Inside Wikileaks, niente di nuovo sotto il sole,Settantatre modi di
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Inside Wikileaks, niente di nuovo sotto il sole,Settantatre modi di
Inside Wikileaks, niente di nuovo sotto il sole Il libro dell’ex portavoce e numero due di Wikileaks Daniel DomscheitBerg, finora noto ai media come Daniel Schmitt, era stato annunciato come il testo verità sul “sito più pericoloso del mondo”, in cui tutti i retroscena sull’organizzazione di Julian Assange sarebbero stati finalmente svelati. Nel libro, edito in Italia per i tipi di Marsilio, viene messa al setaccio la storia del “sito più pericoloso del mondo”: dalla rivelazione dei documenti della banca Julius Bär del 2008 fino alla pubblicazione dei cablo della diplomazia americana e l’arresto di Assange nel novembre del 2010. La narrazione dei fatti tramite una voce interna consente di approfondire alcune questioni aperte sull’organizzazione e il suo funzionamento, come la sua struttura, le persone coinvolte e l’origine dei finanziamenti. In questo senso, seppure senza svelare niente che non fosse già di dominio pubblico, Inside Wikileaks è un libro utile. Scopriamo che inizialmente la piattaforma di whistleblowing era retta da poche persone spesso connesse tra loro solo tramite una chat: Domscheit-Berg, Assange e due figure “operative” intente a lavorare sui server e sul wiki online, note come il “Tecnico” e l'”Architetto”. Erano loro il nucleo centrale dell’organizzazione attorno al quale gravitava una costellazione di sostenitori e collaboratori non coinvolti nel processo decisionale e nello sviluppo della strategia. Fatto salvo qualche dato in più sulla fondazione Wau Holland, che amministrava le donazioni a Wikileaks, viene purtroppo detto ben poco di inedito sull’origine dei finanziamenti dell’organizzazione. Domscheit-Berg oggi non fa più parte di Wikileaks: nel libro si apprende che è stato allontanato per arbitraria decisione di Assange durante un’accesa discussione in chat. Le divergenze tra lui e l’hacker australiano riguardavano la gestione della piattaforma e la stessa filosofia di Wikileaks. Per Domscheit-Berg stava diventando un’organizzazione che predicava la trasparenza senza applicarla. A suo parere, dal caso Collateral Murder in avanti, Julian Assange aveva modificato il ruolo di Wikileaks da piattaforma neutrale di diffusione a organo di opinione schierato al fianco di grandi gruppi editoriali. Inoltre la sua gestione si stava trasformando in un regno assoluto presieduto da Assange stesso, sordo al dibattito interno. L’ex numero due dunque descrive Wikileaks come sempre più intrecciata alla personalità del suo leader. Assange è dipinto come un paranoico ossessionato dal controllo, pronto a tutto pur di affermare la sua supremazia. Per questo le spaccature si fanno sempre più insanabili e al fianco di ragioni politiche e strategiche nel libro si parla anche di una relazione collaborativa e di amicizia personale finita male. Ed è è proprio la cronaca delle eccentricità di Assange, l’eccessivo soffermarsi su questioni di secondo piano, come i suoi atteggiamenti folli, le sue manie o il suo modo irruento di trattare il gatto di casa Domscheit-Berg che rendono Inside Wikileaks davvero poco interessante e, soprattutto, poco rivelatore. Non a caso la narrazione è strutturata su due piani paralleli: lo spirito della libera informazione e il ruolo di Wikileaks da un lato, e i dissapori privati tra due personalità dall’altro. Peccato che sia il secondo aspetto a prevalere. Di Wikileaks avremmo forse scoperto di più se il ruolo di popstar di Julian Assange, così approfonditamente affrontato, non avesse messo in ombra le questioni cruciali, lasciate in secondo piano dai media e sorprendentemente anche dal libro di Daniel Schmitt. Settantatre modi di seguire il Guardian su Twitter Il primo aprile 2009 la redazione del Guardian fece un classico “pesce di aprile” ai suoi lettori annunciando che dopo quasi duecento anni di carta stampata il giornale sarebbe stato pubblicato esclusivamente su Twitter. Nell’annuncio-farsa era previsto anche un progetto di riduzione di tutto l’archivio del quotidiano londinese, dal 1821 in avanti, a tweet di centoquaranta caratteri. A Kings Place si dicevano certi che il tweet sarebbe stato presto riconosciuto come il formato ideale per il giornalismo futuro e qualcuno, probabilmente, si era bevuto la notizia. Quell’annuncio, però, non fu uno scherzo fine a se stesso, ma contribuì al dibattito sulle possibilità di Twitter come veicolo di circolazione delle notizie online. Considerato che a mettere in scena la bufala fu proprio il Guardian, il quotidiano che più di ogni altro ha investito sulle potenzialità della rete, fino a pubblicare i propri articoli prima sul sito che sull’edizione cartacea in uscita, la provocazione acquisisce ulteriore significato. Recentemente il quotidiano inglese ha insistito su Twitter come mezzo di copertura della crisi in Nord Africa, sviluppando una mappa interattiva con cui localizzare i tweet dei dimostranti scesi in piazza. Tuttavia è andando alla pagina “Find the Guardian on Twitter” che il quotidiano dimostra la sua reale attenzione e fiducia nelle capacità del social network di Jack Dorsey: i profili da seguire su Twitter del Guardian sono addirittura settantatre, mentre quelli su Facebook una dozzina. Un numero enorme, che copre tutta l’offerta contenutistica del quotidiano. Ogni utente può seguire i profili tematici cui è più interessato, dalle notizie estere, alla cultura fino all’inglesissima pagina di gardening. Il lettore riceverà quindi aggiornamenti solo sugli argomenti richiesti e non vedrà la propria homepage di Twitter invasa da cinguettii di ogni genere, come accade invece con la maggior parte delle grandi testate, solitamente dotate di un unico profilo. Il Guardian, in sostanza, fornisce un servizio mirato di segnalazione delle proprie notizie orientato sul pubblico interessato, ottimizzando di conseguenza gli accessi attorno ai propri contenuti. La pagina @mediaguardian, dedicata alle notizie sui media, linka quotidianamente le notizie pubblicate in questa sezione del quotidiano e sul sito. I tweet sono costanti ma non invasivi e consentono un coverage efficace delle notizie del Guardian e non solo: utilissimo è infatti il “Media Briefing” che raccoglie ogni giorno anche i principali articoli relativi alla comunicazione pubblicati sulle maggiori testate inglesi e americane, come l’Independent, il Times, o il Wall Street Journal. Ai professionisti della comunicazione è inoltre offerta la possibilità di ricevere a costo zero il briefing ogni mattina “before 9am” nella propria casella e-mail. Davanti a un flusso continuo e disorientate di cinguettii, il quotidiano aiuta a riconoscere quali siano realmente interessanti sfruttando al loro massimo le dinamiche di Twitter quali aggiornamento continuo e polifonia. "Qui Radio Londra"ma non sono più gli anni 80' Ieri sera è andata in onda la prima puntata della nuova trasmissione di Giuliano Ferrara. “Qui Radio Londra” dura cinque minuti e segue l’edizione serale del Tg1. Si tratta di uno spazio televisivo importante quanto a prestigio e share, un tempo riempito da “Il Fatto” di Enzo Biagi. Il format è vecchio e risale al 1988, anno in cui la trasmissione andò in onda per la prima volta su Canale 5, poi sempre diretta da Ferrara su reti Mediaset fino al cruciale 1994. La prima puntata ha avuto come Leitmotiv la tragedia del Giappone. Il conduttore ha invocato nipponica calma e capacità di “controllare la paura” di fronte al dibattito sul nucleare e la riflessione sulla possibilità per l’Italia di riaprire a questa fonte energetica. Il destino della centrale di Fukushima è diventato nel discorso di “Qui Radio Londra” la cartina tornasole sulla presunta sicurezza o pericolosità dell’energia nucleare. Se la centrale giapponese dovesse salvarsi, in sostanza, avremo la prova dell’effettiva affidabilità di questa fonte energetica; se il nocciolo, al contrario, dovesse andare incontro a fusione, dovremo “pensare molto bene” prima di prendere decisioni in merito. Scegliendo questo argomento e decidendo di non toccare questioni di politica interna italiana, almeno non in modo esplicito, il conduttore si è messo al riparo da polemiche. Si è presentato come “uomo di parte” ma ha saputo, in questa sua prima apparizione dopo tre anni di assenza dagli schermi televisivi, sciogliere la sua posizione in merito all’atomo, lasciandola trapelare in modo sfuocato con la smussatura un po’ furba del dubbio di fronte alla paura. Il Ferrara polemista che aveva fatto scalpore per il suo ritorno in televisione e in particolare in Rai, ieri sera insomma non si è visto. Dietro la calma invocata e ostentata, a farsi notare è stata soprattutto l’obsolescenza del formato “sermone”. “Il Fatto” era uno spazio riflessivo, di riassunto. I cinque minuti di “Qui Radio Londra” sono apparsi invece ben più lunghi della loro effettiva durata e il continuo appello alla moderazione da parte del conduttore è sembrato forzato. Il “sermone”, come da più parti è stata ribattezzata la puntata di ieri, poco si adatta alle modalità fruitive della televisione e dei media nell’era digitale. Interessante piuttosto l’esperimento di “Social TV”del Post che tramite friendfeed ha commentato in diretta la trasmissione insieme ai suoi lettori. Una rapsodica discussione contro la passività dell’ascolto televisivo. Tra un programma pensato ventidue anni fa e ripreso dal cassetto, e il dibattito sul nucleare che ritorna, l’unica certezza è che la televisione generalista e una buona fetta di paese si ostinano a non volere uscire dagli anni ’80 e a guardare avanti. Social media: rivoluzionari in Maghreb, un divertissment in Italia Le recenti rivolte nel Nord Africa che hanno coinvolto Tunisia, Egitto e Libia hanno sollevato un vivo dibattito sul ruolo giocato dai social media nell’organizzazione e nel sostegno delle proteste Sia che si tenda a sopravvalutare il peso dei social network sia che, al contrario, si sostenga una posizione eccessivamente prudente nei loro confronti è evidente che Facebook e Twitter abbiano svolto una funzione cardine per la circolazione nei paesi coinvolti delle istanze rivoluzionarie e verso l’estero nella diffusione di notizie e immagini delle manifestazioni e della loro violenta repressione. Si è detto che i social media sono stati un veicolo che ha favorito i sommovimenti, tuttavia definire Internet causa scaturente, se non addirittura la ragione per le quali i regimi tunisino ed egiziano siano crollati e quello libico sembri destinato a seguirli, significa avere una visione utopica e un po’ naif della questione. Seppur costituito da persone connesse, Internet rimane uno strumento che per quanto alimentato da dinamiche condivisive e network che si incontrano di per sé non può fare la rivoluzione. I recenti fatti nordafricani hanno dimostrato però come la rete, se utilizzata da un tessuto sociale pronto e in grado di assorbire e far proprie le istanze che la network society struttura in contesti politici oppressivi, possa divenire uno strumento forte e dinamico nel supportare movimenti politici pronti a scendere in piazza. La sua diffusione non significa solo costanza di utilizzo e numero di utenti connessi. Essa si diffonde se è assorbita dalla società come struttura di dinamiche nuove, come sistema di aggregazione che fa della partecipazione online un contraltare dell’agire sociale. La separazione tra rete e realtà o la rappresentazione di questa separazione a livello mediatico su media “mainstream” può diventare uno dei maggiori freni alle possibilità di sviluppo. Alessandro Gilioli si è recentemente interrogato sulle diverse iniziative di protesta nate in rete organizzate in Italia e sulla loro reale penetrazione nella coscienza collettiva, fatto comunque salvo il differente contesto politico italiano rispetto all’Egitto, alla Tunisia o alla Libia. Fondamentale è notare come la rete, a dispetto della sua intrinseca velocità e immediatezza nell’avvicinare le persone a “opinioni e mondi diversi”, causi effetti a lunga durata. I suoi effetti, come l’esposizione a un universo esteso o la frequentazione della discussione libera e condivisa necessitano di “un tempo di sedimentazione e di crescita nelle coscienze” lungo, verificabile negli anni e non in archi di tempo più ristretti. L’Italia è un paese in cui la rete non è diffusa capillarmente sia a livello infrastrutturale che di mentalità ed è anche un paese, contrariamente a quelli dell’area nordafricana, poco giovane e dalle dinamiche sociali e culturali lente In più percepisce Internet come un universo separato dalla realtà fattuale dove Facebook e Twitter non sono parte dell’agire quotidiano ma un divertissment separato da relegare a un’alterità rispetto al lavoro, alla vita sociale, alla politica. I media tradizionali enfatizzano questa separazione: basti pensare alla frequenza con cui espressioni quali “il popolo di internet”, “il dibattito su Facebook”, “cosa dice la rete” siano frequenti nelle cronache giornalistiche e i contenuti provenienti dalla rete siano spesso visti come alieni e da considerarsi a margine rispetto al dibattito, come se gli utenti di internet non fossero le stesse persone che camminano per strada e vengono intervistati dai telegiornali. Questa percezione, figlia di una non ancora diffusamente avvenuta consapevolezza del ruolo che i social media possono assumere, è da tener ben presente quando si analizzano i movimenti e le iniziative che dalle piazze del web si aprono alle piazze delle città italiane, insieme al fatto che la rete è ancora strumento per una ristretta avanguardia di utenti. La costellazione dell’attivismo online in Italia è ampia e di vario colore e molte delle iniziative recenti che hanno chiesto le dimissioni del premier Berlusconi sono sorte da firme e organizzazioni nate sui social media prima di aprirsi alla piazza. La loro risposta, si pensi ad esempio alle recenti manifestazioni delle donne in molte citta italiane, è spesso enorme, ma questa non porta mai a una mobilitazione più ampia e condivisa, non porta a un attivismo prolungato. A dominare è spesso la dimensione dell’evento singolo in grado di ottenere quanta più visibilità possibile, in un’unica occasione. Il che se certamente è positivo dal punto di vista della risonanza e dei numeri, non è efficace, se non replicato, per la diffusione delle istanze per le quali si scende in piazza in settori diversi della società. L’autoreferenzialità, in un paese dove gli internauti sono “una ristretta minoranza digitalizzata”, citando nuovamente Gilioli, è un rischio vivissimo. Il processo di crescita della consapevolezza digitale è partito sicuramente negli ultimi anni anche in Italia e lo sviluppo velocissimo di Facebook (mentre Twitter ancora non decolla) ha certamente facilitato questa dinamica. Ma è l’Italia, insieme alle sue minoranze digitalizzate, un paese fortemente legato alle dinamiche del broadcasting, alla televisione e al framework dell’evento, replicato con il canonico “parteciperò” in risposta agli inviti ricevuti su Facebook. Tunisia ed Egitto. Il media è la rivoluzione Lo scorso 14 gennaio, Zine El-Abidine Ben Ali, al governo in Tunisia dal 1987, è stato costretto a fuggire in Arabia Saudita a causa delle manifestazioni di protesta esplose nel paese. Alla guida di una “dittatura morbida” e di un regime familiare e oppressivo, Ben Ali era stato confermato al potere per la quinta volta da elezioni bulgare nel 2009, causando una nuova ondata di malcontento tra la popolazione. Rabbia esplosa in rivoluzione lo scorso 17 dicembre, quando Mohammed Bouazizi, ventiseienne laureato in economia e costretto a vendere frutta e verdura in strada, alla revoca della licenza da parte della polizia, si era dato fuoco davanti alla sede del governo. “Pane, dignità e libertà” recitavano alcuni cartelli portati in piazza dai manifestanti dopo il gesto di Bouazizi. Come già avvenuto nel 2009 per le manifestazioni in Iran, internet e i social network hanno giocato un ruolo fondamentale nella circolazione delle informazioni in Tunisia nei giorni della rivolta e nell’organizzazione pratica delle manifestazioni. Ma c’è un dato in particolare che non si può sottovalutare e che è oggetto di forte dibattito tra gli esperti di social media: la Tunisia è il paese africano con il tasso più alto di diffusione di Facebook. Si calcola che circa il 18% dei tunisini abbia un profilo Facebook, in una regione, quella del Nord Africa, dove più della metà della popolazione ha meno di trent’anni. Louis Gordon Crovitz si è chiesto sul Wall Street Journal se l’altissima diffusione dei social media in Tunisia abbia giocato un ruolo importante o se non sia la vera ragione del successo della rivoluzione tunisina. La prima reazione ufficiale del Dipartimento di Stato americano alle rivolte all’inizio di gennaio sembrava vedere un rapporto di causa-effetto tra i social media e il ribaltamento del regime di Ben Ali, facendo diretto riferimento alle interferenze del governo tunisino contro internet e in particolar modo Facebook. Tuttavia il ruolo delle reti sociali e del web nell’attuazione di processi politici di questo genere è oggetto di dibattito anche tra i digital utopist. In tempi recenti Evgeny Morozov, autore di The Net Delusion, ha fatto notare come internet sia spesso sopravvalutato per il modo in cui influenzerebbe i moti politici ma poco criticato per come diventerebbe, al contrario, uno strumento di propaganda e oppressione da quei regimi che, invece, vorrebbe ribaltare. L’esempio eloquente, secondo Morozov, sarebbe proprio quello iraniano dove, in seguito al fallimento della rivoluzione contro il regime di Ahmadinejad, il medesimo regime avrebbe aperto diversi blog di progadanda pro-governo, sfruttando le medesime armi, e con maggior forza, dei propri oppositori. A questa visione hanno risposto Zeynep Tufekci, sociologa dell’univesità del Maryland e Clay Shirky, noto per il suo saggio Here comes everybody, che hanno richiamato il collegamento tra Rivoluzione Francese e stampa. E’ evidente, nella loro impostazione, come strumenti quali i social media non siano in grado di rendere possibili le mutazioni politiche di per sé, ma funzionino in maniera debordante quali ausilio e strumento di rafforzamento delle forze in gioco, aiutando l’organizzazione pratica delle manifestazioni, la circolazione delle idee e fungendo da amplificatore per le istanze sollevate dagli insorti. Il regime di Ben Ali è stato uno dei più oppressivi quanto a censura telematica e sono stati riportati numerosi abusi da parte dell’internet provider nazionale, controllato direttamente dallo stato, alla privacy degli utenti tramite software in grado di accedere agli account Facebook di persone sospettate. Il grado di censura, il controllo serrato sui mezzi di comunicazione, soprattutto quando social, amplifica, loro malgrado, le potenzialità di diffusione che questi strumenti possono generare. In Tunisia malcontento e rabbia hanno incontrato terreno fertile per la loro diffusione, in uno scenario socio-politico pronto ad esplodere, nei social media. Crovitz ne è certo, ed è impossibile non dargli ragione, quando afferma che l’informazione è un prerequisito dell’azione e che la sua circolazione assume forza se diffusa e condivisa da strumenti quali i social media in un modo molto più concreto di quello che otterrebbe se fosse semplicemente trasmessa dai media tradizionali. Rispondendo proprio a Morozov Riccardo Luna, direttore della versione italiana di Wired, ha fatto notare come internet intervenga nei processi politici non come semplice mezzo, come è stato per la radio e la televisione nel secolo scorso, ma come rete di persone “connesse e informate” in grado di aumentare e diffondere consapevolezza e conseguentemente, speranze. Ora che la rivolta si è spostata, con portata ancora più ampia, nelle strade egiziane, il governo di Mubarak si è immediatamente preoccupato di far oscurare quasi interamente tutta la circolazione internet nel paese e le reti cellulari. Perchè un quarto della popolazione egiziana è un utente di internet e a sua volta la diffusione dei cellulari è altissima. E questo fa di ogni egiziano connesso un nodo nella circolazione della rivoluzione.