LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO Canzone composta nel
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LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO Canzone composta nel
LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO Canzone composta nel 1836 presso la Villa Ferrigni (ora rinominata Villa della Ginestra, e situata lungo il cosiddetto “miglio d’oro”, un tratto di strada celebre per le bellezze storico-paesaggistiche e per le splendide ville d’età settecentesca) di Torre del Greco, La ginestra o il fiore del deserto viene pubblicata per la prima volta nell’edizione napoletana dei Canti curata da Antonio Ranieri (1845). Il componimento, che si apre con una citazione dal Vangelo di Giovanni, è considerato il testamento poetico e spirituale di Leopardi, che, osservando una ginestra sulle pendici del Vesuvio, riflette sulla condizione umana e sulla Natura. Metro: Canzone di strofe libere di endecasillabi e settenari, con presenza di rime al mezzo. Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς. E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce. (Giovanni, III, 19) Nel Vangelo di Giovanni la luce è quella della rivelazione e della fede, le tenebre sono quelle dell’incredulità, qui invece, anche in polemica con lo spiritualismo cristiano, la luce allude al pensiero risorto dopo la “barbarie” medievale, cui si allude con tenebre. C’è anche un accenno polemico all’esaltazione dell’età dei lumi, che L. contrappone alla sua. Qui su l’arida schiena del formidabil monte 1 sterminator Vesevo 2, la qual null’altro allegra arbor né fiore, tuoi cespi solitari intorno spargi, odorata ginestra, contenta dei deserti 3. Anco ti vidi de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade che cingon la cittade la qual fu donna de’ mortali un tempo 4, e del perduto impero par che col grave e taciturno aspetto faccian fede e ricordo al passeggero. Or ti riveggo in questo suol, di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante e d’afflitte fortune 5 ognor compagna. Questi campi cosparsi di ceneri infeconde, e ricoperti dell’impietrata lava, che sotto i passi al peregrin risona; dove s’annida e si contorce al sole la serpe, e dove al noto cavernoso covil torna il coniglio; fur liete ville e cólti 6, e biondeggiar di spiche, e risonaro di muggito d’armenti; fur giardini e palagi, agli ozi de’ potenti gradito ospizio; e fur città famose 7, che coi torrenti suoi l’altero monte dall’ignea bocca fulminando oppresse con gli abitanti insieme. Or tutto intorno una ruina involve, ove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola. A queste piagge venga colui che d’esaltar con lode il nostro stato ha in uso, e vegga quanto Qui sulla pendice (schiena) riarsa del tremendo (formidabil, latinamente 'spaventevole') distruttore (sterminator (aggettivi potenti che segnano la capacità distruttiva della Natura che agisce) monte Vesuvio (Vesevo, latinismo), che nessun altro arbusto o fiore allieta, tu odorosa ginestra (eroismo solitario) spargi i tuoi cespi solitari intorno, appagata dai deserti [mostrando di non sdegnare i deserti, anzi quasi di prediligerli]. Ti vidi un’altra volta abbellire con i tuoi steli anche le solitarie contrade che circondano Roma (la cittade) la quale città [Roma] fu un tempo dominatrice di popoli, e sembra che (par che) [le contrade] con il loro cupo e silenzioso (grave e taciturno hanno una valenza morale) una aspetto testimonino e ricordino al viandante (passeggero: passare inesorabile del tempo) il grande impero perduto. Ti rivedo ora in questo suolo tu che sei amante di luoghi tristi e abbandonati dal mondo, e sempre compagna di grandezze decadute. Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla lava solidificata (impietrata), che risuona sotto i passi del viandante; dove si annida e si contorce al sole il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il coniglio[v.23allitterazione]; furono [la serie fur...fur...fur...- anafora - sottolinea e oppone alla desolazione il ricordo dello splendore delle città antiche] città opulente (liete nel senso latino) e campi coltivati, e biondeggiarono di messi, e risuonarono di muggiti di mandrie; furono giardini e ville sontuose, soggiorno gradito all'ozio dei potenti [poiché queste città erano stazioni turistiche]; e furono città famose che il vulcano indomabile, vomitando (fulminando: spargendo lava) torrenti di lava dalla sua bocca di fuoco (ignea) distrusse insieme con i loro abitanti. Ora invece una sola rovina avvolge tutto quanto (involve), là dove tu dimori, o fiore gentile e, quasi compiangendo (commiserando) le altrui miserie, emani 5 10 15 20 25 30 35 1 è il gener nostro in cura all’amante natura. E la possanza qui con giusta misura anco estimar potrá dell’uman seme, cui la dura nutrice 8, ov’ei men teme, con lieve moto in un momento annulla in parte, e può con moti poco men lievi ancor subitamente annichilare in tutto. Dipinte in queste rive son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive 9. Qui mira e qui ti specchia, secol superbo e sciocco 10, che il calle insino allora dal risorto pensier segnato innanti abbandonasti, e vòlti addietro i passi, del ritornar ti vanti, e procedere il chiami. Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti, di cui lor sorte rea padre ti fece, vanno adulando, ancora ch’a ludibrio talora t’abbian fra sé 11. Non io con tal vergogna scenderò sotterra; ma il disprezzo piuttosto che si serra di te nel petto mio, mostrato avrò quanto si possa aperto; bench’io sappia che obblio preme chi troppo all’etá propria increbbe. Di questo mal, che teco mi fia comune, assai finor mi rido. Libertá vai sognando, e servo a un tempo vuoi di novo il pensiero 12, sol per cui risorgemmo della barbarie in parte, e per cui solo si cresce in civiltá, che sola in meglio guida i pubblici fati. Cosí ti spiacque il vero dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci die’. Per queste il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe’ palese; e, fuggitivo, appelli vil chi lui segue, e solo magnanimo colui che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, fin sopra gli astri il mortal grado estolle. Uom di povero stato e membra inferme che sia dell’alma generoso ed alto, non chiama sé né stima ricco d’or né gagliardo, e di splendida vita o di valente persona infra la gente non fa risibil mostra; ma sé di forza e di tesor mendíco lascia parer senza vergogna, e noma parlando, apertamente, e di sue cose fa stima al vero uguale. Magnanimo animale non credo io giá, ma stolto, quel che nato a perir, nutrito in pene, dice: - A goder son fatto 13, e di fetido orgoglio 14 empie le carte, eccelsi fati e nove felicità, quali il ciel tutto ignora, non pur quest’orbe, promettendo in terra a popoli che un’onda di mar commosso, un fiato d’aura maligna, un sotterraneo crollo distrugge sí, ch'avanza a gran pena di lor la rimembranza 15. Nobil natura è quella 40 un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione. Venga (da qui inizia il tono polemico, ironico e pungente; l’uomo è superbo, pensa di essere superiore ma è una nullità) in questi luoghi colui che suole elogiare (esaltar con lode, esaltare con enfasi, con convinzione cieca) la nostra umana condizione (il nostro stato) e guardi quanto la natura benigna, amorevole (amante, detto con sarcasmo, sottolineato dalla rima al mezzo cura-natura, ripresa altre due volte nei versi seguenti 42, misura, 44, dura) si curi del genere umano. E qui potrà anche giudicare esattamente la potenza (possanza) del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta (ov'ei men teme), con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un po’ meno lievi annientare del tutto all'improvviso (subitamente). In questi luoghi (rive) sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità (magnifiche sorti e progressive – iperbato - la citazione proviene dalla dedica che il cugino del poeta, Terenzio Mamiani, premetteva agli Inni Sacri; prevale la polemica). Qui guarda e ammira rispecchiato te stesso (ti specchia), secolo superbo [perché pensi di dominare la natura e credi nel progresso] e stolto [perché non ti rendi conto delle minacce che sovrastano il mondo], che hai lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento (il risorto pensier, che aveva sgombrato tutte le oscurità del medioevo) e, tornato indietro (volti addietro i passi), per di più ti vanti del procedere a ritroso (del ritornar) e lo chiami progresso. Tutti gli uomini d'ingegno, di cui la sorte malvagia (sorte rea) ti rese padre [poiché davvero meritavano di vivere in un secolo migliore] e queste tue manifestazioni di infantile insensatezza (al tuo pargoleggiar), vanno applaudendo la tua follia, benché, talvolta, nel loro intimo, ti scherniscano. A me non accadrà di lasciare questa vita macchiato di una simile vergogna [opposizione al conformismo che regna tra gli uomini d'ingegno], ma avrò [prima] mostrato nel modo più esplicito il disprezzo che è chiuso (si serra) nel mio animo verso di te, benché io sappia che chi non piacque [ai propri contemporanei] è destinato alla dimenticanza (preme, latinamente, vale 'avvolge, ricopre'). Di questo male [cioè l'essere dimenticato], che condivido con te [cioè con il secolo], fin d'ora non mi importa nulla (mi rido). Sogni la libertà (vai sognando, rende l'idea dell'illusione; richiama il verso di Dante, Purg., I, 71”Libertà va cercando” riferimento a Catone, simbolo di libertà morale) e nel contempo vuoi servo il pensiero (primato della ragione, unico strumento di civilizzazione, per migliorare la società) in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie medioevale e in nome del quale soltanto è cresciuta la civiltà, che sola guida i destini dei popoli verso il progresso. Tanto ti spiacque la verità relativa alla sorte dolorosa (aspra sorte) e alla condizione miserevole che la natura ci ha dato. Per questo volgesti vigliaccamente (durezza nella scelta dei termini: anti idillio) le spalle al pensiero (lume) che lo rivelò (il fè palese) [l'oggetto è il vero, con allusione in particolare alla filosofia dell'illuminismo – i vv. 80/83 richiamano quanto affermato nella citazione evangelica con cui inizia la lirica] e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste dottrine e magnanimo colui che esalta fino alle stelle la condizione umana, illudendo se stesso o gli altri e 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 105 110 2 ch’a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato 16, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale; quella che grande e forte mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire fraterne, ancor piú gravi d’ogni altro danno, accresce alle miserie sue, l’uomo incolpando del suo dolor, ma dà la colpa a quella che veramente è rea, che de’ mortali madre è di parto e di voler matrigna 17. Costei chiama inimica; e incontro a questa congiunta esser pensando, siccom’è il vero, ed ordinata in pria l’umana compagnia, tutti fra sé confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune. Ed alle offese dell’uomo armar la destra, e laccio porre al vicino ed inciampo, stolto crede cosí, qual fora in campo cinto d’oste contraria, in sul piú vivo incalzar degli assalti, gl’inimici obbliando, acerbe gare imprender con gli amici, e sparger fuga e fulminar col brando infra i propri guerrieri. Cosí fatti pensieri quando fien, come fur, palesi al volgo; e quell’orror che primo contra l’empia natura strinse i mortali in social catena, fia ricondotto in parte da verace saper 18, l’onesto e il retto conversar cittadino, e giustizia e pietade altra radice avranno allor che non superbe fole 19, ove fondata probità del volgo cosí star suole in piede quale star può quel c’ha in error la sede. Sovente in queste rive, che, desolate, a bruno veste il flutto indurato, e par che ondeggi, seggo la notte; e su la mesta landa, in purissimo azzurro veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, cui di lontan fa specchio il mare, e tutto di scintille in giro per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, ch’a lor sembrano un punto, e sono immense, in guisa che un punto a petto a lor son terra e mare veracemente; a cui l’uomo non pur, ma questo globo, ove l’uomo è nulla, sconosciuto è del tutto; e quando miro quegli ancor piú senz’alcun fin remoti nodi quasi di stelle, ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo e non la terra sol, ma tutte in uno, del numero infinite e della mole, con l’aureo sole insiem, le nostre stelle o sono ignote, o cosí paion come essi alla terra, un punto di luce nebulosa; al pensier mio mostrandosi così astuto [se inganna gli altri] o folle [se inganna se stesso; superbia dell’uomo]. Un uomo di umile condizione (inizia la descrizione dell’ideale umano di Leopardi)(povero stato) ed infermo, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non si vanta né si illude di essere ricco o forte (ricco d'or ne gagliardo) e non ostenta ridicolmente una vita splendida o un fisico in piena salute fra la gente; ma si lascia vedere, senza vergognarsene, debole e povero (di forza e di tesor mendico) e si dichiara tale apertamente e mostra la sua condizione secondo quello che è in realtà. Non credo che sia un essere (animale - sineddoche) magnanimo [riprendendo il magnanimo del v.84], ma stolto colui che , nato per morire, cresciuto in mezzo ai dolori (polemica aperta, tono carico d’ansia e durezza) (nutrito di pene), dice: sono stato fatto per essere felice (a goder son fatto) e stende scritti pieni di orgoglio disgustoso, promettendo esaltanti destini e nuove felicità [riprende le magnifiche sorti e progressive del v.51], quali [non solo questa terra] anche il cielo intero ignora, a popoli che un maremoto (un'onda di mar commosso), una pestilenza (un fiato d'aura maligna), un terremoto (un sotterraneo crollo) può distruggere in un modo tale che a stento (a gran pena) rimane il ricordo di essi. Nobile creatura (immagine dell’uomo ideale per L.) è [al contrario] quella che ha il coraggio di guardare (a sollevar s'ardisce gli occhi mortali) in faccia il destino umano (comun fato: solidarietà) e apertamente (con franca lingua), senza togliere nulla al vero, ammette il male che ci è stato dato in sorte e la nostra insignificante e fragile condizione; è quella [con richiamo al verso 111, cioè quella natura] che si rivela grande e forte nelle sofferenze, e non aggiunge alle sue miserie gli odi e le ire fraterne (messaggio positivo), più gravi ancora di ogni altro danno, incolpando l'uomo del suo dolore, ma dà la colpa a quella che è davvero responsabile (è rea, Natura matrigna), che è madre dei mortali perchè li ha generati, ma matrigna nella volontà [per il trattamento che riserva loro – v. 125 chiasmo]. Chiama nemica costei [la natura del v.111], e pensando che contro costei sia unita, come realmente è (siccome è il vero), e ordinata fin dalla sua prima origine, la società umana ritiene che tutti gli uomini siano alleati fra loro, e tutti abbraccia con amore vero (quasi testimonianza di un’ansia religiosa), prestando valido e sollecito aiuto e aspettandolo [a seconda delle circostanze] nei pericoli che minacciano or gli uni or gli altri e nelle sofferenze della lotta (contro la natura) che li accomuna (solidarietà umana) [di tutti gli esseri umani contro la natura]. E armarsi e porre insidie e ostacoli per contrastare un altro uomo (al vicino) [il soggetto è sempre la nobil natura del v.111] sia cosa stolta così come sarebbe sciocco in un campo [di battaglia] circondato da nemici, nel più aspro infuriare degli assalti (in sul più vivo incalzar degli assalti), dimenticandosi dei nemici, aprire ostilità crudeli e feroci contro i propri compagni e fare stragi con la spada (fulminar col brando) tra i commilitoni [l'inimicizia umana fa il gioco del nemico, cioè della natura]. Quando siffatte considerazioni (così fatti pensieri) quando saranno, come furono un tempo [per effetto delle dottrine illuministiche], evidenti al popolo, e quel terrore che per primo spinse agli esseri umani a stringere legami sociali contro la natura malvagia [è l'idea derivante dalle dottrine settecentesche, specie di Rousseau] sarà ricondotto da una vera sapienza, allora i rapporti civili ispirati ad onestà e rettitudine (l'onesto e il retto conversar cittadino), la giustizia e la pietà, avranno un ben diverso fondamento (altra radice) che non le 115 120 125 130 135 140 145 150 155 160 165 170 175 180 3 che sembri allora, o prole dell’uomo? E rimembrando il tuo stato quaggiú, di cui fa segno il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte, che te signora e fine credi tu data al Tutto; e quante volte favoleggiar ti piacque 20, in questo oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome, per tua cagion, dell’universe cose scender gli autori, e conversar sovente co’ tuoi piacevolmente; e che, i derisi sogni rinnovellando 21, ai saggi insulta fin la presente età, che in conoscenza ed in civil costume sembra tutte avanzar; qual moto allora, mortal prole infelice, o qual pensiero verso te finalmente il cor m’assale? Non so se il riso o la pietá prevale. Come d’arbor cadendo un picciol pomo, cui là nel tardo autunno maturità senz’altra forza atterra, d’un popol di formiche i dolci alberghi cavati in molle gleba con gran lavoro, e l’opre, e le ricchezze ch’adunate a prova con lungo affaticar l’assidua gente avea provvidamente al tempo estivo, schiaccia, diserta e copre in un punto; cosí d’alto piombando, dall’utero tonante scagliata al ciel profondo, di ceneri e di pomici e di sassi notte e ruina 22, infusa di bollenti ruscelli, o pel montano fianco furiosa tra l’erba di liquefatti massi e di metalli e d’infocata arena scendendo immensa piena, le cittadi che il mar là su l’estremo lido aspergea, confuse e infranse e ricoperse in pochi istanti: onde su quelle or pasce la capra, e città nove sorgon dall’altra banda, a cui sgabello son le sepolte, e le prostrate mura l’arduo monte al suo piè quasi calpesta. Non ha natura al seme dell’uom piú stima o cura ch’alla formica: e se piú rara in quello che nell’altra è la strage, non avvien ciò d’altronde fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde. Ben mille ed ottocento anni varcar poi che spariro, oppressi dall’ignea forza, i popolati seggi 23, e il villanello intento ai vigneti, che a stento in questi campi nutre la morta zolla e incenerita, ancor leva lo sguardo sospettoso alla vetta fatal, che nulla mai fatta più mite ancor siede tremenda, ancor minaccia a lui strage ed ai figli ed agli averi lor poverelli. E spesso il meschino in sul tetto dell’ostel villereccio, alla vagante aura giacendo tutta notte insonne, e balzando piú volte, esplora il corso del temuto bollor, che si riversa dall’inesausto grembo sull’arenoso dorso, a cui riluce fantasie piene di presunzione e prive di consistenza (fole, superbe perchè pretendono di fare dell'uomo un essere felice), basandosi sulle quali la probità dell'umanità (volgo) sta in piedi, così come può stare in piedi tutto quello che si fonda sull’errore. Spesso in questi luoghi alle pendici del vulcano che, desolate, la lava solidificata ricopre di scuro, e sembra accavallarsi come onde marine (par che ondeggi, quasi fosse ancora incandescente), trascorro la notte; esulla campagna triste in azzurro purissimo vedo dall’alto brillare le stelle, alle quali (cui, le stelle) da lontano il mare fa da specchio, e [vedo] tutto intorno (in giro) di scintille nella cavità serena, immensa, del cielo brillare il mondo. E fissando quelle luci (che gli occhi a quelle luci appunto), che agli occhi (a lor) sembrano un punto (cioè piccolissime), mentre sono tanto grandi (immense) che un punto, rispetto a loro, sono in verità (veracemente, in opposizione a sembrano del v.168) la terra e il mare; alle quali (cui, le stelle) non solo l’uomo, ma anche questo pianeta (globo) (cfr. canto notturno di un pastore) dove l’uomo è nulla è sconosciuto del tutto; e quando scruto quella ancora lontana (viene sottolineata la lontananza fra terra e cielo) nebulosa (nodi quasi di stelle), che a noi pare quasi nebbia, a cui (mentre a essi: i nodi) non solo l’uomo o la terra, ma tutte le nostre stelle, infinite nel numero e nella grandezza (mole), compreso il sole luminoso o sono sconosciute, o così appaiono, come loro stesse alla terra, un punto di luce nebbiosa (nebulosa); al pensiero mio cosa sembri allora, o genere umano (prole dell'uomo)? [la prole dell'uomo è nulla se confrontata alla vastità dei cieli]. E io, ricordando la tua condizione miserevole (il tuo stato quaggiù), di cui è testimonianza (fa segno) il suolo che io calpesto [cioè: ricordando che sei fango, polvere] e poi dall'altra parte [ricordando] che ti credi di essere stata destinata ad essere dominatrice (signora) e scopo (fine) ultimo dell’universo (al Tutto), e [ricordando] quante volte ti piacque raccontare che in questo oscuro granello di sabbia che ha nome Terra, scendevano per causa tua gli dei, creatori (autori) dell’universo, e conversavano spesso con piacere insieme agli uomini (co' tuoi = coi mortali; fa riferimento alla credenza che gli dei scendessero e d'intrattenessero coi mortali) e che perfino il secolo attuale (la presente età), che pare di tanto superiore alle età precedenti per conoscenze e grado di civiltà, reca insulto ai saggi rinnovando dei sogni ormai ridicoli [col restaurare certe credenze religiose], quale sentimento o quale pensiero , infelice umanità (mortal prole infelice), assale alla fine il mio cuore?Non so se prevale il riso [per la tua stolta superbia] o la pietà [per la tua cecità, la tua miseria]. Come un piccolo frutto [similitudine], in autunno inoltrato, la sola maturazione, senza il concorso dialtre forze (maturità senz'altra forza) fa precipitare a terra, e cadendo schiaccia, annienta e sommerge (copre) in un attimo i nidi scavati nel molle terreno dalle formiche con grande fatica e lavoro e provviste che quella gente laboriosa (l'assidua gente, le formiche) avevano accumulato con previdenza, a gara, durante l’estate; allo stesso modo le tenebre ed una valanga (ruina) di ceneri, di rocce laviche (pomici) e di pietre, miste a ruscelli di lava (bollenti) piombando dall’alto, (dopo esser stata) scagliata verso il cielo dalle viscere fragorose (utero tonante) del vulcano, oppure un’immensa piena di massi liquefatti, e di metalli e di sabbia (arena) infuocata, scendendo furiosa tra l'erba lungo il pendio della montagna, sconvolse (confuse), distrusse (infranse) e ricoprì (ricoperse) in pochi istanti le città che il mare lambiva là sulla costa: per cui su quelle [città] ora pascola la capra, e nuove città sorgono dall’altra parte 185 190 195 200 205 210 215 220 225 230 235 240 245 250 255 4 di Capri la marina e di Napoli il porto e Mergellina 24. E se appressar lo vede, o se nel cupo del domestico pozzo ode mai l’acqua fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, desta la moglie in fretta, e via, con quanto di lor cose rapir posson, fuggendo, vede lontan l’usato suo nido, e il picciol campo, che gli fu dalla fame unico schermo, preda al flutto rovente, che crepitando giunge, e inesorato durabilmente sovra quei si spiega. Torna al celeste raggio dopo l’antica obblivion 25, l’estinta Pompei, come sepolto scheletro, cui di terra avarizia o pietà rende all’aperto; e dal deserto foro diritto infra le file de’ mozzi colonnati il peregrino lunge contempla il bipartito giogo 26 e la cresta fumante, ch’alla sparsa ruina ancor minaccia 27. E nell’orror della secreta notte per li vacui teatri, per li templi deformi e per le rotte case, ove i parti il pipistrello asconde, come sinistra face che per voti palagi atra s’aggiri, corre il baglior della funerea lava, che di lontan per l’ombre rosseggia e i lochi intorno intorno tinge 28. Cosí, dell’uomo ignara e dell’etadi ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno dopo gli avi i nepoti, sta natura ognor verde, anzi procede per sí lungo cammino che sembra star. Caggiono i regni intanto, passan genti e linguaggi: ella nol vede: e l’uom d’eternità s’arroga il vanto. E tu, lenta ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel possanza soccomberai del sotterraneo foco, che ritornando al loco giá noto, stenderà l’avaro lembo su tue molli foreste. E piegherai sotto il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente: ma non piegato insino allora indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma non eretto con forsennato orgoglio inver le stelle, né sul deserto, dove e la sede e i natali non per voler ma per fortuna avesti; ma piú saggia, ma tanto meno inferma dell’uom, quanto le frali tue stirpi non credesti o del fato o da te 29 fatte immortali. sopra quelle sepolte (a cui sgabello son le sepolte) e l’alto monte quasi calpesta con il suo piede le mura cadute (prostrate mura). La natura non nutre più attenzione, nè maggiore considerazione per la specie umana (seme dell'uom) che per la formica, e se avviene che le stragi sono meno frequenti tra gli uomini che tra le formiche, ciò dipende solo dal fatto che la stirpe degli uomini è meno feconda [cioè gli uomini sono meno numerosi delle formiche: è dunque una questione statistica.] Ben milleottocento anni passarono (vicinanza tra il passato e il presente: l’uomo è sempre vittima della natura) dopo che sparirono, sepolti dalla forza della lava infuocata, le città popolose (i popolati seggi) e il contadino (villanello) intento alla cura dei vigneti, che a stento in questi campi la terra arida e bruciata fa crescere, ancora alza lo sguardo con apprensione alla sommità del vulcano (vetta fatal, che incombe), che per nulla divenuta più mite, ancora lo sovrasta tremenda, ancora minaccia strage a lui ed ai figli e ai loro miseri averi (averi lor poverelli). E spesso il meschino trascorrendo la notte insonne all’aperto sul tetto della modesta abitazione e sobbalzando più volte (per la paura), scruta con attenzione l’avanzare del fronte lavico (bollor) che si riversa dalle viscere (grembo) inesauribili del vulcano sul pendio sabbioso (arenoso dorso, richiama l'arida schiena del v.1), al cui bagliore riluce la marina di Capri, il porto di Napoli e Mergellina. E se lo vede avvicinarsi (il fronte lavico), o se mal sente gorgogliare nella profondità (nel cupo) del pozzo di casa l’acqua che ribollendo (fervendo),subito sveglia i figli e la moglie e fugge via, portando con sé quante più cose può, e vede da lontano la sua abitazione di sempre (l'usato suo nido), e il piccolo campo, che fu l’unica difesa dalla fame, preda della lava (flutto rovente) che avanza crepitando, e inesorabile (inesorato) per sempre si distende sul campo e sulla casa. Dopo un oblio di secoli (l'antica obblivion) torna alla luce del sole Pompei, cancellata dall’eruzione, come uno scheletro, che il desiderio di tesori o la pietà restituisce all'aria aperta, togliendolo dalla terra; e dal foro deserto [che gli scavi hanno restituito alla luce] il visitatore (il pellegrino), in piedi tra le file delle colonne spezzate, contempla da lontano la doppia cima (bipartito giogo) del vulcano [il Vesuvio e il monte Somma] e il pennacchio di fumo che ancora minaccia le rovine sparse intorno [della città]. E nell’orrore della notte che cela ogni cosa (secreta),per i vuoti teatri, per i templi devastati (deformi, che la lava ha intaccato, deturpato) e per le case distrutte (rotte), dove il pipistrello nasconde i piccoli, come una fiaccola sinistra che lugubre (atra) si aggiri per i palazzi vuoti (vòti palagi), corre il bagliore della lava mortale, che da lontano rosseggia nelle tenebre della notte e colora i luoghi tutto intorno. Così (la parola introduce una conclusione di valore generale, dettata dalle considerazioni precedenti) indifferente all’uomo, alle età che egli chiama antiche e al susseguirsi delle generazioni (del seguir che fanno dopo gli avi i nepoti), la natura si mantiene sempre giovane e vigorosa (verde), e anzi il suo cammino è così lungo ch'ella sembra star ferma (immutabilità della natura: ripetizione del verbo stare; contrasto tra il tempo dell’uomo e quello della natura). Cadono intanto i regni, si succedono genti e lingue diverse: ella non vi fa caso (nol vede, non se ne avvede) e nonostante questo l'uomo si vuole arrogare il vanto di essere eterno. E tu (apostrofe), flessibile (lenta - è attribuito da Virgilio nelle Georgiche: lentae genistae) ginestra (immagine della poesia consolatrice), che con i tuoi 260 265 270 275 280 285 290 295 300 305 310 315 5 cespugli profumati adorni queste campagne desolate [immagini simboliche, la ginestra che adorna le campagne rappresenta la virile rassegnazione del poeta e il fatto che allieti del suo profumo rappresenta il conforto che poeta e poesia arrecano nella deserta desolazione della vita], anche tu [come il poeta, similitudine: poeta = ginestra] presto soccomberai alla crudele prepotenza del vulcano, la cui lava ("sotterraneo foco") tornando al luogo già altra volta visitato (per questo già noto) stenderà il suo mantello avido di morte (avaro) sulle tenere selve di ginestre. E tu, senza opporre resistenza [perchè vana, inutile] piegherai [con dignità] il tuo capo innocente sotto il peso della lava (fascio mortal): ma senza averlo piegato prima (riferito a capo v.306) inutilmente ("indarno") dinnanzi all'oppressore futuro (in futuro è l'idea di un nemico sempre in agguato), ma neanche levato con folle orgoglio fino alle stelle o sul deserto dove [nel deserto], tu sei nata e hai dimora non per tua volontà, ma per caso fortuito; ma più saggia, ma tanto meno insensata (inferma, nel senso di insicura, debole) dell’uomo, in quanto non hai mai avuto la presunzione di ritenere che la tua stirpe siano divenute immortali per merito tuo o del destino. (Il verso finale, che sintatticamente si riferisce alle stirpi della ginestra, praticamente è invece tutto rivolto all’uomo: la ginestra diventa simbolo della natura umana). Note 1 formidabile monte: Leopardi mantiene qui l’etimologia dal latino formido, -inis (“timore, paura”), sottolineando sin dal secondo verso del canto il carattere minaccioso ed inquietante del vulcano. 2 sterminator Vesevo: è forma latineggiante per il Vesuvio (da Vesevus, -i), cui è subito associato un carattere assai minaccioso per l’uomo (“sterminator”). 3 Costruzione vv. 1-7: “Odorata ginestra, contenta dei deserti [felice di trovarti nei deserti], spargi intorno i tuoi cespi solitari qui su l’arida schiena [sul brullo pendio] del formidabil monte sterminator Vesevo [del Vesuvio, vulcano spaventoso ed assassino], la quale [riferito ad “arida schiena”] null’altro arbor né fiore allegra [che non è resa più lieta da nessun altro albero o fiore]”. Sin dalle prime battute la ginestra, nella sua solitaria resistenza al vulcano e alla Natura, diventa l’interlocutrice privilegiata del discorso del poeta. 4 Leopardi, abbandonandosi al ricordo, torna al tempo del soggiorno romano, sollecitato dalla vista della ginestra, presente anche nelle campagne deserte (“erme contrade”) che circondano quella che era stata la capitale del mondo intero (“donna de’ mortali un tempo”). 5 afflitte fortune: il tema, caro a Leopardi e a buona parte della letteratura italiana tra Sette ed Ottocento, del tramonto dell’antica potenza di Roma si può trovare sia in Petrarca (nella canzone Italia mia, benché il parlar sia indarno, Canzoniere, CXXVII, 59) che nell’Eneide di Virgilio (I, 452). 6 cólti: nel senso di “campi coltivati”. 6 7 città famose: si allude evidentemente a Pompei, Ercolano e alle altre città distrusse dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. 8 In un passo dello Zibaldone dell’11 aprile 1829 gli accenti polemici sono assai simili: “Nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce... comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui li ha prodotti”. 9 le magnifiche sorti e progressive: l’espressione - divenuta sarcasticamente proverbiale - è ricavata da Leopardi dalla Dedica degli Inni Sacri (1832) di Terenzio Mamiani (1799-1885), patriota risorgimentale e cugino dello scrittore, che, confidando nel valore formativo della religione e riferendosi all’Italia del secolo XII e XIII, descrive in tal modo il progresso spirituale dell’umanità. Nelle Note di suo pugno ai Canti, tuttavia l’autore precisa: “Parole di un moderno, al quale è dovuta tutta la loro eleganza”. 10 secol superbo e sciocco: Leopardi, come preciserà più avanti, si riferisce qui al secolo XIX e al romanticismo, la cui componente irrazional-spiritualistica avrebbe fatto marcia indietro rispetto alle acquisizioni del pensiero razionalistico e scientifico dell’Illuminismo. 11 Costruzione vv. 59-63: “Gl’ingegni tutti, di cui lor sorte rea padre ti fece [di cui un destino infido ti ha fatto loro padre] vanno adulando al tuo pargoleggiare [continuano ad adulare il tuo atteggiamento da bambino, e a quelle illusioni] ancora che [sottointeso: gli ingegni tutti] talora t’abbian fra sé [ti considerino tra di loro] a ludibrio [come cosa di cui ridere]”. 12 Per Leopardi, il contrasto è tra le aspirazioni politico-civili del Risorgimento e le nuove gabbie dogmatiche imposte al pensiero. 13 Leopardi spiega nello Zibaldone (11 marzo 1826): “L’uomo (e così tutti gli altri animali) non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedano, per conservarla. [...] il vero e solo fine della natura è la conservazione delle specie, e non la conservazione né la felicità degl’individui”. 14 fetido orgoglio: nel senso non solo di “spiacevole” e “fastidioso”, ma anche di “censurabile” e “perverso”. 15 Costruzione vv. 103-110: “[sottointeso “quel che”, v. 100] promettendo eccelsi fati e nove felicità [un destino meraviglioso e straordinarie felicità] quali non pur quest’orbe ma il ciel tutto ignora [sconosciute non solo agli umani ma addirittura al cielo stesso], a popoli che un’onda di mar commosso [un maremoto], un fiato d’aura maligna [un’epidemia], un sotterraneo crollo [un terremoto] distrugge sì che avanza a gran pena la rimembranza di lor”. 16 Espressione modellata sul celebre passo del De Rerum Natura di Lucrezio in cui si descrive Epicuro e la sua strenua lotta contro la superstizione umana: “mortales tollere contra | est oculos ausus” (De Rerum Natura, I, 66-67). 17 Nello Zibaldone (2 gennaio 1829) si afferma: “La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto. all’origine vera de’ mali de’ viventi”. 7 18 verace saper: con questa espressione, che identifica in un metodo fondato sulla verità la radice dei valori del vivere collettivo, Leopardi rimanda al movimento scientifico ed ideologico nato tra Seicento e Settecento con Cartesio, Galilei, Newton e Locke, e poi arrivato fino all’Illuminismo. 19 superbe fole: nettamente contrapposte all’amore per la verità sono per Leopardi le credenze e le superstizioni umane, in particola modo quelle di natura finalistica e provvidenziale, che interpretano il mondo come concepito in funzione dell’essere umano, ed ipotizzano un dio che ha in cura le sorti dell’uomo, cui assegna pure una vita dopo la morte. 20 favoleggiar ti piacque: il tema della presunzione umana, che arriva a supporre che gli dei siano scesi sulla Terra per amore degli uomini (“per tua cagion”), è presente anche nel poemetto satirico Paralipomeni della Batracomiomachia (canto VII, 15). 21 i derisi sogni rinovellando: Leopardi si riferisce a credenze, illusioni e dogmi già criticati dal movimento illuministico, e che ora stanno trovando nuova forza. 22 notte e ruina: l’unione dei due soggetti (le tenebre calate improvvisamente per l’oscuramento del sole e la distruzione causata dalla colata lavica) vogliono rendere plasticamente gli effetti devastanti dell’eruzione vulcanica. Nella descrizione dell’eruzione, è poi presente la memoria letteraria di un passo dell’Eneide (III, 571577), dove Virgilio descrive un analogo scenario di distruzione. 23 i popolati seggi: Pompei, Ercolano e Stabia, distrutte nel 79 d.C. 24 La citazione delle bellezze naturali partenopee (il golfo di Capri, il porto, il quartiere Mergellina) stride volutamente con lo scenario di devastazione poco sopra presentato. 25 Gli scavi archeologici nel territorio di Pompei iniziarono appunto nel 1748, per volere di Carlo III di Borbone. 26 il bipartito giogo: si tratta del Vesuvio vero e proprio e del monte Somma, costituito da ciò che resta dell’edificio vulcanico che causò l’eruzione del 79 d.C. 27 minaccia: in questo caso, il verbo regge un complemento di termine (“alla sparsa ruina”) perché si modella sulla costruzione col dativo tipica del verbo latino. 28 In questi versi, il modello stilistico e contenutistico sembra quasi essere quello della poesia ossianica, frutto della “moda letteraria” scaturita dai Canti di Ossian (17601765) di James McPherson (1736-1796), fondamentali per fissare alcuni caratteri del movimento preromantico e poi tradotti in Italia da Melchiorre Cesarotti tra il 1762 e il 1772. L’influsso “ossianico” sugli scrittori italiani è assai ampio, da Vittorio Alfieri a Ugo Foscolo, fino appunto a Leopardi. 29 da te: è l’ultimo accenno polemico contro gli ideali delle “magnifiche sorti e progressive” (v. 51). 8 Metrica Canzone libera composta di sette stanze libere di diversa dimensione e, spesso, rime al mezzo. I versi sono endecasillabi e settenari. Ogni strofa si chiude con rima ed endecasillabo. Le figure retoriche sono molte: allegorie, anacoluti, iperbati, allitterazioni, metafore, similitudini. Numerosi anche gli enjambements. Analisi e commento È il 1836 e Leopardi da tre anni è a Napoli e compone quella che forse è la sua ultima poesia, La ginestra o fiore del deserto, a Torre del Greco, dove ha una splendida vista sul Vesuvio, il vulcano che tanto tempo prima, nel 79 d.C., aveva distrutto Pompei ed Ercolano. Il canto può essere diviso in 8 parti: la ginestra (versi 1-16); invettiva contro la natura - ginestra simbolo della poesia (versi 17-51); invettiva contro a cultura dominante (versi 52-86); la magnanima grandezza, unico possibile riscatto dalla miseria della condizione umana, è unita a un ideale di fraternità con gli altri uomini (versi 86-157) piccolezza dell'uomo, precarietà della condizione umana - visione di spazi cosmici sterminati, immensità gelida incomprensibile e arcana - lo spazio smisurato coincide col nulla (versi 158-201) cecità della natura cieche e inesorabili sono le forze naturali che casualmente distruggono i viventi nella morte: in ogni caso la Natura segue impassibile il suo eterno corso (versi 202-236) potenza e insensibilità della natura: non solo sul nuovo, ma anche sulle rovine incombe minacciosa la Natura (versi 237-296) umiltà e saggezza dell'uomo illuminato (versi 297-317) La Ginestra o fiore del deserto conclude il pensiero filosofico di Leopardi ed è praticamente il suo testamento spirituale. È il momento di suprema realizzazione di una poetica non più idillica, ma eroica. La poesia non concede più nulla sul piano formale al linguaggio concepito in termini di bellezza e vaghezza, ma si adegua totalmente alla realtà rappresentata e alle verità filosofiche comunicate. La necessità di affrontare l’arido vero è il nucleo vitale di pensiero da cui deriva ogni altra affermazione e presa di posizione di Leopardi. È una necessità morale, filosofica, pragmatica. Questa convinzione si manifesta innanzitutto come disprezzo e riso nei confronti di quanti si illudono, per consolarsi e perché sono dei deboli e viceversa per superbia intellettuale, che l’uomo sia senz’altro destinato all’immortalità o comunque a “magnifiche sorti e progressive” (v. 51). L. si pone in polemica con lo spiritualismo cristiano, lo spiritualismo e il misticismo romantici, ma anche con il pensiero laico illuministico e ottimista circa le possibilità di progresso legate alla scienza L. in polemica con l’antropocentrismo e lo spiritualismo ottocentesco, riafferma con fierezza e risolutezza la sua concezione materialistica e pessimistica del mondo, ma elabora un’utopia solidaristica che vorrebbe gli uomini consociati nella lotta contro il comune nemico, la Natura. 9 Nella canzone si parla della coraggiosa e allo stesso tempo fragile resistenza, che la ginestra oppone alla lava del Vesuvio, il monte sterminatore, simbolo della natura crudele e distruttiva. Il delicato fiore coraggiosamente risorge sulla lava impietrata, e con la fragranza dei suoi arbusti sembra rallegrare queste lande desolate. Ma il suo destino è tragicamente segnato da una nuova eruzione, capace di annullare non solo la sua consolante presenza ma - ben più drammaticamente - la presenza dell'uomo in questi luoghi. La ginestra diviene simbolo della condizione umana. Leopardi in questo canto mette in contrapposizione la smisurata potenza della Natura con la debolezza, la fragilità, l’impotenza, del genere umano: da un lato la Natura che tutto può e dall'altro l'uomo che deve subire ciò che la divinità superiore con i suoi "decreti" ha stabilito per lui; l'inesorabile inimicizia della Natura nei confronti degli uomini in contrasto con la ridicola superbia di questi che, pur non essendo nulla, si credono padroni e signori della terra e dell'universo. La visone storica di Pompei ed Ercolano distrutte dal Vesuvio, come spesso era avvenuto nei Canti, porta Leopardi a una riflessione che ha invece un valore nel presente, un valore di critica del proprio tempo, di quello che definisce "il secol superbo e sciocco", secolo che credeva a quell'800 romantico ed idealista, e che credeva nelle "magnifiche sorti e progressive". È una critica al suo tempo, ma anche un'ennesima indagine filosofica sul tema della morte, sul tema della catastrofe, e di nuovo sul tema di come queste morti lontane, queste catastrofi remote, ci appaiono segni del destino, segni di un destino umano che trascende il tempo e la storia e appartiene a tutti. In questa canzone, più che in altre, la critica novecentesca ha visto un L. politico, "un Leopardi progressivo", progressista che in questa lirica ritiene che la confederazione degli uomini contro il male naturale, sia l’unico mezzo che possediamo per sopravvivere. In realtà nella Ginestra è ancora presente il motivo che era stato già nelle Operette morali, del cosiddetto "anti-antropocentrismo". Gli esseri umani, che si credono al centro dell'universo, sono in realtà una delle tante specie in un pianeta pronto a ribellarsi a esse: nella quinta stanza sviluppa il lungo paragone straordinario tra la civiltà raffinata di Pompei ed Ercolano, distrutta dal vulcano, e un popolo di formiche schiacciate dal cadere di un pomo, dal cadere di un frutto a terra, che appunto dilegua e smentisce ogni forma di retorica sulla storia umana, sull'immagine del divenire progressivo degli esseri umani. Al contempo, però, di fronte a questo destino di catastrofe, si annuncia a tratti la presenza di quella che appunto Leopardi chiama "una federazione delle specie", una federazione degli esseri umani e delle specie animali tutte coalizzate, se non nella possibile salvezza, comunque nella comune consapevolezza di un destino che tutte le comprende. La poesia, di sette lunghe strofe, è la più lunga tra quelle raccolte nei Canti da Leopardi, e ha come inizio un passo del Vangelo di Giovanni: « Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς. - E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce». (Giovanni, III, 19) La frase scritta in corsivo dallo stesso L. al verso 51 «Le magnifiche sorti e progressive», proviene da un testo di Terenzio Mamiani (dalla Dedica degli Inni sacri, del Mamiani, cugino di L.) in cui si simboleggiava proprio il senso di una speranza 10 storica, di una speranza di progresso sociale e politico, che il non può che irridere. Lo irride proprio perché a fronte di questa speranza umana c'è il volto enigmatico della natura, il volto indifferente di una natura che con una semplice scossa può, con "moti poco lievi ancor subitamente annichilare", distruggere tutto il genere umano, tutte le sue civiltà, tutte le sue speranze e le sue costruzioni. E proprio la natura, che nelle Operette Morali era stata dipinta come un mostro anonimo e indifferente, è la stessa che produce anche il suo controveleno, questo emblema del fiore del deserto, che proprio di fronte alla desertificazione, alla fine della speranza, all’impossibilità di una prospettiva per il futuro, comunque sparge il suo profumo, un po' come la scrittura poetica nasce dall'arido vero, nasce dall'apparir del vero e mantiene però quella fragranza che Leopardi ci fa percepire. Dal v. 129 al v. 136 L. parla della guerra contro la Natura del genere umano confederato, ma destinato a un'inevitabile sconfitta. Questa sconfitta, ultima in una vita di sconfitte, si traduce letterariamente in un canto che, per più di trecento versi, ragiona sul destino dell'umanità, sulla presenza dell'umanità sul pianeta, e che dipinge l'umanità come "umana compagnia". Per Leopardi essa è unica presenza reale, la presenza di chi è in possesso del linguaggio, di qualcosa che assomiglia al profumo della ginestra, di qualcosa che assomiglia a quella vitalità che malgrado tutto continua a respirare, a esalare dal nostro stato umano. Ogni sforzo che mira a violare le leggi naturali, biologiche della vita umana e dell’universo è per L. assolutamente inutile, a differenza della solidarietà e dei doveri morali che devono esserci fra gli uomini. La ginestra continuerà a diffonder il suo profumo anche davanti alla distruzione, è saggi a perché consapevole del suo destino, senza la codardia di un’inutile supplica e l’orgoglio di chi si finge un destino di immortalità, entrambe caratteristiche proprie di molti uomini. La ginestra è una metafora di Leopardi stesso, dell’uomo che ha raggiunto una profonda consapevolezza filosofica, o una metafora della poesia che leva la sua voce nonostante la definitiva caduta di ogni illusione. 11