L`IMPIEGO DI FARINE DI PESCE IN ACQUACOLTURA

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L`IMPIEGO DI FARINE DI PESCE IN ACQUACOLTURA
L'IMPIEGO DI FARINE DI PESCE IN ACQUACOLTURA:
VALUTAZIONE DEGLI EFFETTI DEL TRATTAMENTO
TERMICO SULLA QUALITÀ NUTRIZIONALE DELLA
FRAZIONE PROTEICA
LUZZANA U., MORETTI V.M. & VALFRÉ F.
Istituto di Zootecnica, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Milano
Via Celoria lO, 20133 Milano
Riassunto
Il lavoro presenta una rassegna riguardante l'utilizzo di farine di pesce in acquacoltura, affrontando le
problematiche relative alla valutazione della qualità delle stesse. In particolare vengono trattati gli effetti
che i trattamenti termici inducono sulla qualità nutrizionale delle proteine. Trattamenti termici pesanti
determinano infatti diminuzioni della biodisponibilità degli aminoacidi e della digeribilità della proteina
tali da giustificare la differenziazione commerciale tre le farine trattate a bassa temperatura.
("Low Temperature" o LT) e quelle trattate ad alta temperatura ("High Temperature" o HT). Viene quindi
presentata una breve rassegna dei principali metodi, biologici e chimici, utilizzati comunemente per la
valutazione della qualità nutrizionale della frazione proteica delle farine di pesce. Un nuovo approccio
suggerisce infine l'utilizzo del contenuto in D-Asp della farina come metodo di valutazione dell'entità
del trattamento termico subito, e quindi, indirettamente, della possibile induzione di valore nutritivo.
Introduzione
I fabbisogni in proteine della maggior parte dei pesci oggetto di allevamento commerciale appaiono
piuttosto elevati, variando dal 30 al 55% della dieta (Tacon e Cowey, 1985; Bowen, 1987; Wilson, 1989;
Murai, 1992), percentuali da 2 a 4 volte superiori rispetto a quelle che caratterizzano le diete per gli altri
vertebrati di interesse zooeconomico (Wilson, 1994). Come conseguenza, le materie prime "proteiche"
hanno un'importanza fondamentale nella formulazione di mangimi per acquacoltura. Tra le possibili
fonti proteiche utilizzate nell'alimentazione degli animali acquatici, le farine di pesce, con un contenuto
in proteine superiore al che nel 1992 963.000 tonnellate di farine di pesce sono state impiegate per
l'alimentazione degli animali acquatici (Tab. 2) (New e Csavas, 1995).
Le stesse fonti riportano che, nonostante i continui miglioramenti degli indici di conversione in
acquacoltura e le attese riduzioni della quota di farina di pesce impiegata nella formulazione dei
mangimi (a seguito della sempre migliore conoscenza dei fabbisogni nutrizionali dei pesci allevati),
nonché della parziale sostituzione delle farine stesse con altri ingredienti (Tab. 3), la domanda
complessiva di queste è destinata ad aumentare in misura pari al 18% fino al 2000, per raggiungere
quindi 1.139.000 tonnellate (Tab. 2). Le aree maggiori produttrici di farina di pesce sono il Sud America,
l'Asia-Oceania e l'Europa (New e Csavas, 1995) (Tab. 4). Due di queste aree, l'Asia-Oceania e l'Europa,
sono anche i maggiori produttori nel settore dell'acquacoltura. Il Nord America produce pure
significative quantità di farina di pesce, ma esportando all'incirca lo stesso quantitativo che importa, è
praticamente autosufficiente, mentre il Sud America è il solo esportatore netto. Asia-Oceania ed
Europa sono invece importatori netti. I Paesi maggiori produttori di farina di pesce nel 1992 sono
riportati in Tabella 5.
TAB. 1 - Contenuto di aminoacidi essenziali in differenti farine di pesce (g/100 g di proteina) (Pike et al., 1990).
Farina di aringhe Farina di pesce bianco Farina tipo Sud America
Leucina
Isoleucina
Valina
Treonina
Fenilalanina
Tirosina
Metionina
Cisteina
Triptofano
Arginina
Istidina
Lisina
7.5
4.5
5.4
4.3
3.9
3.1
2.9
1.0
1.2
5.8
2.4
7.7
7.0
4.5
4.7
3.8
3.5
2.4
2.7
3.7
1.8
7.6
7.6
4.7
5.3
4.3
4.2
3.4
2.9
0.9
1.2
5.8
2.4
7.7
TAB. 2 - Percentuale di utilizzo di farina di pesce in mangimi commerciali per acquacoltura nel 1992 e nel 2000
(New e Csavas, 1995).
SPECIE
Ricciola
Anguille
Pesci gatto
Spigole e orate
Trote
Salmoni
Altri pesci carnivori
Carpe
Tilapie
Milkfish
Crostacei d'acqua dolce
Gamberoni
Altri crostacei
1992 2000
60
40
5
60
30
50
60
20
20
15
20
25
20
45
40
3
45
30
45
45
15
15
10
15
25
15
Il costo delle farine di pesce dipende dalla zona di origine (che condiziona in particolare la qualità della
materia prima), dal tipo di materia prima impiegata (pesce intero o scarti di lavorazione) e dal tipo di
trattamento a cui la materia prima è stata sottoposta nel corso del processo di produzione. Infatti, come
è noto, la temperatura alla quale le proteine vengono trattate ne condiziona la digeribilità, riducendo di
conseguenza la biodisponibilità degli aminoacidi (IAFMM, 1970; Pike et al., 1990). Come conseguenza,
la disponibilità di metodi attendibili atti a valutare il reale valore nutrizionale della farina e la conoscenza
dettagliata delle modificazioni che i trattamenti previsti nel processo di produzione inducono sulle
caratteristiche chimiche dei principi nutritivi delle farine costituiscono i punti cardine per la valutazione
delle singole farine da impiegarsi nell'alimentazione dei pesci. Ma sono lungi dall'essere risolti in
maniera soddisfacente.
Scopo del presente lavoro è dunque quello di offrire una rassegna dei principali effetti che i trattamenti
tennici inducono sulla frazione proteica delle farine di pesce, insieme con una breve descrizione dei
metodi maggiormente in uso per la valutazione della qualità nutrizionale di questo importante prodotto.
TAB. 3 - Stima dell'impiego di farina di pesce (in tonnellate) nei mangimi commerciali per acquacoltura nel 1992
e nel 2000 (New e Csavas, 1995).
SPECIE
1992
Ricciola
35.794
Anguille
72.319
Pesci gatto
23.387
Spigole e orate
48.131
Trote
142.059
Salmoni
201.251
Altri pesci carnivori
96.291
Carpe
51.561
Tilapie
29.032
Milkfish
19.324
Crostacei d'acqua dolce 9.580
Gamberoni
231.567
Altri crostacei
2.664
Totale
2000
64.841
74.398
14.165
62.185
134.511
181.125
94.958
63.689
43.687
21.601
10.943
368.856
4.133
962.960 1.139.092
TAB. 4 - Produzioni e commercio di farina di pesce e produzioni di acquacoltura (tutti in tonnellate) per
continenti nel 1992 (New e Csavas, 1995).
Produzione di
farina di pesce
Esportazioni di
farina di pesce
Importazioni di
farina di pesce
Produzione di
acquacoltura
Africa
Asia-Oceania
Europa
Ex-URSS
Nord America
Sud America
139.219
1.322.483
1.093.008
277.440
458.090
2.712.159
13.805
128.197
864.348
15.794
161.784
2.113.373
187.422
1.828.950
1.272.315
6.251
138.598
53.067
55.527
3.167.447
538.059
66.830
340.072
212.777
Totale
6.002.399
3.297.301
3.486.594
4.380.712
TAB. 5 - Maggiori produttori di farina di pesce nel 1992 (New e Csavas, 1995).
Paesi
Perù
Cile
Giappone
Danimarca
USA
Tailandia
Federazione degli Stati Indipendenti
Norvegia
Islanda
Cina
Altri
Produzione in migliaia di tonnellate
1369
1264
633
360
335
280
266
266
174
82
974
Il processo di produzione delle farine di pesce
Per comprendere appieno i principi del processo di produzione della farina di pesce è necessario
anzitutto considerare che la materia prima di partenza è costituita da tre frazioni: solidi, olio e acqua
(FAO, 1986). Scopo del processo di produzione è dunque separare queste frazioni nel modo più
completo possibile, con la minore spesa energetica, ottenendo allo stesso tempo un prodotto di elevata
qualità.
In generale, i passaggi principali che caratterizzano tutti i processi di produzione di farina di pesce che
abbiano interesse pratico sono i seguenti:
- Cottura, che coagula le proteine, rompe le cellule adipose e libera così olio e acqua. L' ottenimento di
un prodotto adatto alle fasi successive dipende dalla qualità della materia prima e dalle condizioni di
trattamento. Questa fase è comunemente condotta a 95-100°C per una durata variabile dai 15 ai 20
minuti (FAO, 1986).
- Pressione, che rimuove una gran quantità di liquido dalla massa cotta.
- Separazione del liquido così ottenuto in olio e brodo (stickwater) mediante decantazione. Questo
passaggio può essere evitato se il contenuto in grasso della materia prima è inferiore al 3%.
- Concentrazione ed essiccazione del brodo per otte-nere i solubili di pesce.
- Essiccazione della massa cotta (presscake) con i solubili aggiunti. L' essiccazione ha lo scopo di portare
il contenuto di umidità del prodotto al di sotto del 12%, al fine di garantire una buona conservabilità
dello stesso. Diversi sono i sistemi utilizzabili per questo scopo, ma come indicazione generale, si
raccomanda di non superare i 90°C per non diminuire il valore nutritivo della farina ottenuta (FAO,
1986).
- Macinazione del materiale essiccato. Non è negli scopi di questa rassegna approfondire i vari passaggi
del processo di produzione della farina di pesce, ma dallo schema sopra riportato è evidente come i
trattamenti termici rivestano un ruolo essenziale e comportino il rischio di un peggioramento delle
caratteristiche nutrizionali della farina stessa. In realtà, sono disponibili sul mercato due categorie
commerciali principali di farine di pesce, che si differenziano appunto in base alla severità dei
trattamenti termici che hanno subito nel corso del processo di produzione. Distinguiamo pertanto le
farine cosiddette LT (Low Temperature) dalle HT (High Temperature). Le prime subirebbero un trattamento
termico meno drastico rispetto alle HT, e questo si traduce in un prezzo di vendita maggiore, superiore
di circa il 30% a quello medio delle HT (C. Gianesini, comunicazione personale). Peraltro, con
l'eccezione della Norvegia, non vi sono degli standards di processo specifici e vincolanti, per cui ogni
produttore può definire la propria farina come LT o HT senza un reale riscontro. Diventa quindi di
fondamentale interesse poter disporre di metodi adeguati per valutare l'impatto del trattamento termico
sulla qualità nutrizionale delle farine.
Effetti del calore sulla qualità nutrizionale delle farine di pesce impiegate in acquacoltura
Come accennato in precedenza, temperature superiori ai 90°C, in particolare nella fase di essiccazione
delle farine, riducono la digeribilità delle stesse nei pesci allevati (Pike et al., 1990). Tali temperature
determinerebbero ossidazione di alcuni aminoacidi (Bender, 1972) e modificazioni nella biodisponibilità
di altri (Anderson et al., 1993). Carpenter et al. (1963) riportano diminuzione della biodisponibilità di
triptofano, arginina, metionina e lisina in farine di aringhe (Clupea harengus) trattate ad alte temperature
(al di sopra di 95°C). In particolare, dal momento che la lisina è un aminoacido limitante in molte
proteine, ed è coinvolto nella reazione di Maillard, gli effetti del calore sulla sua biodisponibilità sono
stati studiati estesamente (March et al., 1966; Carpenter, 1973), anche se la rapida degradazione
microbica dei carboidrati presenti nel pesce rende improbabile che la reazione di Maillard proceda in
modo tale da influire in maniera significativa sulla digeribilità degli aminoacidi (Pike et al., 1990). La
lisina può anche reagire con i gruppi carbonilici di prodotti dell'ossidazione degli acidi grassi, il che pure
determina una riduzione della sua biodisponibilità (IAFMM, 1970).
Il riscaldamento può inoltre determinare la formazione di ponti disolfuro intramolecolari a partire dai
gruppi sulfidrilici, riducendo ancora la digeribilità della proteina, come verificato per tessuto muscolare
di pollock (Theragra chalcogramma) trattato a temperature superiori a 95°C nella trota iridea (Oncorhynchus
mykiss) (Tab. 6) (Opstvedt et al., 1984).
Per inciso, trattamenti termici drastici possono anche danneggiare altri principi nutritivi contenuti nella
farina. Così le vitamine termolabili verrebbero distrutte ben prima che si verifichi una riduzione della
biodisponibilità degli aminoacidi (Tarr et al., 1954), e anche la qualità dei lipidi può risultare seriamente
compromessa (Biely et al., 1955).
TAB. 6 - Effetto di liofilizzazione, cottura ed essiccazione sulla digeribilità apparente della proteina e degli
aminoacidi nella trota iridea (Opstvedt et al., 1984).
Temperatura max.
Materia prima
temperatura ambiente
Liofilizzato
30°C
Cotto
95°C
Essiccato
145°C
SE
mM di ponti S-S per l6
g di N
-
-
1.0
1.6
Proteina
85.4
88.4
84.3
83.5
1.2
Arginina
Istidina
Isoleucina
Leucina
Lisina
Metionina
Cisterna/Cistina
Fenilalanina
Tirosina
Treonina
Valina
90.4
92.8
93.2
89.2
76.1
92.1
85.5
87.2
95.8
93.5
92.1
94.9
95.4
91.4
84.0
94.7
92.3
89.5
92.9
89.2
92.2
93.2
89.8
76.3
89.7
85.7
89.3
93.8
88.2
89.6
91.9
91.9
86.7
72.9
89.7
87.4
84.9
88.9
1.1
0.7
0.8
1.6
3.5
1.1
1.8
Metodi biologici per la valutazione della qualità della frazione proteica della farina di pesce
Esistono diversi metodi biologici, che utilizzano quindi direttamente gli animali, e che appaiono molto
sensibili alle variazioni della qualità nutrizionale della farina di pesce (Romero et al., 1994). In linea
generale questi metodi prevedono di valutare direttamente la biodisponibilità degli aminoacidi nelle
specie target o/e indirettamente le performances degli animali alimentati con il prodotto che si intende
valutare. Circa la prima possibilità, il metodo più usato è quello che prevede l'impiego del sesquiossido
di cromo (Cr2O3) come indicatore. In pratica il metodo prevede l'inclusione di questo composto inerte
nella dieta e la raccolta delle feci prodotte. Tramite appropriati rapporti tra il contenuto in aminoacidi e
in Cr2O3 dell'alimento e delle feci, è possibile calcolare la biodisponibilità degli aminoacidi,
eventualmente correggendola per l'eliminazione fisiologica di aminoacidi nelle feci (quella cioè dovuta
all'eliminazione di cellule di sfaldamento dell'epitelio del digerente o di enzimi digestivi) per ottenere la
biodisponibilità reale (Wilson et al., 1981): questo metodo è stato impiegato per varie specie ittiche
allevate, tra cui il pesce gatto americano o channel catfish (lctalurus punctatus) (Wilson et al., 1981), la carpa
comune (Cyprinus carpio) (Hossain e Jauncey, 1989), e la trota iridea (Opstvedt et al., 1984; Castro et al.,
1991). Naturalmente una corretta e completa raccolta delle feci è problematica con i pesci (Austreng,
1978; Hossain e Jauncey, 1989), e questo ha portato, oltre alla messa a punto di tecniche atte a ridurre il
problema il più possibile, anche alla ricerca di metodi alternativi. In Norvegia, ad esempio, la digeribilità
nel visone, che ha un breve tratto digestivo così come i salmonidi, è un metodo impiegato a questo
scopo. Altri metodi proposti utilizzano la digeribilità nel ratto in condizioni standardizzate (Pike et al.,
1990), o nel pollo (Romero et al., 1994).
Un secondo gruppo di metodi biologici prevede la valutazione delle performances dei pesci allevati e
l'espressione di un giudizio di qualità in base a parametri quali l'incremento ponderale, l'efficienza
alimentare, l'efficienza di conversione dell'energia, la protein efficiency rafia (PER), la quota di proteine
depositate o percent protein deposited (PPD), l'utilizzazione proteica netta o net protein utilization (NPU) la net
protein rafia (NPR) (March et al., 1985; McCallum e Higgs, 1989; Anderson et al., 1993).
Come è ovvio, i metodi biologici pongono il problema della standardizzazione delle condizioni
sperimentali in cui viene condotta la prova: le variabili che possono influire sull'utilizzazione delle
proteine da parte dei pesci sono infatti numerose. Tra di esse ricordiamo la specie impiegata e la
dimensione dei pesci utilizzati, diversi fattori ambientali, il livello di proteine e quello energetico della
dieta, la fonte energetica e il livello alimentare (Steffens, 1981). Di conseguenza la possibilità di
confrontare risultati di prove differenti appare piuttosto limitata dall'impossibilità di una completa
standardizzazione.
Metodi chimici per la valutazione della qualità della frazione proteica della farina di pesce
Gli effetti dei trattamenti termici sulla qualità nutrizionale della frazione proteica della farina di pesce
possono essere valutati anche attraverso metodi chimici che, nella maggior parte dei casi, sono stime
dell' entità della proteolisi ottenuta impiegando singoli enzimi proteolitici o una combinazione di essi
(Hsu et al., 1977; March e HickIing, 1982; Pedersen e Eggum, 1983). In particolare il metodo cosiddetto
pH-stat (Pedersen e Eggum, 1983) è ampiamente utilizzato nella pratica. Questo metodo prevede
l'incubazione del campione con enzimi digestivi per 10 min a 37°C. Durante l'incubazione il pH viene
mantenuto ad un valore costante di 8.00 mediante l'impiego di NaOH 0.1N. Al termine del periodo di
incubazione viene registrata la quantità di base aggiunta, e questo valore serve per la stima della
digeribilità della proteina in vitro. Questo metodo ha dimostrato un'ottima correlazione con le prove in
vivo (r = 0.96: Pedersen e Eggum, 1983), e rispetto agli altri metodi appare particolarmente rapido ed
economico. Va comunque detto che le condizioni in cui gli enzimi digestivi agiscono nei pesci sono in
genere piuttosto diverse da quelle mantenute durante l'incubazione in vitro, per cui i risultati hanno più
un interesse comparativo che non assoluto. In generale, comunque, tra i vari metodi chimici, il metodo
pH-stat consente una stima accurata della digeribilità della proteina, anche se vi sono alcune
caratteristiche chimiche e fisiche di certe particolari proteine che possono influenzare negativamente la
sua accuratezza.
La determinazione della lisina disponibile, cioè dei gruppi amminici liberi, non coinvolti quindi in
reazioni di Maillard o con i prodotti di ossidazione degli acidi grassi, è poi un altro metodo chimico
utilizzabile nella valutazione della qualità delle farine di pesce (March et al., 1966). I gruppi –NH2 liberi
sono infatti in grado di reagire con altre molecole, tra le quali frequentemente utilizzato è il
dinitrofluorobenzene (Barlow et al., 1989; Anderson et al., 1993).
Racemizzazione dell'acido aspartico nelle farine di pesce
É noto che i trattamenti termici ed alcalini possono indurre racemizzazioni di alcuni aminoacidi nelle
catene polipeptidiche, modificando di conseguenza la biodisponibilità di questi e la digeribilità dell'
intera proteina (Liardon e Hurrel, 1983). I legami peptidici L-D, D-L e D-D che si formano a seguito
del processo di racemizzazione sarebbero infatti resistenti all'attacco degli enzimi proteolitici, che
avrebbero come substrato preferenziale i legami peptidici L-L. I legami coinvolgenti un D-aminoacido
potrebbero essere inibitori competitivi dell'idrolisi dei legami peptidici L-L (Friedman et al., 1981).
Inoltre alcuni D-aminoacidi hanno dimostrato avere, nei mammiferi, effetti nefrotossici (Ganote et al.,
1974). Gli effetti dei trattamenti termici sulla racemizzazione degli aminoacidi nelle catene
polipeptidiche sono stati verificati in diversi alimenti per l'uomo, ma mai, almeno a nostra conoscenza,
negli alimenti per animali. Il ruolo fisiologico dei D-aminoacidi negli animali acquatici non è ancora ben
chiaro, nonostante siano presenti in forma libera in vari organismi acquatici (Preston, 1987) e la Daminoacido ossidasi sia stata trovata in alcuni pesci (Fickeisen e Brown, 1977).
Sulla base delle considerazioni sopra esposte, ci è parso interessante verificare anzitutto la presenza di
D-aminoacidi nelle farine di pesce, per poi valutare se la presenza di questi potesse essere correlata
all'intensità del trattamento termico. Una notevole difficoltà, in questo tipo di indagini, consiste nel
poter distinguere la quota di racemizzazione dovuta all'idrolisi della proteina (necessaria per l'analisi) da
quella presente originariamente nel campione. Infatti il tasso di racemizzazione di un aminoacido è
anche influenzato dai suoi vicini nella catena polipeptidica: di conseguenza la pratica di considerare
come "bianchi" i tassi di racemizzazione di aminoacidi liberi trattati nelle medesime condizioni non può
essere considerata corretta. Il metodo di Liardon et al. (1981), che prevede la marcatura degli aminoacidi
con deuterio, la loro separazione in gascromatografia (GC) e la quantificazione in spettrometria di
massa (MS) consente, anche nelle nostre esperienze, di superare tale problema, distinguendo
correttamente tra la quota di D-aminoacidi originariamente presente nel campione e quella indotta
dall'idrolisi. I primi nostri risultati (Luzzana et al., 1995) hanno dimostrato che l'acido aspartico è
particolarmente sensibile alla racemizzazione, e ci hanno quindi indotto a focalizzare la nostra
attenzione sul contenuto in questo D-aminoacido. Ulteriori studi sono attualmente in corso per
approfondire la possibilità di correlare il contenuto in D-Asp delle farine con l'intensità del trattamento
termico, con l'obiettivo di arrivare eventualmente a proporre il contenuto in questo D-aminoacido
come ulteriore marker della qualità delle farine animali impiegate in zootecnia, verificandone
opportunamente anche la possibile correlazione con altri parametri di qualità già impiegati nella pratica.
Dai primi dati, già pubblicati in altra sede (Moretti et al., 1.995), è chiaramente emerso che il contenuto
in D-Asp fornisce utili indicazioni sulla severità del trattamento termico a cui la materia prima è stata
sottoposta: infatti tale enantiomero non era presente nella proteina standard utilizzata come controllo
(α-lattalbumina bovina) né in campioni di farina di pesce non trattata termicamente da noi prodotta in
laboratorio mediante liofilizzazione, mentre è risultato presente, e in quantitativi via via crescenti, con
l'aumentare della durata del trattamento termico. Nelle farine di pesce del commercio da noi analizzate
è ci risultata evidente la tendenza all'aumento del contenuto in D-Asp in campioni di categoria HT
rispetto a quelli LT, confermando l'interesse di questa linea di ricerca e consentendoci appunto di
suggerire il D-Asp quale possibile indicatore dell'intensità e della durata del trattamento termico che
hanno subito le farine animali.
Ringraziamenti
Questa ricerca bibliografica fa parte di un progetto di ricerca parzialmente finanziato da A.S.A. s.r.l. AGRIDEA (S. Martino B.A., Verona, Italia)
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