Private equity/buyout oggi

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Private equity/buyout oggi
PRIVATE EQUITY/BUYOUT OGGI
Con il termine private equity si associano categorie d’investimento differenti, che
comprendono buyout, growth capital, real estate, fondi di mezzanino, venture capital,
secondaries e altri. La riflessione contenuta in questo paper si applica al settore dei
buyout, che è la categoria di maggior peso dei fondi specializzati in alternative asset e, in
particolare, di private equity.
Negli anni fra il 2004 e il 2007 il settore del private equity/buyout ha avuto un
notevole sviluppo, a livello mondiale, testimoniato da commitment annuali degli investitori
finanziari che sono passati da meno di circa $100 miliardi all’anno nella prima parte del
decennio ad un picco di quasi $300 miliardi nel 2007.
Fund raising globale dei fondi di buyout e altre categorie di private equity
(Miliardi di Dollari )
646
636
Altre Categorie*
Buyout
536
344
248
220
202
141
98
230
80
70
45
75
110
2001
2002
2003
2004
2005
270
101
260
110
31
2006
2007
2008
2009
1 sem.
2010
*Altre categorie include fondi di turnaround, di “risorse naturali” (commodities e power), secondary,
mezzanino, di infrastrutture, di distressed debt, fondi di fondi, venture capital e real estate
Nota: il riferimento dell’anno della raccolta è quello in cui avviene il final closing
Fonte: Bain&Co. “Global Private Equity Report 2010”; Prequin
Come in una classica “bolla”, i commitment sono precipitati a circa $100 miliardi nel
2009 e ci si attende un ulteriore calo per il 2010.
Nel periodo di grande entusiasmo per i buyout è proliferato il numero dei fondi ed è
aumentata la loro dimensione; si sono quindi consolidati forti interessi alla preservazione
del settore. A fine 2010 è stato stimato in oltre 1.500 il numero, a livello mondiale, dei fondi
di dimensioni medio/grandi che stanno cercando di raccogliere capitali.
1
Il “dry powder”, cioè i commitment esistenti, cioè gli impegni di investimento da
parte dei sottoscrittori dei fondi che non sono stati ancora “chiamati”, sono stimati essere
intorno ai $400/500 miliardi; i capitali già investiti ed i commitment generano commissioni
annuali per decine di miliardi. La particolarità del settore è che i commitment scadono,
normalmente in cinque anni, ed i capitali investiti non generano più commissioni quando si
contabilizzano write-off o vengono effettuati disinvestimenti; se i capitali investiti nel settore
non sono rimpiazzati il declino è inevitabile, ed è questo quello che sembra capitare oggi.
In Europa il ridimensionamento del settore sarà molto più importante di quanto
sembrino indicare i numeri aggregati su base mondiale, in quanto i commitment annuali,
ancorché in forte diminuzione, vengono indirizzati prevalentemente a fondi negli USA (per
la maggior familiarità degli investitori istituzionali con tale mercato) e ai paesi emergenti
(per la presunzione che la maggior crescita possa compensare la minor esperienza dei
gestori)1.
Il ridimensionamento del settore non è una previsione: è una constatazione di
quanto sta succedendo. Per capirne le ragioni e la portata occorre analizzare le ragioni del
successo iniziale del settore, le degenerazioni recenti, i trend di diminuzione dei
rendimenti e le condizioni nelle quali ci si trova oggi ad operare (e che presumibilmente
continueranno). Tuttavia, il fatto che il settore dei buyout sia avviato ad un forte
ridimensionamento non vuol dire che non ci possano esser sotto-segmenti o modalità
operative che consentano anche in Europa di dare ritorni adeguati al rischio di business e
al costo implicito nella mancanza di liquidità del settore.
LE RAGIONI DEL SUCCESSO INIZIALE
Negli anni ‘90 e fino alla prima metà del primo decennio del nuovo secolo c’era un
numero limitato di fondi di private equity che operava, soprattutto in Europa, in un
ambiente relativamente facile: la concorrenza era limitata, l’offerta di aziende in vendita
era elevata (in molti casi per effetto della politica di privatizzazioni), le aziende erano sottomanagerializzate o erano state penalizzate nel loro sviluppo dalla mancanza di capitali. Le
uscite dagli investimenti avvenivano a prezzi crescenti in quanto i riferimenti di borsa
salivano e aumentavano i capitali disponibili per comprare le aziende o per finanziare i
compratori (acquisition financing) che quindi potevano pagare prezzi più elevati. In quel
periodo sono state realizzate in Italia varie operazioni che hanno avuto molto successo e
quindi hanno attirato molti imitatori: Panini, Pagine Gialle, Galbani, Lottomatica, Ferretti,
SISAL, SIRTI e più recentemente Gardaland.
La classica tipologia d’investimento era l’acquisto di un’azienda di proprietà
familiare o dello stato, l’utilizzo della leva finanziaria che serviva anche per ridurre le tasse,
l’inserimento di un management professionale, la focalizzazione della gestione
sull’ottimizzazione del capitale e la generazione di cassa; l’uscita dall’investimento era
realizzata con la vendita a operatori industriali ma anche ad altri fondi.
1
Nel 2010 alcuni grandi operatori (Carlyle, Blackstone) hanno lanciato anche dei fondi denominati in
Renminbi
2
Lo sviluppo del mercato americano delle operazioni di buyout aveva preceduto quello
europeo di una decina di anni e già all’inizio del 2000 si vedeva chiaramente che i
rendimenti erano in calo, come normalmente avviene in un mercato in progressiva
maturazione. E’ interessante analizzare la curva decrescente dei rendimenti del più
grande investitore istituzionale USA, CalPERS, che dal 1991 ha investito $56 miliardi in
circa 300 fondi (anche europei). Da rendimenti medi che all’inizio erano intorno a 2 volte i
capitali investiti si è passati a 1,5 nel primo quinquennio del 2000 fino a rendimenti nulli o
negativi nel periodo più recente.
Rendimento dei $56 miliardi investiti da CalPERS in fondi di private equity
(Multiplo del capitale per anno di origine (vintage))
3.0x
2.5x
2.0x
1.5x
1.0x
1.0x
0.5x
0.0x
1990
1992
1994
1996
1998
2000
2002
2004
2006
2008
Nota: include 297 fondi, compresi i ventures
Fonte: Dati CalPERS aggiornati al 31/03/2010 e disponibili sul sito di CalPERS
Bloccare capitali per molti anni prendendo dei commitment di investimento che poi
generano un ritorno medio di 1,5 volte il capitale investito non sembra essere molto logico;
il calcolo del rendimento percentuale (IRR) è un po’ complicato ma si assesterebbe intorno
ad un 6% annuo, valore che ovviamente non compensa la rischiosità e la mancanza di
liquidità. Il rendimento è chiaramente inaccettabile se invece di prendere a riferimento
quello medio si usa il rendimento degli anni più recenti. Un’analisi di Cambridge
Associates (la società indipendente che fa il monitoraggio di praticamente tutti i fondi di
private equity) stima il rendimento medio (IRR) degli ultimi 10 anni dei fondi di private
equity negli USA al 7,2% all’anno e al 11,7% in Europa2, in entrambi i casi in calo.
2
Cambridge Associate: “Western Europe Private Equity Index” e “US Private Equity Index”, aggiornato al
31/03/2010
3
La rischiosità di tali investimenti è dimostrata dalla variabilità della performance fra i
vari fondi: la tavola successiva riporta il caso CalPERS.
Distribuzione dei fondi di PE in cui CalPERS ha investito per classe di rendimento
(# di fondi )
96
Vintage
• Advent International (2005)
• Clessidra (2005)
• Insight Venture (2005)
74
• Wayzata Opportunities (2006) 27
• Carlyle Asia Growth (2008)
17
1991-1995
1996-2000
2001-2004
2005-2009
16
14
11
10
8
7
3
0
>2.0x
8
5
1.5x-2.0x
1
0 0
1.0x-1.5x
0.5x-1.0x
0 0 0
<0.5x
Classe di
rendimento
Nota: rendimento calcolato come multiplo complessivo i.e. (cassa ricevuta + valore residuo)/capitale versato
Fonte: Dati CalPERS aggiornati al 31/03/2009 e disponibili sul sito di CalPERS
Si potrebbe obiettare che la valutazione di ogni fondo nei primi anni del periodo
d’investimento risulta artificialmente negativa perché gli investimenti sono normalmente
valutati al costo diminuito delle spese di gestione; quindi i fondi più recenti sono penalizzati
nella valutazione comparata. Tuttavia sono sotto gli occhi di tutti le centinaia d’investimenti
recenti di fondi il cui valore è stato azzerato, e le centinaia di finanziamenti bancari
ristrutturati o stralciati in tutto o in parte (€54 miliardi solo in Europa nel 2009).
Un osservatore distaccato che constatasse la diminuzione continua dei rendimenti
dei fondi di private equity (versione buyout) arriverebbe alla conclusione di una bolla che si
sta gonfiando e di un settore che non consente più di investire con prospettive di
redditività. Al contrario, gli operatori del settore, che ovviamente hanno un interesse ad
attirare capitali e a continuare a ricevere commissioni, obiettano che la crisi del 2008-10 è
un evento irripetibile, che il settore si sta risvegliando negli USA (portando a dimostrazione
la rinnovata disponibilità di leva in alcune grandi operazioni ed il successo di alcuni
operatori nel raccogliere nuovi fondi3), e che comunque ci sono gestori migliori degli altri
sui quali vale la pena di investire. Dopotutto, anche le lotterie rappresentano una speranza
matematica negativa, ma ciò non scoraggia i giocatori! E come per le lotterie, anche nel
private equity si preferisce parlare molto dei casi di successo, quasi fossero la norma, e
dimenticare i casi a rendimento nullo o negativo, quasi fossero sempre l’eccezione.
3
Per esempio, CVC ha raccolto nel 2010 l’unico fondo di un importo superiore a $10 miliardi che è peraltro
destinato all’Europa; nell’anno precedente erano stati 10 gli operatori a chiudere fondi superiori ai $10
miliardi. Sempre nel 2009, ci sono stati 49 fondi che hanno raccolto fra $1 e $10 miliardi, numero che è quasi
un terzo di quello di fondi simili chiusi nel 2008. I dati si riferiscono a tutte le categorie di private equity; fonte
Prequin
4
Anche i team di investimento dei grandi investitori istituzionali hanno bisogno di
“credere” nel futuro dei buyout altrimenti si arriverebbe alla conclusione che il settore non
ha più speranza di rendimento e si potrebbe far a meno dei team stessi. Per capire chi ha
ragione e chi ha torto bisogna andare più in profondità nell’analisi.
LA RECENTE DEGENERAZIONE DEI BUYOUT
L’enorme afflusso dei capitali nel settore del private equity è iniziato sulla scia del
successo di alcune istituzioni finanziarie che avevano capito l’inutilità, per investitori di
lungo periodo, di pagare il premio di liquidità implicito negli investimenti in azioni quotate.
La fondazione di Yale ed il prof. David F. Swensen4 sono stati i precursori di questo trend
di spostamento di una parte significativa dell’asset allocation, successivamente imitato da
tantissimi investitori finanziari.
Lo spostamento di masse enormi di capitali (commitment) verso le operazioni di
buyout è stato amplificato dalla sempre crescente facilità con cui le banche hanno
finanziato fino al 2008 le operazioni “a leva”, passando da rapporti di 3-4 volte l’EBITDA
fino a 10 volte; in questo periodo si è perso di vista la possibilità che l’azienda caricata di
debiti potesse davvero ripagare il finanziamento acceso per l’acquisizione e al contempo
permettere al Fondo di uscire dall’investimento con un significativo guadagno sul capitale
investito. Si era creato un meccanismo infernale attraverso il quale ogni fondo aveva
l’incentivo a uscire dall’investimento il più presto possibile, per poter dimostrare un track
record positivo e raccogliere un fondo più grande (maggiori commissioni);
contemporaneamente le banche erano liete che il periodo di investimento fosse abbreviato
in modo da poter rifinanziare il debito necessario al nuovo proprietario per acquisire
l’azienda (maggiori commissioni) e ripagare il vecchio debito. Pagare i debiti accendendo
nuovi debiti non è mai stata una gran ricetta per il successo, ma questo è esattamente
quello che è avvenuto fino a quando è scoppiata la bolla.
Nel periodo terminato intorno al 2008 l’equilibrio domanda/offerta applicato al
settore del private equity era sbilanciato nel senso che capitali sempre maggiori andavano
a caccia di un numero limitato di opportunità, facendo lievitare i prezzi ed assicurando che
chi comprava un’azienda ad un prezzo di 100 poteva rivenderla ad un prezzo di 150 senza
nemmeno dover migliorare i risultati; dato che il 100 era finanziato per 70 dalle banche, il
rendimento sul 30 di equity investito era facilmente di 2,5 volte o più.
Non esistono analisi affidabili e statisticamente credibili di come i gestori dei fondi
hanno generato valore (reale o solo finanziario) nelle operazioni di buyout effettuate fino al
2007/8. In genere si ritiene che il maggior contributo sia stato dato dal deleverage (ossia la
riduzione dell’indebitamento conseguente alla generazione di cassa) e dal multiple
expansion derivante dalla crescente disponibilità di capitali (equity + acquisition financing)
che faceva lievitare i prezzi. Il miglioramento della performance economica dell’azienda ha
avuto un effetto minore sull’apparente successo delle operazioni di buyout del periodo;
tutto ciò, ovviamente, è vero nella media, ma si possono sempre individuare casi meritori o
fortunati di aumento della redditività e della generazione di cassa dell’azienda.
4
La Yale Foundation valeva $1 miliardo nel 1985 e $22 miliardi 20 anni dopo, con un rendimento medio del
17% all’anno; gran parte del merito della crescita in valore è attribuibile alla gestione di Swensen,
attualmente il valore è sceso a $16 miliardi, a dimostrazione del fatto che certi approcci all’investimento
vanno bene solo quando i mercati sono in crescita.
5
La degenerazione più grave di questa bolla (e che dura tutt’ora) è stata il numero
sempre crescente di operazioni di secondario, cioè la vendita da parte di un fondo ad un
altro fondo. Dato che è difficile trovare nuove grandi aziende da comprare, la soluzione
che i gestori hanno trovato al problema dell’investimento è vendersi reciprocamente le
aziende in portafoglio: nella prima metà del 2010 in Europa le transazioni fra fondi hanno
rappresentato $15.8 miliardi5 che in percentuale è il 47% di tutte le transazioni che hanno
coinvolto un fondo. In ogni transazione ci sono costi e commissioni, e quegli investitori che
sono presenti sia nel fondo cedente che in quello acquirente finiscono per pagare costi e
commissioni aggiuntive per continuare a possedere una quota di quello che già era loro;
molti non sono contenti.
LE CONDIZIONI OPERATIVE ODIERNE
Dal 2007 è cambiato il mondo ma è difficile per tutti noi, almeno nel mondo
occidentale, pensare che non si ritornerà al bel tempo antico. Utilizziamo la parola “crisi”,
che implica un periodo temporaneo (ancorché pluriennale) di difficoltà dopo il quale ritorna
il bel tempo, mentre dovremmo utilizzare la parola “cambiamento fondamentale” per
esprimere il contesto in cui opereremo in futuro. Di fronte ad un cambiamento
fondamentale bisogna azzerare i nostri modi di pensare, riflettere bene su quali saranno
gli schemi mentali e le regole operative per aver successo in futuro (presumibilmente
diversi da quelli del passato) e ripartire su basi più coerenti con il contesto.
L’idea che l’Europa possa tornare a crescere, ed in particolare l’Italia, non è basata
sui fatti oggettivi, che invece “giocano contro”: stati nazionali molto indebitati, perdita di
competitività relativa, crescente utilizzo dei risparmi accumulati per finanziare una
popolazione che invecchia e che ha minor reddito disponibile, enorme difficoltà a fare le
riforme necessarie per rendere possibili le condizioni della crescita. D’altra parte, la
crescita dei PIL di paesi come Grecia, Spagna e Irlanda era stata tutta finanziata da un
crescente debito pubblico, e anche attualmente gli interventi della banca centrale Europea
contribuiscono ad una crescita artificiale del PIL, stimabile in almeno un punto
percentuale; nessuno pensa che ciò possa continuare in futuro. Il Giappone ha
ampiamente dimostrato come sia possibile non crescere per due decenni anche per un
paese che ha tradizionalmente avuto una grande forza nell’esportazione, e non sarà certo
l’Italia a trovare una nuova strada per la crescita.
Un altro elemento importante per comprendere il futuro del private equity (versione
buyout) in Europa ed in particolare in Italia è la disponibilità di leva che le banche saranno
disposte a concedere. Scottate dall’esperienza di leva eccessiva, che ha portato a dover
contabilizzare perdite e a dover ristrutturare debiti per decine di miliardi, le banche sono
diventate molto più attente a calibrare il debito che è consentito per realizzare
un’acquisizione, mettendo dei limiti (bassi) che dovrebbero consentire il recupero del
credito anche in caso di performance negativa dell’azienda o dei valori di mercato. Già
oggi si costata che raramente ci sono condizioni per ottenere un acquisition financing
superiore a 4 volte l’EBITDA; per le aziende Italiane ciò vuol dire poco debito in più di
quanto le stesse aziende hanno già per gestire l’operatività; inoltre la quantità di equity
richiesta delle banche a fronte di un debito bancario incrementale è superiore al 50% del
finanziamento complessivo, il che ha un effetto deprimente sui rendimenti attesi dai nuovi
investitori.
5
Fonte Dealogic
6
Anche in un contesto di stagnazione, di scarsa redditività aziendale e di scarse
risorse finanziarie disponibili è però possibile identificare operazioni che possono dare
risultati positivi. In aggregato, però, l’ambiente non sembra essere favorevole al successo
di operazioni di buyout (in particolare per quelle di grandi dimensioni, ove la strutturazione
finanziaria dell’operazione fa premio sull’effettiva possibilità di migliorare i risultati)
soprattutto perché a termine, quando si dovrà realizzare l’exit, la minor disponibilità di
capitali (dry powder) comporterà un rovesciamento dell’attuale equilibrio domanda/offerta
e quindi comporterà minori prezzi. Questa affermazione sembra contrastare con l’attuale
esperienza di un rinnovato interesse dei fondi per grandi operazioni quali Findus, Dynergy,
Teamsystem o anche di operazioni relativamente piccole come Arena. In realtà le
operazioni di buyout realizzate recentemente si riferiscono ad aziende che generano molta
cassa (e quindi consentono un po’ di leva) e sono motivate essenzialmente dalla necessità
dei grandi fondi di impiegare a tutti i costi i capitali disponibili. Ne dà dimostrazione l’ultima
analisi del settore fatta da Prequin, una società specializzata nel seguire il mondo dei fondi
di buyout; tale analisi riporta una stima del “dry powder”, cioè dei capitali che gli investitori
finanziari si sono impegnati a versare su richiesta dei gestori, ma che per il momento non
sono stati ancora utilizzati. Il contratto-tipo fra investitori finanziari e gestore di un fondo ha
un periodo di investimento di 5 anni; i capitali che non sono stati utilizzati in tale periodo
sono “liberati”. Dei capitali raccolti nelle varie tipologie di private equity nel periodo 20052007 rimangono inutilizzati ben $400/500 miliardi6, che entro 3 anni si ridurranno quasi a
zero indipendentemente dal fatto che siano investiti o meno.
Applicando semplici formule in un modello previsionale basato sui dati attuali (dry
powder per LBO circa $500 miliardi e nuovi commitment intorno ai $60 miliardi all’anno livello attuale-, investimenti distribuiti uniformemente nel periodo di investimento), si arriva
ad una dimensione-obiettivo del settore che è meno della metà dell’attuale; il settore non
sembra destinato a sparire ma semplicemente a ritornare alle dimensioni “pre bolla”.
Dry powder mondiale per buyout
(Miliardi di Dollari)
500
400
300
200
100
0
1999 ’00 ’01 ’02 ’03 ’04 ’05 ’06 ’07 ’08 ’09
‘10 ‘11 ‘12 ‘13 ‘14 ‘15 2016
Previsioni
Fonte: Bain&Co. “Global Private Equity Report 2010”; dati Prequin al 1 sem. 2010; stime ipotizzando fund raising buyout
pari al livello del 1 sem. 2010 annualizzato ($62 miliardi)
6
Articolo sul Financial Times, 26 luglio 2010 stima il dry powder a $400 miliardi; altre fonti (Prequin, BCG,
Bain) stimano $500 miliardi
7
E’ importante notare che gli investitori istituzionali tendono a spostare i commitment
dai tradizionali fondi “generalisti” a fondi specializzati (per esempio energia, risorse
naturali) e ai mercati emergenti (anche se hanno difficoltà a trovare gestori affidabili). Gli
investitori istituzionali americani, che sono i più importanti, continuano a privilegiare i
commitment a fondi USA, e quindi l’Europa ha una calo di commitment più che
proporzionale al suo peso storico, calo che impatta soprattutto i grandi fondi generalisti. In
tutti i casi c’è una riduzione della dimensione media dei fondi, anche se alcuni grandi
operatori (KKR, Carlyle, CVC ecc.) non sembrano accusare un calo di interesse nei loro
confronti. Per contro altri grandi operatori (per es. Candover) hanno dovuto rinunciare alla
speranza di poter continuare a lanciare un nuovo fondo.
La diminuzione dei commitment a nuovi fondi da parte di investitori istituzionali è
anche dovuta al diminuito flusso dei disinvestimenti dei fondi precedenti. Alcuni investitori
avevano addirittura preso commitment superiori a quanto previsto dalla loro asset
allocation, contando su tali flussi per finanziare le chiamate di capitali da parte dei gestori,
e si sono trovati in seri problemi di liquidità; è naturale quindi che siano molto restii a
prendere nuovi commitment, anche indipendentemente da riflessioni sul futuro roseo o
meno dei buyout o dalla qualità dei gestori o della loro specializzazione.
I gestori dei fondi ovviamente sono alla ricerca di opportunità di investimento
possibilmente grandi, sia perché è il loro mestiere, ma soprattutto perché non vogliono
rinunciare a management fee di circa 2% che possono caricare sui capitali investiti: in
aggregato più di $8 miliardi all’anno, senza contare anche i transaction fee che molti
gestori hanno la sfrontatezza di caricare sui singoli deal. Il tema di far fruttare veramente i
capitali disponibili, in modo da poter incassare eventualmente anche le commissioni
d’incentivo (carried interest; tipicamente il 20% dei capital gain complessivo di ciascun
fondo) è diventato secondario anche perché, con la serie di insuccessi recenti, per
tantissimi operatori è diventata remota la possibilità di ottenere effettivamente anche tale
commissione.
Il settore del private equity era nato su premesse molto diverse; l’obiettivo dei
gestori era di generare un capital gain per gli investitori e di riceverne una parte, mentre i
fee annuali dovevano servire per pagare semplicemente le spese di gestione. Con
l’abnorme aumento della dimensione dei fondi, e con rendimenti in forte calo o negativi
della maggior parte dei fondi recenti, si è invertito l’obiettivo: oggi i gestori dei grandi fondi
internazionali pensano solo a mantenere in vita le proprie società e a continuare a pagare
ai propri fondatori e partner alti stipendi e bonus, almeno per qualche anno. Gli interessi
degli investitori finanziari sono disallineati con quelli dei gestori, ma i contratti esistono ed
hanno clausole capestro che non permettono la chiusura anticipata dei fondi.
UNO SGUARDO ALL’ITALIA
Il settore del private equity in Italia non è molto grande, soprattutto se si dovessero
togliere dal computo le operazioni di grandi dimensioni che da noi sono infrequenti mentre
negli altri paesi sono quelle che lo caratterizzano. Dal 2001 ad oggi ci sono state
mediamente 34 operazioni all’anno con valori unitari (equity invested) superiore ai €10
milioni7. Le operazioni in cui un fondo prende una minoranza dell’azienda sono state circa
1/4; in queste operazioni tipicamente non c’è leva finanziaria, i capitali vengono apportati
7
Database di Fineurop Soditic
8
in aumento di capitale (invece che in acquisto di azioni esistenti) e tutta la focalizzazione è
sulla crescita e sul miglioramento operativo.
Numero di operazioni di PE effettuate in Italia con
valore dell’equity investito > €10M
(# di operazioni)
80
31
35
30
37
Divisione tra operazioni
di maggioranza e minoranza
(Percentuale; totale = 333)
100%
26%
Minoranza
71%
Maggioranza
40
34
34(1)
25
13
8
N.d.
3%
2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 20091 sem.
2010
(1) Media aritmetica; include le operazioni del 2010 annualizzate (16)
Fonte: Fineurop Soditic, dati aggiornati a Giugno 2010; include operazioni di PE effettuate in Italia con valore dell’equity
investito > €10M
COME GUADAGNARE NEL PRIVATE EQUITY IN FUTURO
Come diceva Paul Valery, “il futuro, purtroppo, non è più quello che era”, ma anche
in un futuro profondamente diverso ci sono delle opportunità di fare buoni investimenti,
molto probabilmente inferiori in numero a quanto si è registrato in passato; speriamo che
l’esperienza accumulata serva anche per evitare di fare cattivi investimenti. In parte, i
ragionamenti e le leve operative per fare buoni investimenti saranno simili a quelli del
passato e quindi è necessario fare una riflessione critica su cosa era logico in passato (e
quindi permane) e cosa invece era un semplice sfruttamento di una bolla (da evitare in
futuro).
Prima di tutto non è sempre vero che mettere della leva finanziaria sia negativo; nei
casi in cui la struttura di partenza del capitale è sbilanciata (cioè niente debito) tale
approccio ottimizza l’uso del capitale, riduce le tasse e non pregiudica lo sviluppo
dell’azienda, com’è stato dimostrato nella prima operazione su SEAT Pagine Gialle; non
così è quando l’azienda è già indebitata dal precedente “giro” di buyout (com’è successo
nelle successive operazioni).
Altri casi di approcci di successo che possono esser replicati in futuro sono quelli di
un’azienda in difficoltà, quando interviene un nuovo proprietario che la sa gestire
imprenditorialmente, migliorando costi e ricavi e investendo per lo sviluppo (per esempio
caso Coin). Per contro acquisire un’azienda che è già stata gestita bene e che non ha
9
ragionevoli possibilità di esser gestita meglio (particolarmente in un contesto di
stagnazione), e contare soltanto sul miglioramento della posizione finanziaria netta
(deleverage, anch’esso più difficile in un contesto di stagnazione) e sulla speranza di una
crescita dei valori di riferimento, è un azzardo che in passato ha pagato (fino al 2008) e
che probabilmente non pagherà in futuro.
Le crisi (che in questo caso non è di tipo temporaneo) hanno come effetto quello di
obbligare tutti a ritornare ai fondamentali; il private equity che compra deve ritornare ad
avere come obiettivo il vendere l’azienda ad un industriale, non ad un suo simile, a meno
che il piano di sviluppo possa continuare per un decennio e si possa quindi passare il
“testimone” da un fondo ad un altro. Non ha quindi senso per un private equity partecipare
ad un’asta nella quale già concorrono degli industriali in quanto un fondo non ha maggiori
capacità gestionali, non ha sinergie con il business esistente, non ha maggiori possibilità
di leva e non ha minori attese di rendimento. Se gli industriali non concorrono, che senso
avrebbe per un private equity comprare sperando di poter successivamente rivendere ad
uno di loro, ovviamente a valori più elevati? Comprare vuol dire semplicemente pagare più
caro con la prospettiva di rivendere, a termine, senza guadagnarci. Nei mercati
anglosassoni e per le operazioni di grandi dimensione si può sempre ipotizzare un’uscita
in borsa, ma bisogna avere molta fiducia nella costruzione di una equity story seria.
Eppure ogni tanto ci sono dei fondi che partecipano alle aste ma con motivazioni
non nobili: quei fondi che non hanno più speranza di guadagnare la commissione
d’incentivo sui capital gain realizzati (carried interest) cercano di impegnare ad ogni costo i
capitali disponibili, anche senza prospettive di rendimento, in modo da assicurarsi le
commissioni di gestione del 2% all’anno fino alla rivendita, magari anche in perdita per il
Fondo (ma la società di gestione guadagna comunque fino ad un bel 10% senza faticare!).
In qualche caso si partecipa per tenere in allenamento il team del gestore, ma senza
intenzione di vincere.
Chi compra oggi un’azienda sa che quando sarà il suo turno di rivenderla l’equilibrio
domanda/offerta giocherà contro di lui, e deve attendersi moltiplicatori inferiori agli attuali;
quindi, o oggi si compra a forte sconto o è tecnicamente impossibile attendersi un ritorno,
a meno di saper migliorare molto i risultati. Purtroppo, in un contesto economico di
stagnazione è arduo ipotizzare che l’azienda da comprare possa esser fatta crescere,
particolarmente se è già grande ed già stata soggetta ad una buona cura di managerialità.
In Italia nel portafoglio dei fondi ci sono circa 100 aziende con fatturati superiori ai
€50 milioni; l’uscita dall’investimento non dovrebbe esser difficile per quelle che hanno una
pluralità di compratori industriali potenziali, mentre è problematica per quelle che hanno
debiti sproporzionati alla redditività (per es. Ferretti, Pagine Gialle, Sirti, Grandi Navi
Veloci, Argenta), vanno male (Italtel, ACC) o che non hanno un compratore con evidenti
sinergie industriali. Nei casi più grandi l’uscita con la quotazione è possibile ma non facile
(Giochi Preziosi, Tecnogym) perché occorre ipotizzare una crescita di risultati che continui
nel tempo e inoltre il mercato vede male una quotazione fatta principalmente per
permettere ad un private equity di uscire dall’investimento. C’è addirittura un paradosso:
aziende leader e ben gestite ma con poche possibilità di crescita valgono meno (in
relazione agli utili) di aziende con quote di mercato basse, mal gestite ma con possibilità di
miglioramento e/o di integrazione sinergica con i concorrenti maggiori.
In futuro i private equity che vorranno davvero investire con profitto dovranno
focalizzarsi moltissimo sull’effettiva possibilità di migliorare notevolmente la performance
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aziendale e di rivendere le aziende, dopo la loro “cura”, ad un operatore industriale; la
vendita ad un altro operatore finanziario è sempre possibile purché ci sia un serio piano di
sviluppo ulteriore, ma bisogna tenere a mente che di operatori finanziari pronti a comprare
a tutti i costi per ragioni non logiche ce ne sarà sempre meno. Forse da questi
ragionamenti sono esclusi gli USA, che sono più propensi a procedere di bolla in bolla; gli
operatori finanziari americani hanno una scarsa memoria e sono pronti a saltare su ogni
nuova onda che dia la possibilità di guadagnare nel breve termine (commissioni per tutti gli
attori di una transazione, e quindi bonus e stock options per i dirigenti); infatti, nell’autunno
del 2010 si vedono segni di ripresa del mercato dei bond high yield e del leverage
financing su mega deal. Nel breve termine, quanto più grande è un’operazione (e si parla
di tornare a buyout superiori ai $10 miliardi) e tanto più c’è da guadagnare in commissioni
per tutti; nel medio termine si vedrà.
Il settore che in Italia dovrebbe consentire interessanti opportunità d’investimento è
quello delle aziende familiari di medie dimensioni e ben gestite che, con un’iniezione di
capitali e di managerialità possono crescere notevolmente e valere, a termine, molto di più
di quanto valgano oggi. Fortunatamente l’Italia ha moltissime aziende gestite da
imprenditori che, se accettano le regole del private equity, possono crescere notevolmente
attraverso l’espansione sui mercati internazionali, l’acquisizione dei concorrenti e anche
investimenti interni mirati.
La forma dell’investimento può essere con il fondo in minoranza o in maggioranza,
perché la focalizzazione è sullo sviluppo in termini di valore, non su chi è il proprietario, e
l’investimento stesso può prendere anche la forma di un buyout (senza troppa leva in
quanto occorre investire per crescere).
E’ interessante notare che per questo settore è molto più importante la qualità
dell’imprenditore che la qualità iniziale dell’azienda; ciò richiede un modo di pensare,
analizzare il business, e gestire più focalizzato sulle capacità individuali che sui conti
aziendali.
Per contro, i fondi dovranno stare alla larga da aziende per le quali non sia
realisticamente possibile ipotizzare un forte crescita di risultati o che siano già oggi nel
mirino di operatori industriali.
Il “ritorno alle origini” è positivo perché solo i gestori più bravi saranno in grado di
farlo con successo e perché eliminerà le scorciatoie artificiali al successo che sono tipiche
dei periodi di “bolla”; comporterà comunque un forte ridimensionamento del settore,
particolarmente in Europa.
Gianfilippo Cuneo
6 ottobre 2010
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