Le Leggi della chiesa(diritto canonico) e il prete sposato
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Le Leggi della chiesa(diritto canonico) e il prete sposato
Le Leggi della chiesa(diritto canonico) e il prete sposato. di Nadir Giuseppe Perin Le domande che le persone si pongono sul prete sposato, riguardano principalmente il “che cosa può fare, ancora, un prete-sposato”, per il bene della comunità, dal momento che, in seguito al Rescritto di dispensa dalla promessa di celibato, ha perso “lo stato clericale” (can. 290 §3) pur rimanendo “prete in eterno”. 1) PUO’ CELEBRARE L’EUCARISTIA ? Per dare una risposta a questa domanda, è necessario puntualizzare alcuni punti, come premessa : a) la Chiesa, comunità formata da tutti coloro che hanno ricevuto il sacramento del battesimo, per istituzione divina, è formata dai ministri sacri, che nel diritto sono chiamati anche “chierici” e fanno parte della condizione di vita chiamata “ stato clericale”; gli altri sono detti anche laici (can.207 § 1) e fanno parte della condizione di vita chiamata “stato laicale”. Si diventa “chierici” con la recezione del diaconato (can. 266 §1). Sia dai chierici che dai laici, provengono i fedeli, i quali con la professione dei consigli evangelici fatta mediante i voti o altri vincoli sacri riconosciuti e sanciti dalla “Chiesa”, cioè dal Papa, attraverso gli organi di governo della Chiesa stessa, si consacrano a Dio e cooperano alla missione salvifica della Chiesa in modo speciale loro proprio; sebbene, il loro stato non riguardi la struttura gerarchica della Chiesa, tuttavia fa parte della sua vita e della sua santità (can. 207 §2) b) Una persona diventa presbitero quando riceve validamente il sacramento dell’Ordine Sacro. Ma, per poter esercitare il ministero presbiterale in una Chiesa particolare : 1) bisogna far parte dello “stato clericale”. 2) Ogni chierico deve essere “incardinato” o in una Chiesa particolare o in una prelatura personale, oppure in un istituto di vita consacrata o in una società che ne abbiano facoltà, per cui non sono assolutamente ammessi chierici acefali o vaganti” (can.265). L’istituto dell’incardinazione è uno dei più antichi dell’organizzazione ecclesiastica. Risale all’epoca apostolica, dal momento che fin da allora era in vigore il principio di non ordinare chierici se non per il servizio di una determinata Chiesa. Gli stessi Concili – in particolare il Concilio di Nicea del 325 e quello di Calcedonia del 451 – sanzionarono tale norma, vietando le ordinazioni assolute, cioè “sine titulo” ed interdicendo ai chierici acefali l’esercizio degli ordini. Fu vietato rigorosamente anche il passaggio ad un’altra Chiesa. Durante il Medioevo per l’allentarsi della http://www.ildialogo.org 1 disciplina, le ordinazioni assolute, cioè quelle “sine titulo” si fecero frequenti. Contro di esse intervenne il Concilio di Trento, il quale richiamò le disposizioni del Concilio Calcedonense, confermandone le sanzioni (Sess. XXIII, 15 luglio 1563. De reformazione, can. XVI). c) Sappiamo che perdendo lo “stato clericale” (can. 290 ) – per sentenza giudiziaria o per decreto amministrativo, con il quale si dichiara l’invalidità della sacra ordinazione; oppure con la pena della dimissione legittimamente imposta; oppure per rescritto della Sede Apostolica – il chierico perde insieme i diritti propri di tale stato; non è più tenuto ad alcun obbligo che da esso derivi (cfr. Obblighi e diritti dei chierici ( cann 273-289) fermo restando che la perdita dello stato laicale non comporta la dispensa dall’obbligo del celibato, la quale è di esclusiva competenza del Romano Pontefice (can. 291) ; gli è proibito esercitare la potestà di ordine, salvo il disposto del can. 976 nel quale viene affermato che “qualsiasi prete, ancorché privo della facoltà di ascoltare le confessioni, assolve validamente e lecitamente da qualunque censura o peccato qualsiasi penitente che versi in pericolo di morte, anche se sia presente un prete approvato”; conseguentemente rimane, eo ipso, privato di tutti gli uffici e incarichi e di qualsiasi potestà delegata. d) Dalla natura indelebile del carattere derivano tre conseguenze teologiche e giuridiche: il sacramento dell’ordine, come quello del battesimo e della confermazione, non può essere ripetuto (can. 845,§1); la sacra ordinazione, una volta ricevuta validamente, non diventa mai nulla, anche se il chierico può perdere giuridicamente lo “stato clericale” ( can. 290); nessuno può essere privato della potestà di ordine. Gli si può soltanto proibire di esercitarla in tutto o in parte, cioè di porre alcuni atti (can. 1338, §2); come parimenti nessuno può essere privato dei gradi accademici conseguiti. Ciò premesso, sappiamo che il Ministro capace di celebrare il sacramento dell’Eucaristia nella persona di Cristo è solo il prete validamente ordinato ( can. 900,§1) e che “Celebra lecitamente l’Eucaristia il prete che non ne sia impedito per legge canonica….” (can.900, § 2). Inoltre, sappiamo come l’Eucaristia sia la fonte ed il culmine della vita della grazia e della missione della Chiesa e come non si possa ridurre l’Eucaristia alla celebrazione di un rito liturgico. Quindi, celebrare l’Eucaristia, per un prete, anche se sposato, significa anzitutto esercitare una propria funzione a vantaggio di tutto il Corpo Mistico e dell’umanità intera. “ La Santissima Eucaristia è il più augusto dei sacramenti, poiché in essa è contenuto, viene offerto e si riceve lo stesso Cristo Signore e, in virtù del Sacramento, vive e cresce continuamente http://www.ildialogo.org 2 la Chiesa. Il sacrificio eucaristico, memoriale della morte e della risurrezione del Signore, in cui si perpetua nei secoli il Sacrificio della Croce, è il culmine e la fonte di tutto il culto e di tutta la vita cristiana: con esso si esprime e si effettua l’unità del popolo di Dio e si compie l’edificazione del Corpo di Cristo. Gli altri sacramenti, infatti, e tutte le opere di apostolato della Chiesa sono strettamente legati all’Eucaristia e ad essa sono ordinati” (can. 897) Nei canoni riguardanti l’Eucaristia e la celebrazione della stessa, quello che viene messo in risalto è che, da un lato l’Eucaristia deve essere una realtà comunitaria che esprime la reale dimensione dell’amore tra i credenti che s’incontrano in una dimensione umana, spezzando il pane insieme e mangiando dell’unico Pane. Dall’altro lato, però, l’Eucaristia non può essere ridotta ad un aspetto prettamente giuridico e sociale, come se non avesse valore qualora non fosse presente “la comunità”. Il sacrificio eucaristico ha una efficacia di estensione senza confini di luogo, in quanto agisce in tutto il mondo terreno ed ultraterreno a vantaggio di coloro che hanno ancora bisogno di purificazione, anche quando è presente soltanto il celebrante. “ I sacerdoti, sempre memori che nel mistero del Sacrificio eucaristico si svolge ininterrottamente l’opera della redenzione, celebrino frequentemente; anzi si raccomanda vivamente la celebrazione quotidiana, la quale, anche quando non si possa avere la presenza dei fedeli, è sempre un atto di Cristo e della Chiesa, e, con esso i sacerdoti adempiono il loro principale ministero” (can. 904) . Perciò, se esiste una giusta e ragionevole causa, in quanto bisogna conservare anche il segno visibile di un minimo di comunità, il prete può “celebrare senza la partecipazione di qualche fedele. Però “ se non esiste una causa giusta e ragionevole, il sacerdote non celebri il sacrificio eucaristico senza la partecipazione almeno di qualche fedele”( can. 906). A questo punto, considerando che con la perdita dello “stato clericale” – a seguito della dispensa regolarmente concessa dal Romano Pontefice – si perde anche l’incardinazione ad una chiesa particolare, si potrebbe discutere del problema del collegamento della Chiesa particolare con l’Eucaristia e che verrebbe a mancare per i preti sposati. Ci si potrebbe chiedere se - stante la proibizione dell’autorità ecclesiastica, fatta al prete, di celebrare l’Eucaristia per questa mancanza di collegamento con una chiesa particolare, dal momento che non è più un chierico incardinato - la celebrazione dell’Eucaristia da parte di questo prete, sia ancora valida e lecita . Alcuni esempi : un prete pistoiese non si sentiva vincolato, nella sua azione pastorale, dalla norma del Concilio di Pistoia che condannava la devozione al Sacro Cuore come “erronea e almeno http://www.ildialogo.org 3 pericolosa”. Questo prete che trasgrediva tale norma faceva male, oppure no? ( n. 61 della Costituzione “Auctorem Fidei”) Oppure, il prete che assolveva il penitente che aveva solo l’attrizione circa i propri peccati, ma non la contrizione e solo il proposito di evitarli, senza aver dato prova di volerlo mantenere con “diuturno esperimento”, trasgredendo così la norma del Sinodo della sua Chiesa, faceva male, oppure no? ( n. 36 della stessa Costituzione). Secondo i principi di S. Tommaso, che sono poi alla base di ogni testo di morale, viene detto: “Poiché l’autorità del prelato spirituale - che non è padrone ma servitore – gli è stata concessa non per distruggere, ma per costruire (2Cor.10,8), come il prelato non può comandare ciò che in se stesso dispiace a Dio, cioè il peccato, così non può proibire ciò che in se stesso piace a Dio, cioè le opere buone ( Summa Teologica II-II, 88,12,2). Ed ancora : “Le leggi possono essere ingiuste in forza di una loro contrarietà al bene divino… tali leggi non è lecito in alcun modo osservarle” (Summa Teologica 1-2,96,4). “La legge dello Spirito Santo è superiore ad ogni legge fatta dagli uomini. Perciò gli uomini spirituali, in quanto si lasciano condurre dalla legge dello Spirito Santo, non sono sottoposti alla legge in quelle cose che sono contrarie a tale conduzione da parte dello Spirito Santo” ( Summa Teologica 1-2,96,5,2). “Quanto alle leggi umane che vanno contro il mandato divino, il potere dell’autorità non si estende fin là. Perciò non si deve ubbidire in questi casi alla legge umana” (Summa Teologica 1-2,94,4,2). “Se non si osserva una norma per un motivo ragionevole, questa trasgressione non costituisce peccato”( Summa Teologica II-II, 47,3,2). Ora poiché la realtà del sacramento dell’ordine rimane anche nel prete-sposato e di conseguenza anche l’abilità intrinseca ad offrire il Sacrificio, non per una sua devozione personale, ma per i bisogni e necessità dei vivi e dei defunti, non si può dimostrare su che base l’autorità ecclesiastica potrebbe validamente limitare questa mansione “costruttiva”, se veramente “la salvezza delle anime deve essere sempre nella Chiesa la legge suprema” (can 1752). Siccome la volontà dei pastori della Chiesa nella loro intenzione non può non coincidere con la volontà del Signore che vuole comunicare la Grazia attraverso tutte le vie possibili sacramentali e non, e attraverso il Sacrificio Eucaristico, non è possibile che una simile proibizione possa sussistere di fronte ad una realtà soprannaturale, pur avendo un’apparenza giuridica. Perciò l’Eucaristia celebrata da un prete sposato è in piena sintonia con la Chiesa (= comunità dei battezzati in Cristo, nello Spirito Santo), ancor più se egli concelebra l’Eucaristia che si celebra in Chiesa. http://www.ildialogo.org 4 Anche l’autorità ecclesiastica è sottoposta alla Parola” (D.V., 10) cioè alla legge divina, ma non “ad destructionem”, altrimenti si cade in quel “positivismo giuridico” che giustamente si rimprovera nei confronti di teorie che conferiscono allo stato il potere di stabilire lui ciò che è buono o cattivo, senza tener conto delle leggi naturali. E’, tuttavia, ammissibile che l’autorità ecclesiastica possa proibire al prete sposato l’esercizio del ministero presbiterale in forma pubblica ed ufficiale, per motivi di “ordine pubblico”, disciplinare, ma non quando il prete sposato presiede l’Eucaristia in forma privata, perché in tal caso non reca alcun compromesso alla salute spirituale del popolo di Dio, anzi ne è di giovamento, perché nel mistero del Sacrificio eucaristico si svolge ininterrottamente l’opera della redenzione; è sempre un atto di Cristo e della Chiesa. Vi sono, dunque, buone ragioni per sostenere come “sentenza probabile” che non è proibito al prete sposato l’esercizio di “qualsiasi atto presbiterale”. Lo studio della teologia morale mi aiuta a stabilire come punto fermo che nessuno può essere impedito di seguire una opinione fondata e probabile. Ora, mentre le Norme della Congregazione per la Dottrina della Fede del 13/01/1971 proibivano ai preti dispensati di svolgere qualsiasi funzione dell’Ordine sacro, invece, nel Sinodo dei Vescovi del successivo novembre 1971 sul presbiterato ministeriale si dice che il “prete dispensato “non sia ammesso ad esercitare le attività sacerdotali” (115 placet; 84 iuxta modum). Questa espressione lascia indubbiamente intendere un significato diverso dalla precedente dal momento che non specifica se tutte o solo alcune. Infatti, molti vescovi innovatori hanno ritenuto questa espressione sufficientemente ampia” come faceva notare il cronista F.De Sanctis sul Corriere della Sera del 04/01/1971. In realtà “le attività sacerdotali si possono intendere nella loro totalità o anche parzialmente. Il che non sarebbe stato possibile se fosse stato detto “ non sia ammesso ad esercitare alcuna attività presbiterale”. Questa espressione è stata indubbiamente calibrata anche per la mediazione di Paolo VI nei confronti delle pressioni, particolarmente, dell’episcopato Olandese (cfr. Regno Documentazione, maggio 1971). Questa espressione più generica si è affermata nei rescritti delle successive dispense. Un Teologo spagnolo faceva notare che “ l’attuale rescritto di dispensa cambia la frase “ nullam ordinis sacri functionem peragat” in “ exclusus manet ab exercitio sacri ministeri” che è poi la formula del nuovo codice di Diritto canonico al can. 292 : “ … potestatem ordinis exercere prohibetur”, non dice “nullam potestatem” ed aggiunge “salvo praescripto can 976”, non dice “salvo tantum”, né, come nel canone precedente (can 291) “praeter casus”. Questo significa che il caso della assoluzione in pericolo di morte ( can. 976) è una eccezione ammessa esplicitamente, ma non viene detto che sia l’unica. http://www.ildialogo.org 5 Altro, infatti, è l’esercizio pieno del ministero presbiterale, in modo pubblico ed ufficiale, altro è compiere certi atti in modo non pubblico, senza scandalo per il bene del Corpo Mistico. Questa interpretazione probabile della legge ha molti sostenitori teorici e pratici nell’episcopato cattolico, anche se non pubblicamente dichiarati, perché si sa molto bene a quali conseguenze i vescovi andrebbero incontro qualora il loro pensiero fosse, anche se in modo lecito, difforme da quello delle persone in “alto loco locate”! Quindi si può affermare che Il prete-sposato che volesse presiedere l’Eucaristia, non in modo pubblico ed ufficiale, ma in modo non pubblico, senza scandalo, per il bene del Corpo mistico di Cristo, non per sua devozione personale, ma per i bisogni e necessità dei vivi e dei defunti, lo può fare validamente ed anche lecitamente, avendo come piccola comunità concelebrante i propri famigliari (moglie, figli, parenti). D’altra parte la Chiesa stessa definisce la famiglia “piccola Chiesa domestica”. Si tornerebbe così a quelle modalità di presiedere l’Eucaristia da parte del presbitero, praticate nelle prime comunità cristiane e descritte negli Atti degli Apostoli (2,42). I primi cristiani “ erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere...Ogni giorno tutti insieme frequentavano il Tempio e nelle case spezzavano il pane prendendo cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore, ogni giorno, aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati. http://www.ildialogo.org 6 2) La seconda domanda riguarda IL MINISTERO DELLA PAROLA (cann. 756 -761). IL PRETE SPOSATO PUÒ ANNUNCIARE LA PAROLA DI DIO, IN PUBBLICO ? Anche in questo caso per rispondere alla domanda ci sono delle premesse da fare. Sappiamo come il popolo di Dio venga radunato, in primo luogo, dalla parola del Dio vivente e come sia del tutto legittimo ricercare questa parola dalla bocca dei sacerdoti. I sacri ministri (vescovo, presbitero, diacono) abbiano in grande considerazione il ministero della predicazione, e tra i loro precipui doveri sia quello di annunziare a tutti il Vangelo di Dio ( can. 762). Predicare la parola di Dio, dovunque, è un diritto dei vescovi, non escluse le chiese e gli oratori degli istituti religiosi di diritto pontificio, tranne che, in casi particolari, il Vescovo del luogo ne faccia espresso divieto ( can. 763). Qualora, in determinate circostanze, la necessità lo richieda o se l’utilità lo consigli, in particolari casi, i laici possono venire ammessi a predicare in una chiesa o in un oratorio, secondo le disposizioni della conferenza episcopale (can 766). Tra le forme di predicazione ha un posto di particolare rilievo l’omelia che è parte della stessa liturgia ed è riservata al prete o al diacono ( can 767, § 1). Nel Diritto Canonico viene espressamente detto, anche, che i pastori d’anime, soprattutto i vescovi ed i parroci, devono avere cura che la parola di Dio sia annunciata anche a quei fedeli che, per le loro condizioni di vita, non usufruiscono sufficientemente della comune e ordinaria cura pastorale o ne siano del tutto privi. Provvedano pure che il messaggio evangelico giunga ai non credenti che sono nel territorio, poiché la cura delle anime deve comprendere anche loro, non diversamente che i fedeli (can. 771, § 1 e §2) Ma, il Diritto Canonico afferma anche che tutti i fedeli hanno il dovere ed il diritto d’impegnarsi perché il messaggio divino di salvezza si diffonda sempre più fra gli uomini di tutti i tempi e del mondo intero” (can. 211). I compiti che sono differenziati, rispondono, peraltro, all’ufficio ed alla potestà esercitata da ciascuno nella Chiesa. In conformità con l’Evangelii nuntiandi di Paolo VI, i cann. 756-759 richiamano distintamente i compiti del Romano Pontefice, del Collegio dei Vescovi, dei Vescovi diocesani e del Clero, dei membri degli Istituti di vita consacrata e dei laici. L’annuncio del Vangelo spetta a tutto il popolo di Dio, di cui i laici sono la parte più numerosa. Anch’essi hanno un duplice dovere della testimonianza, in forza del battesimo e della confermazione (fondamento teologico), mediante l’esempio di una vita cristiana e la professione aperta della fede e dell’annuncio esplicito con la partecipazione al ministero della parola. E’ il http://www.ildialogo.org 7 vescovo che gerarchicamente affida loro questo compito, associandoli all’opera dei presbiteri e dei diaconi. Le forme precipue del ministero della Parola sono la predicazione e la catechesi, ma anche l’esposizione della dottrina cattolica nelle scuole, nelle accademie, nelle università, nelle conferenze e riunioni di ogni genere, come anche la sua diffusione mediante pubbliche dichiarazioni della legittima autorità, fatte in occasione di speciali eventi, attraverso la stampa e con altri strumenti di comunicazione sociale ( can. 761). Molti sono oggi i laici ed anche i preti-sposati che insegnano religione nelle scuole, nelle università ...dipende dalla sensibilità dei vescovi diocesani, nella cui diocesi i preti sposati hanno la loro residenza con la famiglia ed operano. I preti sposati compiono questa opera anche nell’insegnamento della filosofia, della storia, delle lettere, della S. Scrittura. Il Sinodo del 1971 aveva quasi esplicitamente incoraggiate tutte queste iniziative dell’annuncio della Parola, quando diceva che il prete dispensato “può aiutare nel servizio della Chiesa”. Si tratterebbe, allora, di attuare concretamente la possibilità che anche i preti- sposati possano svolgere le mansioni dell’annuncio della Parola,almeno come viene data ai laici a ciò preparati, spingendosi, forse, fino a far presiedere a loro la liturgia della Parola con omelie, là dove non c’è la celebrazione dell’Eucaristia, anche se il continuare a non autorizzare il prete-sposato a presiedere l’Eucaristia, anche nelle parrocchie dove c’è carenza di preti-celibi è solo un modo per continuare ad “accanirsi” nei loro confronti, da parte di coloro che nella Chiesa hanno il potere e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale. In questo campo ogni proposta può essere utile. Non bisogna comunque “seppellire i talenti” tipicamente presbiterali, impedendo qualsiasi esercizio del potere dell’Ordine, perché questo sarebbe un andare contro la parola di Gesù. Oggi è impressionante il numero di preti che essendosi sposati hanno dovuto lasciare il loro ministero. Questo raramente viene riconosciuto come problema dalle autorità della struttura ecclesiastica. Discutere certi temi può rappresentare una minaccia per i preti, mentre ignorarli può servire da terapia. Se alcuni vescovi possono pensare che discutere certi problemi possa danneggiare la stabilità dell’organizzazione ecclesiastica, altri forse sono preoccupati per la confusione che si è creata fra un celibato giuridico, come parte integrante del presbiterato, ed un celibato accolto con gioia e liberamente come dono dello Spirito Santo, secondo il quale vivere la propria vita come testimonianza “profetica” del Regno di Dio. http://www.ildialogo.org 8 Sarebbe giusto e doveroso discutere con libertà e tranquillità un problema così importante e risolverlo per sanare la grande ferita della Chiesa. Stranamente ci si preoccupa di più della diminuzione dei giovani che si fanno preti, piuttosto che del numero sempre più elevato di preti che si ritirano. Molte lettere pastorali indirizzate alle parrocchie non accennano mai a quei presbiteri che lasciano il loro ministero, ma lamentano solo la mancanza di vocazioni da parte di tanti giovani, imputando questo ad una carenza di valori individuali alimentata anche da tanti genitori che non riescono a dare una educazione religiosa ai loro figli. La Chiesa riconosce che colui che ha ricevuto il sacramento dell’Ordine Sacro, rimarrà per sempre presbitero e al prete sposato (in attesa di un riconoscimento pieno) rimangono compiti importanti da svolgere all’interno delle comunità. Se il prete sposato non può più mediare il perdono di Dio tramite l’assoluzione, fatta l’eccezione contemplata nel canone 976, può, tuttavia, accettare con generosità gli errori dei propri simili, può ispirare tolleranza, coraggio ed ottimismo, portare la parola di Dio in un mondo insoddisfatto, dove spesso i valori spirituali vengono dimenticati. Se non può presiedere pubblicamente l’Eucaristia, può far sentire a tutti, però, la bellezza dell’amore. In un mondo dove le famiglie ed i governi sono tormentati da tanti disaccordi il vero compito del prete è quello di riportare la Parola dell’amore che unisce gli animi degli uomini e far vedere un orizzonte meno limitato di quello terreno e capire l’attualità del Vangelo. Forse è necessario che il prete sposato inizi a presiedere l’Eucaristia nella propria famiglia, aprendo la propria casa anche ad altre famiglie che lo richiedessero proprio come ai primi tempi della chiesa primitiva. Appare veramente assurdo come ancora oggi la Chiesa non incoraggi tanti preti che hanno rifiutato un celibato imposto abbandonando così il loro ministero, al reinserimento nelle loro comunità. In fondo è da Dio e dalla Chiesa che essi sono stati chiamati. D’altra parte se molti preti sposati fanno un lavoro sociale, scolastico, politico, paramedico e culturale… se un terzo delle loro spose lavora per la Chiesa ed i loro figli, oltre che essere stati battezzati vengono educati nella religione cattolica, secondo gli insegnamenti del Vangelo, allora non è vero che essi hanno abbandonato il loro ministero presbiterale per sposarsi, ma si sono sposati per essere preti sposati in mezzo ad un popolo sposato, esercitando il loro ministero presbiterale lavorando fra di loro. Nadir Giuseppe Perin [[email protected]] http://www.ildialogo.org 9