Dalle infrastrutture crescità e competitività

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Dalle infrastrutture crescità e competitività
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
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Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
DALLE INFRASTRUTTURE
CRESCITA E COMPETITIVITÀ
Le carenze infrastrutturali, specie nella mobilità e nella logistica, ostacolano significativamente la competitività e la crescita economica. Pur essendo complessivamente dotata di reti significative, rispetto agli
altri paesi europei, l’Italia è afflitta da carenze fisiche e funzionali a livello settoriale, territoriale e di
sistema, che compromettono l’efficienza e la qualità dei servizi disponibili per cittadini e imprese.
L’adeguamento degli investimenti in infrastrutture ai livelli europei può generare un significativo
incremento del PIL. Secondo alcune stime, tale incremento sfiora il 12% nell’arco di un decennio,
pari a 167 miliardi a prezzi 2010, con una maggiore occupazione di 2,8 milioni di unità. Invece, il
costo della mancata realizzazione delle infrastrutture necessarie alla modernizzazione del Paese è stimato in 30 miliardi l’anno di minori benefici economici.
A ostacolare il conseguimento dei vantaggi economici e occupazionali degli investimenti infrastrutturali c’è sicuramente la ridotta disponibilità di risorse pubbliche: appena il 2,1% del PIL nel
2010. Un ammontare destinato a ridursi fino all’1,4% del PIL nel 2013, in base a quanto indicato
nei programmi di riduzione del deficit. Ciò può comportare una minor crescita cumulata del PIL pari
al 16% nel medio-lungo termine (3,8 milioni di unità in meno nell’occupazione).
Per conseguire lo sviluppo generato da una più adeguata infrastrutturazione del Paese, le risorse
pubbliche necessarie possono essere attinte dai flussi ora indirizzati alla spesa corrente primaria e
da nuove entrate fiscali dedicate (tasse di scopo), da emissioni apposite di titoli (project bond) e da
dismissioni di asset patrimoniali e finanziari, come pure dalla rinuncia a future entrate fiscali (inclusa l’IVA) e finanziarie (canoni) generate dalle nuove infrastrutture, per agevolare la partecipazione dei capitali privati agli investimenti. Al contempo, si deve agire sul fronte della riduzione dei
costi degli investimenti, selezionando le priorità di intervento, migliorando l’efficienza dell’offerta
progettuale e realizzativa e agendo sugli standard infrastrutturali.
Inoltre, per attivare gli investimenti privati, che possono fornire un importante contributo alla copertura dei fabbisogni finanziari, vanno sviluppati finanza di progetto e partenariato pubblico privato (PPP) e ridotto il rischio regolatorio e amministrativo. L’istituzione dell’Authority nei trasporti
limiterebbe sensibilmente l’instabilità e l’incertezza delle regole su piani di investimento e assetti gestionali degli operatori di mercato. Effetti positivi si produrrebbero anche sui costi finanziari: la sogLa stesura del capitolo si è avvalsa dei preziosi contributi della Direzione Affari Economici e Centro Studi dell’ANCE, per la parte sulle risorse pubbliche agli investimenti, di Federprogetti e dell’Ufficio Legislativo dell’OICE,
sul tema della qualificazione della domanda e dell’offerta, di Giorgio Santilli (Il Sole 24 Ore) sul mercato delle
partnership pubblico-private.
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gezione ad autorità di regolazione innalza il merito di credito delle imprese che operano nel mercato
delle infrastrutture e può abbassare fino a 2-3 punti percentuali il tasso di interesse da loro pagato.
In primo luogo, è necessario garantire stabilità normativa. Perciò è opportuno introdurre in Costituzione il principio di “invarianza regolatoria”, per salvaguardare gli equilibri finanziari concordati
con i privati sulla base delle regole vigenti all’atto dell’affidamento del servizio. Ciò accrescerebbe il
grado di certezza della remunerazione del capitale privato e attrarrebbe investitori italiani e stranieri.
La finanza pubblica negli investimenti infrastrutturali resta fondamentale quando le prospettive
della domanda non sono sufficientemente remunerative e le opere pubbliche hanno, in situazioni da
verificare sempre nel tempo, valenza sociale. Tuttavia, anche in tali casi la regolazione e la concorrenza giocano un ruolo essenziale nel selezionare l’offerta nella costruzione delle opere e nell’erogazione del servizio. Il finanziamento pubblico va, perciò, riservato a quelle situazioni di assenza,
parziale o totale, di coinvolgimento del capitale privato. Per questo sono essenziali valutazioni tecnico-economiche e finanziarie capaci di guidare la selezione di priorità, agevolare il confronto pubblico e verificare la sostenibilità del finanziamento privato.
In ogni caso, le infrastrutture devono essere “fatte bene”, dalla progettazione all’esecuzione, con
procedure semplici e tempi certi. Il rischio amministrativo e realizzativo innalza i costi e quindi
grava non solo sull’investimento privato, ma anche sull’intervento pubblico, quando il confronto di
mercato serve a selezionare l’offerta, giacché l’incertezza procedurale e amministrativa si scarica
sulle spalle di chi esegue l’opera.
La revisione costituzionale, puntuale e circoscritta in materia di competenze statali e locali, è ormai
ineludibile, se si vuole dare certezza alla programmazione delle reti infrastrutturali nazionali e sovranazionali. Le opposizioni locali vanno risolte preventivamente ed entro tempi certi, già al momento della definizione dell’idea progettuale, con vincoli alle compensazioni ambientali e territoriali
fondate sui reali impatti diretti dell’opera. L’acquisizione del consenso (con forme mutuabili dal
francese débat public) deve procedere simmetricamente, ponendo limiti alle richieste degli stakeholder e all’impostazione progettuale. È preferibile che il vero costo ambientale sia compensato con modalità di natura fiscale o para-fiscale, non con altre opere.
La semplificazione amministrativa e l’accelerazione procedurale debbono derivare da un rigoroso
criterio di “reale esigenza”: qualsiasi passaggio burocratico deve essere effettivamente necessario, non
ripetitivo o duplicativo, in un’ottica di economia amministrativa e certezza decisionale.
È essenziale una chiara definizione della “responsabilità realizzativa”. Salvo casi realmente imponderabili, chi realizza l’opera deve assumersi tutte le responsabilità esecutive, prestando opportune garanzie. Chi la commissiona non può esimersi dalle proprie. Perciò è cruciale la qualificazione della
domanda (stazioni appaltanti) e dell’offerta (imprese). L’eventuale adeguamento necessario del progetto in corso di esecuzione va ispirato alle esperienze estere, ma garantendo sempre l’esecuzione della
prestazione pattuita e la sua qualità.
A queste esigenze sono state date prime risposte positive dal recente DL “salva Italia”. Questo importante provvedimento deve essere completato dando un assetto organico alla politica infrastrutturale.
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2.1 Ritardi infrastrutturali e impatto economico
Dotazione carente nelle reti e nei nodi
È opinione consolidata e prevalente che in Italia, rispetto agli altri paesi, ci sia e tenda sempre più ad allargarsi un rilevante divario nella dotazione di infrastrutture e nel loro impiego logistico. Divario ancor più accentuato se si fa riferimento a un’area così importante,
per dimensione geografia e demografica, quale è il Mezzogiorno. Ci sono notevoli carenze
nell’esistenza, nell’accesso e nel funzionamento di capitale fisico indispensabile per la mobilità di merci e persone e, con l’affermarsi delle tecnologie, per la trasmissione di dati.
Benché non manchino opinioni contrarie o parzialmente contrarie, che ritengano che la dotazione infrastrutturale italiana non sia inferiore a quelle di altri paesi, ma che anzi quelle
esistenti siano ampiamente sottoutilizzate, istituzioni e centri di ricerca internazionali collocano il Paese su livelli molto bassi di efficienza logistica, molto lontani da quello che dovrebbe essere il posizionamento di un’economia fortemente industrializzata e orientata
agli scambi commerciali internazionali come è quella italiana. Ciò perché il sistema di mobilità soffre di notevoli deficit infrastrutturali e funzionali, una realtà che dovrebbe spingere
gli interventi di policy a non focalizzare l’attenzione solo o prevalentemente sui primi, ma
a considerare adeguatamente anche i secondi, prestando la dovuta cura ai profili gestionali,
imprenditoriali e concorrenziali di un settore complesso e articolato. In altre parole, occorrono investimenti materiali inquadrati in una vera politica industriale di questo settore,
sul quale incidono negativamente rilevanti carenze regolatorie e concorrenziali.
Le mancanze nella dotazione infrastrutturale risultano ancora più evidenti se si considera
adeguatamente il fatto che una nuova infrastruttura crea essa stessa domanda di mobilità,
o può crearla a determinate condizioni. Invece, le previsioni sulla domanda sono per lo più
basate meccanicisticamente sugli andamenti osservati. Se guardiamo alla storia, proprio
sulle infrastrutture sono state assunte decisioni di investimento di dimensioni ben più rilevanti di quelle con le quali ormai da tempo si confronta il Paese e che hanno consentito
di cambiare volto economico, sociale e territoriale all’Italia.
Dall’Unità fino ai successivi venti anni è stata realizzata quasi dal nulla
la struttura portante della nostra odierna rete ferroviaria, così come nei
venticinque anni successivi la fine della Seconda guerra mondiale è stato realizzato il 60%
della nostra attuale rete autostradale. In entrambi i casi, le previsioni di domanda di mobilità specificamente attribuibile a queste due fondamentali tipologie infrastrutturali, basate
sul traffico esistente e su quello immaginabile dati i passati tassi di incremento, non avrebbero in alcun modo giustificato quegli sforzi finanziari. Le decisioni di investimento allora
assunte avevano motivazioni che guardavano al futuro e alle opportunità di sviluppo, coesione (sociale, economica e territoriale) e, non ultimo, di modernizzazione civile.
150 anni di
infrastrutture
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Ciò non vuol dire trascurare di valutare e programmare con estrema attenzione e oculatezza
le decisioni di investimento. Le scelte infrastrutturali non sono solamente molto onerose (a
diversi livelli), ma anche rischiose, impegnando per lungo tempo istituzioni, amministrazioni, strutture finanziarie e imprenditoriali e l’intera collettività nel realizzare e mantenere le opere, in modo da fruire dei servizi generati da esse e a massimizzarne l’efficacia per
il sistema. Ma è assolutamente cruciale avere una visione lunga del futuro del Paese.
Proprio le analisi di lungo periodo dimostrano che la dotazione infrastrutturale italiana ha
avuto un andamento declinante rispetto allo sviluppo del Paese, fino a diventare una vera
e proprio criticità, un collo di bottiglia che riduce l’efficienza del sistema, il benessere collettivo e la competitività delle imprese. Soprattutto di fronte alle sfide della globalizzazione
e della crescita degli scambi internazionali. Qualche dato lo prova.
La rete autostradale dagli anni Settanta a oggi (2008), misurata come
lunghezza e trascurando l’ampiezza, ha avuto una crescita media
annua dell’1,4%, contro il 2% della Germania e il 3,6% dell’UE a 15. La dotazione fisica non
è bassa (22 km per 1.000 kmq), ma ha via via accumulato un ampio distacco dalla Germania (35,4 km) e dalla Spagna (26,7 km; quest’ultima partiva da livelli molto inferiori). Soprattutto, è diventata inadeguata rispetto alla crescita della domanda, essendo ormai di
soli 111,2 km per milione di abitanti (la popolazione rappresenta un parametro grezzo di
domanda; impiegando il PIL il quadro non migliorerebbe certo), rispetto ai 153,8 della Germania, ai 177,7 della Francia e ai quasi 300 della Spagna. Il trasporto stradale di merci dal
1970 al 2009 è triplicato ed è cresciuto a un tasso medio annuo più che doppio (2,7%) di
quello della rete, come pure il trasporto di persone (più del 3%; l’ultimo triennio è stato di
decisa contrazione; Grafico 2.1).
Il boom
autostradale
Il risultato è che abbiamo una rete più
saturata di altri paesi, sia per le merci
(27 milioni di tonnellate-km/km, rispetto ai 18 milioni della Spagna e ai 19
della Francia) sia per le persone (127 milioni passeggeri-km/km, rispetto a 74
milioni della Germania, ai 30 della Spagna e ai 70 della Francia).
A livello europeo, sono stati fortemente
sostenuti orientamenti di miglioramento qualitativo delle infrastrutture
autostradali, anche al fine di aumentarne la capacità, intensificarne e ren-
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Grafico 2.1
Andamenti poco coerenti tra dotazione e popolazione
(UE-15=100)
200,0
100,0
0,0
Autostrade
Ferrovie
Ferrovie AV
1970 1980 1990 1995 2000 2005 2006 2007 2008 2009 2010
154,4 121,8 100,2 92,3 83,0 74,4 73,1 71,7 70,9
58,1 60,3 63,5 65,2 70,3 72,9 73,0 72,9 73,5 74,0
180,4 120,8 56,9 51,9 32,8 96,0 58,2 73,3 85,1 78,9
Via navigabili 45,8 48,0 32,3 33,0 30,7 31,6 31,9 32,0 32,2
Fonte: elaborazioni CSC su dati Eurostat.
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derne più efficiente l’utilizzo, e sono diffusi, in misura più o meno rilevante, in tutti i paesi,
compresa l’Italia. Tali miglioramenti sono riscontrabili nell’aumento del numero delle corsie e negli adeguamenti in tema di tecnologie e sicurezza (per le quali abbiamo sviluppato
sistemi all’avanguardia ed esportati all’estero).
La dotazione ferroviaria nazionale è cresciuta (+0,14% medio annuo)
nel quarantennio 1970-2009, contro il calo che si è avuto nel resto d’Europa (Grafico 2.2). La densità fisica della rete (56,4 km per 1.000 kmq) è superiore a quella
della Francia (55 km) e della media UE-15 (46,7 km), anche se nettamente distante da quella
della Germania (94,4 km). Tecnologicamente, le ferrovie italiane risultano anche meglio dotate, con una elettrificazione (71% della rete) superiore a quella della Germania (58%) e
della Francia (52%), meno sul piano strutturale, con una rete a binario unico ancora rilevante. Ma rispetto alla popolazione, con 283,2 km di rete per milione di abitanti, è distante
dai 411,1 della Germania, dai 478,7 della Francia e dai 328,3 della Spagna.
Un treno
non così veloce
Dal 1970 il trasporto merci su ferro è riGrafico 2.2
masto in Italia praticamente lo stesso: 18
Le nostre infrastrutture sono sature
miliardi di Tkm; mentre è calato, pur re(UE-15=100)
200
stando su valori molto più consistenti,
in Germania (da 113 a 96 miliardi di
Tkm) e in Francia (da 68 a 32), tanto che
100
l’utilizzo della rete è superiore (2,8 milioni di Tkm/km in Germania, 1,1 in
0
Francia e 1,0 in Italia). Nel trasporto pas1970 1980 1990 1995 2000 2005 2006 2007 2008 2009
Autostrade (Pkm/km) 55,8 74,7 106,8 122,4 148,5 151,1 163,3 169,4 165,3
seggeri, si è avuto nel lungo periodo un
Autostrade (Tkm/km) 49,3 85,7 116,6 108,3 110,5 126,7 112,9 108,4 113,9
Ferrovie (Pkm/km)
160,7 167,1 167,8 168,9 150,4 139,5 135,6 129,7 122,9 119,3
incremento consistente in Italia, ma inFerrovie (Tkm/km)
69,8 66,1 76,2 97,4 83,3 78,4 76,3 77,0 73,0 66,6
Ferrovie AV (Pkm/km)
9,0 33,4 98,0 191,9 65,3 101,7 73,6 71,6
feriore a quello europeo. La crescita
Vie navigabili (Tkm/km) 4,7 2,5 2,2 2,3 2,9 1,5 1,2 1,5 1,0
media annua (1970-2009) è stata
Per le Ferrovie AV il confronto UE è limitato a sette paesi.
(Belgio, Germania, Spagna, Francia, Italia, Paesi Bassi e Regno Unito).
dell’1,0% (da 32,5 a 48,2 miliardi di
Fonte: elaborazioni CSC su dati Eurostat.
Pkm), mentre è stata dell’1,3% in Spagna e dell’1,9% in Francia e solo dello
0,7% in Germania (dove è passata però da 62,4 a 82,4 miliardi di Pkm); l’utilizzo della rete
è, invece, maggiore nel nostro Paese (2,8 milioni di Pkm/km) che in Germania (2,4) e in Spagna (1,5), mentre è vicino a quello della Francia (2,9).
Anche nelle ferrovie italiane sono riscontrabili importanti miglioramenti tecnologici e di servizio, riconducibili soprattutto alla sicurezza
nella rete ordinaria e alla realizzazione e nell’entrata in funzione delle reti ad Alta Velocità
(AV), di cui all’inizio degli anni 80 l’Italia era (assieme alla Francia) l’unico paese europeo
ad esserne dotato. A metà degli anni 90 i paesi europei con AV erano diventati quattro, esFinalmente
l’Alta Velocità
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sendosi aggiunti Germania e Spagna, e nel 2010 sette, con Belgio, Paesi Bassi e Regno Unito.
A quest’ultima data, il Paese presenta però una dotazione inferiore alla metà di quella di
Francia (48,7%) e Spagna (44,9%) e a meno di tre quarti di quella della Germania (71,8%).
Per il 2015, quando dovrebbero concludersi quasi tutti i progetti di AV attualmente in costruzione, la maggiore dotazione europea risulterà quella della Spagna (con ben il 36% dell’intera rete europea AV), seguita dalla Francia (24%). L’Italia dovrebbe comunque
raggiungere livelli apprezzabili di dotazione (circa il 10% dell’intera rete europea AV).
Tratte della rete AV italiana, entrate recentemente in funzione, sono la Firenze-Bologna e la
Novara-Milano. La Milano-Verona-Venezia-Trieste è considerata tra le linee da attuare (sebbene la tratta Venezia-Trieste sia tutta da definire), ma comunque di incerta realizzazione,
dati i vincoli di bilancio. Nel Mezzogiorno, invece, dovrebbe essere avviata la Napoli-Bari,
mentre la Salerno-Reggio Calabria è solo un’ipotesi e, comunque, si sta pensando a standard di servizio inferiori a quelli finora seguiti. Al contrario di altri paesi, come la Spagna,
che hanno puntato moltissimo sull’AV per collegare tutti i grandi centri urbani, integrare i
territori e offrire nuovi servizi alla mobilità turistica, l’Italia avrà una rete AV che, nella migliore delle ipotesi, per moltissimi anni coinvolgerà solo marginalmente (e forse con livelli
qualitativi più bassi) una parte importante del territorio, a fortissima vocazione turistica,
come il Mezzogiorno.
Per le merci, vale la pena almeno di accennare ad una modalità che è stata storicamente importante per il nostro Paese, ma che è andata progressivamente riducendosi, contrariamente ad altri paesi europei. Ci si riferisce alle vie navigabili interne, un trasporto
certamente limitato (nel 2009 appena 50 mila Tkm, cioè la millesima parte del trasporto
fluviale della Germania), ma non irrilevante laddove sono presenti grandi fiumi, come la
Pianura Padana (fino ai primi del ‘900 il trasporto fluviale interessava anche l’Arno e il Tevere). Oggi, sotto la spinta dell’UE e delle crescenti esigenze di riduzione degli impatti ambientali del trasporto stradale, si vorrebbe rilanciare questa modalità, che nelle regioni più
congestionate del Nord potrebbe dare un contributo interessante alla mobilità delle merci.
Altre modalità rilevanti di mobilità sono quella marittima e aerea, per
le quali il nostro Paese non presenta rilevanti deficit nella dotazione di
porti e aeroporti, ma evidenti problemi di assetto secondo logiche di sistema. I dati del 2009
risentono della generale flessione dei flussi marittimi mondiali, ma mostrano una capacità
attrattiva della nostra portualità di tutto rispetto, anche se con luci ed ombre.
Porti e aeroporti:
carenze di sistema
Tra i primi 70 porti passeggeri europei, il nostro Paese ne conta ben 17, con un movimento
passeggeri di oltre 71 milioni di unità, pari al 25,7% dell’intero traffico passeggeri dell’UE.
Molta di questa mobilità è indotta dalla nostra insularità, ma la quota di passeggeri legata
al nostro turismo crocieristico ed escursionistico risulta la più elevata, anche se insidiata
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dalla Spagna. Rilevante è anche il trasporto marittimo delle merci, dove contiamo ben 12
tra i porti principali europei, con un movimento complessivo di oltre 320 milioni di tonnellate (13,0% del totale UE), ma con un andamento meno dinamico nell’ultimo decennio
2000-2009 (1,3% di crescita media annua), rispetto alle portualità emergenti del Mediterraneo (6,4% l’anno della Spagna) o a quelle più consolidate del Nord Europa (2,2% l’anno
dei Paesi Bassi e 1,4% di Germania e Belgio). Nel trasporto container, abbiamo ben 8 porti
sui 50 più importanti dell’UE, ma la loro movimentazione complessiva del 2009 (6,4 milioni
di TEU) è nettamente inferiore a quella di singoli porti come Amburgo Anversa (7 milioni
di TEU ciascuno) e Rotterdam (9,6 milioni) ed ha subito un importante sorpasso da parte
dei porti spagnoli, che ci hanno stabilmente soffiato la leadership mediterranea, erosa anche
dalla emergente portualità del Nord Africa, del Medio Oriente e dei Balcani.
L’infrastrutturazione portuale soffre soprattutto di carenza di spazi di movimentazione e
lavorazione dei flussi, anche in territori (come il Centro-Sud) dove esistono ancora aree retroportuali disponibili da sfruttare, ma più in generale la nostra portualità è carente nell’instradamento dei flussi di merci su gomma e su ferro e nella “specializzazione” dei
traffici (rinfuse, container, combustibili, ecc.).
Discorsi quasi analoghi si possono fare per l’infrastrutturazione aeroportuale, dove il nostro Paese conta ben 38 aerostazioni con più di 100 mila passeggeri l’anno, una diffusione
riscontrabile in altri grandi paesi europei (Germania e Spagna ne hanno 41, la Francia 61 e
il Regno Unito 44); ma, diversamente da loro, abbiamo una diversa distribuzione dei traffici e, soprattutto, abbiamo acquisito poca specializzazione e poca competitività nel trasporto internazionale e intercontinentale. Il risultato è: molti aeroporti, meno
concentrazione dei flussi. Il nostro scalo più importante (Roma-Fiumicino) conta 33,4 milioni di passeggeri l’anno (nel 2009) ed è al 6° posto dei principali scali europei; il secondo
scalo nazionale è Milano-Malpensa, con 17,3 milioni di passeggeri, ma è al 18° posto in Europa. Entrambi sono ben distanti da hub aeroportuali come Londra-Heathrow (65,9 milioni), Parigi-CDG (57,7), Amsterdam (43,6), Francoforte (50,6) e Madrid (47,9); insieme agli
altri 6 aeroporti nazionali più importanti (tra i 4,7 milioni di passeggeri l’anno di RomaCiampino e gli 8,3 di Bergamo-Orio al Serio) abbiamo una quota del traffico aereo europeo
del 10%, che è di tutto rispetto, ma basata su un modello più frammentato e meno efficiente, specie se si guarda alla presenza e alla qualità dei collegamenti dei nostri scali con
le reti stradali e, soprattutto, ferroviarie. Degli stessi problemi soffre anche il nostro cargo
aereo, la cui quota sul traffico dei principali scali europeo è del 5,0%, cioè appena un terzo
delle merci trasportate dal solo scalo di Francoforte e alla pari di quelle sbarcate e imbarcate a Lussemburgo.
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La domanda
non incontra l’offerta
Dall’analisi internazionale di lungo periodo sulle infrastrutture per la
mobilità emerge soprattutto una caratteristica di fondo: la tendenza al
progressivo catch-up da parte dei paesi meno dotati e lo sforzo di mantenere coerente l’offerta rispetto alla domanda. In questo caso, va purtroppo rilevata una sensibile divergenza
del nostro Paese, nel quale l’infrastrutturazione per la mobilità fatica a tener dietro alla domanda, in particolare in funzione del riequilibrio interno tra regioni e aree.
Gli andamenti altalenanti del trasporto complessivamente sviluppato in Italia, tendenzialmente discendenti in tutte le modalità (non solo stradale e ferroviario, ma anche nel cabotaggio marittimo), sono dovuti tra l’altro al diverso andamento economico registrato nel
lungo periodo rispetto ad altri paesi. È noto che le funzioni di trasporto e logistiche sono
sensibilmente pro-cicliche, per cui non dovrebbe destare meraviglia se si evidenziano situazioni di sotto-utilizzo diffuse, anche se temporanee; ma per la rete ferroviaria tali situazioni appaiono di natura più strutturale, specie nel settore merci e, in parte, nella rete
AV, che presentano ancora margini di utilizzo (Grafico 2.3).
Nel trasporto stradale, invece, il grado
di utilizzo della rete è ampiamente esaurito, nel movimento sia di merci sia di
persone. Perfino negli ultimi anni di
grave crisi, quando si è registrato un
sensibile declino della mobilità su
gomma e la crescita economica viaggia a
ritmi ancora più lenti, se non recessivi,
rispetto a quindici anni fa.
Grafico 2.3
I trasporti vanno in altalena
(Tkm e Pkm, 1995=100)
120
110
100
Merci
1995
100,0
2000
104,2
2005
121,4
2006
111,7
2007
111,3
2008
108,9
2009
102,1
D’altra parte, vale anche la relazione inPasseggeri 100,0 116,7 113,4 121,2 124,2 119,9 116,2
versa: una maggiore dotazione infraFonte: elaborazioni CSC su dati Eurostat e CNT.
strutturale eleva il tasso di sviluppo
dell’economia. Mantenere tale dotazione coerente con un tasso di crescita
potenziale più basso non fa che rafforzare e convalidare la minore velocità dell’economia
italiana rispetto alle altre nazioni, alimentando un circolo vizioso che invece va spezzato.
Esistono, dunque, fabbisogni infrastrutturali da soddisfare? O si dovrebbe agire maggiormente sulla politica dei trasporti e sullo sviluppo
dei mercati per meglio impiegare la dotazione esistente? La risposta è positiva per entrambi
i quesiti, che non sono dunque in antitesi. Per comprendere ciò l’analisi deve necessariamente spingersi a un livello territoriale inferiore a quello nazionale ed europeo.
Unificare l’Italia
delle infrastrutture
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Da tale analisi più fine emerge che le carenze logistiche sono rilevabili nella generalità del
sistema infrastrutturale del Paese, per mancanza di snodi puntuali - quelli maggiormente
in grado di favorire l’integrazione e lo scambio tra modalità, in grado esse stesse di gestire
i flussi - che costituisce un serio limite, soprattutto nel Mezzogiorno.
Ponendo a confronto gli indici di dotazione delle infrastrutture puntuali dei
nodi di scambio, nel Paese si rilevano situazioni contraddittorie, tra aree e al
loro interno (Tabella 2.1).
I nodi di scambio risultano carenti soprattutto nel Mezzogiorno continentale,
meno nelle Isole, mentre deficit si rilevano anche nel Centro-Nord, in particolare nella portualità del Nord-Ovest e
del Centro. Nel primo caso, la portualità
ligure incide poco sulla dotazione del
Nord-Ovest perché insufficienti sono le
aree di movimentazione e di magazzino.
L’elevata diffusione di aeroporti e porti
nel Mezzogiorno rispondono invece alle
esigenze proprie dell’insularità. I centri
intermodali sono invece praticamente
assenti al Sud, scarsi nel Centro e fortemente concentrati nel Nord-Ovest.
Tabella 2.1
Infrastrutture logistiche: il divario territoriale
(Indici sintetici di dotazione infrastrutturale per la mobilità
logistica e la movimentazione dei flussi,
indici Italia=100)
Aree
territoriali
Nodi di scambio1
Porti Aeroporti
Centri
intermodali
Reti2
Strade Ferrovie
Mezzogiorno
76,2
76,2
5,8
107,2
66,8
- Sud
62,4
51,3
4,7
115,8
87,8
- Isole
105,1
128,8
7,0
94,6
35,8
Centro-Nord 113,6
113,4
150,4
95,0
122,9
- Nord-Ovest
59,2
120,8
226,5
103,1
134,6
247,1
90,6
83,5
84,2
111,1
40,9
125,0
40,4
98,6
124,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
- Nord-Est
- Centro
ITALIA
1
Indici calcolati su dotazioni di base, capacità di movimentazione e di servizio.
Indici calcolati su dotazioni di base e standard tecnici.
Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT.
2
Per quanto riguarda le reti, le distanze Nord-Sud sono meno accentuate nelle infrastrutture
stradali, ma con carenze rilevanti in alcune regioni del Mezzogiorno nelle autostrade (a cui
si è sopperito con la viabilità statale e regionale), mentre il Sud è diffusamente sotto dotato
di ferrovia, soprattutto nelle Isole.
L’infrastrutturazione vista in senso logistico evidenzia sicuramente una problematica di
carattere nazionale: al suo interno il Mezzogiorno rappresenta l’area di maggior emergenza,
ma alcune situazioni del Centro-Nord presentano anch’esse notevoli squilibri.
Lo sviluppo di una rete efficiente di collegamenti infrastrutturali è uno
strumento importante e condiviso di governo dell’economia. Per orientare gli interventi di politica economica occorre misurare la disponibilità di infrastrutture
in un dato territorio nel modo più accurato possibile. Generalmente, gli indicatori di dotazione infrastrutturale rappresentativi del capitale fisico disponibile colgono aspetti quanQuanto conta
la quantità?
89
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
titativi, e in parte qualitativi, delle infrastrutture, fornendo risultati non sempre di immediata interpretazione.
Anche disponendo di dati precisi e attendibili della dotazione infrastrutturale, la decisione
sull’ammontare adeguato di risorse da investire non può essere correttamente determinata
se non si misurano anche i fabbisogni. Né le statistiche sulla dotazione fisica sono un indicatore sufficiente a valutare quale tipo di intervento possa avere l’impatto maggiore sul sistema produttivo. È necessario affiancare alle informazioni sulla quantità di infrastrutture
quelle relative alla loro accessibilità e alla qualità dei servizi offerti per il loro tramite. Altrettanto importanti per una corretta allocazione delle risorse pubbliche sono l’analisi delle
alternative di trasporto, della tariffazione e delle caratteristiche della domanda.
Un tentativo innovatore per determinare l’incidenza di queste variabili è stato fatto recentemente da uno studio di Demetrio Alampi e Giovanna Messina, della Banca d’Italia, che
ha affiancato alle misure tradizionali di dotazione infrastrutturale un nuovo indicatore basato sui tempi di trasporto, che permette di valutare l’efficacia delle infrastrutture nel collegare le varie località1.
L’utilizzo dei tempi di percorrenza consente di incorporare aspetti qualitativi importanti,
legati alla velocità dei collegamenti, alle caratteristiche specifiche di ogni tragitto (come il
tipo di strada percorsa), al grado di congestione delle reti, alla tecnologia (per esempio
l’alta velocità ferroviaria); aspetti che rimandano al grado di efficienza delle infrastrutture.
Inoltre, i tempi di trasporto sono particolarmente adatti a cogliere le ricadute di rete delle
infrastrutture stesse (i tempi di trasporto fra A e B dipendono dallo stato e dall’impiego
delle infrastrutture lungo tutto il percorso che collega A e B), poiché rappresentano un criterio utile a internalizzare a ciascuna località le esternalità connesse con lo stesso sviluppo
infrastrutturale dell’intera rete.
L’utilizzo di queste informazioni riposiziona l’Italia a un livello meno sfavorevole nella
graduatoria europea basata solo sugli indicatori fisici. Il sistema italiano di trasporti, infatti, risulterebbe piuttosto efficace, seppure con molte eterogeneità a livello territoriale, sia
nel comparto stradale sia in quello ferroviario (dove però l’Italia appare in ritardo rispetto
a Francia e Germania) e in una posizione intermedia nella funzionalità dei trasporti aerei.
Per i trasporti stradali di passeggeri, l’Italia ha perseguito un’azione di riequilibrio degli
svantaggi naturali legati alla marginalità geografica di alcune province, azione che si è però
andata affievolendo dopo gli anni 80; per i trasporti di merci, tale azione compensativa è
1
Demetrio Alampi e Giovanna Messina Time-is-money: i tempi di trasporto come strumento per misurare la dotazione di
infrastrutture in Italia, in Banca d’Italia, Seminari e Convegni n. 7, Le infrastrutture in Italia: dotazione, programmazione,
realizzazione, aprile 2011. Una precedente analisi critica sulle dotazioni fisiche di infrastrutture e sulle esigenze di
includere fattori spaziali e temporali di accessibilità è stata svolta anche da Confindustria (CSC, Dotazioni e fabbisogni regionali di infrastrutture, Nota CSC n. 3, ottobre 2003).
90
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
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risultata più attenuata e non ha mostrato variazioni di rilievo nel corso dei decenni. I cambiamenti più evidenti hanno riguardato la rete ferroviaria: l’avvento dei collegamenti AV
negli ultimi due decenni ha segnato il passaggio da un assetto che assecondava le differenze territoriali, privilegiando le province più centrali, a uno in cui anche alcune province
periferiche hanno visto aumentare significativamente il proprio bacino demografico di riferimento.
Investimenti limitati dalle scelte di finanza pubblica
La teoria economica conferma l’importanza delle infrastrutture nel processo di crescita. In base alle evidenze empiriche, le infrastrutture sono
considerate una “precondizione” per lo sviluppo economico di un paese o di una regione,
ma è stato evidenziato anche come la domanda e l’offerta di infrastrutture aumentino nelle
fasi di maggior crescita economica.
Spesa bassa
e in calo
All’aumentare del reddito, infatti, le infrastrutture dovrebbero adattarsi alle nuove esigenze
produttive. E tale adattamento guida a ulteriori incrementi di prodotto e sollecita ulteriore
domanda infrastrutturale, adeguando le linee strategiche adottate.
Ciò spiega perché tutti i paesi più sviluppati, ad eccezione del Regno Unito, continuano ad
avere investimenti in capitale pubblico in rapporto al PIL ancora elevati, nonostante nei
decenni precedenti vi sia stata già una
Grafico 2.4
ragguardevole accumulazione. Inoltre,
Spesa pubblica alta … ma non in infrastrutture
nel recente passato, i paesi che sono cre(Totale
della spesa delle Amministrazioni Pubbliche per
sciuti a ritmi più sostenuti sono quelli
investimenti fissi lordi nel 2009 in % sul PIL)
che hanno investito maggiormente in
Irlanda
4,7
capitale fisso.
Slovenia
I dati dimostrano che l’Italia, nonostante
abbia una delle incidenze della spesa
pubblica sul PIL più elevate d’Europa
(52,5% nel 2009), destina agli investimenti una parte modesta delle risorse
pubbliche. Se si considerano gli investimenti pubblici fissi lordi, che riguardano
principalmente le infrastrutture (e solo in
minor misura macchinari, mezzi di trasporto e altre immobilizzazioni), l’Italia
si colloca agli ultimi posti nell’area euro
(Grafico 2.4).
4,6
Spagna
4,4
Cipro
4,1
Paesi Bassi
3,9
Lussemburgo
3,7
Francia
3,4
Grecia
3,4
Finlandia
2,8
Italia
2,5
Portogallo
2,4
Slovacchia
2,3
Malta
2,2
Belgio
1,8
Germania
Austria
Media Area euro 16 = 2,8%
1,6
1,2
Fonte: elaborazioni ANCE su dati Eurostat.
91
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
L’Italia spenderà ancora meno in infrastrutture
(Spesa delle Amministrazioni Pubbliche per investimenti
fissi lordi della P.A.)
2,8
37.000
2,3
32.000
1,8
27.000
22.000
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
Valori percentuali
Tale incidenza si è ridotta al 2,1% nel
2010 ed è inoltre destinata a diminuire
ulteriormente nel corso degli anni,
stando ai più aggiornati conteggi del
Governo (nota di aggiornamento del
DEF, settembre 2011). Per il 2011 e il 2012
è prevista in calo rispettivamente
all’1,9% e all’1,5%. Per poi passare
all’1,4% nel 2013 e nel 2014 (Grafico 2.5).
Grafico 2.5
Milioni di euro
La loro incidenza sul PIL risultava nel
2009 pari al 2,5%, contro il 2,8% della
media dell’area euro e nettamente più
bassa di quella di nove degli allora sedici paesi della moneta unica.
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
1,3
Milioni di Euro 34.602 38.060 31.879 30.695 25.143 23.689 24.574
In % del PIL
2,21
2,50
2,06
1,94
1,55
1,42
1,43
Fonte: elaborazioni CSC su aggiornamento DEF 2012.
Gli investimenti pubblici fissi lordi diminuiranno anche in valore assoluto nei prossimi
anni, mentre la spesa pubblica corrente al netto degli interessi, pur rappresentando il 94%
del totale, crescerà in valore assoluto.
Andamento altalenante, Il modesto impegno dell’Italia nel settore delle opere pubbliche è ben
impegno discontinuo visibile anche nell’andamento altalenante degli investimenti effettuati
negli ultimi venti anni.
Tra il 1990 e il 1996 gli investimenti in
opere pubbliche sono diminuiti del 32%
in termini reali. Al crollo è seguita una
fase espansiva che è iniziata nel 1997 e
si è conclusa nel 2004. Dal 2005 sono in
continua e sempre più intensa flessione:
-2,9% nel 2005, -3,0% nel 2006, -2,9% nel
2007, - 5,1% nel 2008, -6,0% nel 2009 e
-11,6% nel 2010. Secondo le previsioni
dell’ANCE si avrà un’ulteriore riduzione del 9,7% nel 2011 e del 7,2% nel
2012 (Grafico 2.6). Complessivamente,
gli investimenti in opere pubbliche subiranno tra il 2004 e il 2012 una contrazione del 39,5% in termini reali.
92
Grafico 2.6
Spesa in opere pubbliche: caduta libera
(Investimenti in costruzioni non residenziali pubbliche,
indice 2000=100)
120,0
110,0
100,0
90,0
80,0
-39,5% di
investimenti
in meno tra il
2004 e il 2012
70,0
60,0
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012
Fonte: elaborazioni CSC su dati ANCE.
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
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La contrazione degli investimenti in opere pubbliche riflette le scelta di politica di bilancio
che, per contenere la spesa, ha agito quasi esclusivamente sulla componente in conto capitale, lasciando crescere quella corrente. Negli ultimi anni, infatti, i provvedimenti di riequilibrio dei conti pubblici hanno regolarmente imposto alla spesa in conto capitale il
sacrificio maggiore.
Un copione che si è ripetuto con la Legge di Stabilità per il 2012 che, nel recepire le misure
correttive previste nelle manovre d’estate (DL 98/2011 e DL 138/2011), ha colpito particolarmente la spesa in conto capitale. Basti evidenziare che circa il 69% della riduzione delle
spese finali previste nel bilancio dello Stato per il 2012 riguarda tale voce, imponendo una
contrazione del 17,8% rispetto al 2011, a fronte di un ulteriore incremento della spesa corrente (+2,2%).
Tra le uscite in conto capitale, il taglio maggiore è quello subito proprio dagli stanziamenti
per nuove infrastrutture. Dall’analisi della Legge di Stabilità 2012 emerge, infatti, per l’anno
prossimo una riduzione delle risorse per nuove opere pubbliche del 12,1%2, in termini reali,
rispetto all’anno in corso. E ciò nonoTabella 2.2
stante tra le risorse si sia già conteggiata
Nel bilancio 2012 meno risorse
la prima annualità, pari a 930 milioni di
(Risorse per nuove infrastrutture1 - milioni di euro)
euro, del Fondo infrastrutture stradali e
2008
2009 2010
2011 2012
ferroviarie, istituito dalla manovra di luL. di Stabilità
18.907 16.478 15.216 12.666 10.431
glio, con una dotazione complessiva di
2012
4,9 miliardi di euro dal 2012 al 2016
Fondo per le
(1.000 milioni di euro per ciascuno degli
infrastrutture
ferroviarie e
anni dal 2013 al 2016).
stradali*
La nuova pesante riduzione delle risorse
per nuove opere pubbliche nel 2012
segue tre anni di tagli altrettanto significativi: -10,4% nel 2009, -9,5% nel 2010 e
-18,4% nel 2011 (Tabella 2.2). Complessivamente, tra il 2008 e il 2012 le risorse
per nuovi investimenti infrastrutturali
subiscono una contrazione in termini
reali del 43%.
2
Totale risorse
930
18.907
16.478 15.216 12.666 11.361
Variazioni in
termini nominali
-12,8% -7,7% -16,8%
Variazioni in
termini reali **
-10,4% -9,5% -18,4% -12,1%
1
Al netto dei finanziamenti per la rete ad Alta Velocità/Alta Capacità.
* In attuazione dell'art.32, co.1 del DL 98/2011.
** Deflatore del settore delle costruzioni: 2% per il 2012.
Fonte: elaborazioni ANCE su Bilancio dello Stato - vari anni, Legge di Stabilità 2012 e DL 98/2011.
Il risultato deriva dal confronto delle risorse iscritte nel bilancio dello Stato per il 2011 con quelle che, sulla base
delle previsioni contenute nella Legge di Stabilità, sono iscritte nel 2012. Nel calcolo si è ipotizzata l’invarianza dei
capitoli di bilancio che non sono stati modificati dalla manovra. Inoltre, analogamente al passato, non viene considerato il finanziamento dell’Alta Velocità, in quanto il contributo dello Stato attraverso il bilancio costituisce
solo una parte dei finanziamenti destinati al programma.
93
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
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Il risultato negativo per il 2012 dipende principalmente dal pesante taglio al Fondo Aree
Sottoutilizzate (FAS; -9,5 miliardi di euro nel periodo 2012-2015), a causa del quale rischiano
di perdere i finanziamenti molti interventi del Piano CIPE per le opere prioritarie varato il
26 giugno 20093. Si tratta di interventi già finanziati dal FAS tramite il Fondo Matteoli per
i quali, in alcuni casi, si è già arrivati alla firma di contratti con le imprese.
Al momento è possibile stimare un taglio per 5,5 miliardi dei finanziamenti contenuti nel
Fondo Matteoli (FAS) e destinati al Piano CIPE. In altre parole, si prevede il dimezzamento
del programma infrastrutturale del 26 giugno 2009 che, si ricorda, prevede investimenti
per 11,3 miliardi di euro.
A parziale compensazione di tale taglio, la Legge di Stabilità per il 2012 prevede un rifinanziamento del FAS per 2,8 miliardi di euro nel 2015, da destinare tra l’altro alla messa in
sicurezza degli edifici scolastici, al dissesto idrogeologico e a interventi già previsti nell’ambito dei programmi nazionali per il periodo 2007-2013, che abbiano un contratto sottoscritto al 30 settembre 2011.
Resta il Fondo infrastrutture stradali e ferroviarie, prima ricordato, che con la dotazione
complessiva di 4,9 miliardi di euro nel quinquennio 2012-2016 potrà compensare i tagli al
Piano CIPE, il quale subirà comunque un ulteriore, e importante, slittamento dei tempi di
realizzazione.
Dal 1999, cioè dall’anno della sua introduzione nell’ordinamento italiano,
il Patto di Stabilità Interno costituisce il principale strumento di controllo
dell’indebitamento netto degli enti territoriali (Regioni, Province, Comuni) a livello nazionale.
Freno del Patto
di stabilità
Uno strumento indispensabile che garantisce il rispetto dei criteri fissati dal Patto di Stabilità e Crescita europeo ma che, allo stesso tempo, limita fortemente la capacità di investimento degli enti decentrati e rappresenta una fonte di rischio per la sopravvivenza delle
imprese di costruzioni che subiscono gli effetti dei ritardati pagamenti per lavori, anche in
presenza di risorse disponibili nei bilanci degli stessi enti locali.
Negli ultimi anni il forte irrigidimento delle condizioni del Patto di Stabilità Interno e il ricorso al parametro della competenza mista, che rende difficile la naturale trasformazione
degli impegni in pagamenti, hanno esasperato questi effetti negativi, determinando una
situazione di forte sofferenza per le imprese di costruzioni, già pesantemente colpite dalla
stretta creditizia operata dalle banche a causa della crisi economico-finanziaria.
3
Si ricorda che il Piano delle opere prioritarie varato dal CIPE del 26 giugno 2009 risulta finanziato dal Fondo Matteoli (FAS) per il 77%, dalla Legge Obiettivo per il 19% e per il restante 4% dal Fondo della Presidenza del Consiglio e dal Contratto di Programma RFI.
94
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
Il risultato concreto è stato l’accumulo di ingenti residui passivi in conto capitale, ovvero
fondi impegnati e non spesi che “stagnano” nei bilanci degli enti locali. Secondo le stime
ANCI, tali residui per i Comuni ammontano a circa 40 miliardi, dei quali 15 miliardi immediatamente spendibili, in particolare per opere di viabilità e trasporti, manutenzione del
territorio ed edilizia scolastica4. Una parte importante di tali risorse è costituita da crediti
di imprese di costruzioni per lavori regolarmente eseguiti.
Nel 2010 la riduzione dei pagamenti in conto capitale delle amministrazioni locali (Regioni, Province, Comuni) è stata particolarmente accentuata. Secondo la Corte dei conti, infatti, la spesa in conto capitale degli enti locali è
diminuita del 18,5% rispetto al 2009, ossia di circa 7 miliardi5. Questa flessione risulta, secondo la Corte, in gran parte attribuibile all’irrigidimento del Patto di Stabilità per gli enti
locali disposto con le manovre di finanza pubblica degli ultimi anni.
L’anno nero
dei pagamenti
Il calo dell’importo dei pagamenti interessa tutte le tipologie di enti locali ma la più forte
riduzione riguarda i Comuni soggetti a Patto di Stabilità Interno. Per i Comuni, infatti, la
riduzione dei pagamenti risulta superiore al 20% rispetto al 2009, mentre Regioni e Province registrano flessioni pari rispettivamente al -16,6% e al -16,3%. Se si considera che i Comuni realizzano il 43% degli investimenti pubblici, prioritariamente nel campo dell’edilizia
pubblica, dell’edilizia scolastica, della viabilità e delle infrastrutture ambientali, si comprende chiaramente come la riduzione della loro spesa in conto capitale abbia coinvolto
essenzialmente il settore delle costruzioni6.
Nel 2010, quindi, l’irrigidimento delle condizioni del Patto di Stabilità
Interno ha determinato una forte flessione dei pagamenti da parte degli
enti locali. Allo stesso tempo, però, questo fenomeno è stato accentuato dall’evidente prudenza degli enti nel controllare la spesa e dalla rigidità delle regole del Patto che, in assenza della regionalizzazione del Patto di Stabilità Interno, non consentono una
ridistribuzione efficiente del peso del Patto stesso tra i vari enti.
Programmazione
inefficiente
Dall’analisi dei dati pubblicati dalla Corte dei Conti, infatti, emerge che il pieno utilizzo
della capacità di spesa autorizzata nell’ambito del Patto di Stabilità Interno avrebbe consentito di limitare la flessione registrata. Nel 2010, 2,3 miliardi di autorizzazioni di spesa
concesse dal ministero dell’Economia non sono state utilizzate da parte degli enti locali. In
4
10 miliardi di pagamenti e 5 miliardi di nuove opere.
5
Rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica, maggio 2011.
6
Secondo i dati del ministero dell’Economia, nel 2010 i Comuni hanno pagato quasi 3 miliardi in meno rispetto al
2009. Di questi, circa l’80%, pari a 2,3 miliardi di euro, corrisponde a minori pagamenti per infrastrutture, fabbricati e opere pubbliche.
95
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
particolare, le Regioni e i Comuni non
hanno impiegato autorizzazioni a pagare rispettivamente per circa 1,4 miliardi e 0,8 miliardi (Tabella 2.3). Ciò
significa che esistono opportunità di miglioramento dell’efficienza del sistema
dei pagamenti da parte degli enti locali.
Queste opportunità devono essere colte
rapidamente, in particolare attraverso
l’attuazione della regionalizzazione del
Patto di Stabilità Interno, visto l’ulteriore contributo al risanamento delle finanze pubbliche chiesto agli enti locali
nel prossimo triennio.
L’entità del contributo degli enti locali
(Regioni, Province, Comuni) al risanamento dei conti pubblici nel triennio
2012-2014 è stata definita dalle manovre
delle estati 2010 (DL 78/2010) e 2011 (DL
98/2011 e DL 138/2011, confermati con
la Legge di Stabilità per il 2012). I tagli
complessivi ammontano a 6,4 miliardi
nel 2012 e a 23,6 miliardi nel triennio
2012-2014, che fanno seguito alle diminuzioni per 7,6 miliardi messe in bilancio nel 2011 (Tabella 2.4).
Il Patto di Stabilità
2012-2014
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
Tabella 2.3
Gli enti locali non possono spendere
(Patto di Stabilità Interno: le autorizzazioni di spesa non
utilizzate nel 2010, milioni di euro)
Enti territoriali
Importo
Regioni*
1.401,3
Province
127,9
Comuni (soggetti a Patto)
812,9
Totale
2.342,1
*L'importo indicato per le Regioni comprende anche i valori dei Comuni e
delle Province della Regione Trentino Alto Adige.
Le autorizzazioni di spesa non utilizzate sono calcolate come somma delle
differenze tra i saldi realizzati dai singoli enti alla fine dell'anno e i saldi
obiettivi prefissati dal Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Fonte: elaborazioni ANCE su dati Corte dei Conti-Ragioneria dello Stato.
Tabella 2.4
In prospettiva: un Patto sempre più stretto
(Patto di Stabilità Interno nel triennio 2012-2014,
milioni di euro)
2012 2013
2014 Totale triennio
Regioni a statuto
ordinario
1.340 2.100 2.100
5.540
Regioni a statuto
speciale e Prov.
Autonome
2.130 2.500 2.500
7.130
750 1.000 1.000
2.750
Comuni
2.180 3.000 3.000
8.180
TOTALE
6.400 8.600 8.600
23.600
Province
Nella tabella sono riportati gli importi complessivi relativi all'irrigidimento
del Patto di Stabilità Interno contenuto nella Manovra d'estate 2010
(L. 122/2010) e nelle Manovre dell'estate 2011 (L. 111/2011 e L. 148/2011),
confermate dalla Legge di Stabilità per il 2012 (L.183/2011).
Fonte: elaborazioni ANCE su L. 122/2010, L. 111/2011, L. 148/2011
e L. 183/2011.
Questo forte irrigidimento del Patto
provocherà un’ulteriore e vigorosa riduzione della spesa che verrà operata
ancora una volta sulla componente in
conto capitale e avrà effetti molto gravi su pagamenti e investimenti in opere pubbliche
degli enti locali, in particolare dei Comuni. Con tali decurtamenti di bilancio, infatti, gli
enti locali continueranno ad avere difficoltà a pagare i lavori regolarmente eseguiti dalle imprese per opere già aggiudicate ed è prevedibile che ridurranno molto i nuovi investimenti
per evitare di creare nuovi debiti commerciali.
96
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
L’entità dell’ulteriore irrigidimento del Patto di Stabilità per i Comuni appare sorprendente
se si considera che nel corso del periodo 2004-2009 i Comuni stessi hanno già fornito un sostanziale contributo al risanamento dei conti pubblici. In attuazione delle manovre di finanza pubblica degli ultimi anni, i Comuni hanno dovuto migliorare progressivamente i
propri saldi di bilancio attraverso la stabilizzazione della spesa corrente e la significativa
riduzione degli investimenti, fino a raggiungere un saldo positivo di 123 milioni nel 2009.
Nonostante questo sforzo, è stato assegnato ai Comuni l’obiettivo di conseguire un ulteriore
miglioramento del saldo finanziario fino ad avere un saldo positivo per 4,2 miliardi nel
2011 e 7,8 miliardi nel 2012.
L’ampio apporto fornito dai Comuni al risanamento dei conti pubblici è stato utilizzato in passato per compensare, ai fini del rispetto del Patto di Stabilità Europeo, il peggioramento del
saldo finanziario di altri comparti della Pubblica Amministrazione e, in particolare, dalle Amministrazioni centrali, la cui spesa corrente è aumentata (mentre le Regioni, al netto della sanità, e le Province hanno anch’esse stabilizzato la spesa). Al progressivo restringimento della
capacità d’investimento dei Comuni e
degli altri enti locali nel periodo 2004Grafico 2.7
2009 è infatti corrisposta una graduale
Bilancio dei Comuni in surplus
estensione del perimetro d’azione delle
(Il contributo dei Comuni al risanamento dei conti pubblici
Amministrazioni centrali, che è stata solo
nel periodo 2004-2010 e previsioni 2011, milioni di euro)
Contributo
parzialmente ridimensionata nel 2011.
20.000
2011/2004
+ 7.820
0
Nel 2004-2011 i Comuni avranno fornito
un contributo al risanamento dei conti
pubblici per un importo pari, a regime,
a 7.820 milioni. Nello stesso periodo gli
altri comparti della P.A. hanno peggiorato il loro saldo per un ammontare di
23.000 milioni (Grafico 2.7).
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
-20.000
-40.000
Deficit
2011/2004
-23.000
-60.000
-80.000
-100.000
Comuni
Altri comparti della PA
Fonte: elaborazioni ANCE su dati ANCI e documenti ufficiali.
Alla luce delle precedenti considerazioni, non vi è dubbio che occorra
un allentamento dei vincoli fissati per gli enti locali dal Patto di Stabilità Interno, attraverso la rivisitazione degli obiettivi assegnati ai vari comparti della Pubblica Amministrazione, e la modifica strutturale delle regole del Patto al fine di evitare
l’accumulo di residui passivi.
Più coordinamento
regionale
Allo stesso tempo, però, non bisogna trascurare alcune possibilità offerte dalla normativa
attuale per limitare gli effetti negativi del Patto. Una di queste consiste nel potenziare il
ruolo di coordinamento della finanza locale da parte delle Regioni, attraverso la regionalizzazione del Patto di Stabilità Interno. Con questo strumento, più di 5,3 miliardi di euro
97
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
di pagamenti avrebbero potuto essere liberati dai Comuni nel quadriennio 2007-2010. Lo
strumento presenta quindi importanti potenzialità. Secondo un’indagine realizzata dall’ANCE, nel 2011, 13 regioni hanno attuato la regionalizzazione del Patto, consentendo di
liberare circa 1,2 miliardi di euro di pagamenti.
La regionalizzazione è stata inoltre rafforzata dagli ultimi provvedimenti di finanza pubblica, che hanno previsto la possibilità di definire a livello regionale regole e modalità di applicazione del Patto, diverse da quelle nazionali, in modo da favorire gli investimenti in
conto capitale. Appare pertanto opportuno che tutte le Regioni attuino la regionalizzazione
del Patto di Stabilità Interno.
le infrastrutture: volano di crescita economica e competitività
Alcune infrastrutture più di altre hanno un impatto diretto sulla competitività del Paese, come il trasporto di merci e passeggeri e, in particolare, tutta la filiera della logistica.
Logistica e trasporti
per la competitività
In Italia oltre il 7,5% del valore aggiunto e quasi il 5,0% dell’occupazione sono prodotti dal
settore del trasporto dei passeggeri e delle merci. L’intera filiera della logistica, includendo
anche le attività di deposito delle merci, la movimentazione interna alle aziende e il controllo dei flussi informativi che le accompagnano, assume un peso complessivo molto superiore, e stimabile nel 14% circa del PIL.
Il funzionamento efficiente della filiera logistica influenza direttamente la struttura dei costi
delle aziende, rappresentando quindi una condizione cruciale per la competitività del
Paese. Una logistica inefficiente ostacola la produttività, perché allunga i tempi di consegna e rende più complessi i rapporti di fornitura e sub-fornitura tra imprese e l’integrazione a valle con la filiera della distribuzione commerciale.
Sebbene i costi relativi al solo trasporto di merci siano relativamente contenuti e in calo da
anni, secondo stime del Governo nel 2007 in Italia l’incidenza del complesso dei “costi logistici”
sul totale dei costi di produzione superava la media dei paesi della UE-15. Ciò può dipendere
in parte dalla diversa composizione merceologica delle produzioni italiane, ma deriva soprattutto da una minore efficienza del ciclo logistico italiano rispetto ai paesi di confronto.
La World Bank ha recentemente costruito un indice denominato LPI (Logistic Performance
Index) che colloca l’Italia al 22° posto nel mondo, dopo quasi tutti gli altri principali paesi
UE-15. In particolare, il rank attribuito al profilo della competitività di prezzo (37°) appare
particolarmente negativo.
Secondo recenti indagini della Banca d’Italia, i fattori di criticità che minano l’efficienza
del sistema logistico nazionale possono essere ricondotti a tre gruppi fondamentali: il primo
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Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
risiede nella scarsa interconnessione tra le diverse reti di trasporto, che ostacola l’intermodalità e porta talvolta a situazioni di congestione, specialmente lungo la rete stradale e autostradale, attorno ai grandi agglomerati urbani.
Il secondo gruppo è più eterogeneo e rinvia alla complessiva struttura e governance del ciclo
logistico e alla qualità dei servizi prestati: vi rientrano ad esempio la frammentazione degli
operatori, la scarsa integrazione tra di essi, le inefficienze localizzate nelle singole modalità di trasporto (che creano problemi di tempi, programmabilità e affidabilità), le complessità nel raccordo tra i vettori di diverso tipo (ossia, l’inadeguatezza degli scambi
intermodali).
Il terzo gruppo di fattori è riferibile ad alcune inadeguatezze di carattere programmatorio
e normativo. In questo senso, per dare un vero orientamento efficiente all’infrastrutturazione del Paese in chiave logistica, occorre porre le basi per un’articolazione della programmazione attuale, a livello nazionale e regionale, specificamente dedicata allo sviluppo
logistico. Parallelamente occorre un intervento sull’assetto normativo e regolatorio che non
si limiti alle liberalizzazioni, ma che porti a compimento i processi di riforma in corso nei diversi settori trasportistici. Per rendere più fluida l’operatività del sistema logistico e promuovere l’equità e sostenibilità del confronto competitivo sia intra-modale sia inter-modale.
Quanto incidono gli investimenti infrastrutturali sulla crescita dell’economia italiana e delle sue aree geografiche? Sulla sua evoluzione di
7
breve periodo sia sullo sviluppo di lungo periodo? L’evidenza empirica sull’impatto macroeconomico delle infrastrutture è ormai molto ricca, seppure controversa, e tutte le analisi effettuate concordano nel trovare che il capitale pubblico influisce positivamente sul
PIL. Allo stesso tempo, l’entità degli effetti positivi del capitale pubblico sul PIL varia considerevolmente in funzione degli approcci di stima.
Più infrastrutture
più PIL
Le tecniche più attendibili di stima sono quelle che colgono i legami dinamici tra le variabili macroeconomiche nel loro complesso, in particolare la risposta dei fattori di offerta privati (il capitale privato), a variazioni della dotazione di infrastrutture. Le stime basate su
tali tecniche mostrano un impatto delle infrastrutture sul PIL maggiore, a sottolineare che
gli investimenti in capitale pubblico sono stati in Italia un potente strumento di stimolo
alla crescita nel lungo periodo, un risultato al quale ha contribuito una positiva e prolungata risposta del capitale privato.
Lo stesso investimento in infrastrutture in due aree diverse può condurre a risultati differenti come conseguenza dell’interazione di contesti economici locali differenziati e della
7
Anche se l’efficacia della spesa in conto capitale come stimolo a una domanda aggregata declinante risente dei lunghi tempi che normalmente intercorrono tra la decisione di investire e l’effettivo avvio dei lavori.
99
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
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loro diversa capacità di aggiustamento. Ponendosi in questa prospettiva, all’effetto keynesiano di più breve periodo della spesa in infrastrutture si deve aggiungere sia l’effetto di rilocalizzazione di attività economiche in risposta al mutamento nei costi di trasporto sia i
potenziali benefici di network dovuti a possibili maggiori interazioni con gli agenti economici delle regioni vicine.
L’inclusione nell’analisi dei meccanismi di trasmissione spaziale degli effetti economici delle
infrastrutture mette in rilievo anche i costi potenziali della mancanza di coordinamento tra
amministrazioni e livelli di governance differenti. Sviluppare politiche pubbliche che massimizzino gli effetti positivi degli investimenti in infrastrutture, contemporaneamente minimizzando i rischi economici e di welfare per le aree più deboli spesso impreparate a
competere in mercati più integrati, richiede una particolare attenzione alla complessa relazione nel tempo e nello spazio dell’insieme dei fattori che influenzano la crescita economica.
Un recente studio di Valter Di Giacinto, Giacinto Micucci e Pasqualino Montanaro stima
un’elasticità di lungo periodo del PIL allo stock di capitale pubblico pari a circa 0,60, molto
più elevata di quella riscontrata con analisi basate su altri modelli di stima (che oscilla tra
lo 0,10 e lo 0,20). L’elasticità è significativamente positiva sia nel Sud sia nel Nord del Paese,
ribadendo ancora una volta, dal punto di vista di policy, la notevole importanza delle infrastrutture per la crescita economica dell’Italia. Nel Sud, però, la produttività marginale del
capitale pubblico è inferiore rispetto a quella nel Nord; su tale divario potrebbero avere influito inefficienze nel processo di spesa, dal cui miglioramento l’economia del Mezzogiorno
può trarre benefici sostanziali8.
Ipotizzando una erogazione di risorse tale da recuperare il gap fra l’Italia e l’area euro in investimenti pubblici annui (rispettivamente il 2,1% del PIL contro il 2,5% nel 2010), il Paese
dovrebbe mettere in campo un aumento di spesa del 19% che accrescerebbe il livello del PIL
nel lungo periodo dell’11,8% in termini reali, ovvero circa 167 miliardi di euro ai prezzi del
2010. Tale stima è ottenuta utilizzando l’elasticità del PIL rispetto alla spesa in conto capitale calcolata da Banca d’Italia.
Il Documento di Finanza Pubblica, invece, indica una ulteriore diminuzione della spesa per
investimenti fissi lordi, collocandola per il 2013 all’1,4% del PIL. Un dato simile, sempre ricorrendo alla stima dell’elasticità del PIL di Banca d’Italia, comporterebbe una diminuzione potenziale nel lungo periodo del PIL del 16% in termini reali, ovvero circa 226 miliardi di euro.
Se nel 2013 volessimo recuperare il gap in investimenti fissi lordi con l’area euro dovremmo
investire risorse per circa 15 miliardi. Dati i vincoli di finanza pubblica cui siamo sottopo8
Valter Di Giacinto, Giacinto Micucci e Pasqualino Montanaro, L’impatto macroeconomico delle infrastrutture: una rassegna della letteratura e un’analisi empirica per l’Italia, in Banca d’Italia n. 7, Le infrastrutture in Italia: dotazione, programmazione, realizzazione, aprile 2011.
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Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
sti dovremo incentivare il più possibile il ricorso al capitale privato, ma non sarà sufficiente.
Anche se l’Italia si allineasse alle migliori performance europee in operazioni di partnership
pubblico-privata (PPP), non raggiungeremmo certo l’obiettivo: nel ventennio passato la
Gran Bretagna, di gran lunga il primo paese in Europa nel mercato dei PPP, ha realizzato
operazioni in PPP per 6,6 miliardi di euro annui. L’Italia nello stesso arco temporale ha realizzato infrastrutture in PPP per 419 milioni di euro l’anno9.
Il costo
del non fare
Realizzare opere infrastrutturali ha un costo. Ma non realizzarle costa
molto di più. I nuovi dati di Agici Finanza d’Impresa evidenziano per
l’Italia una tassa occulta di 130 euro l’anno per ogni cittadino a causa dell’inerzia, complessivamente nel triennio 2009-2011 24 miliardi di euro10. Non basta: nei prossimi 10 anni
(2012-2024) la stasi ci potrebbe costare 300 miliardi di euro.
La maglia nera delle infrastrutture nel triennio 2009-2011 appartiene alle autostrade con 13
miliardi di euro di costi a carico della collettività. Molto negativo anche il bilancio del settore idrico, con oltre 4 miliardi di euro di costi a fronte di 1,2 miliardi di benefici a causa di
reti obsolete ed inefficienti. Negativo anche il bilancio dei rifiuti, con costi pari a 1,7 miliardi di euro contenuti grazie alla realizzazione del termovalorizzatore di Acerra del 2009.
In controtendenza il settore energetico: le realizzazioni di impianti di produzione e elettrodotti hanno compensato l’immobilismo dei rigassificatori, generando benefici per oltre
6 miliardi. Le migliori performance si sono registrate però nelle ferrovie che hanno generato 27 miliardi di euro di benefici a fronte di 4 miliardi di costi per i ritardi.
Nel contesto di forte riduzione delle risorse a disposizione per l’infrastrutturazione del territorio, il rilancio della politica infrastrutturale per
lo sviluppo sociale ed economico del Paese passa, sempre di più per una efficace programmazione delle opere. Positivo deve ritenersi l’intervento del DL 201/2011 in materia
di infrastrutture strategiche, che ha definito criteri specifici per la selezione delle opere da
finanziare con capitali privati e ha semplificato le procedure (approvazione unica del progetto preliminare e riduzione dei termini delle procedure CIPE). Parallelamente occorre
accelerare l’utilizzo dei fondi disponibili e della realizzazione delle opere previste.
Accelerare
le opere
Perciò è strategico il celere utilizzo delle risorse destinate alle infrastrutture e alle costruzioni
nell’ambito della programmazione unitaria 2007-2013 dei Fondi strutturali europei e del FAS.
Secondo le stime dell’ANCE, infatti, questi fondi rappresentano circa il 40% delle risorse
statali destinate a infrastrutture. Dall’efficiente utilizzo di questi fondi dipende la riuscita
della politica infrastrutturale nazionale.
9
Andreas Kappeler, Mathieu Nemoz, Public-Private Partnerships in Europe, Before and During the Recent Financial Crisis Economic and Financial Report 2010/04, European Investment Bank. July 2010.
10
Agici Finanza d’Impresa, Una spinta al Fare. 10 proposte per rilanciare le infrastrutture, Rapporto 2011, novembre 2011.
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Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
Dei 108,7 miliardi indicati nella programmazione unitaria, circa 41,5 miliardi (il 38% delle risorse) sono relativi
a investimenti in costruzioni e infrastrutture (Grafico 2.8). Queste risorse
sono gestite per i tre quarti dalle Regioni
e provengono principalmente dal FAS
(per il 54%; Tabella 2.5).
In linea generale, serve uno scatto per
garantire un rapido ed efficiente utilizzo
dei fondi. L’avanzamento di tutti i programmi finanziati con i fondi strutturali
europei, che prevedono complessivamente 19,2 miliardi di investimenti in
opere pubbliche, risulta ancora basso. In
particolare, a livello regionale, solo il
36% delle risorse sono state impegnate
ed il 12% pagato.
Per quanto riguarda i fondi FAS, nonostante le decisioni prese nel corso degli
ultimi mesi, continua a preoccupare la situazione di stallo dei programmi, in particolare di quelli regionali, del periodo
2007-2013, che prevedono 22,3 miliardi
di spese per infrastrutture e costruzioni.
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Grafico 2.8
Quel che resta alle costruzioni
(Milioni di euro)
120.000
108.721
100.000
80.000
67.268
60.000
40.000
20.000
41.453
0
Investimenti in costruzioni ed infrastrutture
38% destinato ad
infrastrutture e
costruzioni
Altri investimenti
Fonte: elaborazioni e stime ANCE su delibere CIPE e documenti ufficiali
di programmazione.
Tabella 2.5
Il FAS finanzia di più
(Milioni di euro)
Tipologia
di programma
TOTALE
di cui
di cui
Fondi strutturali Fondi FAS
Programmi nazionali 11.727,0
2.711,0
9.016,0
Programmi regionali
ed interregionali
29.726,2
16.454,8
13.271,4
41.453,2
19.165,8
22.287,4
100%
46%
54%
Totale
Ripartizione
percentuale
Fonte: elaborazioni e stime ANCE su documenti pubblici
È condivisibile l’obiettivo di rendere la spesa efficiente e di garantire che la realizzazione
di tutte le opere avvenga in tempi certi. Vi è infatti la necessità di riformare la governance
dei fondi ai fini di migliorarne l’efficacia e l’impatto in termini di crescita e occupazione, attraverso l’introduzione dello strumento del Contratto istituzionale di sviluppo.
Allo stesso tempo, però, riprogrammare sistematicamente questi fondi e utilizzarli solo per
finanziare grandi progetti infrastrutturali rischia di provocare un ulteriore slittamento della
spesa e di modificare la struttura della domanda di opere pubbliche, causando un ulteriore
calo dei bandi di gara di opere di media e piccola dimensione.
Appare, quindi, necessario tener conto dell’effettivo stato di avanzamento dei programmi
e finanziare e avviare progetti immediatamente cantierabili. Occorre poi evitare che i fondi
riprogrammati siano sottratti agli investimenti infrastrutturali e destinati alla riduzione del
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Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
debito pubblico, come avvenuto per il FAS tra il 2008 e il 2011, e che le risorse siano di fatto
utilizzate per la spesa corrente.
Per garantire un rapido ed efficace utilizzo dei fondi appare, infine, necessario superare i
principali ostacoli che hanno finora rallentato l’attuazione dei programmi, attraverso l’esclusione dai criteri del Patto di stabilità Interno di tutti i cofinanziamenti nazionali per investimenti in conto capitale finanziati con fondi strutturali europei - proseguendo nel senso
del DL 201/201111 - e la certezza della programmazione finanziaria dei fondi strutturali e FAS.
2.2 Proposte per il rilancio
La pianificazione nazionale di settore va riformata
Le analisi evidenziano ancora pesanti ritardi nella dotazione e nella
qualificazione delle grandi reti di comunicazione su base nazionale ed
europea (Corridoi e TEN). In chiave più strettamente logistica, emergono soprattutto la limitata capacità intermodale dei grandi nodi di scambio infrastrutturali (porti, aeroporti e
interporti) e urbani, ed anche la difficile interconnessione tra reti e tra livelli di rete (da
quello europeo a quello locale).
Programmazione
logistica coerente
Scarsa attenzione è stata dedicata alla micro-infrastrutturazione del cosiddetto “ultimo miglio”, cioè quei piccoli interventi di livello locale e limitato peso finanziario, come quelli di
raccordo puntuale tra nodi e reti, di manutenzione, di adeguamento ed efficientamento, di
innovazione e information technology nella gestione dei flussi della mobilità.
Una programmazione logistica coerente dovrebbe partire, quindi, da:
• l’adozione di coerenti schemi di valutazione basati sull’efficacia logistica e sulla reale
fattibilità tecnico-amministrativa e ambientale delle proposte progettuali;
• la definizione delle prospettive reali di finanziamento;
• l’attribuzione di uno specifico spazio da dare alle cosiddette “infrastrutture minori” (ultimo miglio).
Il settore logistico in Italia si caratterizza per un’elevata frammentazione e una scarsa integrazione tra gli operatori che, ostacolando il
conseguimento di economie di scala e di scopo, penalizzano la struttura di costo complessiva e la qualità dei servizi: le singole imprese risultano molto piccole nel confronto internazionale.
Governance
meno frammentata
11
L’art. 3, comma 1, del DL 201/2011 prevede l’esclusione dal PSI delle spese effettuate a valere sulle risorse dei cofinanziamenti nazionali dei fondi strutturali per il triennio 2012-2014, fino ad un limite massimo di un miliardo
di euro all’anno.
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Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
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Il modello logistico italiano è strutturato in maniera tale da massimizzare la flessibilità e l’adattabilità alle caratteristiche delle filiere produttive nazionali e alle localizzazioni delle
imprese domestiche. L’offerta risponde movimentando carichi unitari ridotti, effettuando
spostamenti poco programmati e a frequenza elevata e offrendo servizi fra punti di origine
e di destinazione molto dispersi sul territorio. Queste sono esigenze tipicamente gestite
con il ricorso al trasporto stradale, che mal si conciliano con un maggiore ruolo delle ferrovie e dell’intermodalità. Tale modello è, quindi, un modello efficace ma poco efficiente.
Sul piano normativo e regolatorio, il comparto logistico necessita di seri interventi di
riforma, che devono fondarsi su:
1. chiarezza degli obiettivi e certezza dei processi legislativi di riforma settoriale;
2. equità e sostenibilità del confronto competitivo, intra-modale e inter-modale.
Va creata una vera e propria politica industriale specificamente dedicata alla logistica, nella
quale collocare gli interventi già in essere, nazionali e comunitari, in un quadro organico,
capace di rispondere alle molteplici esigenze di sviluppo del comparto.
C’è bisogno di una efficace semplificazione amministrativa e di adeguare gli standard tecnico-operativi. L’obiettivo può essere quello di pervenire alla definizione di una vera e propria legge di semplificazione logistica, con la quale risolvere i numerosi nodi amministrativi
con cui l’attività logistica deve quotidianamente confrontarsi (procedure doganali, di sicurezza, di controllo).
Altro profilo importante riguarda le regolamentazioni tecniche e operative delle infrastrutture e dei connessi servizi, per semplificare ed estendere l’accesso alle reti.
La contrattualistica per la logistica deve trovare soluzione in ambito normativo e regolamentare. La regolazione dei rapporti contrattuali per l’integrazione dei segmenti di filiera
è attualmente impostata su una moltiplicazione delle negoziazioni e delle connesse responsabilità. Il tentativo deve essere quello di arrivare a definire un modello unitario e sufficientemente flessibile di contratto logistico, adeguato alle diverse situazioni in cui possono
svilupparsi le prestazioni logistiche.
Il livello di liberalizzazione del settore ferroviario italiano è, osservato
dal punto di vista del recepimento delle direttive comunitarie, in fase
avanzata. Tuttavia permangono ancora criticità operative che impediscono lo sviluppo di
una reale ed equa concorrenza. L’apertura del trasporto internazionale passeggeri, avvenuta
con il decreto legislativo 15/2010 di recepimento della direttiva 2007/58/CE, ha disposto che
le imprese ferroviarie possano effettuare servizi di trasporto nelle stazioni situate lungo i percorsi internazionali, sempre che non si comprometta, anche solo potenzialmente, la redditività dei contratti di servizio pubblico in essere. Il segmento del trasporto internazionale di
Nuove norme
in tutti i settori
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Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
merci, invece, è completamente liberalizzato dal 2008 e, ad oggi, una quota rilevante del traffico è svolto dalle imprese entrate sul mercato di recente. Permangono, tuttavia, importanti
problemi, con riferimento alla politica di razionalizzazione dei raccordi ferroviari.
Il decreto legislativo 422/97 aveva attribuito alle Regioni la competenza in materia di trasporto pubblico locale, ponendo in capo alle stesse l’obbligo di stipulare contratti di servizio pubblico mediante ricorso a procedure concorsuali. Con la legge 99/2009, però, si è
compiuto un passo indietro rilevante, stabilendo che le gare cessano di essere obbligatorie
in tutti i casi in cui non lo sono per il Regolamento europeo. In definitiva, accanto a un discreto, seppur discontinuo, avanzamento normativo nel processo di liberalizzazione, permangono ancora nodi operativi da sciogliere tra i quali: un contratto nazionale di lavoro
eccessivamente rigido per le imprese già presenti sul mercato, la mancata condivisione con
gli altri operatori degli obblighi di servizio pubblico che gravano solo in capo agli operatori
esistenti, le difficoltà di reperimento del materiale rotabile, l’accessibilità ai terminal ferroviari, le farraginose procedure per l’ottenimento del certificato di sicurezza e, più in generale, la limitata separazione di alcune attività sensibili per la gestione dei servizi di trasporto.
L’autotrasporto di merci, per la struttura produttiva stessa del Paese, rappresenta un pilastro fondamentale dell’intero comparto logistico. Negli ultimi anni, purtroppo, vi è stata
un’involuzione normativa: si è passati dalla liberalizzazione del settore del 2005 alla fissazione di tariffe da parte del ministero delle Infrastrutture e Trasporti. A ciò sono da aggiungere i sostegni a pioggia per la categoria che hanno avuto l’effetto di premiare le
imprese meno efficienti. La strada da seguire, invece, è quella di superare i limiti dimensionali delle imprese mediante aggregazioni, fusioni e accordi di collaborazione. In Italia
gli incentivi sono, inoltre, scoordinati e tendono a favorire maggiormente il trasporto su
gomma, vanificando i tentativi di definire e attuare la politica intermodale. La forte conflittualità tra i vari provvedimenti e i rispettivi diversi obiettivi, le mancate liberalizzazioni
e l’iper-regolamentazione si traducono in una disorganicità sistemica del settore logistico.
L’intera legislazione nazionale riguardante gli interporti, risalente al 1990 (legge 240/1990)
andrebbe rivisitata e resa maggiormente coerente con i nuovi modelli di organizzazione
aziendale. Occorrerebbe, da un lato, individuare nuove strategie di sviluppo di medio-lungo
periodo, che puntino ad una maggiore integrazione e una gestione improntata a logiche di
efficienza e, dall’altro, completare le infrastrutture interportuali ancora non operative e ampliare e rafforzare quelle esistenti. Il DDL di riordino in corso di approvazione in Parlamento
può rappresentare un’occasione per rilanciare tali strategie, ma la discussione è ferma alle
autorizzazioni, agli standard qualitativi e alle infrastrutture di connessione.
Il trasporto aereo può dirsi pienamente liberalizzato per quanto riguarda le operazioni di
volo. Permangono, invece, alcune criticità nel sistema aeroportuale nazionale, ancora troppo
poco efficiente, anche se sicuramente molto dinamico. Dalla recente Indagine conoscitiva
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Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
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del sistema aeroportuale italiano, promossa dalla IX Commissione Trasporti della Camera
dei deputati, sono emerse indicazioni che possono condurre all’adozione di un piano organico del sistema aeroportuale che individui nuove strategie di sviluppo di medio-lungo periodo per gli scali italiani, comprese le possibili specializzazioni delle singole realtà.
Nel settore portuale la pianificazione è assente da tempo. Nei molti anni trascorsi dal varo
dell’ultima Legge quadro (L.84/94) è mancato il coraggio di sostenere le singole vocazioni
portuali, individuando le competenze di ciascun porto (transhipment, gateway, turismo,
ecc.), lasciando invece che le spinte localistiche predominassero. Si è consentito che tutti i
porti svolgessero indifferentemente l’una o l’altra funzione, anche in assenza di quel minimo di infrastrutture terrestri necessarie allo sviluppo logistico e intermodale.
La competitività tra porti e la scarsa efficienza delle strutture e dei servizi offerti in rapporto ai principali competitor europei e Nord africani, hanno contribuito nel tempo a minare
la forza del settore. Oggi è urgente la riforma della Legge quadro, da tempo in fase di revisione, che dovrebbe guidare la ristrutturazione del comparto, inserendosi efficacemente
all’interno della pianificazione nazionale, ma anche introducendo logiche di concorrenza
e competitività nell’ambito dei servizi erogati, rilanciando il ruolo di regolatore delle Autorità portuali e sostenendo il finanziamento degli investimenti. Sono elementi fondamentali per attrarre gli armatori mondiali e assicurare all’Italia una posizione di centralità
all’interno delle rotte di traffico internazionali.
Attrarre i capitali privati con nuovi strumenti finanziari
PPP: un mercato
immaturo
Una delle risposte date dalle amministrazioni pubbliche, in particolare
degli enti locali, alla riduzione delle risorse pubbliche disponibili per gli
investimenti infrastrutturali e ai vincoli del Patto di Stabilità Interno è stato, negli ultimi
anni, il ricorso crescente al partenariato pubblico-privato (PPP). È infatti aumentata la domanda da parte delle amministrazioni pubbliche di partnership con soggetti privati per il
finanziamento, la realizzazione e la gestione delle opere pubbliche.
Nel 2002 si bandivano in Italia 339 gare di PPP per un valore degli interventi di 1.435 milioni. Nel 2010 le gare sono state 2.979 per un valore di 10.037 milioni. I dati provengono
dall’Osservatorio per il PPP realizzato da Unioncamere e Cresme, che proprio quest’anno
compie dieci anni di attività.
Anche le stime per il 2011, basate sui dati dei primi nove mesi, portano il Cresme a prevedere
un’ulteriore crescita del numero di gare (3.000) e dell’investimento complessivo (13,5 miliardi).
Nel 2002 la quota dei bandi di gara di PPP sul totale delle gare per lavori pubblici era del 5,9%,
calcolata sugli importi messi a gara; nel 2009 era arrivata al 29,6%; nel 2011 è stimata al 43,9%.
106
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
Alla maggiore domanda di partnership da parte delle amministrazioni locali è corrisposta
la crescita di partnership effettivamente stipulate: le aggiudicazioni di gare di PPP sono passate da 83, per un importo di 622 milioni, nel 2002 a 621, per 5.192 milioni, nel 2010. Se le
gare sono salite in quegli otto anni di sette volte, le aggiudicazioni sono aumentate di 8,3
volte, smentendo chi sostiene che le molte gare non abbiano portato a risultati concreti. Per
il 2011, per altro, sulla base dei dati di gennaio-settembre l’Osservatorio per il PPP prevede
un ulteriore avanzamento a 700 gare aggiudicate, per un valore di investimenti di 7,5 miliardi: l’incremento tra 2002 e 2011 risulterebbe così superiore a 12 volte.
Sul forte incremento dello strumento del PPP, però, ha inciso notevolmente la concessione
di servizi, che in buona parte è estranea al settore delle opere pubbliche. Se è vero, infatti,
come rivela l’ultimo Rapporto annuale del Cresme, che le Amministrazioni Pubbliche locali tendono a spostare attività dai contratti di lavori ai contratti di servizi (per esempio
per le manutenzioni e la gestione di infrastrutture stradali o di immobili), è altrettanto vero
che tra i servizi sono previste prestazioni non assimilabili a quella dei lavori, come quelle
relative alla sanità, al turismo e al tempo libero.
A guardare i numeri, tuttavia, il peso della concessione di servizi è molto elevato sul numero di gare (sono il 58%), ma non sugli importi effettivamente messi in gara, dove la quota
si abbassa al 14%. Viceversa le concessioni di costruzione e gestione, pari al 30% sul numero
di gare, rappresentano il 76% degli importi. Sebbene tra il 2002 e il 2010 l’aumento delle sole
concessioni di costruzione e gestione è limitato a 3,9 volte.
Tra i settori prevale per numero di gare l’arredo urbano, con 2.397 gare, seguito dalle utility acqua, gas, energia e TLC (1.884), dagli impianti sportivi (1.751), dal commercio e artigianato (951), dai parcheggi (701), dai cimiteri (557), dal turismo (405), dalla riqualificazione
urbana (315) e poi via via, con un numero inferiore di bandi, sanità, scuola, tempo libero,
approdi turistici, trasporti, igiene urbana, centri polivalenti, beni culturali, direzionale. La
graduatoria cambia se si prende in considerazione l’importo delle concessioni messe in
gara: prevalgono le opere infrastrutturali di trasporto (22.422 milioni), le utility (12.898), la
sanità (4.629), la riqualificazione urbana (2.038), i parcheggi (2.008), gli impianti sportivi
(1.501), i cimiteri (1.283), gli approdi turistici (927) e poi tutti gli altri settori.
L’obiettivo di favorire il ricorso ai PPP, soprattutto nell’ambito della realizzazione delle
opere, è stato confermato con il DL 201/2011 che ha introdotto una serie di misure12 che
potranno favorire gli investimenti privati.
La diffusione di partenariati pubblico-privato, soprattutto per le piccole opere comunali, non
significa però che in Italia sia pienamente decollato lo strumento del project financing (PF),
12
Cessioni d’immobili, anticipazione della gestione delle convenzioni e durata delle concessioni.
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Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
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come rileva uno studio di Cristina Giorgiantonio, della Banca d’Italia e Rosalba Cori e Ilaria
Paradisi, dell’Unità tecnica di finanza di progetto della Presidenza del Consiglio. “Il PF, i cui
vantaggi potenziali sono massimi per progetti complessi, nei quali da un’appropriata allocazione dei rischi possono derivare significativi guadagni di efficienza, non sembra essere
utilizzato nella maniera più appropriata nel nostro Paese. Nonostante il sostanziale trend di
crescita nel ricorso allo strumento, in Italia i progetti finanziati presentano dimensioni relativamente contenute”13. E ancora: “I progetti sono perlopiù relativi al settore dei servizi pubblici locali, con interventi non molto complessi, il cui flusso di cassa si presenta facilmente
prevedibile, con un rischio di mercato presumibilmente contenuto. Il fatto che si tratti spesso
di ”opere fredde”, con canoni predeterminati e non legati sufficientemente alla qualità del servizio discendente dalle stesse, segnala come lo strumento non solo sia adoperato in misura
limitata, in confronto con altri Paesi (quali Regno Unito e Spagna), ma anche usato spesso con
finalità spurie rispetto alle principali motivazioni a esso sottese”.
Sul confronto europeo aveva posto l’enfasi anche Mario Draghi, allora Governatore della
Banca d’Italia, nel seminario Le infrastrutture in Italia: dotazione, programmazione, realizzazione, organizzato dalla stessa Banca il 28 aprile 2011. Citando uno studio curato da Andreas Kappeler e Mathieu Nemoz per la Banca europea degli investimenti, Draghi aveva
ricordato come di 1.340 progetti realizzati in Europa fra il 1990 e il 2009 in PF, per un valore complessivo di 253,7 miliardi, il 53% fosse stato realizzato nel Regno Unito, il 12% in
Spagna, il 5% in Francia, il 4% in Germania e soltanto il 3% in Italia14.
Va registrato, peraltro, che anche in ambito europeo sul PF si fanno sentire gli effetti della
crisi che non solo ha aumentato la pressione sulla finanza pubblica, ma ha anche reso più
difficile l’accesso ai mercati finanziari e al credito bancario per sostenere progetti ad alta intensità di capitale. La Relazione annuale dell’Unità tecnica per la finanza di progetto (UTFP)
rileva che “nel 2010 hanno raggiunto il closing finanziario 112 operazioni di PPP a livello europeo per un valore complessivo di 18,3 miliardi di euro, in leggero aumento rispetto al
2008 e al 2009, ma ancora inferiore ai livelli registrati negli anni precedenti. Nel 2007 l’incidenza del PPP sul totale degli investimenti per infrastrutture era stimata intorno al 4 per
cento”15. I dati si riferiscono a opere di importo superiore a 5 milioni di euro.
Nel seminario della Banca d’Italia, Draghi individuava anche le principali ragioni del ritardo italiani nel coinvolgimento dei capitali privati: troppo contenzioso, assenza di standardizzazione contrattuale, carenza di programmazione pubblica. A queste e ad altre
13
Rosalba Cori, Cristina Giorgiantonio e Ilaria Paradisi Allocazione dei rischi e incentivi per il contraente privato: un’analisi delle convenzioni di project financing in Italia, Banca d’Italia, Occasional Papers, numero 82, 2010.
14
Andreas Kappeler and Mathieu Nemoz, Public-Private Partnerships In Europe – Before And During The Recent Financial Crisis, EIB, Economic and Financial Report 2010/04, July 2010.
15
UTFP, Relazione sull’attività svolta nel 2010, maggio 2011.
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Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
lacune avrebbe dovuto porre rimedio il decreto legge per le infrastrutture cui i ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture hanno lavorato per alcuni mesi nel corso del 2011, con un
tavolo di confronto coordinato dall’allora viceministro Castelli con consulenti, associazioni
imprenditoriali, fondazioni politiche, Cassa depositi e prestiti. Tra le misure proposte dal
tavolo, la Legge di Stabilità ha recepito soltanto una defiscalizzazione, di portata assai limitata, per gli interventi in PF. Misura che il DL 201/2011 estende alle opere portuali, metropolitane, stradali e ferroviarie.
Le difficoltà in termini di standardizzazioni contrattuali e i ritardi del PF in Italia sono confermati da una recente inchiesta del settimanale Edilizia e Territorio del Sole 24 Ore sui ritardi
delle grandi opere autostradali in PF programmate nel corso del decennio scorso, a partire
dalla Legge Obiettivo del 2001. Su un totale di 38 miliardi per opere che comprendono Brebemi, Pedemontana lombarda, Tem, Cispadana, Pedemontana veneta e Cremona-Mantova, i cantieri sono stati avviati solo per Brebemi e per il primo lotto della Pedemontana
lombarda, rispettivamente al 30% e al 10% dello stato avanzamento lavori e non hanno mai
raggiunto il closing finanziario, facendo invece ricorso continuamente a prestiti-ponte. I lavori realizzati ammontano a 3,6 miliardi mentre opere per 6,3 miliardi dovrebbero partire
nel 2012, per 2,7 miliardi nel 2013. Per i restanti 25,4 miliardi si è ancora in attesa di definire le procedure contrattuali e finanziarie. Il 10 novembre 2011 è stata posta la prima pietra della Pedemontana veneta.
Gli aspetti finanziari continuano a essere un freno allo sviluppo del PF. Ancora la relazione
annuale dell’Unità tecnica finanza di progetto evidenzia come nel 2010 ci sia stato in Italia
un brusco rallentamento delle iniziative di importo superiore a 5 milioni di euro che hanno
raggiunto il closing finanziario. La relazione si sofferma sulle cause all’origine del ritardato
closing finanziario, “a volte differito anche di molti mesi rispetto all’aggiudicazione”, e sottolinea come sia emersa in primo luogo la necessità di affinare le modalità di funzionamento degli strumenti di garanzia.
Tra questi il fondo di garanzia per le opere pubbliche (FGOP) della Cassa depositi e prestiti.
“Nel caso del FGOP, sono previste garanzie sulla restituzione del valore di subentro a favore
dei concessionari autostradali al termine della concessione, riducendo di conseguenza il costo
dell’indebitamento con benefici in termini di minori tariffe. Al fine di rendere bancabili i piani
finanziari dei predetti concessionari, sono stati introdotti opportuni meccanismi volti ad assicurare il servizio del debito per il tramite degli introiti tariffari al termine della concessione,
sia da parte dello stesso concessionario, qualora non si trovasse un nuovo concessionario all’esito della gara per il riaffidamento della concessione (Pedemontana), sia da parte dell’ANAS (Brescia-Padova)”16.
16
Cfr. nota 15.
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Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
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Potenziare gli studi
di fattibilità
Lo svolgimento di una puntuale analisi finanziaria, che definisca la corretta allocazione dei rischi associati alla realizzazione e alla gestione delle
opere, prevedendone costi e ricavi sin dalle fasi iniziali della progettazione, rappresenta uno
strumento utile per valutare la reperibilità sul mercato dei necessari finanziamenti.
La centralità dello studio di fattibilità (SDF) va rafforzata: esso deve costituire lo strumento
di reale pianificazione di bilancio dell’ente appaltante e di attendibile presentazione preliminare dell’investimento al mercato; in tale contesto, devono assumere un peso determinante l’analisi dei costi (di investimento e di gestione) e l’analisi della domanda dei servizi
prodotti dall’infrastruttura.
Lo SDF, però, risulta spesso carente, soprattutto con riferimento alle valutazioni economico-finanziarie, ivi comprese quelle relative alla compatibilità con i vincoli di finanza pubblica17. In tal senso, occorrerebbe definire, con delibera CIPE e il coinvolgimento dell’Unità
tecnica di finanza di progetto e dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, le linee
guida per la corretta elaborazione degli studi di fattibilità (intervenendo eventualmente
sull’art. 161, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici - CCP).
Sullo SDF è già intervenuto il DPR 207/2010, disciplinandolo in modo dettagliato e richiedendo in generale maggiore accuratezza in tutte le fasi progettuali.
Va valutata l’opportunità che la fattibilità finanziaria possa essere vagliata da un advisor, che
ne attesti l’attendibilità e la sostenibilità. Tale funzione è già svolta dall’Unità tecnica di finanza di progetto (UTFP) con riferimento alle medie e grandi opere. La Legge Obiettivo,
inoltre, ha ulteriormente esteso le attribuzioni dell’UTFP: Potrebbe essere considerata l’opportunità di estendere il ruolo di advisor dell’UTFP anche alle opere medio-piccole e piccole,
escludendo eventualmente solo quelle di importo inferiore ai 100mila euro.
In un contesto di carenza di risorse pubbliche, il coinvolgimento del
capitale privato per la realizzazione delle infrastrutture costituisce
un’alternativa importante e necessaria. I project bond (PB), sulla falsariga
del project financing (PF) prevedono la costituzione di un SPV (special purpose vehicle) o società di progetto ad hoc, finalizzata alla realizzazione e gestione dell’opera, che potrà finanziare le proprie attività emettendo obbligazioni, ossia bond.
Project Bond,
uno strumento
da importare
Il mercato di riferimento per il collocamento dei bond è quello delle banche, dei fondi pensione, delle compagnie assicurative e dei fondi comuni che potranno acquistare i titoli a
tasso fisso o variabile e saranno ripagati dai flussi di cassa futuri che l’opera stessa genererà. La loro qualità deve essere validata da agenzie specializzate, che ne forniscono il rating (che per i PB non dovrebbe essere mai inferiore alla tripla A), incidendo, peraltro, sui
17
Le infrastrutture strategiche di trasporto. Problemi, proposte e soluzioni, Fondazioni Astrid, Italiadecide e ResPublica.
110
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Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
tassi di interesse legati ai bond e alla remunerazione che i flussi di cassa dovranno garantire per ripagare il debito contratto.
La rischiosità dei suddetti bond deve essere mitigata da garanzie assicurative (es., performance bond), richieste dall’investitore, emesse da assicurazioni monoline, che assicurano i
futuri flussi di cassa dell’opera e, conseguentemente, il rimborso del servizio di debito, incidendo positivamente sull’aspetto valutativo dell’affidabilità dei titoli.
I dati mostrano che il mercato di riferimento per i bond tra il 1997 e il 2009 è la Gran Bretagna, che ha registrato circa 33,4 miliardi di dollari di PF con bond, mentre negli altri paesi
europei alcune esperienze timide si riscontrano in Spagna, Portogallo, Germania, Austria,
Francia e Ungheria. Di contro, la prevalenza dei finanziamenti è stata caratterizzata da
prestiti18.
L’Italia non ha ancora sperimentato esperienze di PB in maniera diffusa, se si esclude il
progetto della BEI “Sunray – Montalto di Castro”19. I freni alla loro maggiore diffusione
sono, in linea generale, la costante incertezza del quadro regolatorio, l’eccessiva burocratizzazione delle procedure amministrative, l’inadeguata programmazione degli interventi,
la pressoché assenza di SPV e il rischio “conflittualità” con il territorio. Ad essi si aggiungono alcuni elementi specifici per i PB, quali l’assenza di assicurazioni monoline, le difficoltà
di coinvolgimento di investitori istituzionali, come Cassa Depositi e Prestiti e BEI ad intervenire in garanzia dei bond (che contribuirebbe a far salire il ranking dei bond fino a “AAA
e AAA+”, riducendone il rischio) e l’inadeguatezza del quadro normativo di riferimento
(Diritto societario e CCP) a definire modelli contrattuali idonei per i PB.
Analogamente, la stessa Commissione europea, nel valutare la possibilità di ricorrere ai
PB20, ha indicato alcuni prerequisiti ineludibili, quali l’intervento della BEI e della UE (concessione di linee di credito, prestiti, garanzie) e la definizione di un contesto regolatorio
più stabile ed idoneo in ciascuno Stato membro per l’attuazione di contratti di PB.
18
La rilevazione si riferisce al periodo 1997-2009, elaborata da Finlombarda su dati Dealogic, e riguarda i 27 paesi
dell’UE; da questi, sono stati evidenziati solo quelli nei quali hanno avuto applicazione, anche molto limitata, i PB.
19
Il progetto riguarda la realizzazione di due parchi fotovoltaici per una potenza complessiva di 52,4 MW (uno dei
maggiori in Europa) nel Comune di Montalto di Castro. I pannelli sono dotati di un tracker system che permette
di seguire il sole, generando il 25% di energia in piu’ rispetto ai sistemi a pannelli fissi. Il promotore e’ SunRay Renewable Energy, una subsidiary di SunPower Corp, quotata al NASDAQ. La BEI ha avuto un ruolo fondamentale
nella strutturazione dell’operazione che, a causa della normativa italiana, e’ composta da un Project financing associato ad una cartolarizzazione. Finanziamento attraverso due tranches di obbligazioni: una sottoscritta da Bei
ed una destinata ad investitori istituzionali. L’operazione ha ottenuto riconoscimenti importanti: “Europe Bond
Deal of the Year” (Project Finance International –Thomson Reuters) e “European Project Bond Deal of the Year”
(Project Finance Magazine / Euromoney).
20
Europe 2020 Project Bond Iniziative, documento di consultazione del 28.02.2011.
111
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
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Il rischio delle regole
Semplificare
La semplificazione delle procedure amministrative è una priorità per il
Paese, a diversi livelli regolamentari e in ogni comparto produttivo.
Nonostante i processi di continuo adeguamento della legislazione vigente, permangono
comunque procedure amministrative particolarmente lunghe e complesse, che costituiscono il tallone di Achille degli investimenti di infrastrutturazione dell’Italia, incidendo
sulla realizzazione delle opere in termini di costi e di ritardi temporali.
Il nodo, in larga parte, deriva dalla cornice costituzionale ed in particolare dall’impostazione dell’art. 117 Cost. Esso affida, infatti, le competenze in materia di opere pubbliche
alla volontà concorrente tra Stato e Regioni, ostacolando un fluido svolgimento degli iter
realizzativi: ne sono conseguite contrapposizioni che nel tempo si sono manifestate tra i
diversi livelli di governo in merito alla localizzazione delle opere, al rilascio di autorizzazioni, alle approvazioni e alle risorse.
A ciò si aggiunge la progressiva stratificazione delle norme, che ha di fatto reso ancora più
articolate e farraginose le procedure. La definizione di un quadro normativo di riferimento,
rappresentato dalla Legge Obiettivo (Legge 21dicembre 2001, n. 443) e dai relativi decreti
di attuazione, nonché dal CCP, ha risposto sicuramente all’esigenza ragionevole di definire gli strumenti operativi. Su di essi, però, si è intervenuti nel corso degli anni con modifiche spot e disorganiche, che hanno di fatto finito per complicare, piuttosto che
semplificare il contesto normativo per le imprese e le stazioni appaltanti.
La semplificazione amministrativa e la qualità della regolazione si completano e sono funzionali entrambe alla crescita economica e allo sviluppo del sistema Paese.
Oggi è proprio la qualità della regolazione a essere inadeguata agli obiettivi che si prefigge.
L’incentivazione delle procedure negoziate nel settore dei lavori pubblici, ad esempio, introdotta con il DL 70/2011, rischia di comprimere in modo stringente la contendibilità del
comparto. Se si fosse fatta un’analisi di impatto della regolazione, si sarebbe prevenuta
l’approvazione di una norma addirittura contrastante con gli obiettivi di interesse generale, che salvaguarda, invece, interessi specifici di singole categorie o parti politiche.
Compito del legislatore non è solo la produzione di un quadro normativo qualitativamente adeguato e facilmente fruibile, ma anche l’individuazione di un soggetto regolatore
terzo, come l’Authority di settore prevista dal DL 201/2011, che non si limiti alle competenze in materia di accesso alle infrastrutture, ma monitori il mercato, sostenga e promuova la concorrenza e i percorsi di liberalizzazione avviati e da avviare, salvaguardi la
libertà di impresa e il dialogo corretto tra pubblico e privato.
112
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
Ancora più forte, poi, è l’esigenza di uscire da un contesto regolatorio prettamente nazionale, raccordandolo più efficacemente con quello comunitario, facendo sì che anche una futura Autorità lavori in stretto collegamento con gli uffici della Commissione.
Regolare i mercati e farlo bene, pertanto, sono due elementi fondamentali a raggiungere un
obiettivo prioritario: favorire il buon funzionamento dei mercati. Insieme alla semplificazione, infatti, la regolazione è necessaria a garantire all’investitore che le dinamiche di mercato si svolgeranno su basi eque e trasparenti, non discriminatorie e proconcorrenziali,
cosicché il rendimento del proprio investimento non sia soggetto al libero arbitrio del regolatore.
La questione del “consenso” sulle opere pubbliche, in particolare di
quelle di grandi dimensioni o a maggiore sensibilità territoriale e ambientale, sta assumendo caratteristiche preoccupanti.
Gestire il consenso
È importante prevedere, nella fase della pianificazione e della programmazione delle opere
di maggiore rilevanza (eventualmente intervenendo sulle disposizioni attuative del CCP riguardanti la Legge Obiettivo), l’elaborazione di un piano strategico, che motivi la validità
e l’opportunità della scelta progettuale, evidenziandone costi e benefici, diretti e indiretti,
informando in modo chiaro e completo la popolazione sul progetto e sulle relative caratteristiche nonché sugli obiettivi perseguiti con la sua realizzazione.
L’esperienza francese del débat public può rappresentare un paradigma dal quale partire, per
arrivare a definire un modello avanzato e istituzionalmente coerente di acquisizione del
consenso. Il dibattito pubblico, infatti, consente di costruire il consenso sin dalle fasi iniziali
del progetto, coinvolgendo le popolazioni interessate e affidando a un apposito organismo
il compito di vigilare a partire dai primi studi e quindi ben prima che il progetto finale sia
stato selezionato. Tale organismo, in parte assimilabile alla Conferenza dei servizi, si avvale
del supporto di strumenti tipici della comunicazione, per alimentare il confronto aperto
così da acquisire il consenso.
In Italia rilevante è l’intermediazione politica del consenso, gestita dalle rappresentanze
locali che tendono a esaltare il dissenso anche quando è limitato e circoscritto per ottenere
maggiori compensazioni.
Le opere compensative devono essere direttamente collegate all’impatto dell’infrastruttura
e siano destinate alla mitigazione dei suoi effetti sull’ambiente e sulla collettività21.
Regole certe sulle compensazioni possono evitare che le stesse siano un ulteriore momento
di frizione tra il territorio e le imprese.
21
Le infrastrutture strategiche di trasporto. Problemi, proposte e soluzioni, Fondazioni Astrid, Italiadecide e ResPublica.
113
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
Il tetto finanziario alle opere compensative è stato inserito nel DL Sviluppo, che l’ha fissato nel 2% del valore delle compensazioni sia per le infrastrutture strategiche sia per quelle
ordinarie (in quest’ultimo caso in via transitoria/sperimentale fino al 2013). Tale misura
ha l’obiettivo comprensibile e condivisibile di contenere i costi di realizzazione delle opere,
tuttavia non risolve le vere criticità relative alle compensazioni. Oltre a incidere sulla leva
del costo, infatti, occorre disincentivare i ricorsi proposti contro la decisione di realizzare
le opere infrastrutturali22.
Quanto alle modalità di compensazione, andrebbe attentamente valutata l’opportunità di
ricorso a quelle di natura finanziaria e fiscale (poco in uso in Italia, ma diffuse in altri paesi).
Lo schema si basa sul presupposto della compartecipazione diretta degli enti amministrativi interessati alla localizzazione dell’opera ai benefici che derivano dalla sua realizzazione
oppure sulla quantificazione di riduzioni fiscali o tariffarie da corrispondere alla collettività residente sul territorio interessato.
In Italia, dove i tempi di pagamento alle imprese sono normalmente
tra i più lunghi d’Europa, i ritardati pagamenti nel settore dei lavori
pubblici hanno assunto in questi mesi dimensioni particolarmente preoccupanti.
Ritardati pagamenti:
game over
Le condizioni finanziarie delle imprese, già rese critiche dal razionamento del credito operato dalle banche, vengono ulteriormente peggiorate quando viene dilazionato il pagamento di lavori regolarmente eseguiti. Ciò fa mancare le risorse necessarie a dare continuità
all’attività imprenditoriale. In alcuni casi, è la sopravvivenza stessa delle imprese a essere
messa a rischio dalla sottrazione di risorse finanziarie determinata dai ritardi. In molti altri,
la mancanza di certezza nei tempi di pagamento impedisce agli operatori economici di procedere all’indispensabile programmazione dell’attività.
Secondo i dati dell’indagine realizzata dall’ANCE presso le imprese associate, quasi la totalità delle imprese di costruzioni che operano nel settore dei lavori pubblici subisce ritardi
di pagamento da parte della pubblica amministrazione. Negli ultimi anni, si è registrato un
costante allungamento dei tempi di pagamento dei lavori, con un più significativo e rapido innalzamento nel biennio 2010-2011: a fine 2011, i tempi medi di pagamento dei lavori
pubblici hanno raggiunto 8 mesi, con punte che superano i due anni.
Le misure di contenimento della spesa, con particolare riferimento al Patto di Stabilità Interno, e l’inefficienza delle amministrazioni (ritardi nell’emissione del certificato o del mandato di pagamento, vischiosità burocratiche) costituiscono le due principali cause di ritardo
su cui le istituzioni dovrebbero intervenire per assicurare una migliore tempestività nei pa-
22
Le infrastrutture strategiche di trasporto. Problemi, proposte e soluzioni, Fondazioni Astrid, Italiadecide e ResPublica.
114
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
gamenti della Pubblica Amministrazione e garantire le condizioni necessarie al normale
svolgimento dell’attività imprenditoriale.
Occorre, quindi, da una parte modificare le regole del Patto di Stabilità per
favorire il pagamento delle spese in
conto capitale e dall’altra intervenire sul
sistema sanzionatorio per incoraggiare
le istituzioni a migliorare l’efficienza dei
processi nel pagamento delle somme
dovute per i lavori effettuati.
La legislazione italiana in materia di
tempi di pagamento nel settore dei lavori pubblici e, soprattutto, di sanzioni
per la P.A. in caso di ritardo è tra le meno
severe d’Europa. Ad esempio, le sanzioni applicate in Francia e Spagna, che
già hanno termini di pagamento più
brevi rispetto all’Italia, sono 3,5 volte più
elevate rispetto a quelle sanzioni comminate nel Paese (Tabella 2.6).
Tabella 2.6
L’Italia maglia nera UE nei pagamenti della P.A.
Termini di Interessi in caso Indicatore del
pagamento
di ritardato livello di sanzione
(numero di giorni pagamento
in caso di
calendari)
ritardo della P.A.*
(Base 1=Italia)
Francia
Germania
30 giorni
21 giorni**
(intermedio)
60 giorni
(pagam. finale)
Italia
75 giorni
(intermedio)
8,25%
3,5
6,25%
2,6
1,5% nei primi
120 giorni
1,0
90 giorni
4,08%
(pagam. finale) successivamente
Spagna
50 giorni
8,25%
3,5
* L'indicatore è stato calcolato sulla base degli interessi che la Pubblica
Amministrazione deve pagare per un ritardo di 6 mesi.
** La normativa tedesca prevede un termine di 18 giorni lavorativi (3 settimane) per i pagamenti intermedi. Il termine di 21 giorni calendari è stato indicato nella tabella per consentire il raffronto.
Gli interessi in caso di ritardo si riferiscono ai tassi in vigore nel secondo semestre 2011 per i contratti tra imprese e la Pubblica Amministrazione
Fonte: elaborazioni ANCE su documenti ufficiali.
Inoltre, l’attuale sistema sanzionatorio è
ben lontano dal garantire alle imprese
che realizzano lavori pubblici livelli di risarcimento in grado di compensare i maggiori
costi sostenuti dalle imprese per fare credito alle amministrazioni pubbliche.
Nel settore dei lavori pubblici occorre attuare rapidamente la nuova direttiva europea sui
ritardati pagamenti emanata il 16 febbraio 2011, che prevede maggiori sanzioni in caso di
ritardo. Ciò darebbe una spinta significativa al miglioramento dell’efficienza della pubblica amministrazione e garantirebbe un miglior indennizzo per le imprese che subiscono
ritardi.
Infine, occorre favorire l’adozione di strumenti e modalità, quali la certificazione obbligatoria dei crediti da parte degli enti locali ai fini della cessione pro-soluto, che possono consentire alle imprese, seppure con un costo aggiuntivo, di ottenere la liquidità necessaria
alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale.
115
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
Qualificare la domanda pubblica
Qualità delle prestazioni, progettuali e realizzative, spinta all’innovazione tecnologica, costruttiva e dei materiali, rispetto delle regole e dei
vincoli - nella fase progettuale, realizzativa e di collaudo - possono essere ottenute solo se c’è un’amministrazione pubblica, dotata di autonomia e indipendenza,
ma responsabile del proprio operato.
Alla P.A.
programmazione
e controllo
Oggi, l’impostazione del CCP incentiva (con il 2% del valore di ogni opera pubblica) gli uffici tecnici della P.A. a progettare internamente (la progettazione interna alla P.A. rappresenta l’8,7% del mercato, per un valore pari a 1,48 miliardi di euro)23. Ciò determina un
maggior costo dovuto alla necessità di integrare con consulenze esterne le inevitabili carenze specialistiche dei tecnici. Si innesta, così, un sistema di appalti di servizi di supporto
e una conseguente distorsione del processo progettuale.
Alla P.A. dovrebbero spettare solo compiti di programmazione e controllo, lasciando al
mercato lo svolgimento di servizi tecnici altamente specialistici e qualificati, come i servizi
di ingegneria e architettura.
Le stazioni appaltanti sono spesso impreparate a seguire l’iter procedurale dei lavori, soprattutto di quelli complessi e di particolare rilievo tecnico; il risultato è che costi e tempi
dell’appalto finiscono fuori controllo.
Il ricorso al Project Management Consultant (PMC) potrebbe assicurare un costante ed efficace controllo sull’andamento dell’appalto, attraverso l’ausilio di un consulente di grande
spessore e capacità tecnica, gestionale e professionale (sia esso dipendente della struttura
o esterno). Sarebbe opportuno prevedere, almeno per le opere pubbliche di importo superiore ai 20 milioni di euro, il ricorso al PMC, fin dall’inizio della fase progettuale per ridurre tempi e contenzioso ed elevare la qualità dei progetti.
In Italia la realizzazione di opere pubbliche complesse comporta l’espletamento di procedure
separate per l’affidamento degli incarichi di progettazione e costruzione, con una netta divisione
delle responsabilità. All’estero, invece, l’esecuzione di tali opere viene affidata a contraenti generali (CG), cioè a società in grado di eseguire progetti EPC (Engineering–ProcurementConstruction), fornendo al cliente progetti completi. Tali società offrono servizi di ingegneria
pluridisciplinari, qualificati e di project management, con monitoraggio continuo dei tempi e dei
costi, avvalendosi di subcontractor specializzati per i lavori di costruzione in cantiere. Gli investitori e i CG hanno sperimentato modelli realizzativi e contrattuali particolarmente efficienti
per realizzare i progetti, quali il Lump Sum Turn Key oppure gli affidamenti mediante Open Book,
riducendo i costi e i tempi delle gare tradizionali, evitando inoltre dispendiosi contenziosi.
23
Dati 2009, Centro studi CNI.
116
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
Schema Lump Sum Turn Key:
L’investitore o il promotore dell’investimento (Owner) di norma richiede al general contractor l’esecuzione del progetto con garanzia dei costi (prezzo fisso), dei tempi di realizzazione e delle performance. Il progetto viene dunque appaltato “chiavi in mano”; in
qualche caso viene chiesto al contractor di procurare il finanziamento del progetto. Il contractor è selezionato mediante gara, cui possono partecipare contractor referenziati e affidabili che abbiano capacità ed esperienze specifiche, nonché robustezza finanziaria. Tale
schema si focalizza sul contenimento dei tempi di realizzazione.
Schema Open Book:
Consente all’owner e al contractor di concordare il prezzo e la schedula dell’opera su base
negoziata e trasparente. La determinazione dei tempi e del prezzo contrattuali viene fatta
dopo una prima fase di esecuzione di ingegneria di base e di stima dell’investimento
condivisa fra contractor e owner. Il contractor può essere selezionato mediante gara ovvero su base negoziata, laddove owner e contractor abbiano una conoscenza della tipologia di investimento, dei costi di produzione e delle condizioni di mercato. L’owner
rimborsa al contractor i costi sostenuti e concorda i meccanismi di conversione della stima
in un prezzo chiuso con tempi certi di completamento sulla base sia dei parametri preconcordati per coprire rischi, overheads, utili di impresa sia delle condizioni contrattuali
definite (Convertible Lump Sum). In questo modo l’owner, oltre a esaminare e valutare in
contradditorio e in modo trasparente i costi delle forniture e della costruzione, nonché i
costi dell’ingegneria e della gestione della costruzione del contractor, riduce i tempi necessari per effettuare una gara di appalto secondo i canoni classici. L’Open Book consente
all’owner di ridurre i tempi di realizzazione dell’opera del 15%-20% rispetto a quelli previsti dalle normali procedure di appalto; il contractor minimizza i costi e i tempi di preparazione dell’offerta e avvia subito le attività esecutive di ingegneria e di cost estimate.
L’adozione di questa modalità è possibile soltanto quando l’owner dispone di un servizio di PMC. Fondamentale, inoltre, è definire contestualmente alla progettazione il finanziamento del progetto, ove richiesto, e soprattutto quando l’owner intende ricorrere
al project financing. Con la formula Open Book Convertible si procede di pari passo a valutare costi, tempi e performance in modo trasparente, privilegiando la realizzazione dell’opera e minimizzando, con mutua soddisfazione delle parti, i conflitti e i contenziosi.
117
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
Aggregare
la domanda
La qualificazione della domanda passa anche attraverso forme di aggregazione delle stazioni appaltanti, incentivando il ricorso a centrali di
committenza e alle Stazioni uniche appaltanti (SUA). Si potrebbero prevedere premialità per
gli enti che aderiscono a una centrale di committenza, autorizzandoli ad utilizzare per ulteriori investimenti parte dei risparmi di spesa conseguiti a fronte della razionalizzazione dei
processi di approvvigionamento. Si potrebbero, altresì, prevedere misure sanzionatorie nel
caso si riscontrino maggiori costi legati alla mancata adesione alla centrale di committenza.
Dal lato delle imprese, la qualificazione e la selezione va maggiormente
orientata alla reale specializzazione e professionalità, nonché alla loro
crescita dimensionale. In particolare, per quanto riguarda le strutture di
progettazione, occorre incentivare fusioni e aggregazioni. Non va dimenticato, infatti, che
negli altri paesi la base dello sviluppo del settore delle costruzioni pone al centro l’evoluzione della progettazione verso strutture con più forti caratteristiche manageriali e finanziarie, come le società di ingegneria.
Per imprese
dimensione, qualità
e affidabilità
Va da sé che, a fronte di una domanda più qualificata da parte della pubblica amministrazione, si stimolerebbero le società di ingegneria ad aggregarsi, rendendole capaci di erogare
prestazioni più complesse.
Il settore della progettazione è caratterizzato da un livello dimensionale delle imprese largamente inferiore a quello dei concorrenti europei, i quali hanno grandezze raggiunte soltanto dalle prime quattro-cinque società di ingegneria italiane.
La questione dimensionale deve essere quindi affrontata, sia pure con la necessaria gradualità, attraverso forme che incentivino, anche fiscalmente, le aggregazioni in consorzi
stabili di progettisti e le fusioni fra società di ingegneria.
È inoltre opportuno favorire il processo di internazionalizzazione delle imprese, attraverso
incentivi anche di natura fiscale a favore delle strutture che abbiano intenzione di affrontare la sfida dei mercati internazionali, partecipando a iniziative imprenditoriali e a gare internazionali.
Nel valutare i meccanismi che presiedono l’aggiudicazione degli appalti pubblici non è
possibile identificare un modello procedurale ottimale: l’adozione dell’uno o dell’altro varia
a seconda dei rischi di corruzione e collusione, della preparazione delle amministrazioni,
delle caratteristiche del mercato dal lato sia della domanda sia dell’offerta. È questa l’impostazione affermata dalla giurisprudenza europea e recepita dall’art. 81 CCP che ha liberalizzato la scelta da parte delle stazioni appaltanti di adottare il criterio di aggiudicazione
degli appalti, prezzo più basso (PPB) o l’offerta economicamente più vantaggiosa (OEPV),
condizionandola esclusivamente all’oggetto dell’appalto ed all’obiettivo perseguito.
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CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
Scenari economici n. 13, Dicembre 2011
La stazione appaltante dovrà fondare la propria scelta su due elementi imprescindibili: caratteristiche dell’oggetto del contratto e reale possibilità di valutare le offerte in condizioni
di effettiva concorrenza. La giurisprudenza più recente si è espressa evidenziando che la
scelta tra i due criteri debba orientarsi propendendo, da un lato, per il criterio del PPB
quando l’oggetto dell’appalto abbia caratteristiche di semplicità e ripetitività e, dall’altro,
per l’OEPV quando le caratteristiche dell’appalto rendono necessario, ai fini dell’aggiudicazione, valutare il profilo tecnico, economico e l’impatto sull’utenza.
Nell’OEPV, essendo sottoposti a valutazione una serie diversificata di fattori, è necessario
limitare il rischio di un’eccessiva discrezionalità da parte della P.A. e quindi occorre rendere
il più possibile misurabili e certi i criteri di valutazione. Evitare che venga compromessa la
trasparenza è assolutamente indispensabile.
La P.A. non dispone di strumenti adeguati a valutare l’efficienza del mercato dal lato dell’offerta, perché i sistemi di qualificazione nei mercati pubblici sono statici (irrilevanza delle
soluzioni tecnologiche-gestionali) e formali (l’assenza di requisiti può essere superata con
strumenti contrattuali: acquisti ramo d’azienda (vd. Art. 76, co. 10 DPR 207/2010, subentro, avvalimento ecc.)24.
I meccanismi di qualificazione delle imprese dovrebbero essere rivisti nel senso di privilegiare l’effettiva disponibilità delle caratteristiche e degli attrezzature richieste.
Il DPR 207/2010 rivede il sistema di qualificazione nel settore dei lavori, che vede nelle Società Organismo di Attestazione (SOA) i soggetti
cui è affidato il compito di rilasciare le attestazioni di qualificazione delle imprese. Le SOA,
pur svolgendo funzioni pubblicistiche, hanno scopo di lucro e operano in competizione tra
loro in un mercato autonomo e peculiare, contiguo a quello delle opere.
Qualificare
chi qualifica
Il rischio, però, è che l’attività delle SOA sia troppo rivolta alla ricerca della propria redditività, piuttosto che operare come strumento di tutela del mercato. Risolvere tale conflittualità, vuol dire, pertanto, dare maggiore credibilità al sistema di qualificazione stesso.
Bisogna affrontare e risolvere i problemi già individuati dall’AVCP, con particolare riferimento a:
1. il rafforzamento del profilo di società per azioni delle SOA;
2. incentivare la partecipazione (regolata) delle banche, per dare maggiore solidità alle
SOA e aumentare la loro attenzione ai criteri reputazionali delle imprese qualificate;
3. la regolamentazione più rigorosa del trasferimento delle qualificazioni nei casi di cessioni di rami d’azienda, al fine di evitare la permanenza di imprese ormai fuori mercato;
24
Relazione Cons. Andrea Camanzi (AVCP) al Convegno “Concorrenza e Partecipazione negli Appalti pubblici”, del
28 ottobre 2011 AGCM.
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4. l’eliminazione delle false attestazioni, soprattutto attraverso il più rigoroso adempimento da parte delle stazioni appaltanti dei certificati di esecuzione dei lavori pubblici
all’Autorità.
L’efficienza del sistema di qualificazione definito dalle certificazioni SOA e dai requisiti generali è da molte parti ritenuta insufficiente; manca, infatti, quasi fosse residuale per le stazioni appaltanti, un meccanismo per valutare l’affidabilità dei contraenti, la loro
reputazione. È utile consentire alla stazione appaltante di verificare che l’impresa non adotti
normalmente comportamenti capaci di pregiudicare la realizzazione dell’opera.
Qualificare le imprese vuol dire anche promuoverne comportamenti virtuosi, che arrechino
vantaggio alle stazioni appaltanti e più in generale alla credibilità del tessuto industriale di
settore. Per queste ragioni, il dibattito sulla qualificazione si è ampliato introducendo i criteri reputazionali. In alcune ipotesi, come nel caso di affidamenti effettuati sulla base del
criterio del massimo ribasso (prezzo più basso), essi potrebbero intervenire a supporto degli
enti appaltanti, in aggiunta al meccanismo di esclusione delle offerte anomale, per consentire di valutare se l’impresa affidataria abbia registrato, in precedenza, inadempienze
nella conclusione di un’opera, dovuti alla mancanza di risorse disponibili o a causa di incapacità organizzativa, oppure se abbia un alto tasso di litigiosità.
Occorre superare l’approccio puramente tecnico, operando una valutazione del curriculum vitae di un’impresa. Ciò consentirebbe di mitigare l’asimmetria informativa che caratterizza il rapporto tra imprese affidatarie e stazioni appaltanti, anche attraverso
l’introduzione di apposite penalizzazioni come l’esclusione temporanea dalle gare e la sospensione dalla qualificazione acquisita.
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