni, è
arrivata e ha spazzato via l’uomo e il suo
partito. Il Partido socialista obrero español.
Che ha subito la peggior batosta da quando la Spagna tornò alla democrazia, nel
’75, regalando al centro-destra fino a ieri
d’opposizione, il Partido popular, oggi il
controllo del paese a livello locale - i municipi e la comunidades, le regioni autonome
- e domani (nel marzo 2012, elezioni politiche) quello delle Cortes, il parlamento.
Il disastro dei socialisti era atteso - e meritato - ma è la sua dimensione che spaventa. Ieri Mariano Rajoy, lo squallidissimo leader del Pp, ha già chiesto di nuovo «elezioni anticipate», perché i «populares possano
tirar fuori la Spagna dalla crisi» che ha affogato Zapatero. Balle, naturalmente, perché
il Pp non ha proposte alternative credibili,
di fronte alla crisi, al «mercato» che reclama altri aggiustamenti, a quelle accettate
sciaguratamente da Zapatero. Ha solo
«mas de lo mismo», più della stessa ricetta.
La dimensione della batosta è resa ancora più drammatica dal fatto che non è il Pp
ad aver vinto il voto di domenica ma il
Psoe ad averle perse. Il Pp ha avuto il 37% e
meno di due punti in più rispetto alle amministrative del 2007. E’ stato il Psoe a finire dietro di 9 punti (28%).
L’unico vero risultato di Riajoy è stato essere riuscito a fare delle elezioni amministrative di domenica una sorta di primo turno delle politiche dell’anno prossimo (o
prima, perché non è affatto detto che con
un governo centrale così debole e una crisi
economico-sociale così forte, Zapatero arrivi al marzo 2012, anche se ieri, the day after, ha ripetuto per l’ennesima volta di voler arrivare fino in fondo al suo Golgota). I
socialisti hanno cercato invano di fermare
la valanga in arrivo riportando il voto alle
sue dimensioni «locali». I «baroni» regionali del Psoe, vedendo evaporare il loro potere in loco, hanno preteso che Zapatero annunciasse l’intenzione di non ripresentarsi
per un terzo mandato nel 2012. Non è servito a nulla. Riajoy e compagnia bella (anzi
brutta, perché il centro-destra spagnolo
molto spesso è molto più destra, con punte cavernicole, che centro) bastava che
chiedessero alla folla nei loro comizi: chi
ha congelato le pensioni? Chi ha tagliato i
salari del pubblico impiego? Chi ha portato
ai quasi 5 milioni di disoccupati? Chi ha innalzato l’Iva? Chi ha cancellato il sussidio
dei 400 euro per ogni figlio nato? La risposta era scontata: Zapatero.
A Zapatero l’elettorato spagnolo, non solo quello di destra ma anche quello di sinistra, ha presentato domenica la fattura di
una gestione sciagurata della crisi economica piombata in Spagna alla fine del
2008, solo pochi mesi dopo la sua riconferma alla guida del paese nelle elezioni di
marzo.
Ora Zapatero è bruciato e il Psoe ha perso tutto. Bastioni storici come Castilla-La
Mancha, Barcellona (il sindaco da 32 anni
era socialista), Siviglia, i Paesi baschi (dove
la coalizione Bildu della sinistra abertzale,
appena riammessa al consesso elettorale
ha avuto un clamoroso 25%). Prima di domenica il Psoe governava in 9 delle 17 regioni spagnole. Ora gliene rimane (forse)
solo una, la Extremadura, e le altre che aveva le ha mantenute solo perché non si è votato (la Catalogna l’ha persa in novembre,
l’Andalusia la perderà in marzo).
A parte Bildu, che ha beneficiato della
tregua proclamata dall’Eta ma che sarà un
fattore di ulteriore complicazione per il governo centrale, l’altra grande novità del 22
marzo era il movimento degli indignati. In
apparenza non ha avuto molta influenza
immediata sul voto: l’astensione è diminuita, i voti bianchi e nulli aumentati ma non
in modo significativo. E il vincitore, il Pp, è
quanto di più lontano ci possa essere dalle
richieste della «repubblica della Puerta del
sol». Neanche la Izquierda unida è riuscita
a intercettare la protesta. E’ aumentata di
200 mila voti e di un punto (dal 5 al 6%),
dando segni di vita, ma ha perso la sua città-simbolo - Cordoba, passata alla destra -,
anche se spera di poter fungere da cerniera
in certi municipi e regioni per tirare a sinistra il Psoe. Si vedrà cosa succede. Per ora
lo tsunami ha travolto il Psoe, come annunciato, ma il naufrago Zapatero sembra deciso ad andare avanti con la sua ricetta neoliberista di risposta alla crisi. Masochista fino in fondo.
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Guido Ambrosino
BERLINO
L
a regione di Brema, il Land più
piccolo con meno di 700mila
abitanti, non è rappresentativa
della media federale. Sempre governata da borgomastri socialdemocratici,
sin dal 1946, costituisce piuttosto
un’anomalia. Ma, pur considerando
le specificità di questa città anseatica,
che come Amburgo non è mai stata
soggetta a sovrani, il voto di domenica conferma due trend comuni a tutte le elezioni regionali del 2011: perde
terreno lo schieramento di centro-destra della cancelliera Angela Merkel, e
tra le forze d’opposizione avanzano alla grande i verdi. La chiusura delle
centrali nucleari resta il tema che più
appassiona gli elettori.
A Brema, dove già governavano insieme ai socialdemocratici, i verdi sono balzati al 22,5% (+6 punti), affermandosi come secondo partito. Hanno infatti per la prima volta sorpassato la Cdu, scesa al 20,4% (-5,2). Al primo posto si confermano i socialdemocratici, con il 38,7% (+2): potevano
contare sulla popolarità del borgomastro Jens Böhrnsen, politico «serio» e
di poche parole. I liberali al 2,4%
(-3,6) scompaiono dal Landtag. Il socialisti della Linke, bloccati da paralizzanti controversie tra le loro correnti,
riescono a rimanere nel parlamento
regionale col 5,7%, ma perdono 2,7
punti rispetto all’8,4% del 2007.
I dati sono ancora una proiezione,
aggiornata alle 16.30 di ieri, e la mancanza di un risultato definitivo dipende da un nuovo complicatissimo sistema elettorale. Ogni elettore può segnare cinque croci sulla scheda per il
parlamento regionale e altre cinque
su quella per le assemblee comunali.
Può concentrare i cinque voti su una
lista, se approva l’ordine di collocazione dei candidati, o assegnarli a singoli
candidati, se vuole promuovere quelli
agli ultimi posti. Può anche distribuire i voti su simboli diversi, e su candidati di diverse liste. La ripartizione
proporzionale dei seggi vien fatta in
base alla somma di tutti i voti di lista e
delle preferenze personali (conteggiate come voti a favore delle liste).
Per contare questo vero e proprio
mare di croci occorrerà attendere fino a mercoledì, fino a venerdi per i
municipi di quartiere. Di solito in Germania, dove i seggi si chiudono sempre alle 18, i risultati definitivi arrivano già intorno alla mezzanotte della
domenica elettorale.
Quest’anno si poteva votare a partire dai 16 anni. L’innovazione non è
servita a migliorare la partecipazione
al voto. Anzi, la percentuale dei votanti sui 494mila elettori si è ulteriormente abbassata dal 58,6 al 56,5%. Insieme all’astensione aumenta la quota
di quanti, intervistati dagli istituti demoscopici, dichiarano di non identificarsi in nessun partito. Tra i giovanissimi che sono andati a votare l’opzione per i verdi sale al 34%.
Il voto a Brema è il quinto test regionale del 2011. A settembre seguiranno altre due regioni, il Meckelenburg
e Berlino. Le elezioni sono state una
via crucis per Merkel, a cominciare da
quella del 2 febbraio a Amburgo, dove la Cdu ha dovuto cedere alla Spd la
poltrona del borgomastro e ha dimezzato i voti, fermandosi al 21,9%
(-20,6). Nelle tre regioni dove si è votato a marzo, solo in Renania-Palatinato, passata da un governo a magioranza assoluta della Spd a una coalizione
rosso-verde, la Cdu ha potuto migliorare di 2,4 punti il suo quoziente. Magra consolazione in confronto ai 3,7
punti persi in Sassonia-Anhalt e soprattutto alla storica debacle del 27
marzo in Baden-Württemberg, storica roccaforte democristiana, regione
ora governata da un ministro-presidente verde in coalizione con la Spd.
Quanto ai liberali, sono rimasti sotto
la soglia di sbarramento, oltre a Brema, anche a Stoccarda e a Mainz.
pagina 10
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
CULTURA
IL CAPITALE D’ITALIA
Paolo Cantelli
e Leonardo Paggi
C
risi della nazione o crisi della democrazia? È la domanda che ci si
pone domanda a proposito dell’insorgere di una questione settentrionale, che continua ad improntare tutti
gli sviluppi politici del paese. La nostra risposta è assai netta. All’inizio degli anni
Novanta una parte importante e rappresentativa della storiografia italiana interpreta l’insorgere di spinte separatiste come segno di una crisi della identità nazionale riconducibile in ultima analisi alla Resistenza e alla scarsa rappresentatività politica dell’antifascismo. Il tema, rimasto da allora in vigore, ha influenzato
notevolmente la stessa impostazione delle celebrazioni del 150esimo anniversiario dell’Unità d’Italia. Le divisioni e le
fratture che squassano il paese vanno
cercate altrove, ossia in una crisi profonda della democrazia repubblicana che
prende inequivocabilmente le mosse
dai primi anni Ottanta e che è tuttora in
pieno svolgimento.
L’attuale disagio, in altri termini, più
che del risorgere di una carenza identitaria del paese, ci parla di una crisi profonda dell’unità nazionale, che non nasce
da stagnazione, ma da un incalzante sviluppo del capitalismo internazionale
che è venuto mutando tutte le regole del
gioco su cui si era fondata la nostra democrazia repubblicana, e a cui il paese
non è riuscito a dare risposte adeguate.
Un lettore assai attento, Massimo
D’Angelillo, ha felicemente riformulato
per suo conto il tema parlando di una crisi del ruolo unitario svolto dall’asse Roma-Milano, inteso non solo come luogo
di cooperazione attiva tra l’economia e
la politica, ma anche come luogo di gravitazione delle più importanti realtà regionali del paese. La descrizione delle
forme di crisi dell’unità nazionale non
può non procedere se non attraverso
una ricognizione dello stato della coesione territoriale che della coesione sociale.
Per quanto riguarda il primo punto
l’analisi intende mettere a fuoco una profonda metamorfosi del capitalismo italiano che rappresenta la variante nazionale di quella evoluzione internazionale
che si è soliti definire con il termine convenzionale, anche se forse assai riduttivo ed improprio, di postfordismo
La globalizzazione che avanza
È noto che gli anni Ottanta vedono il tracollo della grande impresa italiana, che
è stata la protagonista del nostro «miracolo economico». Forse minore attenzione è stata dedicata al fatto che il fenomeno si produce in un contesto evolutivo
internazionale segnato da un eccezionale sviluppo della finanza d’impresa.
Takeover e Leveraged buyout sono le due
forme in cui, passando attraverso un
enorme indebitamento societario, si procede ovunque, a partire dagli Usa, verso
la concentrazione del potere di controllo delle imprese. Non è questo il risultato che viene conseguito dai grandi gruppi italiani, che non riescono a trasformare l’indebitamento in crescita. Il tentativo di procedere sulla strada della internazionalizzazione si scontra con una struttura proprietaria di tipo familiare. È questo il caso della Fiat, ma anche di De Benedetti, Montedison, Pirelli. Il fallito tentativo dei grandi gruppi di inserirsi in un
trend evolutivo di tipo internazionale si
rovescia per l’Italia in un perdita secca
di capacità e di potenzialità produttiva.
Il risultato è tanto più grave in quanto si
accompagna al fenomeno coevo, questo
invece essenzialmente italiano, di una
progressiva perdita del ruolo strategico
della impresa pubblica, fino al suo definitivo esautoramento, soprattutto in quanto soggetto di politica economica, con le
privatizzazione degli anni Novanta. È tutta una fase dello sviluppo postbellico
che si chiude.
Sarebbe tuttavia errato dedurre da qui
un quadro di deindustrializzazione del
paese. Il prodotto manifatturiero cresce
negli anni Ottanta. La piccola impresa,
precedentemente concentrata in quella
che fu chiamata già negli anni Settanta
la «Terza Italia», si diffonde a macchia
d’olio in aree sempre più vaste del territorio nazionale, sia a Nord che a Sud . Rispetto ad una letteratura sociologica di
indubbio valore (per quanto riguarda
l’Italia basti fare i nomi di Giacomo Becattini, Sebastiano Brusco, Arnaldo Bagnasco, Carlo Trigilia, Aldo Bonomi) il
problema che ci appassiona, e per cui
non abbiamo ancora una risposta esau-
La crisi della coesione territoriale e della democrazia
è fortemente intrecciata con il declino del capitalismo familiare,
incapace di fronteggiare i problemi posti al sistema economico
e politico dalla globalizzazione. Da domani un convegno a Roma
Una Costituzione
messa alla gogna
riente, è quello di comprendere come
un fenomeno di indubbia crescita si rovesci in una destabilizzazione degli equilibri democratici del paese e in una attenuazione della consapevolezza dei vincoli unitari, che ha nella insorgenza della questione settentrionale il suo epicentro maggiore.
Per quanto riguarda la ricerca delle
cause che stanno a monte di una abnorme proliferazione di piccola impresa, importante è la sottolineatura che è stata
fatta nei commenti di Alberto Bruschini
sul ruolo incentivante della evasione fiscale, intesa quest’ultima come tratto
strutturale dell’economia italiana a partire dagli anni Cinquanta. Forse anche
per questo il fenomeno della piccola impresa, in tempi non lontani vagheggiata
da settori qualificati della teoria economica, e spesso assunta dallo stesso movimento operaio in chiave di politica di alleanze, finisce a partire dagli anni Novanta per fungere da pilastro di una politica
di aperta e dichiarata rivolta fiscale.
IMMAGINE TRATTA DA ALBUM TRA DUE SECOLI. 1750-1850
Sotto l’ombrello europeo
Un benessere a rischio
Con tutte le loro deformazioni, gli anni
Ottanta sono ancora anni di crescita e
tuttavia, nello stesso tempo, anche gli anni delle occasioni mancate. Esemplificativo è in questo senso il confronto con le
vicende dei maggiori paesi europei nel
corso dello stesso decennio. Dinanzi ai
grandi mutamenti nella divisione internazionale del lavoro per il risveglio dell’Asia, da un lato la scelta conseguente
di una economia di servizi all’impresa
fatta dall’Inghilterra, dall’altro la risposta tedesca fondata su una qualificazione e una innovazione estrema del manifatturiero. L’Italia non sceglie la strada
di una innovazione di prodotto e di processo, ma si limita a compiacersi del ruolo progressivo del Made in Italy. Proprio
qui la manifestazione più evidente di
una crisi ormai matura della nostra classe dirigente sia economica che politica.
Ne sono una riprova gli svolgimenti degli anni Novanta.
Nella nostra ricostruzione storica gli
anni Ottanta sono il periodo di incubazione di una crisi economica e politica
che esplode alla luce del sole nel decen-
INCONTRI
L’Italia repubblicana attraverso
quattro seminari. Da domani a Roma
«Lo sviluppo capitalistico e l’unità nazionale»: è il titolo di un incontro che inizia domani a Roma, presso La biblioteca della Camera dei Deputati (ore, Via
del Seminario 76). Per tre giorni, saranno affrontati il rapporto tra l’Italia e
l’Europa (Massimo Pivetti, Fabrizio Onida, Aldo Barba, Emiliano Brancaccio,
Marta Cartabia, Luciana Castellina,
Roberto Ciccone, Marcello De Cecco,
Mario Esposito); la «Crisi della coesione territoriale» (Paolo Cantelli, leonardo Paggi, Mario Dogliani, franco Cassano, Gianfranco Viesti, Enzo Ciconte,
Arnaldo Bagnasco, Giovanni Palombarini, Ricardo Realfonso), il rapporto
tra politica e società (Gianni Toniolo, Paolo Favilli, Alberto Melloni, Francesco Pitocco, Salvatore Senese, Massimo Luciani, Giuseppe Bronzini, Guglielmo Epifani, Michela Manetti, Mario Tronti), «Scrittori, sviluppo econonomico e unità nazionale» e «Fare gli italiani. Le istituzioni della cultura».
apre lo spazio nell’elettorato moderato per nuove formazioni politiche
che improntano il loro messaggio alla protesta populista. Tra il 1992 e il
1993 la sparizione dei grandi partiti
repubblicani sembra possa aprire la
strada ad una normalizzazione e rifondazione del sistema democratico
italiano sulla scorta di alternanza e
bipolarismo. Ma le elezioni del 1994
testimoniano che il vero dato di novità sta nella formazione di una nuova
destra di governo che trascrive nei
propri programmi e nelle proprie
bandiere tutte le rivendicazioni che
animano la questione settentrionale: il rifiuto della responsabilità di
uno sviluppo nazionale, lo sciopero
fiscale, l’antistatalismo, il rigetto dell’Europa come possibile fonte di normative e vincoli all’agire economico.
La domanda che ci siamo posti,
senza riuscire a dare risposte perentorie, è la seguente: per quali ragioni
la nuova coalizione di centrosinistra
che nel corso degli anni Novanta occupa quasi ininterrottamente posizioni di governo, non riesce a conseguire una stabilizzazione democratica del paese dopo la grande rottura,
l’apocalisse, del 1992, con politiche
economiche e istituzionali capaci di
ristabilire il quadro dell’unità nazionale?
È Carlo Azeglio Ciampi l’uomo politico che propone un rilancio del riformismo inteso ora come «cultura
della stabilità». L’importanza e la novità dell’accordo tra governo e parti
sociali siglato nel luglio del 1993 consiste nel fatto che per la prima volta
il sindacato nel quadro di una concertazione classicamente socialdemocratica, accetta di subordinare la
dinamica del salario agli andamenti
dell’inflazione.
nio successivo. Nella prima metà degli
anni Novanta la crescita s’interrompe
bruscamente, aprendo quella lunga fase
di vacche magre in cui stiamo ancora vivendo. Da una parte autorevole della nostra storiografia è stata avanzata la domanda se si sia aperta per il paese una fase di regressione e di vero e proprio declino. Una cosa è certa: si delinea allora nettamente un andamento negativo di quelle che Paul Krugman, parlando degli Stati uniti, considera essere le tre irrinunciabili «radici del benessere economico e
del tenore di vita di un paese»: la produttività, che da allora conosce in Italia una
caduta in picchiata, la distribuzione del
reddito, che diventa sempre più diseguale, l’occupazione, che diminuisce per aumentare di nuovo, ma solo in parte, in ragione delle leggi Treu(1998) e Biagi
(2003), che sanciscono una riforma radicale del mercato del lavoro fondata sulla
flessibilità e sul precariato.
È il passaggio ad una società in cui
sparisce sostanzialmente qualsiasi pro-
getto di politica economica, finendo lo
stesso termine per risultare politicamente incorretto, e in cui si delinea un nuovo spirito pubblico caratterizzato da
aspettative decrescenti, e disposto ad accettare un nuovo quadro economico
che viene rimettendo in discussione
gran parte dei diritti acquisiti nel decennio 1969 – 1979.
Populisti e bipolari
Sul terreno politico la ricaduta degli
eventi internazionali non è meno pesante di quanto avvenga per gli andamenti
economici. La caduta dell’Unione sovietica e la fine della guerra fredda portano
definitivamente allo scoperto una crisi
radicale dei due maggiori partiti di massa, che in realtà data dal tragico fallimento, con l’assassinio di Moro, del tentativo di superare la «democrazia bloccata».
Mentre il Partito comunista viene colpito nella sua identità storica, alla Democrazia cristiana viene meno la sua non
meno storica funzione di «argine». Si
L’intenzione è quella di impiantare
un meccanismo di governo dell’economia fondato sullo scambio tra moderazione salariale e uno sviluppo
economico capace di garantire condizioni di benessere economico e sociale. Ma il tempo storico della socialdemocrazia è ormai scaduto. In
ragione dei processi di globalizzazione economica e finanziaria, lo stato
nazione ha perduto il controllo della
moneta, del fisco e della spesa pubblica, mentre il movimento operaio
italiano (ma il discorso vale per l’insieme dell’Europa) esce dagli anni
Ottanta con la sua forza di contrattazione profondamente compromessa. A partire dagli shock petroliferi il
problema della lotta all’inflazione
ha progressivamente sostituito l’obbiettivo perseguito dopo la seconda
guerra mondiale di uno sviluppo
per l’occupazione. La crisi politica
del Partito comunista, inoltre, si riverbera con pesanti effetti negativi
sull’insieme del la capacità di contrattazione politica del movimento
operaio organizzato.
Ciampi è consapevole dei nuovi
tempi, ossia del fatto che il consenso
del sindacato vale in primo luogo
per ristabilire la fiducia dei mercati
internazionali e il conseguente circolo virtuoso: diminuzione dei tassi di
interesse sul debito, diminuzione
della spesa pubblica, e quindi possibile ripresa dello sviluppo. Con questo percorso viene conseguito l’obbiettivo di entrare nel pool dei paesi
fondatori dell’euro. Il risultato ha anche un forte valore simbolico: il consenso dell’Europa viene interpretato
non solo come protezione verso le
debolezze strutturali dell’economia
nazionale, ma anche e soprattutto
come garanzia di stabilità democratica.
E tuttavia questa politica che
Ciampi imposta come presidente
del consiglio e prosegue come ministro del tesoro dei governi di centrosinistra che si succedono dopo le elezioni del 1996 non vale a rilanciare
la coesione territoriale e la coesione
sociale. Nel corso degli anni 2000 la
scena è dominata dalla continuità
della stagnazione economica e da
una politica che punta apertamente
alla frammentazione e alla contrapposizione tra soggetti sociali e parti
diverse del paese.
È questa la matrice prima della frana che colpisce ora tutta l’architettura costituzionale della repubblica.
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
pagina 11
CULTURA
UN ROMANZO DAL COMPUTER
Dopo il romanzo su «L’isola dei pirati» ancora in fase di editing, il computer di Michael Crichton
ha resitituito un altro manoscritto. Morto nel 2008, Crichton stava infatti lavorando a «Micro»,
thriller su una società bio-tech che utilizza giovani laureati per compiere ricerche sulle
nanotecnologie. Il romanzo, completato da Richard Preston, uscirà in autunno negli Usa.
SEQUESTRATI I COMPUTER DEL PARTITO PIRATA
La polizia tedesca ha sequestrato alcuni computer del «Piraten Partei» perché messi a disposizione del
gruppo hacker Anonymous che li avrebbe usati per attaccare la società francese Edf all’interno
dell’«Operazione Payback» lanciata a sostegno di Wikileaks. Immediata la reazione del partito pirata: è
un atto intimidatorio in vista della presenza della formazione politica alle prossime elezioni politiche.
IMMAGINAZIONE · «Guida agli animali fantastici» di Ermanno Cavazzoni
I fantasmi irriverenti
di una ragione claudicante
Ippocentauri, ircocervi
sono figure di un atto
conoscitivo che mette
in relazione il visibile,
l’enigmatico, l’inspiegabile
Paolo Morelli
S
embra che Ermanno Cavazzoni
abbia una missione nella vita, ricordarci nei suoi libri che non abbiamo un vero controllo su niente, dentro e fuori, neanche quel minimo che ci
sembra di avere, e che i tentativi di darci un tono in questa ossessione al controllo non sono solo vani e ridicoli, ma
la conseguenza più evidente di una specie di malattia mentale. È una malattia
però, che siccome ce l’hanno quasi tutti
più o meno, non se ne accorge nessuno
che è una malattia e anzi, se a qualcuno
accade di accorgersene ha lì bella spianata davanti la strada per l’emarginazione, la messa al bando.
È sempre stato così più o meno, sembra dirci Cavazzoni nei suoi libri, ma la
malattia ha i suoi picchi, e ora pare arrivata a un culmine, come una febbre che
ha ormai superato i 40. Cure? Non se ne
vedono, o almeno stanno talmente nascoste negli scaffali delle librerie che si
fa fatica a scovarle. Anzi, sempre più
spesso nemmeno ci arrivano in libreria,
restano abbandonate nei cassetti.
Un bestiario per poeti e scrittori
In questo ultimo Guida agli animali fantastici (Guanda, pp. 168, euro 16,50),
che persegue in qualche modo la fisima
blandamente tassonomica di Storia naturale dei giganti, il narratore mette in
moto il suo stile ad alta gradazione ieratica per stilare dei ritratti che parziali è
dir poco, e inconcludenti non basta. Da
sempre appassionato di manuali e manie classificatorie, Cavazzoni sembra
riallacciarsi alla tradizione, anzi chiamarla a testimone, vengono citati o confutati o raffinati da Eliano a Platone, da
Aristotele al Luciano de La storia vera.
Dovrebbe trattarsi secondo il titolo di
quegli animali che gli antichi hanno elaborato come ben orchestrata strategia
di orientamento, difatti ci sono l’ippocentauro l’anfisbena e l’ircocervo ad
esempio, ma tra l’uno e l’altro spuntano fuori non solo animali familiari e all’apparenza poco fantastici come il maiale il serpente e il lupo, ma le particelle
grammaticali («un bestiario che ossessiona poeti e scrittori»), l’asino di Buridano che pascola nei campi della filosofia mentre fuori di lì «le cose sono già
sempre decise indipendentemente da
noi», e alla fine pure l’uomo che era per
Platone «quell’essere senza piume a
due gambe», o almeno lo sosteneva fi-
ALLA BIENNALE
Bestiario azteco
dal Messico
Alla Biennale arti visive di
Venezia, nel percorso offerto dalla mostra «Illuminazioni» a cura di Bice Curiger (vernissage per il pubblico il 4 giugno), fra gli
artisti invitati a partecipare
c’è anche la messicana
Mariana Castillo Deball,
classe 1975 (vive e lavora
fra Berlino e Amsterdam).
È lei a portare all’Arsenale
un bestiario fantastico prelevato e reinterpretato direttamente dai codici degli
Aztechi e Maya. I suoi disegni sono un ibrido, animali
e creature pre-umane in
perenne metamorfosi, apparizioni fuoriuscite dai miti e
dalle favole, «protagonisti»
di cosmogonie antichissime. Le civiltà precolombiane così «rinascono» in Laguna grazie alla fantasia di
Castillo Deball che - con i
suoi animali in libertà riscrive una storia post-coloniale con tutte le sue contraddizioni.
a 40 anni ci tiriamo su le maniche
la nuoizvioa nt-eshliirmtitata
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no a che i cinici gli hanno portato un
pollo spennato, perché allora ha cambiato idea. Ma scorrendo ci si trova
perfino il fuoco che «anatomicamente
è diverso da qualunque altro animale», o gli etiopi che rappresentano «l’attualità della razza umana» addirittura,
quella che ha la fissazione del tutto
nuova per la storia dell’umanità di abbrustolirsi sulle spiagge.
Fantasmi dell’immaginazione
L’intento cerimoniale di Cavazzoni però sta nel metodo. Nella sua prosa si sa
appena dove si comincia, ma non si sa
dove si va a finire, e palesemente non lo
sa nemmeno bene il narratore, le frasi
sono coordinate da un pensiero che si
orienta nella nebbia, la via si traccia
man mano che si va avanti, e questo dovrebbe essere di tutto godimento per il
lettore se non lo avessero convinto che
i libri sono roba molto seriosa e migliorativa. Del resto è sempre stato così in
letteratura, era un navigamento a vista,
un barcollare in giro offrendo pochi appigli al reale, al risaputo, allo scontato,
fin quando ha subito il totale svuotamento come mezzo conoscitivo per diventare il modulo di adesione al ruolo
di funzionario.
La fantasia narrativa seguiva l’analogia che da sempre ha fatto da base per
ogni atto conoscitivo come proporzione tra visibile e l’enigmatico, l’inspiegabile, pronta ad afferrare per poi subito
dopo mollare la presa. Difatti da afferrare c’è poco in questo come negli altri libri di Cavazzoni, mettendo in forse la
pretesa di conoscere, o di controllare o
di censire le cose al mondo solo per il
fatto di opprimerle, anche solo per attimo con la parola giusta. In preda a una
specie di innamoramento, lo scrittore
ha cura di staccarsi sempre prima, in levare, con la folle convinzione che a un
certo punto della pagina ci sarà un mon-
do che è tornato apposto, anzi era già al
suo posto fin dall’inizio.
È un fatto incontrovertibile, nessun libro si sposta mai di là, dal principio,
spinta, desiderio, l’intento iniziale, è
questo che rende la letteratura attuale
talmente mortifera e noiosa, il principio
unico, quello di mettersi in mostra e far
carriera, mentre in questa guida ai fantasmi dell’immaginazione l’intento è
impalpabile e lo scopo dichiaratamente
inutile, forse più di tutti gli altri libri dello stesso autore (non dimentichiamo
che la sua ossessione classificatoria ha
toccato per primi gli scrittori, in quel
gioiellino che è Gli scrittori inutili).
Polli, elefanti e maiali
Insomma qui ancora più che negli altri
libri è venuta meno, in maniera stavolta
dimessa e quasi disperata direi (il narratore appare qui e là stufo come qualcuno dei suoi animali), la presunzione che
sottende alla serietà ostentata, la postura rigida dell’autore che rivendica nell’etimo la sua autorità, tutta la mediocrità accatastata in un pensiero unico ma
inconsapevole. Si mette in forse quello
che il filosofo Enzo Melandri chiamava
«imperialismo della ragione», causa prima e inveterata della volontà di controllo sul mondo e le sue storie, volontà di
cui oltretutto non è rimasto che uno
spasmo, una coazione a ripetere. Come
si potrebbe, oltretutto nelle attuali e
sempre specialissime contingenze,
prendere sul serio le indagini del maiale
smarrito o l’elefante che impara a scrivere «Questo l’ho scritto io», il rivale di
Konrad Lorenz per la faccenda dell’oca
o il paragone tra un pollo e il cantante
Farinelli?
Per godersi e utilizzare i libri di Cavazzoni bisogna aver fiducia, lasciarsi andare alla vertiginosa prospettiva che forse
esiste un ordine nella natura, l’unica cosa sicura è che non si tratta del nostro.
INTERNET · Dai blog ai social network, una riflessione su come la Rete condiziona la «Politica 2.0»
L’inganno dell’opinione pubblica
Benedetto Vecchi
M
ai come negli ultimi anni le
teorie di Jürgen Habermas
sull’opinione pubblica hanno conosciuto un successo tra gli studiosi che hanno messo al centro della
loro riflessione il potere performativo
delle tecnologie della comunicazione
nella formazione dell’opinione pubblica e nella decisione politica. Un testo
che si colloca sul crinale della riflessione habermasiana è sicuramente Politica 2.0 di Antonio Tursi (Mimesis, pp.
199, euro 16). Tursi, giovane ricercatore , giovane ricercatore che ha curato
recentemente, assieme a Antonio Caronia, la collettanea sulle Filosofie di
Avatar, non nasconde il fatto che il debito verso il filosofo tedesco comporta
dei rischi di aporia, perché la rete è un
medium molto diverso da quelli che
Habermas poneva come gli strumenti
della sua opinione pubblica.
La radio, la tv, i giornali prevedono
infatti sempre una fonte di informazione e un pubblico che la rielabora per
acquisire un giudizio informato sul
comportamento del sovrano di turno.
Negli anni Sessanta oltre a questi strumenti Habermas ne aveva aggiunti altri: i partiti, i sindacati, le organizzazione degli imprenditori che fornivano,
tutti, materiali su cui poteva formarsi
un’opinione pubblica. Ma in ogni caso, lo schema non veniva modificato
un granché. Le informazioni avevano
produttori «istituzionali» la cui credibilità poteva essere messa sì in discussione, ma mai delegittimata completamente. Con la Rete le informazioni sono prodotte e diffuse da soggetti non
istituzionali e si diffondono indipendentemente dall'esistenza di media
«certificati». È quindi ovvio che l’opinione pubblica ha un modo di produzione molto diverso. Di questo ne è
consapevole l’autore, che rimane tuttavia prigioniero del limite maggiore
della riflessione di Habermas.
Il filosofo tedesco, infatti, ha come
centro della sua riflessione la figura
dell’individuo disincarnato delle relazioni sociali in cui è inserito. Il passag-
gio all’opinione pubblica, nella griglia
analitica di Habermas, avviene sempre all’interno di una comunicazione
a «bassa intensità» dove l’individuo
non può che rimanere tale. Da qui la
difficoltà per il filosofo tedesco di fare
i conti fino in fondo con la tecniche di
manipolazione messe in campo dai
media. laddove si manifestano è la ricorsività della comunicazione pubblica che rende il singolo immune e resistente al potere performativo di tv, radio, giornali. Questo schema applicato alla rete conduce in un vicolo cieco.
In primo luogo, ma di questo è convinto anche l’autore di questo saggio,
viene meno il carattere elitario che il
concetto di opinione pubblica ha sempre avuto. La persona informata dei
fatti è un artificio retorico che copre
come la produzione di informazione
si inserisce sempre in una rapporto di
potere asimmetrico nella società. Chi
detiene i mezzi di produzione è interessato a trarre profitti dalla sua attività. E quindi organizza il processo produttivo di informazione affinché il valore di scambio dell’informazione abbia la meglio sul suo valore d’uso. Su
Internet la proprietà sui mezzi di produzione dell’informazione ha però
uno statuto incerto. E l’informazione
viene prodotta e diffusa tanto da media che da singoli. Salta cioè un elemento indispensabile alla formazione
dell’opinione pubblica:: una fonte certa dell’informazione. Da qui la centralità, per l’autore, della «rimediazione»,
cioè quella particolarissima operazione attraverso il quale gli internauti colmano il vuoto derivante dall’incapacità dei media di selezionare e presentare informazioni «rilevanti» nella formazione dell’opinione pubblica. Ma anche in questo caso, siamo sempre in
presenza di un individuo disincarnato
dei rapporti sociali in cui è immerso.
Neppure l’esistenza di social network
- il titolo Politica 2.0 fa il verso alla formula web 2.0 - mette in discussione
questo assunto liberale sull’opinione
pubblica.
La rappresentazione che emerge
dal volume rimane cioè sempre incar-
dinata sulla possibilità che l’accesso alle informazioni consenta di produrre,
per chi sa quale misterioso meccanismo, un individuo che può scegliere
con cognizione di causa la posizione
giusta, il punto di vista adeguato, quasi che l’opinione pubblica abbia più a
che fare con la pubblicità che non col
giudizio e e l’analisi sulla gestione della res publica. Significativo è, a questo
punto, il tema del flusso, che Antonio
Tursi introduce.
Il flusso è una generazione, consumo e arricchimento dell’acquisizione
acquisita. Ha logiche attinenti al funzionamento della Rete. Ma è proprio
sul governo del flusso che si inserisce
Un concetto prigioniero
della figura liberale
dell’individuo
proprietario che giudica
l’operato del sovrano
il «nuovo» modo di produzione dell’opinione pubblica.. Gli intermediari,
cioè le imprese che fanno business su
Internet non pretendono di incanalare il flusso, bensì di organizzarlo. La
produzione dell’opinione pubblica è
cioè il modo per fare profitti in Rete.
Questo non significa che i nodi problematici posti dell’autore del saggio
non abbiano un valore euristico. La
privacy, così come i meccanismi di
«captazione» capitalistica sono sì posti come nodi problematici,, ma come
se fossero un rischio a venire e non la
concreta realtà della produzione dell’opinione pubblica. La politica 2.0, se
mai questa espressione riuscisse a far
dimenticare l’afflato glamour che pretende di avere, deve prendere congedo proprio dal concetto di opinione
pubblica. Meglio sostituire al vecchio
sogno liberale di chi controlla, ma mai
sovverte l’operato del sovrano, l’ambizioso progetto di «fare movimento»,
cioè quella scommessa politica di organizzare la critica dell’economia politica dell’opinione pubblica.
pagina 12
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
VISIONI
Cannes
64
Trionfa «L’albero della vita», la libertà delle immagini come
antidoto contro la violenza e l’autoritarismo dell’ipnosi televisiva
I «CONQUISTATORI» DELLA CROISETTE 2011
STRAUSS-CANNES
Terrence Malick
e il festival
del «caso DSK»
Roberto Silvestri
L’
albero della vita di Terrence Malick è la Palma d’oro. Perfetta la scelta di Cannes 64. Film impegnato
con la storia del presente, per rovesciarne
letture correnti, violento e pieno di «grazia», sconvolgente e misterioso, «aperto» a
mille interpretazioni, tutte coraggiosamente critiche dell’esistente e delle radici di
questo esistente in antiche tradizioni da superare. Le vecchie idee, il patriarcato, per
esempio. Film di sostanza conoscitiva, figurativa e passionale profonda e inquietante,
come ha riconosciuto il popolo della Croisette e il pubblico italiano che lo sta ammirando in tempo reale nelle sale, perché la
Rai, in parte coproduttrice, ne ha per fortuna scovato anche profondi significati religiosi. Chi poteva poi davvero contrapporsi
all’imbattible serial poliziesco D.S.K che ha
dominato il festival con le sue immagini
possenti e «insostenibili»?
Oxfordiano filosofo, mai «autore», perché interessato alla polvere quanto all’individuo e al potere, Malick (meno ambizioso
e scostante del solito, qui quasi umile cinefilo) non usa questa volta la pratica artistica, dall’alto in basso, non visualizza tesi
preconcette, per esempio che bisogna
«pensare altrimenti», ma fabbrica cinema
di avvenimenti, interiori e cosmici, subumani e sovrumani, non sottomessi alla linearità di una narrazione biblica (l’albero della vita, appunto) perché le sue immagini
fuoriescono continuamente dai bordi del
presente e del visibile. Come nei film di
Corman, quando era in grande forma, o di
Brakhage, il cinema e la filosofia reinventano assieme il proprio montaggio comune
attraverso cortocircuiti che vicendevolmente ci lanciano là dove non pensavamo di arrivare.
Il resto dei premi, performance degli attori a parte, è invece sbagliato e sintomo di
una edizione meno riuscita e coraggiosa
del solito. Kaurismaki (premio Fipresci),
Kawase, Almodovar, Moretti e Sleeping beauty probabilmente non escono in Francia
nei prossimi giorni, meglio riempire di palmette i poster degli stilisticamente corretti,
e dunque euro-autoriali Ragazzo con la bicicletta, Drive, C’era una volta in Anatolia,
Melancholia e Poliss, mentre Footnote completa questo omaggio a un cinema di parodia (di neorealismo, Walter Hill, Guney, Armageddon, I ragazzi del coro e Shalom Aleichem), con strizzatine d’occhio alla buona
coscienza scandalizzata da pedofilia, maltrattamenti e uccisioni accidentale dei nostri figli. Ovvio che Moretti in questo clima
non sia stato notato.
Non credo che una giuria di «tutti cineasti», a parte Olivier Assayas (un regista ex
critico), anche se scelta con charme, come
quasi sempre a Cannes, possa far altro che
l’educata apologia dell’esistente. Un po’ come succede nella serata degli Oscar (coi
colleghi che premiano i colleghi, cioé se
stessi), i rapporti di forza vigenti anche nell’immaginario, non è fine metterli in discussione. Disinteressanti in genere, dunque, questi verdetti di festival, a meno che
non si cominci a inserire nel corpus giudicante più Jonathan Rosenbaun, più Pascale Bonitzer, più Bernard Eisencshitz e più
Bill Kronh. Lo sforzo industriale della Francia, poi, sintetizzatore culturale delle ossessioni e delle fobie di un’Europa in profonda deformazione sessuale e crisi di civiltà
(dal silenzio di Moretti allo sgarbismo di
von Treir), per mantenere la leadership nel
mercato alter-mainstream, trova poi in
Cannes il suo apogeo, sia nello sfarzo della
vetrina, che nella scelta nei film (Gus Van
Sant messo fuori competizione, Cronenberg, Wang Xiaoshuai, Chantal Akerman
neanche selezionati), che nella costruzione del palinsesto con meticolose gerarchia
di proiezioni. Per esempio inserire astutamente un divertimento commerciale di primaria piacevolezza, da applausi a scena
aperta, come The artist, in un’unica proiezione mista critici-pubblico, aiuta molto a
stabilire quale film sia un grande successo.
PALMA D’ORO All’americano Terrence
Malick per «The Tree of life». Nella foto
(Reuters), Robert De Niro, presidente di giuria,
il produttore Bill Pohland (Malick non si
presenta mai in pubblico) e Pablo Giorgelli,
Camera d’or opera prima «Las acacias»
MIGLIORE REGIA Il premio se lo è
aggiudicato il danese Nicolas Winding Refn, qui
con Ryan Gosling, per il film adrenalinico «Drive»,
storia di un autista a noleggio per rapinatori,
disarmato e veloce su è giù per le strade di San
Francisco
MIGLIOR ATTORE È Jean Dujardin,
protagonista della pellicola «The Artist» di
Michel Hazanavicius, incursione nel «silent
movie» dove l’interprete da una prima
imitazione atletica di Douglas Fairbanks
approda a quella danzante di Gene Kelly
MIGLIOR ATTRICE È Kirsten Dunst per
«Melancholia» del danese Lars Von Trier. Il regista
è stato al centro di un caso «diplomatico»: era
stato cacciato dal festival di Cannes a causa
delle sue dichiarazioni simpatizzanti verso il
nazismo, ma il suo film era rimasto in gara
Corman,
il moto
perpetuo
Un’intervista con Alex
Stapleton, cineasta
esordiente che ha
portato in Francia
un documentario
sull’autore di culto
Giulia D’Agnolo Vallan
CANNES
I
l suo cinema - veloce, ironico, avventuroso, poverissimo, politicamente folgorante,
capace di infinite manifestazioni di se stesso e incapace di prendersi sul serio - è l’opposto di tanto cinema «monumentale» e magniloquente, visto a Cannes negli scorsi giorni. Roger Corman era al festival, un po’ nascosto nella sezione Cinema Classics, con un documentario girato su di lui dall’esordiente trentunenne
di Houston Alex Stapleton. Corman’s World:
Exploits of a Hollywood Rebel è il primo film
«autorizzato», un collage densissimo di immagini dei suoi film, di Corman stesso, dei filmakers
che ha formato e di quelli che continua a ispirare – da Monte Hellman, Jack Nicholson, Ron
Howard, Scorsese, Dante e Demme… a James
Wan o Eli Roth. Abbiamo incontrato la regista.
Perché proprio Roger Corman?
Sono una figlia degli anni 80, ma non sono
cresciuta guardando film alla Sixteen Candles. I
miei genitori mi portavano a vedere cinema da
arthouse, che spesso significava grindhouse. Roger era già un autore di culto. Credo che la mia
passione sia nata lì. Ho sempre avuto gusti strani per una teenager - Bollywood, Fassbinder,
John Waters…E ero ossessionata da Pam Grier.
A diciotto anni ho letto l’autobiografia di Roger
e ho trovato sorprendente che ci fosse un uomo solo dietro a quei film così diversi. Mi era
venuto in mente di farci un programma tv.
Quando mi sono trasferita a New York, scrivevo per la rivista Tokion e li ho convinti a mandarmi a intervistare Roger. Subito dopo l’incontro gli ho chiesto se potevo fare un documentario su di lui. Mi ha detto subito sì. Non ci credevo. Penso che stiamo vivendo una riscoperta
del cinema di Roger. E penso che l’attuale situazione economica e le svolte tecnologiche più recenti rendano il suo cinema indipendente un
modello ancora più necessario oggi. Roger è un
maestro della capacità di unire la cultura «alta»
a quella «bassa». I registi che lui ha lanciato negli anni della New World sono degli intellettuali. Come dice Alan Arkush nel documentario,
«conoscevamo tutte le note di cui non si può fare a meno in un film. Tra una e l’altra, però, potevamo mettere quello che volevamo». Roger è
un maestro di quello spazio intermedio.
Che tipo di conversazioni avete avuto sul tuo
film?
All’inizio lui pensava a un film in cui io seguivo un po’ quello che faceva. Gli avevo mandato
anche una lista di persone che volevo intervistare - Roger non usa email, gli scrivi una lettera e
poi ti richiama - ma diceva che di lui avevano
già parlato troppo. Roger vive nel presente. Il
suo imput era: vieni e guarda cosa sto facendo.
Per quello sono andata anche in Messico, sul
set di Dinoshark. Ero felice che avesse accettato
perché è una persona molto riservata. L’idea
che qualcuno lo riprendesse al lavoro gli era aliena. Così ipotizzavo un film-verité, essere con lui
il più possibile. Peccato che quando sono arrivata sul set, in 5 minuti stavo già lavorando per
lui. Mi ha fatto fare la comparsa, registrare il suono, girare la seconda unità… Tutto mentre cercavo di realizzare il mio film. Quindi ho cominciato ad avere dei dubbi sull’idea del «verité». Allora ho pensato a un documentario in stile
exploitation, un po’ come i film di Roger. Ma
quando Jack Nicholson e Martin Scorsese hanno acconsentito a farsi intervistare, il film è cambiato di nuovo. Una scena come quella in cuiNicholson si commuove (parlando di Dennis Hopper, n.d.r.) ci ho messo mesi ad assorbirla organicamente nel tessuto del documentario.
Corman ti dava suggermenti?
Spessissimo, consigli preziosi. C’è una parte
dell’intervista fatta in una stanza di casa sua in
cui la luce cambiava molto in fretta. Roger sceglieva il timing delle sue risposte per spostare il
set up al momento giusto. È molto sensibile a
cose del genere. E poi mi ha dato consigli importanti sul montaggio, dopo la prima a Sundance. Sapeva esattamente dove si poteva tagliare. E il film scorre molto meglio.
Quali sono i tuoi Corman preferiti?
Penso che The Intruder sia un capolavoro. È
anche uno dei film più forti sul razzismo realizzato in quegli anni, cosa che in quanto donna
afroamericana apprezzo molto. Ho un debole
per Machine Gun Kelly. Solo Roger avrebbe potuto fare un film di gangster in cui Charles Bronson, il protagonista macho, ha paura di tut-
GLI ALTRI PREMI
Dall’Anatolia di Ceylan
all’Argentina di Giorgelli
«Si è discusso molto e si sono spesso adottate soluzioni di mediazione. Abbiamo privilegiato le emozioni, le ambizioni, l’impianto
narrativo... Speriamo di non aver sbagliato
troppo», ha detto il presidente Robert De
Niro. Ecco gli altri premi.
Grand Prix: ex aequo a «Il ragazzo con la
bicicletta» di Jean Pierre e Luc Dardenne
(Belgio) e a «Once upon a time in Anatolia»
di Nuri Bilge Ceylan (Turchia).
Sceneggiatura: Joseph Cedar per «Footnote» (Israele). Giuria: «Polisse» di Maïwenn
Le Besco (Francia).
Camera d’oro opera prima: «Las Acacias»
di Pablo Giorgelli (Argentina/Spagna)
Miglior corto: «Cross» di Maryna Vroda.
Premio della giuria corto: «Badpakje 46»
di Wannes Destoop.
to…ed è la sua fidanzata (Susan Cabot) a decidere ogni cosa. Se penso a Roger produttore,
adoro i film di Joe Dante e di Alan Arkush.
Mask of the Red Death è il migliore dei film tratti da Poe, molto ispirato a Bergman. Mi piacciono anche i suoi i lavori più camp - lui non ama
Wasp Woman, invece io lo trovo divertentisismo. O Apache Woman, un western ma con
una protagonista indiana più forte gli uomini.
Ti ha dato libertà totale sui clip?
I clip sono stati una sfida, perché Roger non
conserva nulla. Pensavo che fosse reticente,
poi ho scoperto che aveva buttato via quasi tutto, persino le copie. Sono stata fortunate che Julie avesse conservato una foto del loro matrimonio. È una questione psicologica: è così che riesce a fare tutto quello che fa. Continuando a
muoversi.
A cosa stai lavorando adesso?
Ho finito un documentario sulla mostra dedicata alla street art organizzata dal Moca d Los Angeles. E sto iniziando un film di fiction, molto cormaniano – una storia d’amore intergalattica, ambientata in una notte su Hollywood Boulevard.
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
pagina 13
VISIONI
WILLIAM KENTRIDGE AL MAXXI
L’artista e filmaker sudafricano (Johannesburg, 1955) incontrerà il pubblico al Maxxi, venerdì
27 maggio (ingresso 4 euro), alle ore 19. Intervistato dal curatore per le arti visive Carlos
Basualdo racconterà la genesi di alcune sue opere e illustrerà la sua poetica. Nel museo
sono presenti sei lavori di Kentridge, fra cui l’arazzo «North Pole Map» e Zeno writing»
MUSICA, HEINER GOEBBELS
Il regista e compositore tedesco Heiner Goebbels torna con il suo teatro musicale in Italia, a
Modena domani e il 27 maggio. Presenterà «Songs of wars I have seen» (da Gertrude Stein) al
teatro comunale Pavarotti e «Stifters Dinge», un'installazione con due performance serali: un lavoro
senza attori né musicisti, che fa parlare gli oggetti.
TEATRO · Motus, la ricerca del contemporaneo
CERTAIN REGARD · «Arirang», Kim Ki Duk racconta il suo «esilio»
Il regista, la sua ombra, la pistola.
Filmare come un grido di dolore
Cristina Piccino
CANNES
R
egista quasi bulimico, capace
di girare anche due film in un
anno, e «ragazzo» viziato delle nuove onde coreane, all’improvviso Kim Ki Duk è scomparso. Era il
2008, l’anno di Dream, un sogno (incubo) d’amore che stravolge la «logica» del sonno e della veglia, della realtà e dell’immaginazione. Ora è tornato ma Arirang, vincitore del Certain Regard, è un titolo «band à
part» nella sua filmografia, o forse
una nuova partenza, un capitolo di
passaggio nella ricerca del cineasta.
Declinato alla prima persona quasi
esasperata, mette in scena la dolorosa impotenza di un regista rispetto
al fare-cinema, al suo universo poetico, alle sue immagini nell’inquietudine di un gioco di ombre che hanno
attraversato nel tempo i suoi film, e
che ora appaiono e scompaiono tra
tagli netti e zoom improvvisi.
Tutto comincia sul set di Dream
dove l’attrice protagonista girando
una scena di impiccagione aveva rischiato di morire soffocata. Kim Ki
Duk era stato attaccato da tutti, accusato, ridicolizzato (ci sono pure film
horror in Corea che citano questo
fatto), un peso tanto insopportabile
che lo ha spinto a fuggire in un villaggio sperduto tra le montagne dove vive da tre anni come un eremita, senza acqua e senza riscaldamento. Nella sua baracca in mezzo alla nave
Kim Ki Duk ha solo un computer
con cui monta affrontando il campo
controcampo con se stesso e con
un’esistenza che è stata fino a quel
momento il cinema (quindici film in
tredici anni).
Il titolo, Arirang, rimanda a un’ antica canzone coreana, è il nome di
un passo montano pieno di insidie
per i viaggiatori ma è anche un luogo ideale per gli amanti, in cui si ricorrono leggende di amori infelici,
ragazze disperate, desideri impossibili. Come è divenuto impossibile il
desiderio di filmare del regista.
Cosa racconta Arirang? Una ferita
personale, giorni di solitudine, un
uomo e i suoi fantasmi (le sue immagini) che cerca di uccidere fabbricandosi una pistola con cui entra e esce
da un miraggio di cinema. Un po’ come la bomba che può diventare una
macchinetta per fare il caffé...
Capelli lunghi e abiti da samurai
stracciati, i piedi nudi rovinati, Kim
Ki Duk filma con una piccola digitale questo suo quotidiano che scorre
senza un piano preciso, seguendo la
scrittura della sua solitudine. Lo vediamo piangere di fronte alle immagini dei suoi film, Primavera, estate
autunno inverno ... L’uomo parla
con la sua ombra, il suo doppio che
è come un sogno. Arirang è un diario, e una confessione, un grido di
aiuto e un sentimento del tragico.
Potrebbe essere solo un gesto di narcisismo, ridicolo, o sublime, ma c’è
una potente verità in questa immagini, una vita (e una follia) che spiazzano lo sguardo.
È strano ma questo dell’impotenza di fronte alle (proprie?) immagini
è un sentimento che ritorna nel cinema contemporaneo, con forme diverse, e diverse possono esserne le
cause, e che però diventa un costante interrogare la natura del cinema.
Il film di Kim Ki Duk porta a quello, magnifico, di Jafar Panahi presentato fuori concorso: Ceci n’est pas un
film, Questo non è un film, il regista
iraniano mette in scena un’impotenza che deriva da qualcosa di esterno,
la censura, la violenza del regime, il
tabù iconoclasta: filmare. Ma lui
non filma, un altro regista lo filma
nel quotidiano prigioniero del suo
appartamento senza una macchina
da presa con cui dare vita alle sue immagini. Può solo raccontarle, cioè
suggerirle, suggerire allo spettatore
il film svelando il meccanismo della
messinscena e del suo cinema.
Un’esperienza di fortissima «verità».
SEZIONI COLLATERALI · C’è spazio per Kaurismaki
Sono stati due film ad aggiudicarsi, ex aequo, il riconoscimento più importante assegnato dalla giuria di Un Certain Regard: Arirand del coreano Kim Ki-Duk e Stopped on
Track del tedesco Andreas Dresen. La sezione del Festival, che ha presentato quest’anno 22 film provenienti da 19 paesi, ha anche assegnato il premio della giuria a Elena
del russo Andrey Zvyagintsev e il riconoscimento per la miglior regia è andato a Goodbye di Mohammad Rasoulof. Il cineasta iraniano però non ha potuto ritirare il premio
perché è agli arresti domiciliari. La giuria di Un Certain Regard era presieduta dal regista Emir Kusturica. Nella sezione Quinzaine des Réalizateurs, il premio Cicae, deciso
dagli esercenti, e quello Sacd, della Siae francese, sono andati a Les Géants del belga
Bouli Lanners. Il Label Europa Cinemas è stato invece assegnato a Atmen dell’austriaco Karl Markovics. La Fipresci ha «incoronato» il finlandese Aki Kaurismaki per il suo Le
Havre (concorso), L’exercice de l’état di Pierre Schoeller (Certain Regard), Take Shelter di Jeff Nichols (Semaine de la Critique). Per Cinéfondation, ha vinto il corto tedesco
Der Brief di Doroteya Droumeva (giuria presieduta da Michel Gondry). Il secondo premio è andato al francese Drari di Kamal Lazraq, il terzo al sudcoreano Ya-Gan-Bi-Hang
di Son Tae-gyum.
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MILIONARIO Gioco
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NOTIZIA - LA VOCE
DELL’IMPROVVIDENZA
Attualità
21:10
NOTTE PRIMA
DEGLI ESAMI ‘82 Fiction
Con Francesco Mistichelli,
Giulia Lippi, Alan Cappelli,
Matteo Ripaldi, Francesca
Chillemi, Andrea Montovoli,
Giorgio Marchesi, Gledis
Cinque, Letizia Ciampa
23:20 PORTA A PORTA Attualità
Conduce Bruno Vespa
00:55 TG1 NOTTE - TG1 FOCUS
Notiziario
01:25 CHE TEMPO FA Previsioni
del tempo
01:30 QUI RADIO LONDRA
Attualità Conduce Giuliano
Ferrara
21:05
I LOVE
ITALY Varietà Conduce
Massimiliano Ossini. Con
l’Orchestra diretta da Demo
Morselli
23:10 TG2 Notiziario
23:25 THE MANCHURIAN
CANDIDATE FILM Con
Denzel Washington, Meryl
Streep, Liev Schreiber,
Kimberly Elise, Vera
Farmiga, Jon Voight, David
Keeley, Jeffrey Wright,
Sakina Jaffrey, Bruno Ganz
01:25 TG PARLAMENTO Attualità
21:05
BALLARÒ
Attualità Conduce Giovanni
Floris. Regia di Maurizio
Fusco
23:15 PARLA CON ME Varietà
Conduce Serena Dandini
00:00 TG3 LINEA NOTTE Attualità
00:10 TG REGIONE - METEO 3
Notiziario
01:00 APPUNTAMENTO AL
CINEMA Rubrica
01:10 94º GIRO
D’ITALIA - GIRO NOTTE
Rubrica sportiva
01:40 RAI EDUCATIONAL GATE
C Rubrica
21:10
... CONTINUA–
VANO A CHIAMARLO
TRINITÀ FILM Con Terence
Hill, Bud Spencer, Yanti
Somer, Enzo Tarascio, Harry
Carey Jr., Pupo De Luca,
Jessica Dublin, Dana Ghia
23:35 I BELLISSIMI DI R4
Rubrica
23:40 BOOGIE NIGHTS FILM
Con Luis Guzmán,
Burt Reynolds, Julianne
Moore, Rico Bueno, John C.
Reilly, Nicole Ari Parker, Don
Cheadle, Heather Graham
01:10 TG4 NIGHT NEWS METEO Notiziario
21:10
R.I.S. ROMA
2 - DELITTI IMPERFETTI
Telefilm Con Fabio Troiano,
Euridice Axen, Jun Ichikawa,
Marco Rossetti, Mary
Petruolo, Primo Reggiani
23:45 MATRIX Attualità Conduce
Alessio Vinci
01:30 TG5 NOTTE Notiziario
02:00 STRISCIA LA
NOTIZIA - LA VOCE
DELL’IMPROVVIDENZA
Attualità
Arriva domani a Roma, al Teatro India (fino al 29 maggio), «Alexis, una tragedia
greca» dei Motus, regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, spettacolo ispirato
alla figura del quindicenne greco, Alexandros-Andreas Grirgoropoulos, Alexis, ucciso
il 6 dicembre 2008 nel quartiere di Exarchia, cuore della rivolta studentesca, dall’agente trentasettenne Epaminondas Korkeneas con una pallottola nel petto. Alexis
diventa subito l’icona della protesta: «Un nuovo Polinice?» si chiedono gli autori, il
fratello di Antigone con la t-shirt dei Sex Pistols... Lo spettacolo nasce da un progetto articolato in più capitoli e con diversi attori, il filo rosso è la presenza di Silvia
Calderoli, figura androgina e scattante, che nel corso del tempo libera la voce nella
sua fisicità. Bravissima come tutti gli altri. Ma soprattutto «Alexis» vuole interrogare il
senso del teatro oggi, come mettere in relazione i classici - «Antigone» - con il contemporaneo. Non è questione solo di tecnologie, i Motus usano video, corpo, parola, poesia, prosa tutto però con l’obiettivo di fare un teatro vivo, pulsante, che sia
dentro al suo tempo e ai suoi conflitti. Il 26 presentazione del libro «Un colpo. Disegni e parole dal teatro di Fanny Alexander, Motus, Chiara Guidi/Societas Raffaello
Sanzio, Teatrino Clandestino», un volume che apre una riflessione sul percorso dei
quattro gruppi (Longo Editore, Ravenna). Nello spazio di Indiateca ci sarà anche la
mostra tratta dal libro con opere orginali di Andrea Bruno su Motus, Magda Guidi,
Sergio Gutierrez, Beatrice Pasquali, Andrea Petrucci, Marco Smacchia c.pi.
CINEFONDATION 14 · Il campionato «Primavera» del festival
Palme d’oro del futuro
ta, ma almeno un’ipotesi di amore
unidirezionale, e si attacca a un
cliente estemporaneo, mentre il
l cortometraggio della bulgara
fratello convivente, «custode» di
Doroteya Droumeva, Der
antiche virtù sepolte, non aiuta.
brief, prodotto dalla scuola di
In una edizione cannoise che
cinema di Berlino, ha vinto Cineha rivelato anche una promessa
fondation 14, una sezione di Canitaliana (Alice Rorhwacher, al venes che ha il compito di scoprire,
triolo la sua dolce analisi, in Corpo
celeste, delle deturpazioni psicofisiprima dei festival concorrenti, i
che e delle deviazioni sessuali pronuovi talenti, i registi del futuro advocate da inculcazioni religiose andestrati dalle scuole di cinema di
che se delicate) abbiamo scoperto
tutto il mondo. In selezione 16 corcon piacere anche la presenza,
ti (da 8’ a 44’, quasi tutti narrativi e
per la prima volta a Cinefondation
«lunghi» in potenza, poca speridi un corto italiano, del Centro
mentazione e cartoon) scelti da DiSperimentale di cinematografia di
mitra Karya (al secondo anno di diRoma, un tempo all’avanguardia
rezione, dopo il passaggio di Laue ora arrancante rispetto a altre rerent Jacob al comitato di selezione
altà anche europee (Femis di Parimaggiore), coprodotti per lo più
gi, Famu di Praga). Ma L’estate che
dalla scuole assieme a partner dinon viene , di Pasquale Marino, nostributivi, pubblici o privati, e giunostante una prepotenza visuale
dicate da una giuria d’eccellenza:
inedita rovescia il senso originale
Michel Gondry, antichi vincitori
I
nuovi
talenti
e
i
molti
della storia (una professoressa sedi Cinefondation, il rumeno Corquestra alcuni suoi alunni) e la traneliu Porumboiu e l’austriaca Jesfilmaker addestrati
sforma in un più banale tentato
sica Hausner, e il regista portoghedalle scuole del mondo.
stupro della stessa prof, pescata a
se radicale João Pedro Rodrigues.
Ostia, al mare, da tre allievi post
Il film che ha vinto (15000 euro)
Vince la bulgara
pasoliniani che le vogliono far paè la storia, raccontata in mezz’ora,
Doroteya
Droumeva
gare la bocciatura (annunciata) di
di una berlinese incinta, Maja, che
uno di loro. Il più truce si chiama
radiografa con sensibilità e spietacon il corto «Der brief»
pure Lollo. Tanti sono stati i talentezza il mondo emotivo che la cirti scoperti da Cinefondation in
conda prima di decidere, tutta da
questi anni: Eduardo Valente e Antonio Campos (Brasisola, se partorire o abortire. Anche gli altri due premi
le), Dover Koshasvili (Georgia Istraele), Peter Sollett
raccontano il mondo dei giovani, con toni drammatici e
(Usa), Alicia Duffy, Yang Chao, Nikolaj Khomeriki (Rusesistenzialmente allarmati. Il secondo premio (11.250
sia), Fredrikke Aspock (Danimarca), Emmanuelle Bereuro) è stato assegnato a Drari del marocchino Kamal
cot, Adam Guzinski (Polonia) e Agnes Kocis (Ungheria)
Lazraq, e mette in forma di road movie, piuttosto dispeche sono stati poi promossi con le loro opere prime al
rato (per le complicazioni anche poliziesche, di viabilità
Certain Regard. L’Italia (ma anche la Francia) non ha
interrotta e dignità calpestata, che rendono i ragazzi di
mai vinto il primo premio, mentre finora Polonia, Gb,
Casablanca così simili a quelli del Cairo, San’a, Tripoli e
Usa, Russia, Brasile, Argentina (due volte), Serbia, DaniTunisi) l’amicizia quasi gay e quasi impossibile tra due
marca, Israele, Repubblica Ceca e Finlandia, hanno diragazzi, Ghali, rampollo di un ricco borghese, e Mohamostranto l’eccellenza delle loro. A proposito, il migliomed, il suo giardiniere, a un certo punto messa in crisi,
re corto mi è sembrato Casey Tigers, di Aramisova (Faoltre che dalla diffidenza sociale verso il più povero (che
mu), un allievo slovacco di Vera Chitylova (come si vede
è nero e viene pure dal Sahara orientale), da una bella
tutte le scuole sono fertilmente cosmopolite) che riesce
compagna d’università di Ghali che decidendo di fare
a innestare con più libertà e humor dei 16 corti visionauna bella scampagnata con i due suscita le gelosie «mati, quelli che erano i principi della «nuova onda praghecho» del fidanzato. Atmosfera gay molto più esplicita
se» anni 60 con le arditezze e «disintegrazioni sessuali»
nel film sudcoreano Volare di notte di Son Tae-gyum
dei post-gay Usa (Kalin, Gregg Araki, etc...) raccontando
(terzo premio, 7500 euro): uno sprovveduto marchettale prime esperienze erotiche di due margheritine non
ro per sopravvivere nella Seul dark e senza speranza,
tanto in cerca di amore ma di passione e nuovo eros.
vuol trovare, non dico un barlume di passione per la vi-
R.S.
CANNES
I
Italia1
17:50 LOVE BUGS Sit com
18:30 STUDIO APERTO - METEO
Notiziario
19:00 STUDIO SPORT Notiziario
sportivo
19:30 C.S.I. MIAMI Telefilm Con
David Caruso, Emily Procter,
Adam Rodriguez
20:30 TRASFORMAT Gioco
Conduce Enrico Papi
21:10
30 ANNI IN
1 SECONDO FILM Con
Jennifer Garner, Mark
Ruffalo, Judy Greer, Andy
Serkis, Kathy Baker, Phil
Reeves, Samuel Ball,
Marcia DeBonis
23:10 SUPERHERO - IL
PIÙ DOTATO FRA I
SUPEREROI FILM Con
Drake Bell, Sara Paxton,
Christopher McDonald,
Leslie Nielsen, Kevin Hart,
Marion Ross
00:40 POKER1MANIA Rubrica
sportiva
La7
17:40 J.A.G. - AVVOCATI IN
DIVISA Telefilm Con David
James Elliott, Catherine
Bell, Patrick Labyorteaux,
John M. Jackson, Chuck
Carrington
18:35 CUOCHI E FIAMME Real
Tv Conduce Simone Rugiati
19:40 G’ DAY Varietà Conduce
Geppi Cucciari
20:00 TG LA7 Notiziario
20:30 OTTO E MEZZO Attualità
Conduce Lilli Gruber
21:10
CROSSING
JORDAN Telefilm Con Jill
Hennessy, Miguel Ferrer,
Steve Valentine, Ravi
Kapoor, Kathryn Hahn, Jerry
O’Connell
23:50 LE VITE DEGLI ALTRI Real
Tv Conduce Angela Rafanelli
00:50 TG LA7 Notiziario
01:05 OTTO E MEZZO Attualità
Conduce Lilli Gruber
01:45 G’ DAY Varietà Conduce
Geppi Cucciari
Rainews
19:03 IL PUNTO SETTIMANALE
Attualità
19:27 AGRIMETEO Notiziario
19:30 TG3 Notiziario
20:00 IPPOCRATE Rubrica
20:30 TEMPI SUPPLEMENTARI
Rubrica
20:57 METEO Previsioni del
tempo
21:00
NEWS LUNGHE
DA 24 Notiziario
21:27 METEO Previsioni del
tempo
21:30 MERIDIANA - SCIENZA 1
Rubrica
21:57 METEO Previsioni del
tempo
22:00 INCHIESTA 3 Attualità
22:30 NEWS LUNGHE DA 24
Notiziario
22:57 METEO Previsioni del
tempo
23:00 CONSUMI E CONSUMI
Rubrica
23:27 METEO Previsioni del
tempo
Su Rai5, il primo Crialese
Ha partecipato a festival internazionali come il Sundance Film
Festival, il Brussels Film Festival e l’Avignon/New York Film Festival (dove ha ricevuto il premio per la migliore sceneggiatura): è
Once We Where Strangers, in onda su Rai5 oggi alle 21. Il
film è preceduto da «cinque buoni motivi» per essere visto, che
sono quelli di Annamaria Granatello, direttrice del premio Solinas. Il primo film di Emanuele Crialese, il regista di «Respiro» e
«Nuovo Mondo», non è mai stato distribuito nelle sale cinematografiche italiane e racconta la storia di un «sogno americano»
ambientato in una New York dai toni brumosi. Protagonisti Vincenzo Amato, Ajay Naidu, Jessica Whitney Gould e Anjalee Deshpande. Antonio è un cuoco che viene licenziato per essersi
rifiutato di cucinare una carbonara con l’aglio; Apu, il suo amico indiano, fa da cavia in un laboratorio.
I loro tentativi di integrarsi nella logica americana assumono
per entrambi risvolti grotteschi, che rivelano la spietatezza della
società che li circonda. La ricerca di un’identità per Antonio passerà attraverso l’incontro con Ellen, mentre per Apu l’arrivo di
Devi, sradicata dall’India, rappresenterà lo spettro di antiche
tradizioni rinnegate.
pagina 14
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
COMMUNITY
DALLA PRIMA
terraterra
Marco Rovelli
Paola Desai
Cile, il presidente e le dighe
L’
annuale «discorso alla nazione» del
presidente cileno Sebastian Pinera,
sabato 21 maggio, è stato accompagnato dalla più forte protesta di piazza finora avvenuta contro il progetto di costruire
cinque mega dighe nella Patagonia cilena.
È successo a Valparaiso, nel Cile meridionale, dove migliaia di persone hanno partecipato a una marcia di protesta finita in scontri con la polizia. Per la verità non si trattava solo delle dighe, perché la manifestazione organizzata dalla Central Unica de Trabajadores - la maggiore confederazione sindacale del paese - intendeva opporsi al governo Pinera per le politiche economiche,
del lavoro, sociali, dell’istruzione, ambientali, e gli slogan chiedevano di mantenere
le numerose promesse elettorali. C’erano
organizzazioni studentesche e di vecinos,
comitati di quartiere. E c’erano gruppi ambientalisti e tutta la rete di forze sociali che
da anni ormai si oppone a quel progetto di
dighe che se realizzato stravolgerà la geografia dell’Aysen, regione della Patagonia cilena.
Il progetto prevede una serie di 5 dighe
sui fiumi Pascua e Baker, con centrali idroelettriche per un totale di 2.750 megawatt;
l’energia sarà poi trasportata verso nord
nella regione di Santiago del Cile e del suo
distretto industriale, 2.300 chilometri più a
nord. Per questo il progetto prevede di costruire una linea di trasmissione composta
da 6mila torri alte 70 metri che attraverserà
i territori Mapuche, tagliando nove regioni
(metà del Cile), sei parchi nazionali e 67 comuni e che nei prossimi mesi dovrà passare il vaglio delle competenti autorità ambientali. Le dighe sommergeranno ben
5.600 ettari di un raro ecosistema forestale,
con impatti socio-ambientali enormi. Contro le dighe dell’Aysen in Cile tre anni fa è
stato fondato il «Consiglio della difesa della
Patagonia», che comprende una sessantina di organizzazioni sociali, culturali, religiose, ambientali e studentesche. E la questione è giunta a un momento decisivo: un
paio di settimane fa la Commissione ambientale della regione dell’Aysen ha approvato il progetto a maggioranza schiacciante (ne riferiva terraterra del 11 maggio). Da
allora si sono levare nuove voci, anche molto autorevoli, per chiedere al presidente Pinera di ripensarci, riesaminare il progetto e
il suo impatto complessivo - sull’ambiente,
sociale, umano. Pinera ha parlato anche
del progetto nell’Aysen, durante il suo discorso alla nazione. Più volte interrotto dalle contestazioni - deputati dell’opposizione avevano portato uno striscione «Patagonia senza dighe» fin dentro la sede del Congresso a Valparaiso - il presidente ha detto
che quelle dighe sono necessarie per produrre l’energia di cui il cile ha bisogno; che
è ben cosciente delle sue responsabilità verso l’ambiente ma è responsabile anche dello sviluppo del paese. Ha promesso che
una commissione di esperti valuterà il progetto prendendo in considerazione anche
le istanze dei cittadini - ma «non possiamo
volere energia e consumarla in abbondanza, e allo stesso tempo opporci a tutte le
fonti per produrla».
A sostegno delle forze sociali cilene che
si oppongono alle dighe del Aysen si è formata anche una «Campagna italiana Patagonia senza dighe». La mobilitazione italiana ha un motivo preciso. Infatti il consorzio HidroAysen, che promuove il progetto,
è per il 51% di proprietà di Endesa, che ne
è anche capofila (l’altro 49% è della cilena
Colbun). E la compagnia Endesa è controllata proprio dall’Enel, controllata per il
32% dallo Stato italiano tramite il ministero dell’Economia e delle Finanze. Così un
progetto che provoca polemiche e opposizioni in Cile chiama in causa anche l’Italia.
il manifesto
CAPOREDATTORI
marco boccitto, micaela bongi,
michelangelo cocco, sara farolfi, massimo
giannetti, giulia sbarigia, roberto zanini,
giuliana poletto (ufficio grafico)
il manifesto coop editrice a r.l.
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EMILIA-ROMAGNA
Mercoledì 25 maggio ore 17,30
CONVERSAZIONE CON MARGHERITA
HACK Andrea Battistini, professore di Letteratura italiana e conoscitore dei rapporti tra
letteratura e scienza, converserà con Margherita Hack. L’incontro sarà presieduto da
Flavio Fusi Pecci, Direttore dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Bologna.
■ Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Piazza Galvani 1 - Bologna
Martedì 24 maggio alle 17.30
TAVOLA ROTONDA “QUARTO CONTO
ENERGIA” Per approfondire gli aspetti
tecnici ed economici e valutare le ricadute,
per i cittadini, le aziende e sul mercato in
generale, dell’installazione di impianti fotovoltaici.
■ Sede regionale di Legambiente,
Piazza XX settembre 7 - Bologna
LAZIO
Martedì 24 maggio ore 17.30
AMARA TERRA Documentario sulle brigantesse di Giovanni Di Marco. Saranno presenti il regista, parte del cast, e gli storici curatori del documentario. Si Inizia alle 19,30
con apericena, seguirà la proiezione e successivamente eventuale dibattito a sottoscrizione libera.
■ PIRATERIA, Circonvallazione Ostiense, 9 - Roma
Mercoledì 25 maggio ore 18.00
CRONACA DI UN'ATTESA Presentazione
del libro Cronaca di un'attesa di Barbara
Balzerani (Ed. Derive Approdi). Ne discute
con l'autrice Tano D'amico. A seguire Reading di Tamara Bartolini, Michele Baronio,
Carmen Iovine
■ Casetta Rossa, Via Magnaghi 14 Roma
LOMBARDIA
Martedì 24 maggio ore 21.00
PERCORSI SBARRATI: QUANDO LA
MIGRAZIONE DIVENTA DETENZIONE
Intervengono: Salvatore Palidda, Sociologo,
Professore Associato Università di Genova
Fabio Quassoli, Sociologo, Professore Associato Università di Milano. Introduce e modera Alessandra Melloni, volontaria Naga
■ NAGA, Via Zamenhof 7/a - Milano
SARDEGNA
Dal 23 maggio
INCONTRI DI FOTOGRAFIA Le associazioni 4Cani per strada e Piccolo Formato presentano un corso rivolto a chi vuole
incontrarsi per approfondire e conoscere a
fondo la fotografia e scoprire le tecniche di
stampa manuale e di sviluppo del negativo
B/N nel laboratorio di Camera Oscura
■ Spazio liberato della EX-Q, corso
Angioy - Sassari
TOSCANA
Martedì 24 maggio ore 21.30
CHUECATOWN Il cineforum cult di Azione
Gay e Lesbica, presenta "Chuecatown" (regia di Juan Flahn -Spagna 2007). Ingresso
libero e aperto a tutti/e/. Nell'occasione
sarà possibile acquistare il biglietto del pullman per partecipare all'Europride di Roma
(sabato 11 giugno, 10 €andata e ritorno,
partenze da Firenze e da Prato)
■ Azione Gay e Lesbica, Via Pisana
32 r - Firenze
Segnalazioni: [email protected]
Clandestini, islamici,
zingari, comunisti ad
abbeverare i cavalli
in piazza Duomo: un esercito
di fantasmi in fitta schiera.
Troppo fitta per essere credibile, viene da pensare, come
di un giocatore che si gioca
tutte le sue carte in una mano
sola non facendo che rivelare
la propria oscena nudità. Perché l’evocazione dell’Altro come nemico funziona, lo sappiamo bene, ma non è sufficiente per sé sola. Può essere
– ed è – un elemento catalizzatore: ma ci deve pur essere
qualche cosa da catalizzare.
La costruzione della paura
è un vettore fondamentale
per l’acquisizione del consenso politico, Hobbes ce l’ha
spiegato bene, e per la «servitù volontaria» degli uomini.
Ma quando suona la ritirata
ci vuole ben altro per rinserrare le fila: e invece il Caro Leader è lì ad enunciare il proprio assedio, e risulta palese
la sua richiesta di soccorso,
come fosse un prestigiatore
che, di fronte al pubblico che
abbandona il teatro, in stato
confusionario apre la valigia
e mostra a tutti i trucchi del
mestiere. Certo, questa extrema ratio potrebbe ancora
funzionare: del resto il popolo italiano è stato così a lungo
abbagliato dai miraggi di questo illusionista che davvero
non sappiamo quanto sia stato antropologicamente modificato e pronto a credere a
ogni bubbola. Ci hanno provato con la signora Rizzi che
ha gridato all’aggressione
(ma era costruita male, di fretta, anch’essa frutto di un evidente stato confusionale:
«Mi prendeva a calci gridando Viva Pisapia», e già solo
questo è talmente ridicolo
che nel momento di risveglio
uno si rende conto che è solo
un sogno di pessima qualità).
E figuriamoci se in questi ultimi giorni accadesse uno di
quei fatti di cronaca nera così
clamorosi che non si potrebbe non pensare anch’essi costruiti ad arte.
Ma davvero forse stavolta
siamo arrivati allo smascheramento finale. Perché – ed è
questo il cuore della questione – l’armamentario retorico
di una barbarie (islamici, zingari, stranieri) che assedia
una città moderna e tecnologica - «alla vigilia dell’Expo» fa certo leva su un immaginario di lunga durata, un immaginario razziale che percorre
la storia della nostra modernità europea, ed è su questo
che puntano il Caro Leader e
i suoi spin doctors. Ma quando la barbarie (etica, sociale,
economica) è qualcosa che si
percepisce come inerente al
cuore stesso della propria società, si smette di preoccuparsi della barbarie dell’Altro, e
la priorità diventa quella di risanare la propria.
Ecco, forse a questo punto
ci siamo, o quantomeno questa vicenda di Milano è un
sintomo che ci potremmo arrivare.
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chiuso in redazione ore 21.30
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A prima vista sembrano missionari
comboniani. Sono invece i militari
dell’Africom, il Comando Africa degli
Stati uniti. A Gibuti curano i poveri,
mentre in Etiopia costruiscono scuole
e pozzi e, nel Malawi, affrontano
un’emergenza umanitaria. Queste e
molte altre opere di bene realizza
l’Africom. «L’America ha la responsabilità di lavorare con voi come partner», ha detto il presidente Obama
nello «storico» discorso dell’11 luglio
2009 in Ghana, garantendo che il
Comando Africa avrebbe contribuito
anzitutto a «risolvere pacificamente i
conflitti». E assicurando che «l’America non cercherà di imporre alcun sistema di governo a nessun’altra nazione», poiché «la verità essenziale
della democrazia è che ogni nazione
determini il proprio destino». Venti
mesi dopo, il 19 marzo 2011, l’Afri-
gnados" , la calorosa intenzione ad
«....iniziative, azioni, impegno personale...». Delle due l’una: o si va al mare
o ci si impegna personalmente, magari andando civilmente a votare per un
quesito referendario, ovvero o si scende in piazza a partecipare oppure si
può rimanere attaccati ad una tastiera
di pc a dichiarare la propria pochezza
civile! Ma dico io, lettore del manifesto da anni, mi devo pure sorbire le
sciocchezze del tuttologo di turno, ma
soprattutto mi spiegate, a questo punto, perché pubblicate le "lettere" di
questo Vivian e cestinate le mie?
Vincenzo Galluccio
Il potere e l’impunità
____________________________________________
POSTA Prioritaria
Repulsione e rabbia
Tutte le analisi della maggioranza in
merito alla sconfitta milanese della
Moratti, sono prive di fondamento e di
quella capacità critica e obiettività,
che esulino da tornaconti psicologici e
dalle attenuanti addotte a giustificarne
la causa. I motivi di un tale capovolgimento, non sono stati i toni da guerra
civile adottati come armi improprie, da
Silvio Berlusconi e accoliti, allo scopo
di delegittimare Giuliano Pisapia; No,
la verità è un’altra! L’evidente disaffezione dei cittadini italiani verso questi
“signori”, é relativa al fatto che, dopo
quasi un ventennio, anche i più caproni e rintronati (...), cominciano ad avvertire nausea, conati vomito e una
sorta di repulsione fisica ed estetica
verso una classe politica che, non solo
li ha illusi ma, per anni li ha usati e
abbindolati, a fronte di privilegi, impunità e potere. Questa destra fasulla al
governo del paese, si è sempre rivolta
ai suoi elettori come ad un branco di
asini ammaestrati, incapaci (a loro
vedere) di un benché minimo personalismo e sussulto di dignità. (...). Ed è
per questi motivi che la rabbia degli
ingannati, dei raggirati e dei traditi,
esploderà in tutta la sua ferocia, montando oltre ogni più rosea aspettativa
e previsione. Il vaso era colmo da tempo, e se pur fuori tempo massimo, le
elezioni amministrative sono state il
pretesto ideale, per liberare e rendere
palese una frustrazione al limite del
sopportabile. Pisapia stravincerà il ballottaggio con un consenso quasi univoco, rendendo così vano, il prevedibile
battage di delegittimazione “a tambur
battente” contro la sua persona, e sancire così, la fine di uno fra i periodi più
torbidi e inquietanti della nostra Repubblica. Gianni Tirelli
___________________________________________
caso di vittoria: siamo all'abuso d'ufficio. al voto di scambio e per di più
con danno erariale. Avv. Felice
Besostri
Le destre a foruncolo
I recenti casi di convulsioni e demenza
verificatisi nella destra a Milano hanno
acceso il dibattito tra sociologi e politologi per stabilire se essa abbia prevalentemente le caratteristiche del foruncolo (destra foruncoloide, detta anche
destra del Berlusconi) o del favo (destra favoide detta anche destra Marcegaglia). La destra a foruncolo si manifesta all'inizio come un rigonfiamento
doloroso, circondato da un'area molto
infiammata che, soprattutto se sottoposta a pressione com'è avvenuto nel
capoluogo lombardo, può rompersi
liberando la destra necrotica, una sostanza purulenta dall'odore nauseabondo. La lesione non guarisce ma si riduce trasformandosi in una cicatrice essudativa infettante che dopo un lungo
periodo di tempo tende a riallargarsi.
La destra a favo o di Marcegaglia è
invece un insieme di destre a foruncolo più piccole ma concentrate nel medesimo spazio, con un’intensa azione
infiammatoria ed infettiva. Anche in
questo caso, sottoponendo l'area a
pressione, il pus che si forma nelle
destre a foruncolo componenti del
favo, fuoriesce in parecchi punti della
società contaminando un'area abbastanza vasta. In ogni caso il pus e gli
altri essudati dei due tipi di destra quella a foruncolo del Berlusconi o
quella a favo di Marcegaglia - sono
talmente ammorbanti da mandare in
cancrena la società in cui siano stati
lasciati troppo liberi di diffondersi.
Renzo Butazzi
Il pc e la pochezza civile
Sempre pagato le multe
Sono esterefatto da cittadino che ha
sempre pagato le multe, anche quando sono stato multato per essere entrato nella zona Ecopass alle 19.25, dalla promessa di condono delle multe in
Qualche settimana fa leggevo una lettera a firma di Fabio Vivian e sulle pagine del manifesto l'accorato invito ad
andare al mare nel giorni dei referendum, oggi leggo, ancora a firma di
Fabio Vivian ed a proposito degli "indi-
L’arte della guerra
DIR. RESPONSABILE norma rangeri
VICEDIRETTORE angelo mastrandrea
CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
PRESIDENTE valentino parlato
CONSIGLIERI miriam ricci,
emanuele bevilacqua, ugo mattei,
gabriele polo (dir. editoriale)
❚
I missionari dell’Africom
com ha lanciato l’operazione Odyssey
Dawn, la prima fase della guerra il
cui reale scopo è rovesciare il governo di Tripoli per imporre alla Libia
(paese con le maggiori riserve petrolifere dell’Africa) un governo gradito a
Washington. Obama ha anche detto
che gli Stati uniti sono impegnati a
sostenere in Africa «forti e durature
democrazie», poiché «lo sviluppo dipende dal buon governo». Compito
che l’Africom attua formando in Africa «forze militari partner, professionali e capaci, per creare una situazione
stabile e sicura a sostegno della politica estera Usa». Contribuisce cioè al
Manlio Dinucci
buon governo in Africa, facendo leva
su quei vertici militari che Washington ritiene affidabili o conquistabili.
Molti ufficiali vengono formati nel
Centro di studi strategici per l’Africa
e in vari programmi, soprattutto l’Acota attraverso cui sono stati addestrati
circa 50mila istruttori e soldati africani. Stesso scopo hanno le esercitazioni militari congiunte, come l’Africa
Lion attualmente in corso in Marocco, dove sono sbarcati 2mila marines. L’esercitazione, cui partecipano
900 militari marocchini, è diretta da
un comando congiunto mobile (Djc2)
inviato dallo U.S. Army Africa, il quartier generale di Vicenza delle forze
terrestri AfriCom, collegato a quello
delle forze navali con sede a Napoli.
Il Djc2, spiega un ufficiale, può essere dispiegato «in qualsiasi condizione, in qualsiasi parte del continente».
Anche se il quartier generale del Comando Africa resta a Stoccarda, data
la riluttanza di quasi tutti i paesi africani ad ospitarlo, e Obama assicura
che esso «non mira ad avere un punto d’appoggio in Africa», l’Africom ha
già qui una forza permanente: la Task
Il direttore di «Oggi», Umberto Brindani, riguardo a Strauss-Kahn, accusato
di violenza carnale (preferisco questa
espressione al termine di norma usato), scrive: «Come può un uomo ricco,
potente, colto, raffinato, in ascesa,
andarsi a ficcare in un disastro simile?
Certo, non è il primo, e non sarà l'ultimo, a confondere il potere con l'impunità». A me pare che non si tratti di
potere e neppure di confusione tra
questo e l'impunità. Si tratta semplicemente dell'incapacità di dominare i
propri bassissimi istinti bestiali. E questo, infatti, accade anche a uomini
non ricchi, non potenti, non colti, che
davvero non possono fare confusione
tra il potere che non hanno e l'impunità. Che si tratti di tale incapacità è
provato ancor più dal fatto che, nel
caso specifico, l'uomo potente non
solo avrebbe avuto tutto l'interesse a
non mettersi nei guai, ma avrebbe
anche la possibilità, essendo appunto
ricco e potente, di avere facilmente
relazioni con donne. Superfluo ricordare che Strauss-Kahn è da considerarsi
innocente sino alla conclusione del
processo.
Francesca Ribeiro
La storia di De Luca
L’enorme successo ottenuto da Vincenzo De Luca alle recenti elezioni amministrative di Salerno (il 74,42% dei voti,
percentuale più alta d’Italia) induce a
riflettere sul rapporto, non sempre chiaro e lineare, tra politica e amministrazione. È indubbio che De Luca sia un
ottimo amministratore, un Sindaco che
è stato capace di
cambiare radicalmente il volto della
città di Salerno. E questo dato spicca
ancora di più se esso viene confrontato con i pessimi risultati amministrativi
ottenuti in città vicine come Napoli.
Ma De Luca può anche essere definito
un ottimo politico, una persona cioè
dotata di un pensiero politico chiaro e
lineare, adeguato a un leader di un
partito progressista come il Partito Democratico? Non sembrerebbe alla luce
delle numerose gaffe commesse nel
corso della sua storia politica (le ultime sono la mancata rinuncia alla prescrizione in un processo che lo riguardava, dopo aver promesso di rinunciare; l’affermazione che se avesse abitato a Napoli avrebbe votato il candidato della destra Lettieri e la critica a
Gianfranco Fini di abusare del suo
ruolo di Presidente della Camera. Quindi la storia di De Luca è la dimostrazione che non sempre la buona amministrazione e la buona politica vanno
d’accordo. Del resto si pensi ai tanti
buoni amministratori leghisti che ci
sono al Nord (...). Questo è il motivo
per cui, secondo me, gli aderenti al Pd
e a SeL che hanno votato per De Luca
hanno sbagliato. Speriamo che Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris vincano i prossimi ballottaggi e che dimostrino, successivamente, di essere anche
buoni amministratori. Franco Pelella
Pagani (Sa)
force congiunta del Corno d’Africa,
circa 2mila uomini con base a Gibuti,
che conduce operazioni (in gran parte segrete) in diversi paesi. L’Africom
ha anche diverse «Stazioni per la partnership in Africa»: navi da guerra che
vanno di porto in porto, funzionando
da basi mobili in cui vengono addestrati i militari africani. Scali preferiti
quelli dell’Africa occidentale, regione
ricca di petrolio e altre preziose risorse, dove la fregata lanciamissili Robert G. Bradley ha visitato in aprile
Capo Verde e Senegal. Per l’addestramento (e per operazioni segrete),
l’Africom si avvale anche di compagnie militari private, come le famigerate DynCorp e Xe Services, pagate
con il fondo di un miliardo di dollari
istituito dal Dipartimento di stato per
«il mantenimento della pace in Africa».
il manifesto
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2011
pagina 15
next
COMMUNITY
Come reagire
per attenuare
l’offensiva mediatica
della mummia
Il ritorno della mummia televisiva
ha lo scopo di chiamare al voto gli
elettori che a Milano gli hanno voltato le spalle lasciandolo a secco
di preferenze. E la televisione è lo
strumento più efficace per parlare
all'elettorato di riferimento. Pochi
voti bastano nel maggioritario a
fare la differenza tra chi perde e
chi vince. Abbiamo imparato che la
forza mediatica di Berlusconi è
un'arma capace di far risalire i sondaggi e i voti (vedi la campagna
sulla sicurezza nelle elezioni del
2008), cambiando l'agenda, imponendo i temi di campagna elettorale sui quali deformare il dibattito
pubblico.
Come si può, se non neutralizzare,
almeno attenuare la potenza di
fuoco del conflitto di interessi?Cosa si può mettere in campo per far
rispettare le regole della par condicio?
La campagna elettorale di Pisapia
sta assumendo forme creative: tormentoni con tutto quello che fa
rima con Pisapia, nastrini arancione di cui parliamo nell'articolo di
oggi, contestazioni ai mercati durante le passerelle di Moratti. Una
controffensiva nella comunicazione
e una riattivazione della partecipazione delle persone. Che però deve
fermarsi al contesto locale.
La comunicazione
creativa
della campagna
elettorale
di Pisapia
può attenuare
lo scempio
della televisione?
INVIATE I VOSTRI COMMENTI SU:
www.ilmanifesto.it
[email protected]
–
❚
La sinistra
va in città
CODICI ELETTORALI
PERCHÉ SOLO
IL VOTO
NON BASTA PIÙ
Enzo Mazzi
A
ncora una volta la competizione
elettorale coinvolge con una tale
carica emotiva «apocalittica» che
si rischia di perdere il senso della sua relatività. Le elezioni, così come vengono
vissute, appaiono come un «buco nero
siderale» che ingoia energia, senso della
vita, ricchezza di rapporti, e crea il vuoto di reale partecipazione democratica.
Perché insinua e diffonde nella convivenza civile il veleno mortifero della cultura della contrapposizione. Non per
nulla si usa un codice espressivo spietatamente binario, sì/no, bianco/nero, di
qua/di là, vinti/vincitori. E questo dover
tagliare col coltello è impietoso per chi
ama la complessità dell’esistenza sia
personale che sociale e su tale complessità fonda il senso della politica.
C’è in vista una reale alternativa alle
elezioni? Ritengo di no. Ma la società civile dei diritti di tutti e della solidarietà,
l’associazionismo di base, l’area del volontariato, dell’autonomia e della responsabilità, è confermata nella sua
convinzione che il mondo della politica, sempre più lontano dalla vita, deve
tornare a intrecciarsi con i sentieri della
trasformazione dal basso della società
intera e delle singole coscienze.
È una nuova cultura che deve svilupparsi, per guidare i processi del cambiamento invece di esserne dominati. Serve conoscenza, razionalità, fiducia, collaborazione. E non la paura che è sempre
più lo strumento per attirare consensi.
Strumentalizzare e fomentare a scopo
di potere e di dominio lo sconcerto e anche la paura del parto sociale che sta avvenendo nel grembo fecondo della realtà attuale è una forma grave di criminalità politica. E purtroppo è proprio questo
che sta avvenendo. Di fronte a questa
mobilità planetaria si alimenta la paura
del diverso che attenta alla nostra identità, la paura dell’immigrazione che viene
a rubarci lavoro, benessere, tranquillità,
la paura del terrorismo che incendia il
mondo. Di fronte a conquiste scientifiche e tecnologiche che penetrano nel sacrario più intimo della vita, si enfatizzano in modo esasperato i pericoli in campo genetico e riproduttivo, si colpevolizza la responsabilità della donna nel campo riproduttivo fino ad accusarla di assassinio non solo per l’aborto ma per lo
stesso uso della pillola abortiva. Di fronte a prese di coscienza e scoperte nel
campo della psiche che rivelano profondità e pluralità di modi di essere finora
ignorati, che impongono l’affermazione
di diritti negati di parità della donna,
che aprono orizzonti di dignità per le
persone dall’orientamento sessuale finora represso, si demonizzano nuovi modi
di impostare i rapporti umani come attentati alla natura.
Un grande compito di formazione
culturale sta davanti alla politica e alla società civile e una grande alleanza
s’impone fra istituzioni, organizzazioni sociali e movimenti per guarire dalla paura e ritrovare fiducia. La delega
democratica usata come sedativo addormenta il senso critico e consente
al cosiddetto berlusconismo di covare sotto la cenere. La partecipazione
critica della società, possibile solo se
la politica fa un passo indietro e si allea di nuovo con la vita, è essenziale
per non trasformare l’elezione in un
affidamento irresponsabile che esorcizza la paura ma non la guarisce.
VUOTI DI MEMORIA
–
Stalingrado
Alberto Piccinini
Soltanto tre settimane or sono (...) nel pieno della gravi sventure che la Nazione affrontava nella battaglia sul Volga, ci siamo raccolti in un raduno di massa, il 30 di gennaio,
per mostrare la nostra unità, la nostra unanimità e la nostra ferma volontà di vincere le
difficoltà che fronteggiavamo nel quarto anno di guerra. Fu per me un’esperienza commovente e probabilmente lo fu per tutti voi, essere collegati via radio con gli ultimi, eroici combattenti a Stalingrado durante il nostro possente raduno, qui allo Sportpalast.
Essi ci comunicarono che avevano ascoltato il proclama del Führer e forse per l’ultima
volta nella vita si univano a noi colle braccia tese per intonare gli inni nazionali. Quale
esempio hanno rappresentato i soldati tedeschi in questa grande epoca! E che obblighi
ciò impone a noi tutti, in particolare all’intera madrepatria tedesca! Stalingrado è stata
ed è il grande monito del destino alla Nazione tedesca! Una Nazione che ha la forza di
sopravvivere ad un tale disastro e vincere, ed in più trarne forza ulteriore, è imbattibile.
Nel mio discorso a voi e al popolo tedesco io ricorderò gli eroi di Stalingrado, che hanno lasciato a me e a voi tutti un immenso dovere da compiere. Io non so quanti milioni
di persone mi stanno ascoltando stanotte alla radio, a casa e al fronte. Voglio parlare a
tutti voi dal profondo del mio cuore ai vostri cuori. (Joseph Goebbels, discorso allo
Sportpalast di Berlino dopo la sconfitta di Stalingrado; 18 febbraio 1943)
P
er tanto tempo, di fronrisponde al proprio benessete al crollo dell’ideolore reale; e non sempre è innogia e ai tanti comportacente, lui stesso portatore e
menti dissidenti di vecchi miartefice della propria e altrui
litanti delusi e disincantati
infelicità privata e pubblica.
che nemmeno più si recavaTuttavia, a ben vedere ciò
no a votare, ci siamo chiesti
che sta accadendo in questi
cosa significasse oggi essere
giorni a Milano, così come a
di sinistra, in una realtà semNapoli, ma anche nei paesi
pre più complessa e sempre
arabi o nella piazza del Sol, si
meno classificabile nei vecdirebbe che alla fine prevalchi e rassicuranti schemi di
ga la sua natura conviviale ripensiero. Un dibattito che si
spetto a quella individualistiè svolto silente per molti anca, perfino la sua parte gentini e che cercava di individuale. Se approfittassimo di quere un significato nuovo da sosto squarcio di sole per celestituire al vecchio; che fosse
brarne solo la sua parte buocondiviso dai molti senza dona, quella inevitabilmente sover ricorrere, appunto, alciale e solidale, dimentichel’ideologia dei o del Partito o
remmo le tante e grandi tracomunque alla tradizione pogedie che hanno costellato la
litica.
nostra storia e il secolo passaCome spesso accade, la vito. Ci sarebbe perfino da
ta reale mostrava fenomeni e
chiederci, nella nostra piccocomportamenti dei singoli,
la patria, perché siamo stati
soprattutto giovani, che non
governati da un berlusconipotevano che essere considesmo che ha dato fiato (ed è
rati di sinistra, seppure destato accolto) solo alle pulsiovianti o anomali rispetto a
ni più profonde e perverse
ciò che abbiamo sempre credell’animo umano.
Enzo Scandurra
duto fosse la sinistra. Negli
Giuliano Pisapia, sopratultimi anni questi fenomeni
tutto, è un fenomeno nuovo
e comportamenti sono divenche va osservato, indagato,
tati più evidenti e perfino egemoni sul piano culforse è la figura nuova della sinistra che si aspetturale ma anche politico. Le proteste degli stutava da tanto tempo: un uomo mite, intransidenti, le espressioni della società civile e, da ultigente nei suoi principi (ma questa intransigenmi ma non per ultimo, le proteste del mondo
za è un merito non una miopia o un difetto),
arabo e degli indignatos spagnoli. Proteste
ma capace di pensare, come invece fanno non
spiazzanti, imprevedibili perfino ai politologi
solo i suoi avversari ma anche molti della sinipiù avveduti ma che mirano al cuore dell’ingiustra, che non ci sono, e non ci saranno mai, fini
stizia e della mancanza di libertà reale di paesi i
meritori che possano giustificare mezzi illeciti.
più diversi: dalle dittature arabe, ai governi deUn insegnamento che la sinistra ufficiale non
mocratici dell’Europa (che strano accoppiaha mai compreso, che anzi ha snobbato come
mento!). Questo essere nuovo della sinistra non
appartenente alle anime belle fuori della micorrisponde affatto ai modelli che vecchi milischia.
tanti del Pd, in odore di nuovismo, ci avevano
E’ presto e azzardato dire tutto questo? Direi
propagandato (il riformismo veltroniano, l’astudi no ad osservare non già e non solo i risultati
zia tattica di dalemiana sempre utile a far perdeelettorali del primo turno, quanto piuttosto lo
re le battaglie) e neppure a
spettacolo di città che pensaquelli della sinistra più radivamo socialmente decadenComportamenti
cale. Era (è) qualcosa che va
ti, proiettate: Milano nella fiee fenomeni
oltre questi recinti e che pora delle global city tanto care
trebbe essere riassunto nella
ai celebratori della globalizzache
in
passato
formula (di Arrigoni): essere
zione e Napoli nel folklorinon erano considerati smo romantico e guappesco
umani. L’essere umano, ce
lo ha tante volte ripetuto Indei munnezzari e amanti deldi sinistra, in questi
grao, è qualcosa di indicibile,
la pommarola. Da queste citultimi anni sono stati tà, dalle loro piazze creative,
difficile da definire con una
sola parola e tanto meno riasinvece riparte una speranza.
corpo
e
anima
sumibile in quel termine conLeggendo ciò che sta accadel cambiamento.
testato dalla Arendt di generidendo, guardandolo (stupeco appartenente all’umanifatti)
dagli schermi della tv
La sinistra di Pisapia
tà. Essere umano si diventa,
come uno spettacolo inaspetne è un bell’esempio
non ci si nasce, diceva la filotato, viene la voglia, a chi in
sofa ebrea. Ma l’essere umaquelle città non abita e non
no, a differenza delle altre specie viventi del piarisiede, di prendere il treno per unirsi a loro, o
neta, è innanzi tutto essere sociale, conviviale;
prendere un aereo per andare a Madrid o in
vive bene in compagnia; da solo è condannato
una delle tante piazze delle tante città della
alla pazzia e al delirio delle proprie fantasie e ossponda sud del nostro mediterraneo dove la
sessioni.
gente è uscita nelle strade a riguardar le stelle. I
Non è, l’essere umano, però solo conviviale,
saggi, i politologi, gli interpreti di ciò che sta acsolo pacifico, solo desideroso della propria e alcadendo (e che quasi mai ne azzeccano una), ci
trui felicità. Franco Cassano in un suo libro remettono in guardia, ci invitano alla moderaziocente, che ha suscitato un grande e liberatorio
ne, quasi quasi dispiaciuti che la storia non li abdibattito L’umiltà del male, ci ricorda la sua parbia consultati prima evitando loro la solita brutte oscura. Non sempre sa far buono uso della lita figura di essere stati spiazzati o smentiti nelle
bertà che pure invoca e, talvolta neppure semloro previsioni. I giovani non sono sorpresi, il
brerebbe desidera; non sempre ha presente a
nuovo sanno accoglierlo e non sempre la loro è
se stesso i propri limiti, spesso confonde desideingenuità destinata a ritornare nel cono d’omrio e realtà, non sempre sa scegliere ciò che corbra.
SINISTRA, NAPOLI E MILANO
ILCAMPOLARGO
DELVOTO:NÉESTREMI
NÉ MODERATI
Carmine Fotia
L’
elettorato del centrosinistra è più coeso di quanto siano i partiti che, bene o male, lo rappresentano. E anche molto più saggio dei suoi gruppi dirigenti, a cominciare da quelli del Pd, i cui errori a
Milano, a Cagliari, soprattutto a Napoli, sono
stati corretti dai suoi stessi elettori. I quali
hanno anche chiaramente indicato alla sinistra più radicale la necessità di un’assunzione di responsabilità di governo (voto a Sel e
alla Fds) senza però perdere di vista la necessità di incrociare la nuova protesta civile che
anima le piazze italiane (il travaso di voti dall’Idv al Movimento cinque stelle onestamente ammesso da Di Pietro).
L’idea che il Pd avrebbe dovuto rompere
con Sel, Idv e Fds, per andare all’abbraccio
con il centro moderato è stata bocciata dagli
elettori che hanno invece indicato una strada
diversa: scegliere le persone che rappresentino valori diversi rispetto agli avversari e sceglierli con un metodo, quello delle primarie
che (come annotava su Il Riformista di giovedì scorso Claudio Petruccioli) restituisce potere ai cittadini e lo sottrae alle oligarchie di partito. In questo senso, non si deve avere nessuna paura delle parole: si tratta di scelte "radicali", che non vuol dire affatto "estremiste".
Difatti, tali scelte, se sostenute da persone
giuste e da idee forti, non sono affatto prive
di appeal per l’elettorato moderato. Pisapia
ha saputo compiere un gesto ghandiano, rifiutandosi di stringere la mano a chi l’aveva
appena calunniato, con la mitezza di chi non
ha bisogno di urlare perché ha con sé la forza
delle sue idee.
A dispetto dei predicatori del moderatismo, tale appeal sembra averlo anche De Magistris a Napoli, la cui vittoria al primo turno
non va letta per nulla sull’asse estremismo/
moderazione piuttosto su quello illegalità/legalità. Su De Magistris si è riversato un sentimento civico, un bisogno di rottura non solo
con un centrodestra colluso con la camorra
ma anche con un centrosinistra che lì come
in Sicilia e in Calabria, aveva espresso il peggio. Non si spiegherebbe perché, altrimenti,
Umberto Ranieri, l’esponente del Pd più vicino a Giorgio Napolitano (non solo straordinario Presidente, ma anche padre spirituale dei
riformisti italiani) si sia apertamente schierato per De Magistris e il moderato Pasquino
abbia fatto chiaramente capire che s’intende
più con lui che con Lettieri.
Sono segnali importanti, ci dicono che dal
berlusconismo non si esce con una proposta
sbiadita e neomoderata, bensì con una proposto di alternativa, credibile proprio perché
radicale.
A tal proposito, vorrei concludere segnalando due fatti che, secondo me, possono
contribuire alla necessità di uscire dalla «cultura del berlusconismo», che indicava Norma Rangeri. La prossima uscita, per i tipi di
Marsilio di un denso volume di Goffredo Bettini nel quale si lancia l’idea del Pd come
campo largo e inclusivo, aperto a Sel e Idv, liberato attraverso le primarie dagli inamovibili oligarchi: non un semplice cambiamento
ma una vera e propria rifondazione che rimetta al centro le parole chiave in grado di
costruire una nuova narrazione della sinistra.
Su un piano del tutto diverso, di «lievito
culturale per il centrosinistra del terzo millennio», si muove la riapertura del cantiere della
Rete, che ho promosso insieme a Leoluca Orlando e a tanti altri, con l’obiettivo primario
di lavorare anzitutto sul linguaggio, perché
siamo convinti che senza riconquistare l’autonomia delle nostre parole non potremo
mai essere realmente alternativi non tanto a
Berlusconi, quanto al berlusconismo.
Diario dal bunker anti-nucleare
O
ggi abbiamo avuto il piacere
di ricevere un ospite nel nostro rifugio, un’ospite speciale che si fermerà per un po’ con noi.
Si tratta di Janette, una delle tipe più
toste che abbiamo mai conosciuto.
Ma lasciamo che sia lei stessa a presentarsi, come si è presentata a noi.
«Sono nata il 22 settembre 1920 a
Varsavia, dove mi sono diplomata e
iscritta alla facoltà di giurisprudenza, ma la guerra ha interrotto i miei
studi. Ho vissuto i cinque terribili anni dell’occupazione tedesca, sono
stata testimone delle atrocità inflitte
alla popolazione polacca e in particolare agli ebrei. Ho poi preso parte
alla rivolta di Varsavia contro i nazisti. Dopo la quasi completa distruzione della capitale e la strage dei
suoi abitanti, sono stata deportata
Janette è con noi
con gli altri giovani
sopravvissuti in un
campo di lavoro in
Germania. Lì ho conosciuto un prigioniero italiano – «un traditore» – è diventato
mio marito. Quando
nel maggio del 1945 i
tedeschi si sono arresi, Piero Levratto è
tornato a Vado Ligure, portandomi
con sé. Ci siamo costruiti una bella
famiglia e fra pochi mesi arriverà anche il secondo pronipotino. Da
quando mio marito è morto diciotto
anni fa faccio volontariato insegnando all’Università della terza età. Da anziana ho
scoperto una forte
passione per la letteratura: ho scritto racconti e ora sto provando con il mio primo romanzo. Sono
orgogliosa di avere
contatti con Greenpeace e di dare
un contributo alla battaglia per la difesa dell’ambiente».
Janette è una signora minuta, piena di racconti da condividere e di vi-
vacità. Ci eravamo preparati a doverle spiegare gli aspetti più complessi
della nostra protesta, ma è stata lei
stessa a chiederci i dettagli, informandosi su ogni particolare. Anche
noi l’abbiamo subito subissata di domande sulla sua vita, sulla guerra.
Janette, che è nata in Polonia, ha
vissuto la storia del nostro paese come noi ragazzi della generazione 2.0
non possiamo neanche immaginare. È per questo che il suo appoggio
alla nostra protesta è ancora più importante. Sapere che non sono solo i
più giovani a credere in un futuro
migliore ci rende più forti. E a tutti
quelli che ci accusano di essere solo
dei ragazzi fricchettoni senza esperienza vorremmo presentare questa
giovane. A novantuno anni guarda
al futuro almeno quanto noi.