Prime note a partire da C.Sini, 31/1/2016 e C.RediM.Monti, 29/1/2016

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Prime note a partire da C.Sini, 31/1/2016 e C.RediM.Monti, 29/1/2016
Prime note a partire da C.Sini, 31/1/2016 e C.Redi­M.Monti, 29/1/2016 1. Galileo eretico, nonostante tutto Galileo formulò la celebre distinzione tra gli ambiti della fede e quelli della scienza (sostenendo che «​
l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo​
») nell’ultima delle cosiddette lettere copernicane, composta nel 1615 e indirizzata a Cristina di Lorena (consorte del Granduca di Toscana e madre del futuro reggente, Cosimo II, che affidò a Galileo come tutore per alcuni anni). La comunicazione aveva carattere privato perché le autorità ecclesiastiche avevano proibito di esprimersi a favore dell’eliocentrismo, a meno di considerarlo una pura ipotesi (come aveva già proposto Andrea Osiander nella prefazione al ​
De Revolutionibus orbium coelestium,​
1543) oppure di rischiare la stessa condanna a morte di Giordano Bruno, avvenuta soltanto quindici anni prima. Galileo confidava di scampare al rogo sostenendo l'autonomia della scienza rispetto alla fede, ma proprio questa separazione conteneva in nuce ben altra radicalità. Come ha mostrato Pietro ​
Redondi in ​
Galileo eretico​
, Torino 1983 (con una recente e almeno parziale conferma in Mariano ​
Artigas​
, ​
Un nuovo documento sul caso Galileo: EE 291​
, 2001) la posta in gioco non era solo, né tanto, l'eliocentrismo, quanto l'atomismo. Infatti, Galileo cominciò molto presto a preferire le spiegazioni dei fenomeni fisici basate sulla natura corpuscolare della materia (cfr. W.​
Shea​
, ​
Galileo e l’atomismo,​
2001): ­ nel 1612, a proposito del galleggiamento dei corpi (non influenzato dalla forma del corpo o dalla resistenza del liquido, ma causato dallo spostamento degli atomi di acqua per via della gravità dei corpi); ­ nel 1619, a proposito dell'origine della coda delle comete, e in generale della causa del calore, da imputare all’attrito (che sprigiona corpuscoli di calore detti ​
ignicoli​
; cfr. A.​
Frova​
, ​
Le forze di legame tra gli atomi​
) e non al moto rotatorio dei corpi, dando vita a una disputa col gesuita Orazio Grassi, che poi sarebbe stato il suo grande accusatore, ancorché anonimo, nel 1633; ­ nel 1623, quando ne ​
Il Saggiatore espone la sua gnoseologia basata su una nuova teoria della percezione. Infatti, secondo la sintesi aristotelica che diede vita al tomismo allora imperante, nei corpi era possibile distinguere tra proprietà originarie e proprie dei corpi percepiti (​
sensibilia propria)​
quali colore, calore, sapore, e proprietà derivate (dalle prime) e comuni (a più corpi) quali forma ed estensione (​
sensibilia communia,​
ottenuti per astrazioni dell'intelletto). Ebbene Galileo rovesciò questo modello, introducendo la distinzione tra qualità primarie (in quanto matematicamente misurabili e quindi universali, come la figura, il moto, la grandezza ecc.) e qualità secondarie (in quanto riferibili solo agli organi di senso del soggetto percipiente, sollecitati dagli atomi degli oggetti percepiti, come il colore, il calore, il sapore ecc.). La gnoseologia di Galileo intendeva anche rispondere alle obiezioni che le sue osservazioni astronomiche suscitarono sin dal ​
Sidereus Nuncius 1610, relativamente all’affidabilità dei sensi nell’attingere ai ​
sensibilia communia (cfr. G.​
Nolè​
, ​
Galileo atomista e la disputa eucaristica​
, 2008), ma suscitò molto presto gravi conseguenze in campo teologico, nella misura in cui induceva a negare la consistenza delle proprietà secondarie nell’eucarestia, in quanto “​
non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente la residenza 1/4 nel corpo sensitivo, si che rimosso l'animale, sieno levate e annichilite tutte questa qualità”​
­ Il Saggiatore​
, VI. 2. L’esperimento della statua La separazione tra gli ambiti della fede e quelli della ragione si rivelò ben presto un artificio che nascondeva le reciproche influenze (le condanne della prima e le deduzioni della seconda), come sarebbe avvenuto anche in Cartesio, che fece propria la distinzione tra qualità primarie e secondarie introducendo la distinzione tra ​
res exstensa e ​
res cogitans (​
Discorso sul metodo​
, 1637), ovvero tra proprietà quantitative e qualitative, attribuendo le prime al dominio della scienza (che rivendica così la propria autonomia) e le seconde al regno della fede (che richiede obbedienza), ma solo dopo aver rinunciato (in seguito alla condanna di Galileo) a pubblicare il ​
Trattato sul mondo e sulla luce 1629­1633, dove l’eliocentrismo, la natura corpuscolare della materia e la spiegazione meccanica della fisiologia umana lasciano ben poco spazio alla fede. In seguito, lo sviluppo del sapere matematico e delle ricerche fisiologiche portarono in un secolo di letteratura libertina e materialista (anche attraverso Spinoza, come mostra E.​
Scribano​
) alle tesi di J.La Mettrie de ​
L’uomo macchina 1747 (dove si rompe ogni indugio nel negare all’uomo un’anima, ridotta anch’essa oramai a un puro nome) e all’esperimento mentale della statua di E.Condillac, ​
Trattato sulle sensazioni 1754 (dove l’origine di tutte le facoltà mentali viene ricondotta alle sensazioni e alla loro rielaborazione, tant’è che persino una statua, opportunamente costruita, verrebbe ad animarsi e, viceversa, anche gli animali non sono più ridotti ad automi, ma disporrebbero delle medesime facoltà). Si inaugurano così quelle che M.Foucault, ​
Le parole e le cose 1966, definisce le ​
scienze dell’uomo,​
nel quale viene riconosciuta la condizione ultima di ogni forma di conoscenza e, di conseguenza, viene individuato l’oggetto stesso di studio (tramite la filologia, l’economia, la biologia, la psicologia, l’antropologia, ecc.). 3. Natura e Umanità Appare dunque duplice il cammino del sapere scientifico nel costruire, da una parte, l’universalità della Natura (misurabile e oggettivamente vera per tutti e per ciascuno, a prescindere dalle tradizioni), dall’altra, ad essa correlata, l’universalità dell’Umanità ​
(tutti e ciascuno, egualmente umani, a prescindere dalle culture). L’invenzione dell’Umanità, però, ha radici più lontane della modernità seicentesca. Da una parte, è in questione l’idea stessa di uomo, per cui occorrerebbe risalire almeno a Platone (alla natura dell’uomo come ​
metaxy​
: intermedio e tramite tra divinità e animalità ­ secondo una differenza che, per questi ultimi, Aristotele individua nel linguaggio e nella socialità), recuperare il neoplatonismo umanistico di Pico della Mirandola (a metà tra l’angelo e il diavolo, l’uomo può e deve decidere a quale dei due consegnarsi ­ la differenza è indeterminata, in quanto rimessa alla libertà dell’uomo) e vedere come tutto ciò viene messo in discussione dal razionalismo del XVII sec. (per cui la libertà è solo un effetto illusorio della necessità) e dall’empirismo del XVIII sec. (per cui sono le passioni a guidare la ragione). Dall’altra parte, si tratta di stabilire l’estensione dell’umanità, per cui occorrerebbe risalire almeno al processo (simile a quello moderno, nella sua duplice valenza) che in età ellenistica vide l’affermazione di quella che è stata considerata la prima rivoluzione scientifica (cfr. L.​
Russo​
, ​
La rivoluzione dimenticata,​
1997) contemporaneamente alla diffusione del cosmopolitismo, in particolare grazie allo Stoicismo. Ma non basterebbe. 2/4 Si dovrebbe considerare anche l’ideale di ​
humanitas ​
elaborato da Cicerone (riferito sia all’ideale enciclopedico del sapere, sia al fondamento delle virtù tradizionali ­ il ​
mos maiorum​
, sia e soprattutto alla comune solidarietà degli uomini con gli uomini: ​
communis hominum inter homines naturalis sit commendatio ­ ​
De finibus 3,63; cfr. Renato ​
Oniga​
, 2009). Un ideale, quello ciceroniano, che deriva dal teatro romano del II sec. a.C., e in particolare dalla messa in scena delle vicende di vita comune nelle commedie di Plauto, Stazio e soprattutto Terenzio (dove l’​
humanitas era descritta come benevolenza tra gli uomini, dovere verso la società, fragilità dell’esistenza). Forse per questa via si può iniziare a comprendere lo slittamento di significato del termine “​
persona​
” dalla maschera teatrale al carattere individuale. In modi molto simili, Lynn ​
Hunt attribuisce alla vasta diffusione dei primi romanzi (e non si tratta solo dell’​
Eloisa di Rousseau, ma di una miriade di altre opere minori, molto apprezzate, come mostrano le ricerche di Franco ​
Moretti​
) il successo dell’idea dei diritti umani, a partire dalla forza dell’empatia suscitata nei confronti di caratteri considerati universali; ovvero a partire dalla ​
bienveillance a cui Diderot: riconduce il sentimento dell’​
umanità​
, nell’omonima voce dell’​
Encyclopédie.​
Nuovo fondamento per un’idea che, dopo le guerre di religione che sconvolsero l’Europa del XVI sec., non poteva più richiamarsi alla ​
caritas​
, alla comune fede nel Dio cristiano, in nome del quale l’Umanità era stata letteralmente dilaniata nei suoi stessi corpi (cfr. V.​
Ferrone​
, ​
Storia dei diritti dell’uomo,​
2004). Il Giusnaturalismo, in particolare, ha rappresentato il primo tentativo di ricominciare da capo, di costruire una nuova Umanità, secondo un procedimento simile a quello che avrebbe suggerito Condillac con l’esperimento della statua: si deve ricominciare a partire da una natura comune (​
la nuda vita​
...), per poterle attribuire nuove proprietà, sotto forma di diritti ­ dal diritto alla vita (alla proprietà, alla fede, all’opinione) sino al diritto alla felicità. Un processo di umanizzazione che non è ancora giunto al termine, anzi che propriamente non ha fine, se “​
Umanità é il patrimonio e il risultato di tutti gli sforzi umani, é per così dire l'arte della nostra specie. L'educazione all'umanità é un'opera che deve essere continuata incessantemente​
” (J.G.Herder, ​
Lettere per il promuovimento dell'umanità 1793­1797). 4. Le disavventure dell’Umanità Il duplice cammino della Natura e dell’Umanità è ben esemplificato dall’episodio che ricorda Carlo ​
Rovelli​
, allorché, agli inizi del Cinquecento, il gesuita Matteo Ricci poté illustrare le proprie conoscenze astronomiche alla corte dell'imperatore cinese Wan Li, che vantava già un'antica tradizione di calcoli e osservazioni celesti. Gli astronomi imperiali non erano tanto interessati ai nuovi strumenti (sfere armillari e sestanti) quanto alle nuove teorie, ad esempio quella secondo cui la Terra fosse sferica e non piatta, come credevano. Con le nuove osservazioni dei cieli sotto la guida di Ricci non poterono che cambiare idea e riconoscere la sfericità della Terra. Rovelli racconta l’episodio per sostenere che la realtà è tale per tutti e ovunque, tant'è che s'impone da sé, ma non riconosce che ciò poté accadere perché i cinesi e gli europei riconoscevano gli uni negli altri una comune umanità, basata su una lunga consuetudine di frequentazioni e commerci (risalente almeno a Marco Polo, per non dire degli antichi romani) nonché su un sapere plurisecolare (anche per la ​
Cina​
) e già molto simile, in quanto, ad esempio, disponevano entrambi di strumenti d’osservazione e 3/4 dettagliati cataloghi di corpi celesti, rispetto ai quali la forma della Terra era solo uno specifico oggetto di disputa. Tant’è che il cammino dell'Umanità universale non è sempre stato cosi lineare. Negli stessi anni dei viaggi di Ricci in Cina, la conquista delle Americhe fu segnata da violenze e brutalità, che poi si sarebbero ripetute con lo sfruttamento coloniale dell'Africa sub­sahariana nel XIX sec. e oltre. D'altra parte, anche una volta riconosciuta, l'Umanità comporta un'astrazione dalle differenze culturali che può suscitare reazioni di radicalizzazione di tali specificità. Eppure, occorre osservare come tale astrazione sIa temporanea (dal momento che, una volta riconosciuta la natura comune, dà vita alla proliferazione di nuove differenze, espresse dalle libertà fondamentali ricordate prima: di fede, proprietà, opinione, circolazione ecc.) e parziale (dal momento che solo alcune specifiche differenze non sono più consentite, ovvero tutte le istanze intolleranti, solitamente religiose, le quali tendono, loro sì, a uniformare a sé ogni altra differenza e a sopprimerla). Forse, il fatto che l'Umanità tenda a dimenticare il proprio cammino (dal cosmopolitismo all’​
humanitas​
, dal Giusnaturalismo ai Lumi) determina che poi si trovi in difficoltà di fronte alle istanze deumanizzanti (che ricostruiscono umanità minori, circoscritte), che si scopra vulnerabile alla contraddizione secondo cui la tolleranza dovrebbe accettare anche le espressioni dell’intolleranza. 5. Il paradosso della Natura Dal momento che le concepisce come universali, chi frequenta la Natura e l’Umanità tende a non interrogarsi sull’operazione storica e contingente che le ha prodotte. Oblio di sé e paradosso che si manifestano quando Carlo Sini mostra come lo scienziato non possa interrogarsi sulla scienza in quanto l'ha già sempre presupposta (se lo facesse, impiegherebbe gli stessi strumenti e gli stessi metodi che sono oggetto dell'indagine, mentre dovrebbero essere spiegati), mentre, al contrario, sarebbe il filosofo a sottoporsi a questa domanda, che chiede conto delle condizioni di possibilità e dell’origine del suo stesso domandare. Ciò non significa che il filosofo sfugga al paradosso dov’è intrappolato lo scienziato, essendo anch’esso condannato a utilizzare gli stessi metodi e strumenti (i discorsi) che sono propri dell’indagine stessa, solo Il filosofo non cerca di sciogliere la contraddizione, semmai sprofonda in essa, vi prende dimora, per così dire, l’accoglie per poterla comprendere. In questo modo, si potrebbe tentare una descrizione del metodo filosofico (come il tentativo di esaustione dei propri oggetti d’indagine, fino alla domanda che ricorsivamente chiede conto di sé) e del suo carattere sperimentale (per cui il filosofo vive su se stesso l’esperienza paradossale del sapere) dove le questioni dell’umanità (della persona, del corpo, dell’individuo) sono un banco di prova decisivo. [Giovanni Fanfoni, 19/2/2016] 4/4