LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO Canzone composta nel

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LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO Canzone composta nel
LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO
Canzone composta nel 1836 presso la Villa Ferrigni (ora rinominata Villa
della Ginestra, e situata lungo il cosiddetto “miglio d’oro”, un tratto di strada
celebre per le bellezze storico-paesaggistiche e per le splendide ville d’età
settecentesca) di Torre del Greco, La ginestra o il fiore del deserto viene
pubblicata per la prima volta nell’edizione napoletana dei Canti curata da
Antonio Ranieri (1845).
Il componimento, che si apre con una citazione dal Vangelo di Giovanni, è
considerato il testamento poetico e spirituale di Leopardi, che, osservando una
ginestra sulle pendici del Vesuvio, riflette sulla condizione umana e sulla
Natura.
Metro: Canzone di strofe libere di endecasillabi e settenari, con presenza
di rime al mezzo.
Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς.
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
(Giovanni, III, 19)
Nel Vangelo di Giovanni la luce è quella della rivelazione e della fede, le tenebre sono quelle
dell’incredulità, qui invece, anche in polemica con lo spiritualismo cristiano, la luce allude al pensiero
risorto dopo la “barbarie” medievale, cui si allude con tenebre.
C’è anche un accenno polemico all’esaltazione dell’età dei lumi, che L. contrappone alla sua.
Qui su l’arida schiena
del formidabil monte 1
sterminator Vesevo 2,
la qual null’altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti 3. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo 4,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante
e d’afflitte fortune 5 ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell’impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s’annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e cólti 6,
e biondeggiar di spiche, e risonaro
di muggito d’armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fur città famose 7,
che coi torrenti suoi l’altero monte
dall’ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
ove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
Qui sulla pendice (schiena) riarsa del tremendo
(formidabil, latinamente 'spaventevole') distruttore
(sterminator (aggettivi potenti che segnano la
capacità distruttiva della Natura che agisce) monte
Vesuvio (Vesevo, latinismo), che nessun altro arbusto
o fiore allieta, tu odorosa ginestra (eroismo solitario)
spargi i tuoi cespi solitari intorno, appagata dai deserti
[mostrando di non sdegnare i deserti, anzi quasi di
prediligerli].
Ti vidi un’altra volta abbellire con i tuoi steli anche le
solitarie contrade che circondano Roma (la cittade) la
quale città [Roma] fu un tempo dominatrice di popoli, e
sembra che (par che) [le contrade] con il loro cupo e
silenzioso (grave e taciturno hanno una valenza
morale) una aspetto testimonino e ricordino al viandante
(passeggero: passare inesorabile del tempo) il
grande impero perduto.
Ti rivedo ora in questo suolo tu che sei amante di luoghi
tristi e abbandonati dal mondo, e sempre compagna di
grandezze decadute.
Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla
lava solidificata (impietrata), che risuona sotto i passi
del viandante; dove si annida e si contorce al sole il
serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il
coniglio[v.23allitterazione];
furono [la serie fur...fur...fur...- anafora - sottolinea e
oppone alla desolazione il ricordo dello splendore delle
città antiche] città opulente (liete nel senso latino) e
campi coltivati, e biondeggiarono di messi, e risuonarono
di
muggiti
di
mandrie;
furono giardini e ville sontuose, soggiorno gradito all'ozio
dei potenti [poiché queste città erano stazioni turistiche];
e furono città famose che il vulcano indomabile,
vomitando (fulminando: spargendo lava) torrenti di lava
dalla sua bocca di fuoco (ignea) distrusse insieme con i
loro abitanti.
Ora invece una sola rovina avvolge tutto quanto
(involve), là dove tu dimori, o fiore gentile e, quasi
compiangendo (commiserando) le altrui miserie, emani
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è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrá dell’uman seme,
cui la dura nutrice 8, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive 9.
Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco 10,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e vòlti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch’a ludibrio talora
t’abbian fra sé 11. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto;
bench’io sappia che obblio
preme chi troppo all’etá propria increbbe.
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertá vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero 12,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltá, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Cosí ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci die’. Per queste il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe’ palese; e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell’alma generoso ed alto,
non chiama sé né stima
ricco d’or né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma sé di forza e di tesor mendíco
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io giá, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice: - A goder son fatto 13, e di fetido orgoglio 14
empie le carte, eccelsi fati e nove
felicità, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest’orbe, promettendo in terra
a popoli che un’onda
di mar commosso, un fiato
d’aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sí, ch'avanza
a gran pena di lor la rimembranza 15.
Nobil natura è quella
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un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che
consola questo luogo di desolazione.
Venga (da qui inizia il tono polemico, ironico e
pungente; l’uomo è superbo, pensa di essere
superiore ma è una nullità) in questi luoghi colui che
suole elogiare (esaltar con lode, esaltare con enfasi,
con convinzione cieca) la nostra umana condizione (il
nostro stato) e guardi quanto la natura benigna,
amorevole
(amante,
detto
con
sarcasmo,
sottolineato
dalla rima al mezzo cura-natura,
ripresa altre due volte nei versi seguenti 42,
misura, 44, dura) si curi del genere umano.
E qui potrà anche giudicare esattamente la potenza
(possanza) del genere umano, che la natura, crudele
nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta (ov'ei men
teme), con una scossa impercettibile in parte distrugge
in un momento e può con scosse un po’ meno lievi
annientare del tutto all'improvviso (subitamente).
In questi luoghi (rive) sono rappresentate le sorti
splendide e in
continuo progresso dell’umanità
(magnifiche sorti e progressive – iperbato - la
citazione proviene dalla dedica che il cugino del
poeta, Terenzio Mamiani, premetteva agli Inni
Sacri; prevale la polemica).
Qui guarda e ammira rispecchiato te stesso (ti
specchia), secolo superbo [perché pensi di dominare la
natura e credi nel progresso] e stolto [perché non ti rendi
conto delle minacce che sovrastano il mondo], che hai
lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal
pensiero risorto con il Rinascimento (il risorto pensier,
che aveva sgombrato tutte le oscurità del medioevo) e,
tornato indietro (volti addietro i passi), per di più ti
vanti del procedere a ritroso (del ritornar) e lo chiami
progresso.
Tutti gli uomini d'ingegno, di cui la sorte malvagia (sorte
rea) ti rese padre [poiché davvero meritavano di vivere
in un secolo migliore] e queste tue manifestazioni di
infantile insensatezza (al tuo pargoleggiar), vanno
applaudendo la tua follia, benché, talvolta, nel loro
intimo, ti scherniscano.
A me non accadrà di lasciare questa vita macchiato di
una simile vergogna [opposizione al conformismo che
regna tra gli uomini d'ingegno], ma avrò [prima]
mostrato nel modo più esplicito il disprezzo che è chiuso
(si serra) nel mio animo verso di te, benché io sappia
che chi non piacque [ai propri contemporanei] è
destinato alla dimenticanza (preme, latinamente, vale
'avvolge, ricopre'). Di questo male [cioè l'essere
dimenticato], che condivido con te [cioè con il secolo], fin
d'ora non mi importa nulla (mi rido).
Sogni la libertà (vai sognando, rende l'idea
dell'illusione; richiama il verso di Dante, Purg., I,
71”Libertà va cercando” riferimento a Catone,
simbolo di libertà morale) e nel contempo vuoi servo il
pensiero (primato della ragione, unico strumento di
civilizzazione, per migliorare la società) in virtù del
quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie
medioevale e in nome del quale soltanto è cresciuta la
civiltà, che sola guida i destini dei popoli verso il
progresso.
Tanto ti spiacque la verità relativa alla sorte dolorosa
(aspra sorte) e alla condizione miserevole che la natura
ci ha dato.
Per questo volgesti vigliaccamente (durezza nella
scelta dei termini: anti idillio) le spalle al pensiero
(lume) che lo rivelò (il fè palese) [l'oggetto è il vero,
con
allusione
in
particolare
alla
filosofia
dell'illuminismo – i vv. 80/83 richiamano quanto
affermato nella citazione evangelica con cui inizia
la lirica] e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste
dottrine e magnanimo colui che esalta fino alle stelle la
condizione umana, illudendo se stesso o gli altri e
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ch’a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato 16, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor piú gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna 17.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccom’è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell’uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede cosí, qual fora in campo
cinto d’oste contraria, in sul piú vivo
incalzar degli assalti,
gl’inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
Cosí fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo;
e quell’orror che primo
contra l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper 18, l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade altra radice
avranno allor che non superbe fole 19,
ove fondata probità del volgo
cosí star suole in piede
quale star può quel c’ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa,
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo, ove l’uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor piú senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o cosí paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
mostrandosi così astuto [se inganna gli altri] o folle [se
inganna se stesso; superbia dell’uomo].
Un uomo di umile condizione (inizia la descrizione
dell’ideale umano di Leopardi)(povero stato) ed
infermo, che abbia grandezza d’animo e nobili
sentimenti, non si vanta né si illude di essere ricco o forte
(ricco d'or ne gagliardo) e non ostenta ridicolmente
una vita splendida o un fisico in piena salute fra la gente;
ma si lascia vedere, senza vergognarsene, debole e
povero (di forza e di tesor mendico) e si dichiara tale
apertamente e mostra la sua condizione secondo quello
che è in realtà.
Non credo che sia un essere (animale - sineddoche)
magnanimo [riprendendo il magnanimo del v.84], ma
stolto colui che , nato per morire, cresciuto in mezzo ai
dolori (polemica aperta, tono carico d’ansia e
durezza)
(nutrito
di
pene),
dice:
sono stato fatto per essere felice (a goder son fatto) e
stende scritti pieni di orgoglio disgustoso, promettendo
esaltanti destini e nuove felicità [riprende le magnifiche
sorti e progressive del v.51], quali [non solo questa
terra] anche il cielo intero ignora, a popoli che un
maremoto (un'onda di mar commosso), una pestilenza
(un fiato d'aura maligna), un terremoto (un
sotterraneo crollo) può distruggere in un modo tale che
a stento (a gran pena) rimane il ricordo di essi.
Nobile creatura (immagine dell’uomo ideale per L.) è
[al contrario] quella che ha il coraggio di guardare (a
sollevar s'ardisce gli occhi mortali) in faccia il destino
umano (comun fato: solidarietà) e apertamente (con
franca lingua), senza togliere nulla al vero, ammette il
male che ci è stato dato in sorte e la nostra insignificante
e fragile condizione; è quella [con richiamo al verso
111, cioè quella natura] che si rivela grande e forte
nelle sofferenze, e non aggiunge alle sue miserie gli odi e
le ire fraterne (messaggio positivo), più gravi ancora di
ogni altro danno, incolpando l'uomo del suo dolore, ma
dà la colpa a quella che è davvero responsabile (è rea,
Natura matrigna), che è madre dei mortali perchè li ha
generati, ma matrigna nella volontà [per il trattamento
che riserva loro – v. 125 chiasmo].
Chiama nemica costei [la natura del v.111], e
pensando che contro costei sia unita, come realmente è
(siccome è il vero), e ordinata fin dalla sua prima
origine, la società umana ritiene che tutti gli uomini siano
alleati fra loro, e tutti abbraccia con amore vero (quasi
testimonianza di un’ansia religiosa), prestando valido
e sollecito aiuto e aspettandolo [a seconda delle
circostanze] nei pericoli che minacciano or gli uni or gli
altri e nelle sofferenze della lotta (contro la natura) che
li accomuna (solidarietà umana) [di tutti gli esseri
umani contro la natura].
E armarsi e porre insidie e ostacoli per contrastare un
altro uomo (al vicino) [il soggetto è sempre la nobil
natura del v.111] sia cosa stolta così come sarebbe
sciocco in un campo [di battaglia] circondato da nemici,
nel più aspro infuriare degli assalti (in sul più vivo
incalzar degli assalti), dimenticandosi dei nemici,
aprire ostilità crudeli e feroci contro i propri compagni e
fare stragi con la spada (fulminar col brando) tra i
commilitoni [l'inimicizia umana fa il gioco del nemico,
cioè della natura].
Quando siffatte considerazioni (così fatti pensieri)
quando saranno, come furono un tempo [per effetto delle
dottrine illuministiche], evidenti al popolo, e quel terrore
che per primo spinse agli esseri umani a stringere legami
sociali contro la natura malvagia [è l'idea derivante dalle
dottrine settecentesche, specie di Rousseau] sarà
ricondotto da una vera sapienza, allora i rapporti civili
ispirati ad onestà e rettitudine (l'onesto e il retto
conversar cittadino), la giustizia e la pietà, avranno un
ben diverso fondamento (altra radice) che non le
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che sembri allora, o prole
dell’uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiú, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto; e quante volte
favoleggiar ti piacque 20, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente; e che, i derisi
sogni rinnovellando 21, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietá prevale.
Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
cui là nel tardo autunno
maturità senz’altra forza atterra,
d’un popol di formiche i dolci alberghi
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l’opre,
e le ricchezze ch’adunate a prova
con lungo affaticar l’assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; cosí d’alto piombando,
dall’utero tonante
scagliata al ciel profondo,
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina 22, infusa
di bollenti ruscelli,
o pel montano fianco
furiosa tra l’erba
di liquefatti massi
e di metalli e d’infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar là su l’estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e città nove
sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
dell’uom piú stima o cura
ch’alla formica: e se piú rara in quello
che nell’altra è la strage,
non avvien ciò d’altronde
fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
anni varcar poi che spariro, oppressi
dall’ignea forza, i popolati seggi 23,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta più mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell’ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando piú volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall’inesausto grembo
sull’arenoso dorso, a cui riluce
fantasie piene di presunzione e prive di consistenza
(fole, superbe perchè pretendono di fare dell'uomo un
essere felice), basandosi sulle quali la probità
dell'umanità (volgo) sta in piedi, così come può stare in
piedi tutto quello che si fonda sull’errore.
Spesso in questi luoghi alle pendici del vulcano che,
desolate, la lava solidificata ricopre di scuro, e sembra
accavallarsi come onde marine (par che ondeggi, quasi
fosse ancora incandescente), trascorro la notte; esulla
campagna triste in azzurro purissimo vedo dall’alto
brillare le stelle, alle quali (cui, le stelle) da lontano il
mare fa da specchio, e [vedo] tutto intorno (in giro) di
scintille nella cavità serena, immensa, del cielo brillare il
mondo.
E fissando quelle luci (che gli occhi a quelle luci
appunto), che agli occhi (a lor) sembrano un punto
(cioè piccolissime), mentre sono tanto grandi (immense)
che un punto, rispetto a loro, sono in verità
(veracemente, in opposizione a sembrano del v.168) la
terra e il mare; alle quali (cui, le stelle) non solo
l’uomo, ma anche questo pianeta (globo) (cfr. canto
notturno di un pastore) dove l’uomo è nulla è
sconosciuto del tutto; e quando scruto quella ancora
lontana (viene sottolineata la lontananza fra terra e
cielo) nebulosa (nodi quasi di stelle), che a noi pare
quasi nebbia, a cui (mentre a essi: i nodi) non solo
l’uomo o la terra, ma tutte le nostre stelle, infinite nel
numero e nella grandezza (mole), compreso il sole
luminoso o sono sconosciute, o così appaiono, come loro
stesse alla terra, un punto di luce nebbiosa (nebulosa);
al pensiero mio cosa sembri allora, o genere umano
(prole dell'uomo)? [la prole dell'uomo è nulla se
confrontata alla vastità dei cieli].
E io, ricordando la tua condizione miserevole (il tuo
stato quaggiù), di cui è testimonianza (fa segno) il
suolo che io calpesto [cioè: ricordando che sei fango,
polvere] e poi dall'altra parte [ricordando] che ti credi di
essere stata destinata ad essere dominatrice (signora) e
scopo (fine) ultimo dell’universo (al Tutto), e
[ricordando] quante volte ti piacque raccontare che in
questo oscuro granello di sabbia che ha nome Terra,
scendevano per causa tua gli dei, creatori (autori)
dell’universo, e conversavano spesso con piacere insieme
agli uomini (co' tuoi = coi mortali; fa riferimento alla
credenza che gli dei scendessero e d'intrattenessero coi
mortali) e che perfino il secolo attuale (la presente età),
che pare di tanto superiore alle età precedenti per
conoscenze e grado di civiltà, reca insulto ai saggi
rinnovando dei sogni ormai ridicoli [col restaurare certe
credenze religiose], quale sentimento o quale pensiero ,
infelice umanità (mortal prole infelice), assale alla fine
il mio cuore?Non so se prevale il riso [per la tua stolta
superbia] o la pietà [per la tua cecità, la tua miseria].
Come un piccolo frutto [similitudine], in autunno
inoltrato, la sola maturazione, senza il concorso dialtre
forze (maturità senz'altra forza) fa precipitare a terra,
e cadendo schiaccia, annienta e sommerge (copre) in un
attimo i nidi scavati nel molle terreno dalle formiche con
grande fatica e lavoro e provviste che quella gente
laboriosa (l'assidua gente, le formiche) avevano
accumulato con previdenza, a gara, durante l’estate; allo
stesso modo le tenebre ed una valanga (ruina) di ceneri,
di rocce laviche (pomici) e di pietre, miste a ruscelli di
lava (bollenti) piombando dall’alto, (dopo esser stata)
scagliata verso il cielo dalle viscere fragorose (utero
tonante) del vulcano, oppure un’immensa piena di massi
liquefatti, e di metalli e di sabbia (arena) infuocata,
scendendo furiosa tra l'erba lungo il pendio della
montagna, sconvolse (confuse), distrusse (infranse) e
ricoprì (ricoperse) in pochi istanti le città che il mare
lambiva là sulla costa: per cui su quelle [città] ora
pascola la capra, e nuove città sorgono dall’altra parte
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di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina 24.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l’acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l’usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
dopo l’antica obblivion 25, l’estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietà rende all’aperto;
e dal deserto foro
diritto infra le file
de’ mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo 26
e la cresta fumante,
ch’alla sparsa ruina ancor minaccia 27.
E nell’orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per voti palagi atra s’aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l’ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge 28.
Cosí, dell’uomo ignara e dell’etadi
ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sí lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l’uom d’eternità s’arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
giá noto, stenderà l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma piú saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o del fato o da te 29 fatte immortali.
sopra quelle sepolte (a cui sgabello son le sepolte) e
l’alto monte quasi calpesta con il suo piede le mura
cadute (prostrate mura).
La natura non nutre più attenzione, nè maggiore
considerazione per la specie umana (seme dell'uom)
che per la formica, e se avviene che le stragi sono meno
frequenti tra gli uomini che tra le formiche, ciò dipende
solo dal fatto che la stirpe degli uomini è meno feconda
[cioè gli uomini sono meno numerosi delle formiche: è
dunque una questione statistica.]
Ben milleottocento anni passarono (vicinanza tra il
passato e il presente: l’uomo è sempre vittima della
natura) dopo che sparirono, sepolti dalla forza della lava
infuocata, le città popolose (i popolati seggi) e il
contadino (villanello) intento alla cura dei vigneti, che a
stento in questi campi la terra arida e bruciata fa
crescere, ancora alza lo sguardo con apprensione alla
sommità del vulcano (vetta fatal, che incombe), che
per nulla divenuta più mite, ancora lo sovrasta tremenda,
ancora minaccia strage a lui ed ai figli e ai loro miseri
averi (averi lor poverelli).
E spesso il meschino trascorrendo la notte insonne
all’aperto sul tetto della modesta abitazione e
sobbalzando più volte (per la paura), scruta con
attenzione l’avanzare del fronte lavico (bollor) che si
riversa
dalle
viscere
(grembo)
inesauribili
del
vulcano sul pendio sabbioso (arenoso dorso, richiama
l'arida schiena del v.1), al cui bagliore riluce la marina di
Capri, il porto di Napoli e Mergellina.
E se lo vede avvicinarsi (il fronte lavico), o se mal sente
gorgogliare nella profondità (nel cupo) del pozzo di casa
l’acqua che ribollendo (fervendo),subito sveglia i figli e
la moglie e fugge via, portando con sé quante più cose
può, e vede da lontano la sua abitazione di sempre
(l'usato suo nido), e il piccolo campo, che fu l’unica
difesa dalla fame, preda della lava (flutto rovente) che
avanza crepitando, e inesorabile (inesorato) per sempre
si distende sul campo e sulla casa.
Dopo un oblio di secoli (l'antica obblivion) torna alla
luce del sole Pompei, cancellata dall’eruzione, come uno
scheletro, che il desiderio di tesori o la pietà restituisce
all'aria aperta, togliendolo dalla terra; e dal foro deserto
[che gli scavi hanno restituito alla luce] il visitatore (il
pellegrino), in piedi tra le file delle colonne spezzate,
contempla da lontano la doppia cima (bipartito giogo)
del vulcano [il Vesuvio e il monte Somma] e il pennacchio
di fumo che ancora minaccia le rovine sparse intorno
[della città].
E nell’orrore della notte che cela ogni cosa (secreta),per
i vuoti teatri, per i templi devastati (deformi, che la lava
ha intaccato, deturpato) e per le case distrutte (rotte),
dove il pipistrello nasconde i piccoli, come una fiaccola
sinistra che lugubre (atra) si aggiri per i palazzi vuoti
(vòti palagi), corre il bagliore della lava mortale, che da
lontano rosseggia nelle tenebre della notte e colora i
luoghi tutto intorno.
Così (la parola introduce una conclusione di valore
generale, dettata dalle considerazioni precedenti)
indifferente all’uomo, alle età che egli chiama antiche e al
susseguirsi delle generazioni (del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti), la natura si mantiene sempre
giovane e vigorosa (verde), e anzi il suo cammino è così
lungo ch'ella sembra star ferma (immutabilità della
natura: ripetizione del verbo stare; contrasto tra il
tempo dell’uomo e quello della natura).
Cadono intanto i regni, si succedono genti e lingue
diverse: ella non vi fa caso (nol vede, non se ne
avvede) e nonostante questo l'uomo si vuole arrogare il
vanto di essere eterno.
E tu (apostrofe), flessibile (lenta - è attribuito da
Virgilio nelle Georgiche: lentae genistae) ginestra
(immagine della poesia consolatrice), che con i tuoi
260
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5
cespugli profumati adorni queste campagne desolate
[immagini simboliche, la ginestra che adorna le
campagne rappresenta la virile rassegnazione del
poeta e il fatto che allieti del suo profumo
rappresenta il conforto che poeta e poesia arrecano
nella deserta desolazione della vita], anche tu [come
il poeta, similitudine: poeta = ginestra] presto
soccomberai alla crudele prepotenza del vulcano, la cui
lava ("sotterraneo foco") tornando al luogo già altra
volta visitato (per questo già noto) stenderà il suo
mantello avido di morte (avaro) sulle tenere selve di
ginestre. E tu, senza opporre resistenza [perchè vana,
inutile] piegherai [con dignità] il tuo capo innocente
sotto il peso della lava (fascio mortal): ma senza averlo
piegato prima (riferito a capo v.306) inutilmente
("indarno") dinnanzi all'oppressore futuro (in futuro è
l'idea di un nemico sempre in agguato), ma neanche
levato con folle orgoglio fino alle stelle o sul deserto dove
[nel deserto], tu sei nata e hai dimora non per tua
volontà, ma per caso fortuito; ma più saggia, ma tanto
meno insensata (inferma, nel senso di insicura,
debole) dell’uomo, in quanto non hai mai avuto la
presunzione di ritenere che la tua stirpe siano divenute
immortali per merito tuo o del destino.
(Il verso finale, che sintatticamente si riferisce alle
stirpi della ginestra, praticamente è invece tutto
rivolto all’uomo: la ginestra diventa simbolo della
natura umana).
Note
1
formidabile monte: Leopardi mantiene qui l’etimologia dal latino formido, -inis
(“timore, paura”), sottolineando sin dal secondo verso del canto il carattere
minaccioso ed inquietante del vulcano.
2
sterminator Vesevo: è forma latineggiante per il Vesuvio (da Vesevus, -i), cui è
subito associato un carattere assai minaccioso per l’uomo (“sterminator”).
3
Costruzione vv. 1-7: “Odorata ginestra, contenta dei deserti [felice di trovarti nei
deserti], spargi intorno i tuoi cespi solitari qui su l’arida schiena [sul brullo pendio] del
formidabil monte sterminator Vesevo [del Vesuvio, vulcano spaventoso ed assassino],
la quale [riferito ad “arida schiena”] null’altro arbor né fiore allegra [che non è resa
più lieta da nessun altro albero o fiore]”. Sin dalle prime battute la ginestra, nella sua
solitaria resistenza al vulcano e alla Natura, diventa l’interlocutrice privilegiata del
discorso del poeta.
4
Leopardi, abbandonandosi al ricordo, torna al tempo del soggiorno romano,
sollecitato dalla vista della ginestra, presente anche nelle campagne deserte (“erme
contrade”) che circondano quella che era stata la capitale del mondo intero (“donna
de’ mortali un tempo”).
5
afflitte fortune: il tema, caro a Leopardi e a buona parte della letteratura italiana tra
Sette ed Ottocento, del tramonto dell’antica potenza di Roma si può trovare sia in
Petrarca (nella canzone Italia mia, benché il parlar sia indarno, Canzoniere, CXXVII,
59) che nell’Eneide di Virgilio (I, 452).
6
cólti: nel senso di “campi coltivati”.
6
7
città famose: si allude evidentemente a Pompei, Ercolano e alle altre città
distrusse dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
8
In un passo dello Zibaldone dell’11 aprile 1829 gli accenti polemici sono assai
simili: “Nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce...
comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui li ha prodotti”.
9
le magnifiche sorti e progressive: l’espressione - divenuta sarcasticamente
proverbiale - è ricavata da Leopardi dalla Dedica degli Inni Sacri (1832) di Terenzio
Mamiani (1799-1885), patriota risorgimentale e cugino dello scrittore, che,
confidando nel valore formativo della religione e riferendosi all’Italia del secolo XII e
XIII, descrive in tal modo il progresso spirituale dell’umanità. Nelle Note di suo
pugno ai Canti, tuttavia l’autore precisa: “Parole di un moderno, al quale è dovuta
tutta la loro eleganza”.
10
secol superbo e sciocco: Leopardi, come preciserà più avanti, si riferisce qui al
secolo XIX e al romanticismo, la cui componente irrazional-spiritualistica
avrebbe fatto marcia indietro rispetto alle acquisizioni del pensiero razionalistico e
scientifico dell’Illuminismo.
11
Costruzione vv. 59-63: “Gl’ingegni tutti, di cui lor sorte rea padre ti fece [di cui un
destino infido ti ha fatto loro padre] vanno adulando al tuo pargoleggiare [continuano
ad adulare il tuo atteggiamento da bambino, e a quelle illusioni] ancora che
[sottointeso: gli ingegni tutti] talora t’abbian fra sé [ti considerino tra di loro] a
ludibrio [come cosa di cui ridere]”.
12
Per Leopardi, il contrasto è tra le aspirazioni politico-civili del Risorgimento e
le nuove gabbie dogmatiche imposte al pensiero.
13
Leopardi spiega nello Zibaldone (11 marzo 1826): “L’uomo (e così tutti gli altri
animali) non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per
comunicarla ad altri che gli succedano, per conservarla. [...] il vero e solo fine della
natura è la conservazione delle specie, e non la conservazione né la felicità
degl’individui”.
14
fetido orgoglio: nel senso non solo di “spiacevole” e “fastidioso”, ma anche di
“censurabile” e “perverso”.
15
Costruzione vv. 103-110: “[sottointeso “quel che”, v. 100] promettendo eccelsi fati
e nove felicità [un destino meraviglioso e straordinarie felicità] quali non pur
quest’orbe ma il ciel tutto ignora [sconosciute non solo agli umani ma addirittura al
cielo stesso], a popoli che un’onda di mar commosso [un maremoto], un fiato d’aura
maligna [un’epidemia], un sotterraneo crollo [un terremoto] distrugge sì che avanza a
gran pena la rimembranza di lor”.
16
Espressione modellata sul celebre passo del De Rerum Natura di Lucrezio in cui si
descrive Epicuro e la sua strenua lotta contro la superstizione umana:
“mortales tollere contra | est oculos ausus” (De Rerum Natura, I, 66-67).
17
Nello Zibaldone (2 gennaio 1829) si afferma: “La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la
natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a
principio più alto. all’origine vera de’ mali de’ viventi”.
7
18
verace saper: con questa espressione, che identifica in un metodo fondato sulla
verità la radice dei valori del vivere collettivo, Leopardi rimanda al movimento
scientifico ed ideologico nato tra Seicento e Settecento con Cartesio, Galilei, Newton
e Locke, e poi arrivato fino all’Illuminismo.
19
superbe fole: nettamente contrapposte all’amore per la verità sono per Leopardi le
credenze e le superstizioni umane, in particola modo quelle di natura finalistica
e provvidenziale, che interpretano il mondo come concepito in funzione dell’essere
umano, ed ipotizzano un dio che ha in cura le sorti dell’uomo, cui assegna pure una
vita dopo la morte.
20
favoleggiar ti piacque: il tema della presunzione umana, che arriva a supporre
che gli dei siano scesi sulla Terra per amore degli uomini (“per tua cagion”), è
presente anche nel poemetto satirico Paralipomeni della Batracomiomachia (canto
VII, 15).
21
i derisi sogni rinovellando: Leopardi si riferisce a credenze, illusioni e dogmi già
criticati dal movimento illuministico, e che ora stanno trovando nuova forza.
22
notte e ruina: l’unione dei due soggetti (le tenebre calate improvvisamente per
l’oscuramento del sole e la distruzione causata dalla colata lavica) vogliono rendere
plasticamente gli effetti devastanti dell’eruzione vulcanica. Nella descrizione
dell’eruzione, è poi presente la memoria letteraria di un passo dell’Eneide (III, 571577), dove Virgilio descrive un analogo scenario di distruzione.
23
i popolati seggi: Pompei, Ercolano e Stabia, distrutte nel 79 d.C.
24
La citazione delle bellezze naturali partenopee (il golfo di Capri, il porto, il
quartiere Mergellina) stride volutamente con lo scenario di devastazione poco sopra
presentato.
25
Gli scavi archeologici nel territorio di Pompei iniziarono appunto nel 1748, per
volere di Carlo III di Borbone.
26
il bipartito giogo: si tratta del Vesuvio vero e proprio e del monte Somma, costituito
da ciò che resta dell’edificio vulcanico che causò l’eruzione del 79 d.C.
27
minaccia: in questo caso, il verbo regge un complemento di termine (“alla sparsa
ruina”) perché si modella sulla costruzione col dativo tipica del verbo latino.
28
In questi versi, il modello stilistico e contenutistico sembra quasi essere quello della
poesia ossianica, frutto della “moda letteraria” scaturita dai Canti di Ossian (17601765) di James McPherson (1736-1796), fondamentali per fissare alcuni caratteri
del movimento preromantico e poi tradotti in Italia da Melchiorre Cesarotti tra il
1762 e il 1772. L’influsso “ossianico” sugli scrittori italiani è assai ampio, da Vittorio
Alfieri a Ugo Foscolo, fino appunto a Leopardi.
29
da te: è l’ultimo accenno polemico contro gli ideali delle “magnifiche sorti e
progressive” (v. 51).
8
Metrica
Canzone libera composta di sette stanze libere di diversa dimensione e, spesso, rime
al mezzo. I versi sono endecasillabi e settenari. Ogni strofa si chiude con rima ed
endecasillabo. Le figure retoriche sono molte: allegorie, anacoluti, iperbati,
allitterazioni, metafore, similitudini. Numerosi anche gli enjambements.
Analisi e commento
È il 1836 e Leopardi da tre anni è a Napoli e compone quella che forse è la sua ultima
poesia, La ginestra o fiore del deserto, a Torre del Greco, dove ha una splendida vista
sul Vesuvio, il vulcano che tanto tempo prima, nel 79 d.C., aveva distrutto Pompei ed
Ercolano.
Il canto può essere diviso in 8 parti:








la ginestra (versi 1-16);
invettiva contro la natura - ginestra simbolo della poesia (versi 17-51);
invettiva contro a cultura dominante (versi 52-86);
la magnanima grandezza, unico possibile riscatto dalla miseria della condizione
umana, è unita a un ideale di fraternità con gli altri uomini (versi 86-157)
piccolezza dell'uomo, precarietà della condizione umana - visione di spazi
cosmici sterminati, immensità gelida incomprensibile e arcana - lo spazio
smisurato coincide col nulla (versi 158-201)
cecità della natura cieche e inesorabili sono le forze naturali che casualmente
distruggono i viventi nella morte: in ogni caso la Natura segue impassibile il suo
eterno corso (versi 202-236)
potenza e insensibilità della natura: non solo sul nuovo, ma anche sulle rovine
incombe minacciosa la Natura (versi 237-296)
umiltà e saggezza dell'uomo illuminato (versi 297-317)
La Ginestra o fiore del deserto conclude il pensiero filosofico di Leopardi ed è
praticamente il suo testamento spirituale. È il momento di suprema realizzazione di
una poetica non più idillica, ma eroica. La poesia non concede più nulla sul piano
formale al linguaggio concepito in termini di bellezza e vaghezza, ma si adegua
totalmente alla realtà rappresentata e alle verità filosofiche comunicate.
La necessità di affrontare l’arido vero è il nucleo vitale di pensiero da cui deriva ogni
altra affermazione e presa di posizione di Leopardi. È una necessità morale, filosofica,
pragmatica. Questa convinzione si manifesta innanzitutto come disprezzo e riso nei
confronti di quanti si illudono, per consolarsi e perché sono dei deboli e viceversa per
superbia intellettuale, che l’uomo sia senz’altro destinato all’immortalità o comunque a
“magnifiche sorti e progressive” (v. 51). L. si pone in polemica con lo spiritualismo
cristiano, lo spiritualismo e il misticismo romantici, ma anche con il pensiero laico
illuministico e ottimista circa le possibilità di progresso legate alla scienza
L. in polemica con l’antropocentrismo e lo spiritualismo ottocentesco, riafferma con
fierezza e risolutezza la sua concezione materialistica e pessimistica del mondo, ma
elabora un’utopia solidaristica che vorrebbe gli uomini consociati nella lotta contro il
comune nemico, la Natura.
9
Nella canzone si parla della coraggiosa e allo stesso tempo fragile resistenza, che la
ginestra oppone alla lava del Vesuvio, il monte sterminatore, simbolo della natura
crudele e distruttiva. Il delicato fiore coraggiosamente risorge sulla lava impietrata, e
con la fragranza dei suoi arbusti sembra rallegrare queste lande desolate. Ma il suo
destino è tragicamente segnato da una nuova eruzione, capace di annullare non solo
la sua consolante presenza ma - ben più drammaticamente - la presenza dell'uomo in
questi luoghi. La ginestra diviene simbolo della condizione umana.
Leopardi in questo canto mette in contrapposizione la smisurata potenza della Natura
con la debolezza, la fragilità, l’impotenza, del genere umano: da un lato la Natura che
tutto può e dall'altro l'uomo che deve subire ciò che la divinità superiore con i suoi
"decreti" ha stabilito per lui; l'inesorabile inimicizia della Natura nei confronti degli
uomini in contrasto con la ridicola superbia di questi che, pur non essendo nulla, si
credono padroni e signori della terra e dell'universo.
La visone storica di Pompei ed Ercolano distrutte dal Vesuvio, come spesso era
avvenuto nei Canti, porta Leopardi a una riflessione che ha invece un valore nel
presente, un valore di critica del proprio tempo, di quello che definisce "il secol
superbo e sciocco", secolo che credeva a quell'800 romantico ed idealista, e che
credeva nelle "magnifiche sorti e progressive". È una critica al suo tempo, ma anche
un'ennesima indagine filosofica sul tema della morte, sul tema della catastrofe, e di
nuovo sul tema di come queste morti lontane, queste catastrofi remote, ci appaiono
segni del destino, segni di un destino umano che trascende il tempo e la storia e
appartiene a tutti.
In questa canzone, più che in altre, la critica novecentesca ha visto un L. politico, "un
Leopardi progressivo", progressista che in questa lirica ritiene che la confederazione
degli uomini contro il male naturale, sia l’unico mezzo che possediamo per
sopravvivere.
In realtà nella Ginestra è ancora presente il motivo che era stato già nelle Operette
morali, del cosiddetto "anti-antropocentrismo". Gli esseri umani, che si credono al
centro dell'universo, sono in realtà una delle tante specie in un pianeta pronto a
ribellarsi a esse: nella quinta stanza sviluppa il lungo paragone straordinario tra la
civiltà raffinata di Pompei ed Ercolano, distrutta dal vulcano, e un popolo di formiche
schiacciate dal cadere di un pomo, dal cadere di un frutto a terra, che appunto dilegua
e smentisce ogni forma di retorica sulla storia umana, sull'immagine del divenire
progressivo degli esseri umani. Al contempo, però, di fronte a questo destino di
catastrofe, si annuncia a tratti la presenza di quella che appunto Leopardi chiama "una
federazione delle specie", una federazione degli esseri umani e delle specie animali
tutte coalizzate, se non nella possibile salvezza, comunque nella comune
consapevolezza di un destino che tutte le comprende.
La poesia, di sette lunghe strofe, è la più lunga tra quelle raccolte nei Canti da
Leopardi, e ha come inizio un passo del Vangelo di Giovanni:
« Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς. - E gli uomini vollero
piuttosto le tenebre che la luce». (Giovanni, III, 19)
La frase scritta in corsivo dallo stesso L. al verso 51 «Le magnifiche sorti e
progressive», proviene da un testo di Terenzio Mamiani (dalla Dedica degli Inni sacri,
del Mamiani, cugino di L.) in cui si simboleggiava proprio il senso di una speranza
10
storica, di una speranza di progresso sociale e politico, che il non può che irridere. Lo
irride proprio perché a fronte di questa speranza umana c'è il volto enigmatico della
natura, il volto indifferente di una natura che con una semplice scossa può, con "moti
poco lievi ancor subitamente annichilare", distruggere tutto il genere umano, tutte le
sue civiltà, tutte le sue speranze e le sue costruzioni. E proprio la natura, che nelle
Operette Morali era stata dipinta come un mostro anonimo e indifferente, è la stessa
che produce anche il suo controveleno, questo emblema del fiore del deserto, che
proprio di fronte alla desertificazione, alla fine della speranza, all’impossibilità di una
prospettiva per il futuro, comunque sparge il suo profumo, un po' come la scrittura
poetica nasce dall'arido vero, nasce dall'apparir del vero e mantiene però quella
fragranza che Leopardi ci fa percepire.
Dal v. 129 al v. 136 L. parla della guerra contro la Natura del genere umano
confederato, ma destinato a un'inevitabile sconfitta. Questa sconfitta, ultima in una
vita di sconfitte, si traduce letterariamente in un canto che, per più di trecento versi,
ragiona sul destino dell'umanità, sulla presenza dell'umanità sul pianeta, e che dipinge
l'umanità come "umana compagnia". Per Leopardi essa è unica presenza reale, la
presenza di chi è in possesso del linguaggio, di qualcosa che assomiglia al profumo
della ginestra, di qualcosa che assomiglia a quella vitalità che malgrado tutto continua
a respirare, a esalare dal nostro stato umano.
Ogni sforzo che mira a violare le leggi naturali, biologiche della vita umana e
dell’universo è per L. assolutamente inutile, a differenza della solidarietà e dei doveri
morali che devono esserci fra gli uomini. La ginestra continuerà a diffonder il suo
profumo anche davanti alla distruzione, è saggi a perché consapevole del suo destino,
senza la codardia di un’inutile supplica e l’orgoglio di chi si finge un destino di
immortalità, entrambe caratteristiche proprie di molti uomini.
La ginestra è una metafora di Leopardi stesso, dell’uomo che ha raggiunto una
profonda consapevolezza filosofica, o una metafora della poesia che leva la sua voce
nonostante la definitiva caduta di ogni illusione.
11