Underhill_Call_of_the_Mall

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Underhill_Call_of_the_Mall
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IL RICHIAMO
DEL
CENTRO
COMMERCIALE
PACO UNDERHILL
Simon & Schuster © 2004
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Paco Underhill, Il Richiamo del Centro Commerciale, Simon & Schuster,
2004; Titolo originale: The Call of the Mall – Estratti e traduzione a cura
di Fabrizio Bottini
[…] Il buco del topo
LUCIDATEVI gli occhi.
É grosso, bigio e scatoloso. Praticamente senza forma. Cos’altro potrebbe
essere? Ci siamo.
La prima occhiata a qualunque centro commerciale è al tempo stesso uno
sguardo su cosa non va nell’architettura dei centri commerciali in
generale. Dal di fuori, di regola, non danno un’idea chiara di cosa c’è
dentro. Non è una bella cosa.
Sembra che non si sia prestata attenzione a come appare l’edificio al
cliente mentre lui o lei si avvicinano lungo la strada. Nessuno si è sognato
di inventare qualcosa che suggerisca shopping, figuriamoci dirlo in modo
chiaro, o gradevole, o interessante. La bruttezza di gran parte dei cigli
stradali americani è scoraggiante, e i centri commerciali sono i più grossi
edifici mai dedicati all’arte del commercio nella storia del pianeta. Dunque
la loro goffaggine è di statura monumentale e proporzioni mastodontiche.
Perché le cose stiano così, non è un grande mistero.
Nei secoli, i luoghi del commercio sono stati costruiti tendenzialmente dai
mercanti. Che prendevano seriamente la propria responsabilità di attirare
clienti. Creavano ambienti pensati per esporre le loro mercanzie, per dare
alla clientela la sensazione di un attimo, di un avvenimento, di un luogo. Si
può risalire alle antiche storas [sic] greche o ai bazaar e suk dell’era
precristiana, e trovare già un’estetica mercantile operante. Un luogo di
vendita non doveva essere carino o grazioso, né essere realizzato con
materiali lussuosi. In molti casi, era vero l’esatto opposto: un ambiente
dove i prodotti vengono offerti ai prezzi più convenienti deve dare la
sensazione di essere senza fronzoli. Se si è interessati a frutta e verdure
fresca, niente è più promettente di una rozza bancarella sul ciglio della
strada, o di un rustico mercato contadino. Non si vuole che il chiosco di
giornali del quartiere abbia l’aspetto di una leziosa gioielleria, né che un
deposito di legname sembri un fiorista. In ciascun caso, l’aspetto del
negozio deve riflettere la principale attività che ha luogo all’interno.
Diamo un’occhiata a qualunque città Americana che mostri ancora
architetture di prima della guerra: potremo trovare almeno alcuni dei
grossi empori del passato, i grandi magazzini. In molti casi, come a New
York, ce ne sono ancora alcuni esempi: Bloomingdale’s, Saks, Lord &
Taylor. I principi del buon commercio qui spuntano dappertutto, a partire
dall’architettura. L’esperienza dello shopping inizia quando noi, clientela,
vediamo per la prima volta l’edificio. A me, ha iniziato a far scorrere la linfa
dell’acquisto.
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Ma c’è un’altra forza al lavoro. I principi mercanti erano uomini del XIXI
secolo, spinti da ambizione, forza, determinazione a riuscire secondo le
modalità molto concrete dell’epoca. I loro negozi erano degli alter ego, e
questi titani del commercio avevano tutti grossi complessi edilizi. I grandi
magazzini di quei tempi portano il nome del proprietario : Gimbel, Macy,
Wanamaker, Neiman Marcus, Marshall Field. Uomini che erano
contemporanei di figure quail David Rockefeller o Andrew Carnegie,
capitani di industria che hanno lasciato un marchio duraturo sul mondo.
Gli edifici delle banche erano templi a un istinto, i municipi a un altro, i
negozi a un altro ancora. Oggi, le architetture pubbliche esprimono ancora
intenzioni e funzioni - stadi sportivi, biblioteche, alberghi, università – il
loro aspetto di solito cerca di esprimere qualcosa a proposito di quanto
accade all’interno. Al minimo, riescono almeno ad essere diversi l’uno
dall’altro.
Ma poi ci sono i centri commerciali.
In parte, la colpa è della loro storia poco gloriosa. Il mall discende dallo
shopping center, che a sua volta discende dall’umile piccola fila di negozi
di fronte a un parcheggio, prima formula commerciale partorita dal
suburbio. Il principio organizzativo originario della distribuzione ispirato
dalla vita automobilistica, è questa striscia di botteghe – qualche volta
raccolte attorno a un supermarket – con 6-8 piccoli esercizi. C’è una fila di
posti auto sul fronte, con facile rapido accesso e uscita rispetto alla
strada. L’innovazione dello shopping center è di rivoltare le cose, in modo
tale che i negozi non si rivolgano più verso la strada, ma l’uno verso
l’altro: il cerchio dei carri dei pionieri suburbani, per così dire, ora
circondato (anziché fronteggiato) dai posti auto. Da qui, è un passo breve
mettere un tetto sopra il tutto. Questa storia, e il fondamentale girare le
spalle agli occhi del mondo esterno, conducono il centro commerciale alle
condizioni in cui lo troviamo oggi.
I centri commerciali di oggi fanno tristemente poco per segnalarci cosa
accade all’interno. Ciò principalmente per un fatto di scollegamento
interno. Ospitano attività commerciali, ma non sono posseduti, promossi,
costruiti, da commercianti. Sono realizzati da compagnie immobiliari
specializzate. Gli uomini che le dirigono non sono principi mercanti. Sono
quelli che si prendono un rischio: reperiscono gli appezzamenti di terreno,
trovano i finanziatori, ottengono tutte le autorizzazioni pubbliche,
incaricano gli architetti, i costruttori, e via dicendo. Ma fanno soldi
mettendo al lavoro lo spazio. Il loro ferri del mestiere sono un foglio di
lavoro e un buon agente immobiliare. L’obiettivo è trasformare una zolla di
prato suburbana in una miniera d’oro, in qualcosa che generi guadagni
attraverso i canoni d’affitto, e una percentuale sui ricavi, non offrendo
prodotti e servizi. È molto diverso dal modello economico dei loro inquilini,
i negozi. Il mall esiste per contenere negozi: in pratica è un negozio di
negozi. Ma non pensa a sé stesso come a un negozio. Siamo nel cuore di
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quello che manca ai centri commerciali, e che nel corso di questo libro si
ripresenterà più e più volte.
Comunque, siamo qui. Cosa si vede?
“Un grosso muro, con dentro un piccolo buco del topo”, così mi è stata
descritta la caratteristica architettura del centro commerciale: e si trattava
del direttore di progettazione di una delle principali e più apprezzate
imprese specializzate nel settore d’America. Se anche questo operatore si
è adeguato a quella organizzazione corrente, di alte pareti cieche
punteggiate di ingressi anonimi, non stupisce che la gran parte dei centri
commerciali siano delle brutture, almeno dal di fuori. Il valore estetico è
l’ultima cosa che venga in mente quando ci si immagina un mall.
Ecco un problema.
Il fatto che alcuni centri commerciali siano ben progettati, semplicemente
spiega perché tutti gli altri non lo sono. É caratteristico dei centri
commerciali di città avere qualche qualità estetica. Hanno un bell’aspetto.
Penso al Faneuil Hall, di Boston, uno dei più gradevoli angoli della città. É
stato fatto così perché chi l’ha costruito sapeva che sarebbe stato un
simbolo. Chiunque viene a Boston alla fine ci fa una visita. Un altro motivo
per cui i entri commerciali urbani tendono ad essere ben progettati è che
le amministrazioni municipali sono molto brave ad obbligare gli operatori
immobiliari a costruire cose dotate di valore proprio che migliora il
contesto circostante. Avvocati del comune, urbanisti, commissioni di
controllo e uffici tecnici hanno una buona esperienza a estorcere
compromessi che alla fine avvantaggiano tutte e parti. Di conseguenza, i
mall urbani di solito si inseriscono armoniosamente nel quartiere. Ciò
accade in tutte le città del mondo. Lisbona, in Portogallo, ospita uno del
più straordinari centri commerciali del mondo, il Vasco da Gama,
realizzato in modo da sembrare una nave gigantesca. Anche il Diagonal
Mar, a Barcellona, Spagna, riesce a fare di un mall una bellissima cosa. Il
Bluewater, in Gran Bretagna, prima era una cava; a Atlanta, una ex
acciaieria e famigerata zona dismessa contaminata, sta per essere
trasformata nella Atlantic Station, complesso New Urbanist realizzato a
integrare abitazioni, uffici, e commercio. Quindi, per i centri commerciali è
anche possibile far meglio di quanto vanno a sostituire.
Ma immaginatevi cosa succede di solito quando un grosso operatore
comunica le proprie intenzioni a un’amministrazione suburbana. Gran
parte delle amministrazioni locali hanno poca esperienza nell’imporre
accordi di questo tipo, dato che gran parte dei suburbi nel loro arco di
esistenza hanno a che fare con pochi progetti del genere. Anche se
l’amministrazione volesse giocare duro e obbligare l’operatore a spendere
in una buona progettazione, o in qualche extra come un parco o centro
civico, è il proprietario del mall ad avere tutte le carte in mano. É piuttosto
facile spostarsi di qualche chilometro, in un’altra circoscrizione
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amministrativa. Consideriamo ora quanto uno shopping center contribuirà
alle casse di un’amminstrazione suburbana: un grosso centro di scala
regionale può facilmente coprire gran parte dei costi di un sistema
scolastico suburbano. É difficile dire di no, su un problema di qualità
architettonica.
Il Mall of America, il più grande degli Stati Uniti e maggiore attrazione
turistica del Minnesota, può anche essere sembrato bello su un tavolo da
disegno. Ma è invecchiato male dopo l’apertura dell’agosto 1992. Si
possono vedere macchie sull’esterno dell’edificio, e attraverso l’asfalto dei
parcheggi ha cominciato a spuntare l’erba. É enorme e sgradevole. No ci
si potrebbe immaginare Disney World o la Statua della Libertà lasciati
degradare in questo modo. Eppure questo mall ha più visitatori di Disney
World, Graceland, e il Gran Canyon messi insieme.
La prossima volta che siete a un centro commerciale, invece di entrare
direttamente provate a passeggiare lungo il perimetro. Sarà una delle
passeggiate meno divertenti che avrete mai fatto. Sarete soli là fuori, su
una stretta striscia di marciapiede, sempre che ce ne sia uno, di
marciapiede – molti centri commerciali non li hanno – magari con una o
due guardie della sicurezza a farvi compagnia (vi guarderanno da vicino,
dato che qualcuno che cammina attorno a un centro commerciale è, per
definizione, un tipo sospetto). Ci saranno quasi sicuramente degli arbusti,
ben potati, ma si tratta di verde molto generico. Nessuno pensa che lo si
possa mai guardare con qualche attenzione. Il suo unico ruolo è di essere
verde.
L’edificio può anche essere in buone condizioni, a seconda dell’età e della
qualità dei materiali usati, ma la superficie più essere comunque scalfita,
incrinata, scolorata. Nessuno prende troppo sul serio queste cose, dato
che nessuno pensa che si verrà mai qui a piedi a notarle. Si incontreranno
senza dubbio i rappresentanti della nuova classe dei paria d’America: i
fumatori. Si radunano vicino agli ingressi, di fianco a posacenere di
dimensioni industriali. Occasionalmente qui fuori c’è anche qualche
telefonatore cellulare, in cerca del campo ottimale.
Qualche centro commerciale ha delle vetrine davanti ai parcheggi,
qualche altro no. Le vetrine sono un problema in un ambiente del genere,
perché non esiste un vero avvicinamento pedonale all’edificio. Ci si può
arrivare vicino guidando in cerca di un posto per parcheggiare, ma se si
decide di esaminare la vetrina si rischia un incidente. Una volta
parcheggiato, si schizza verso la destinazione: l’interno. Magari piove, o fa
freddo. É facile che ci sia il vento, vista l’assenza di qualunque edificio
vicino. E comunque, qui ci si viene per passeggiare al centro
commerciale, non nel parcheggio. Un negozio può avere le vetrine più
mozzafiato del mondo, ma nessuno ci farà gran caso, in mezzo a un
parcheggio. Tutto accade all’interno.
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Fashion Show, l’ultrascintillante mall di Las Vegas, mostra un esempio
unico di cura per le architetture e gli aspetti visivi a partire dall’esterno. É
uno dei gioielli della Strip, e scusate se è poco. La tecnologia delle
insegne diventa più spettacolare ogni giorno che passa: basta farsi una
passeggiata in Times Square a New York, calamita dei turisti da tutto il
mondo, ed essere testimoni di ogni variante di video digitali su enormi
schermi televisivi, o “nastri” vivacemente colorati di notizie che scorrono
ad alta velocità lungo facciate curvilinee. Le medesime innovazioni ci sono
in qualunque impianto sportivo o sala per concerti rock: siamo una
nazione di sofisticati all’avanguardia quando si tratta di nuove tecnologie
della comunicazione visiva. I nostri occhi sono abituati a cercare l’ultimo
ritrovato.
Naturalmente, è impossibile dimostrare che più attenzione alle architetture
farebbe qualche differenza in un centro commerciale corrente. Alla fin
fine, l’argomento regge: lo spazio del mercato non ha bisogno di una
progettazione migliore, dunque perché spenderci dei soldi? Almeno,
questo nel breve periodo. Oggi, con la maggior parte dei mall americani
con un’età di oltre vent’anni, il problema di cosa fare dei centri che
invecchiano si porrà presto. Se gli edifici avessero qualche valore in sé,
probabilmente li restaureremmo, salvando almeno quelli che lo meritano.
Ripristiniamo e ri-usiamo molte strutture collettive, come ex uffici postali,
alberghi, biblioteche, anche chiese. Ma la gran parte dei centri
commerciali sono troppo brutti e banali da meritarsi questo sforzo. Sono
stati progettati per servire a uno scopo, niente di più, e una volta che non
servono più, devono essere demoliti, sostituendoli con ... non saprei.
Magari qualcosa di peggio.
Adesso dobbiamo trovare un posto per parcheggiare.
Capo, dov’è la mia macchina?
BENE, ADESSO ci siamo davvero. Quasi davvero, direi. Dobbiamo
ancora parcheggiare.
Dato che l’America vive con l’automobile, viviamo anche di fianco alla
piazzola del parcheggio. Quando si ruminano tutte le motivazioni che
hanno spinto gli abitanti delle città verso il suburbio, spesso si trascura la
promessa di parcheggiare senza fatica. Immaginatevi l’ordalia quotidiana
dell’uomo primitivo, più o meno nel 1950, allora quando le strade urbane
pensate per il traffico di cavalli e carri diventarono il luogo delle famiglie
del baby boom con le loro due – o tre - macchine. L’irresistibile tentazione
del poter smettere con lo sport sanguinario e notturno del parcheggio in
seconda fila, di non dover più vagare senza fine aspettando che qualche
altro automobilista si spostasse, è stata una componente di quanto ha
ispirato la fuga dalla città. Non solo tensioni razziali o aspirazioni di
classe. Pura comodità. L’avere un garage, o soltanto un vialetto proprio,
era un dono del cielo.
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Cercate di immaginare un’istituzione suburbana come il centro
commerciale senza il parcheggio. É impossibile.
Il mall comincia davvero all’ingresso del parcheggio. Mentre ci si avvicina,
c’è sempre quel momento di attesa per vedere se è pieno, vuoto, o
qualcosa di intermedio. Dà il tono alla giornata. Godersi un passaggio
liscio dalla strada all’ingresso è una manna. Trovare un intoppo, significa
cominciare la giornata di shopping sotto una cattiva stella.
Una volta entrati nel piazzale, si può girare con la macchina tutto attorno
all’edificio senza trovare un ingresso che si annunci esplicitamente come il
“principale”. Possono esserci parecchie porte senza pretese a intervalli
regolari, nessuna contrassegnata in modo tale da avvertire di cosa sta lì
dentro. Oppure, si può prendere la strada più facile, e entrare da uno dei
grandi magazzini. Anche se esiste un ingresso del mall che dà l’idea di
essere il principale, può darsi che non sia quello usato tutti, o nemmeno
dalla maggioranza, dei clienti. Abbiamo studiato molti casi dove c’è una
porta usata solo da chi non ha dimestichezza con quel centro. La
chiamiamo ingresso dello “straniero”. Ma normalmente non è la porta
scelta da chi conosce bene quel mall.
In realtà, la progettazione dei centri commerciali riflette la medesima
mancanza di gerarchia che affligge gli stessi suburbi. Le città si
organizzano per distretti: il centro, le fasce esterne, la zona degli affari, le
case dei ricchi, quelle del ceto medio, quelle dei poveri, la zona buona
della città, quella meno buona, eccetera. Uno schema che si è evoluto nel
corso dei secoli, e quindi tutti lo riconosciamo al primo sguardo.
Il suburbio è in gran parte una fuga dalla struttura urbana: esistono isole di
abitazioni con commercio a sufficienza per servire gran parte dei bisogni
locali, e poi altre strutture sufficienti (scuole, stazioni di polizia, pompieri,
chiese, cinema) a farlo funzionare. Il centro commerciale riflette questa
assenza di gerarchia. Una unica entrata principale andrebbe contro
l’ideale automobilistico suburbano, che detta come si debba sempre
riuscire a parcheggiare il più vicino possibile alla propria particolare
destinazione. Dunque, invece di concentrare i migliori posti auto in una
zona, essi formano un anello attorno all’edificio. Le priorità di parcheggio
dell’uno sono diverse da quelle dell’altro. Si consente una libertà di scelta
davvero americana, espressa in forma di caos architettonico e spaziale.
Quando si sceglie una piazzola per parcheggiare al centro commerciale,
ci sono quattro priorità da giocarsi:
1. Si vuole un punto che sia facile da raggiungere quando si arriva.
2. Si vuole un posto vicino al mall.
3. Si vuole un posto vicino all’ingresso che conduca poi il più direttamente
possibile alla prima destinazione all’interno.
4. Si vuole un punto che sia rapido e facile da raggiungere quando si
vuole andarsene.
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La priorità assoluta fra le quattro è probabilmente quella di parcheggiare
entro meno di venti metri dall’ingresso preferito, specialmente quando fa
freddo, caldo, piove, ma anche quando c’è bel tempo. Nessuno si diverte
a fare una primaverile passeggiata attraverso il parcheggio di un centro
commerciale.
Quando si fa shopping in città, arrivare a destinazione è una parte
piacevole della cosa e può risolversi in gradite sorprese lungo la strada.
Veniamo bombardati da una quantità di informazioni quasi senza
accorgercene, percorrendo una strada di città. Vediamo le vetrine di altri
negozi, naturalmente, ma possiamo anche studiare come si vestono le
persone, come portano i capelli, che tipo di cani portano al guinzaglio.
Niente di tutto questo, in un parcheggio di centro commerciale.
Ho passato molto tempo fuori nei parcheggi, e non solo nella mia auto.
Spesso, quando inizio una consulenza per una catena commerciale o un
costruttore, mi trascino qui i dirigenti. Di solito sono sconcertati: Aspetti un
momento: i negozi sono là! Ma io insisto. Con tutta la loro conoscenza ed
esperienza, ci sono pochi imprenditori o dirigenti che capiscano quanta
parte dell’esperienza del cliente avviene nel parcheggio. I medesimi
responsabili che sarebbero esterrefatti da piccole manchevolezze nella
comodità del cliente all’interno, non dedicano nemmeno un attimo a
quanto accade qui fuori.
“Non possiamo semplicemente andare nell’ufficio di vigilanza e guardare il
parcheggio sugli schermi video?” mi è stato chiesto.
“Non è la stessa cosa” rispondo. E così scarpiniamo tutti qui fuori. Faccio
marciare i miei prigionieri fino all’angolo più lontano del piazzale, e li
faccio restare lì un minuto. Parte della mia missione consiste nel mostrare
loro il mall così come lo vede il cliente al primo incontro. Voglio che
sperimentino il ruolo di insegne e vetrine in condizioni normali.
Se il centro commerciale dedica tante cure a come l’utente fa esperienza
del luogo, deve dedicare un po’ di denaro e impegno anche per il
parcheggio. Appena si accede dalla strada si dovrebbe trovare qualcuno
che accoglie l’auto: un responsabile del traffico. Lui sarebbe il boss, con
due o tre ragazzini a tempo parziale che girano a informare gli
automobilisti sui posti liberi, il traffico si muoverebbe in modo fluido, e ci
sarebbe una sensazione generale gradevole di ordine.
Ma non succede niente di tutto questo. Sono stato in un certo centro
commerciale il sabato prima di Natale, col traffico delle dieci di mattina
completamente bloccato e gli umori arroventati. La gestione del centro
resta indifferente. Ci dice trovatevi un posto, combattete la vostra
battaglia, e poi entrate. I gestori di mall credono di controllare i parcheggi
installando telecamere di sorveglianza. Come vi racconterà qualunque
funzionario di polizia, controllo significa visibilità. Per gran pare del tempo
non ci sono grosse questioni, ma sull’arco dell’anno ci sono trenta giorni di
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apertura in cui lo spazio raggiunge la saturazione. In quei giorni, un po’ di
aiuto farebbe molto.
Abbiamo tutti un nostro particolare stile di parcheggio: un altro modo di
esprimere chi siamo. Alcuni temperamenti filosofici si accontentano di
parcheggiare negli angoli più lontani del piazzale e scarpinare attraverso; i
guidatori più competitivi vanno a caccia dei posti migliori, addirittura
seguendo chi esce dal centro commerciale dirigendosi verso la propria
auto. Avevo una zia che si rifiutava di mettere la macchina dove avrebbe
dovuto uscire in retromarcia.
Poi c’è anche la questione di come troveremo l’auto al momento di
andarcene. Quanti di noi fanno poco caso al contrassegno del
parcheggio? Le ricerche mostrano che le persone memorizzano il luogo a
seconda dell’età e del sesso. Gli uomini preferiscono lettere e numeri. Alle
donne piacciono i colori. Ai bambini i simboli: animali o frutti. Per ogni
volta che ho memorizzato il mio contrassegno, ce ne sono parecchie in
cui ha vagato senza meta cercando la mia carretta. In queste occasioni,
cammino fila dopo fila di macchine schiacciando il telecomando mentre
borbotto, “Dai, Greta [ho battezzato così la mia Audi], dove sei?” In un
centro commerciale fuori Houston, dopo un’ora alla ricerca dell’auto presa
in affitto, ho iniziato a dubitare della mia salute mentale. Ho perso l’aereo,
quella volta. La Hertz dovrebbe installare qualche tipo di apparecchio far
trovare le macchine. Un aggeggio a cui mi affezionerei per sempre.
I centri commerciali considerano i parcheggi come un male necessario.
Vorrei che i costruttori notassero come talvolta si faccia un uso
straordinario, creativo di quelle grandi distese di asfalto. Quello più
evidente è una cosa nota alla maggior parte degli appassionati di sport:
riunioni automobilistiche e picnic nel parcheggio dello stadio. In alcuni casi
si tratta di cose decisamene lussuose, con grigliate alla carbonella e
refrigeratori di Champagne organizzati in mezzo a camper, furgoncini e
fuoristrada. La Ford ora produce un furgone con la possibilità di installare
lavandino e cucina a gas.
Questo campeggio di automezzi sull’asfalto è stato ben sfruttato dalla
Wal-Mart. Per l’orrore di tutti i gestori di strutture organizzate degli Stati
Uniti, il gigante commerciale ora consente ai camper di parcheggiare di
notte nei suoi piazzali. Si tratta di una mossa geniale: il pernottatore usa i
bagni del negozio la mattina, ma spende anche soldi quando compra da
mangiare, abbigliamento, o altre scorte. Il circuito delle corse NASCAR ha
reinventato un’altra vecchia tradizione commerciale: il carro del venditore
ambulante. Nei giorni delle gare, ci sono dei grossi furgoni che si
sistemano nel parcheggio, trasformandosi in negozi con vari prodotti, che
fanno arrossire di vergogna il vecchio furgone “roach coach” (il mio
termine preferito per definire il chiosco dei panini).
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Il concetto del negozio mobile all’aria aperta ha dei meriti. Il migliore
esempio che conosco è il tendone per la vendita di tappeti di alta qualità.
Lo usano con profitto Bloomingdale’s Home Store e altri. Si monta un
enorme tendone in un piazzale a parcheggio, con dentro ammucchiati i
tappeti, e per una settimana o due là dentro il negozio conduce quella che
poi rappresenta una enorme percentuale del suo fatturato annuo di quel
settore. Dimostra che nelle condizioni giuste in un parcheggio si può
anche vendere un prodotto sofisticato e costoso.
Alcuni supermercati sono grandi utilizzatori del parcheggio. D’estate, si
trova un piccolo negozio di beni di prima necessità organizzato lì, magari
sotto un telo per proteggere chi sta alla cassa da un colpo di sole. Non ci
sono le solite cose da negozietto, tipo latte, birra, aspirina. Si trovano
invece sacchi di carbonella, attrezzi da barbecue, sedie da giardino,
ombrelloni, pistole a acqua, insetticida spray, crema solare, e altri
accessori da estate suburbana. Sono le cose che ci vengono in mente
soltanto all’ultimo minuto, e quel mercatino ci salva il fastidio di tornare
indietro a rifarsi tutto il supermercato a prendere qualcosa di essenziale
per un sabato pomeriggio. Se si è venuti qui senza alcuna intenzione di
comprare cose del genere, quel ministore lì davanti è un potente
promemoria.
La cosa frustrante per me, come ricercatore, è che certo si tentano delle
innovazioni per quanto riguarda il parcheggio, ma sempre caso per caso,
senza tentare di verificare cosa funziona, e cosa no. Le vie principali dei
piccoli centri sono morte, e i più importanti e prevedibili luoghi di incontro
in molti casi sono diventati i parcheggi del grande shopping center. É un
fenomeno da cui trarre vantaggi, non da ignorare, o da scoraggiare.
Qualche anno fa facevo parte di un piccolo gruppo di lavoro costituito per
aiutare lo Zoo di Phoenix a immaginare il proprio futuro. Il direttore ci
caricò sul pulmino dello zoo, tutto verniciato in aerografia con animali a
colori. Mentre entravamo nel parcheggio, stava guidando verso il suo
posto solito, davanti all’ingresso principale. Gli chiesi invece di fermarsi in
mezzo al piazzale vuoto. Mentre ci stavamo allontanando, due macchine
si fermarono facendo fischiare le gomme, mentre un gruppetto di ragazzi
correva a curiosare da vicino.
“Se avete un cartellone” ho detto al direttore “usatelo”.
Un problema diffuso in tutto il commercio suburbano era quello dei
dipendenti che arrivano presto, e si prendono tutti i posti per parcheggiare
migliori. Ormai, la maggior parte dei negozi riconosce questo problema, e
dà indicazioni agli addetti perché si sistemino lontano dall’ingresso
principale. É raro, che si presenti il problema opposto. Di recente col mio
studio di consulenza abbiamo lavorato su una cosa che si trova soltanto
nell’America rurale: la catena Farm & Fleet. Un gruppo regionale con
enormi punti vendita – diecimila metri quadrati e oltre – rivolti a coltivatori
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e altre attività rurali. Si ammucchiano enormi quantità di prodotti vari, dai
jeans agli stivali da cowboy di qualità, al filo spinato o ai finimenti per
l’asino. Lì, in mezzo al nulla, quei negozi sono circondati da parcheggi
infiniti. I terreni in campagna sono ancora economici.
Il problema, è che questi piazzali spesso appaiono sconsolatamente vuoti.
Il negozio che abbiamo studiato naturalmente chiedeva ai dipendenti di
parcheggiare sul retro. In questo modo, quando ci si avvicinava al mattino,
i piazzali apparivano deserti, non si era nemmeno sicuri che il magazzino
fosse aperto. Il nostro consiglio è stato di spostare il parcheggio dei
dipendenti sul fronte, verso la metà del piazzale: si lasciavano i posti
migliori ai clienti, ma si segnalava alle auto di passaggio che il negozio era
aperto.
Hey! Cosa ve ne pare di quel posto? Sta vicino a un ingresso al centro
commerciale senza segni particolari, un buon punto da cui entrare nel
ventre della bestia. Aiutatemi a ricordare dove ci troviamo: E6, E6, E6,
memorizzato, E6, andiamo. […]
Nota: su Eddyburg/Territorio del Commercio vedi anche la traduzione del
commento di Sandra Tsing Loh al libro di Paco Underhill da Atlantic
Monthly giugno 2004 (f.b.) http://eddyburg.it/article/articleview/1249/1/149/
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