Monete - Gruppo Carige

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Monete - Gruppo Carige
EURO
Monete:
dall’età
del bronzo
alla
Repubblica
romana
Corrado Sesselego
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Parlare nell’età del bronzo
di un’unica moneta, una specie
di archeo-euro, che valesse come
unità di rapporto tra i vari sistemi
di valutazione dei beni
nell’antichità è estremamente
affascinante, soprattutto oggi
che siamo di fronte alla moneta
unica europea, dopo diverse
manciate di secoli
in cui le valute prendevano
l’una campo sull’altra.
EURO
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EURO
In questa pagina
e a fronte in alto
Ascia di bronzo, antica
unità di misura monetaria.
A fronte in basso
Aes Signatum, gr 1750 ca.,
III sec. a.C.
SOLDI, CAMBI E PREZZI
NELL’ETÀ DEL BRONZO
sisteva davvero il lingotto
di lapislazzuli che permetteva il dialogo economico
tra i diversi popoli che abitavano il
Medio-Oriente antico e che commerciavano incessantemente tra
loro esportando ed importando sia
beni fondamentali che di lusso?
Se sì, come sembra essere dimostrato, qual’era veramente il valore intrinseco di tale lingotto?
L’Oriente antico era un patchwork
di etnie diverse con usanze diverse, religioni che convergevano in
alcuni punti e divergevano enormemente in altri. Una congerie di
lingue, di intenzioni e di motivazioni sociali ed economiche si intrecciavano su un territorio che
andava dalla Mesopotamia all’Egitto, all’Anatolia, alla Costa orientale del Mediterraneo.
In questo mondo esistevano sistemi di misura dei beni, differenti per
peso e frazionamento che permettevano lo spostamento dei beni
stessi e dovevano trovare un punto di contatto, un dialogo economico capace di definire senza equivoci il valore di una merce e permettere il cambio di proprietà senza che si provocassero inimicizie e
guerre. Se da un lato si accetta la
scoperta dell’archeo-euro dall’altro
si devono fare i conti con un sistema di rapporti economici estrema-
E
mente complesso e frammentario.
Se consideriamo la moneta come
unità di scambio e non il baratto,
l’ambiente nel quale ci troviamo
ad operare non è quello dei “liberi
mercati”, ma quello delle grandi
unità statali e religiose, sovrani e
templi, che muovevano grandi
quantità di risorse e di capitali e le
cui scelte erano dettate sia da ragioni economiche che da motivazioni politiche. In questo contesto
funzionava un sistema di forte accentramento delle risorse che poi
venivano ridistribuite alla popolazione, in genere sotto forma di
frumento, lana e olio.
In questi casi la lira, il marco, il
franco, che circolavano nelle tasche dei cittadini erano composti
di chicchi, pezze o “aureo denaro
liquido” che si scambiavano per
ottenere altri beni di consumo,
quali spezie, sale o cuoio.
Sul piano internazionale, la situazione si faceva estremamente più
complessa ed era regolata principalmente da rapporti numerici
stabiliti dal sovrano e dalla sua
burocrazia che tenevano fermamente in mano gli andamenti economici dello Stato.
Non c’è stato sovrano in quel
tempo che non abbia avuto da dire la sua in termini di distribuzioni
e di fisco e che non abbia apportato ritocchi personali al rapporto
argento/frumento, su cui si basavano le economie antiche.
Ugarit è un esempio significativo il
cui insieme di valori proporzionali
può essere fatto risalire alla più
antica età del Bronzo: un Talento
valeva sessanta Mine e una Mina
cinquanta Sicli. Complessivamente, quindi, il Talento corrispondeva a tremila Sicli come accadeva
anche nel Regno di Israele e differiva da quello Mesopotamico
che ne valeva 3600. Il suo peso
poi era di 9, 29 g e corrispondeva
ad una qtd egizia.
Dall’altro lato, Ugarit conosceva
un’altra suddivisione della Mina in
quaranta Sicli, più vicina al sistema ittita: ogni Siclo era del peso
di 11, 75 g. Ugarit e l’impero ittita
condividevano dunque, in termini
ponderali, il Talento e la Mina ma
si rapportavano in una relazione
di 4:5 quando si veniva ai Sicli.
La cosa si faceva ancora più complicata quando entrava in gioco
Karkemish. Qui la Mina di 470 g veniva suddivisa in sessanta Sicli di 7,
83 g, in rapporto di 5:6 con Ugarit.
Questi rapporti poi perduravano
nel tempo, perché la moneta nsp
e il Siclo, diffusi nel territorio Filisteo, eredi rispettivamente del Siclo Ugaritico e Ittita, conservavano lo stesso peso ed il medesimo
rapporto di 4:5. Si potrebbe andare avanti, ma il punto è ormai assolutamente chiaro: esisteva tra
le monete in uso nell’area, un sistema di rapporti prestabiliti che è
possibile estrarre dagli archivi di
palazzo di quegli stessi luoghi che
denota una pianificazione nel
cambio per permettere il flusso
continuo delle merci, stabilito in
modo piuttosto rigido dall’autorità
centrale. Il sistema contribuiva a
far prosperare l’economia, sebbene soggetto a variazioni di prezzo
e ad ondate inflative, come accadde in Assiria nel 712 a.C., sotto Sargon, durante il regno del
quale il valore dell’argento si era
parificato a quello del bronzo per
la grande quantità di metallo prezioso razziato in Cilicia.
Siamo in un mondo di forte accen-
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tramento economico, essenzialmente basato sulla ridistribuzione
della ricchezza da parte della casta dominante, responsabile, essa
stessa, della politica economica internazionale. Su questo piano esisteva un unico complesso di rapporti tra unità ponderali di diversa
origine che veniva rigidamente
preservato dal potere centrale di
ciascuna unità nazionale.
È probabilmente in questo quadro
che si inserisce il proto-euro di lapislazzuli identificato da Menderos e Lamberg-Karlovsky.
Il suo peso, come unità di scambio
è probabilmente duplice. Da un lato
consiste nel fatto che tutte le civiltà
di riferimento riconoscevano la preziosità di questa pietra: per gli Egizi,
di lapislazzuli erano fatti anche i capelli degli dei. Dall’altro entriamo,
probabilmente, in un ambito particolare tipico delle culture antiche in
cui il valore intrinseco di qualcosa è
definito anche dal suo valore in
quanto dono. È una riflessione che
non deve stupire e gli esempi sono numerosi. Uno in particolare,
degno di considerazione, è la pelekys, l’ascia di bronzo.
Siamo nel VII sec. a.C. e in Asia
Minore si compie il passaggio definitivo dalla valutazione economica basata sull’oggetto di pregio
all’introduzione vera e propria della moneta, che poi è fondamentalmente il lingotto di metallo prezioso contrassegnato di cui si garantiscono peso e lega. La moneta
stessa però non è che l’erede
dell’artefatto di pregio, l’agalma, il
bene speciale, il cui valore economico, sociale e religioso cresce
via via che passa da un uomo ad
un altro. La moneta si differenzia
da questo solo perché mantiene
costante il proprio valore nel tempo e contemporaneamente rimane circoscritta ad un ambito specifico, molto più ristretto di quello
dell’oggetto di pregio. Non tutti infatti le riconoscono lo stesso valore che si riconosce ad un lebete o
ad un elmo di buona fattura. Que-
sti stessi oggetti però, che originariamente erano agalmata, assumono progressivamente un valore monetale di valutazione dei
beni. Tripodi e lebeti hanno questa funzione nelle iscrizioni sul
Pythion di Gortina.
Caso simile può essere definito
per la pelekys. L’ascia di Cipro
aveva un valore ponderale di 4
Mine, quella di Creta di 6 o 10. Alla fine del VI sec. a.C., il decreto
di Spensithlos stabilisce la quantità annua della carne secondo il
peso della pelekys.
L’ascia però non nasce come unità
ponderale, ma come agalma. A Tenedo, la asce erano materiale di
scambio, simbolo religioso, strumento per l’esecuzione del sacrificio
e delle condanne. Aristotele ne parla, ricordando le pelekeis dedicate a
Delphi da Periclito di Tenedo.
Come unità di misura monetaria,
l’ascia comincia ad agire in maniera incisiva su base locale, all’interno di quelle comunità che ne riconoscono il suo valore monetario,
ma, all’esterno, non perde del tutto il suo significato come agalma.
È ovvio che il fenomeno di valutazione del bene tramite un’unità
ponderale era decisamente in
espansione, fino ad imporsi in maniera decisiva sui mercati.
Non è improbabile che il lingotto
di lapislazzuli, se ne riconosciamo
il valore di mediatore tra sistemi
monetari antichi, abbia esordito
come la pelekys, come un bene il
cui valore veniva universalmente
riconosciuto, scambiato e donato,
e che sia passato da manufatto o
pietra grezza a unità con un peso
riconoscibile, imponendosi come
strumento di relazione tra le “valute” nazionali di centri geografici
ed economici diversi, ma senza
mai sostituirsi ad essi.
Per contro è anche vero che in un
ambiente dove battere moneta era
una prerogativa del potere centrale,
fonte di autorità e propaganda, non
si poteva fare più di così. D’altronde
siamo solo nel II millennio a.C.
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LA REPUBBLICA ROMANA:
DALLE PECORE ALL’ARGENTO
ella società romana arcaica l’economia era basata sull’azienda familiare secondo un principio di sussistenza e un margine di mercato
estremamente basso.
Il mercato stesso era basato sul
bestiame che in massima parte
veniva barattato. Il termine latino
pecunia, piuttosto antico e che noi
usiamo ancora oggi per indicare il
denaro, deriva probabilmente da
pecus, appunto bestiame.
Parlando in termini più generali,
già nel V secolo, periodo in cui
Atene viveva il suo massimo
splendore, e forse anche prima,
esisteva in Italia Centrale un rudimentale sistema di scambio, basato sui metalli, che fungeva a mo’ di
pietra di paragone standard per gli
scambi tra popolazioni della zona.
Il primo a riferirne è Plinio nella
Naturalis Historia che chiama questa moneta primitiva, il cui valore
di scambio non consisteva tanto
nella quantità di materiale prezioso
che conteneva quanto piuttosto
nel suo peso, Aes Rude.
Questo tipo di Aes era un blocco
di bronzo non lavorato, totalmente
privo di forma il cui peso era più o
meno standardizzato.
Non è poi da escludere che, come
in altre parti dell’Europa Meridionale, circolasse bronzo forgiato ad
anello o ad ascia, la cui forma e
quindi il peso erano riconoscibili a
vista.
Il passo successivo nell’evoluzione
della moneta non tascabile dei romani è l’Aes Signatum, un lingotto
di bronzo, di cui lo stato garantiva
peso e qualità della lega attraverso
un proprio contrassegno sul blocco stesso. Questo nuovo sistema
cambiava relativamente poco la
realtà commerciale appena descritta e serviva principalmente per
spese di dimensioni rilevanti che
venivano pagate in lingotti.
L’ultimo passo nell’evoluzione di
N
Aes Signatum, III sec. a.C.
Statere in oro, VI sec. a.C.
Moneta aurea, prima del VI sec. a.C.
Siclo in argento, I sec. a.C.
Quinarius bronzeo, III sec. a.C.
questo sistema monetario è rappresentato dall’Aes Grave che già
contiene tutti i principi fondamentali della produzione di moneta.
In quest’ultimo caso il sistema di
valutazione del peso era basato su
una scala duodecimale e si basava sull’unità di 1 libbra e su tutta
una serie di decimali che andavano dal Semis, mezza libbra, fino
alla singola oncia.
Questa “moneta” tipicamente romana ebbe una diffusione unicamente locale e non venne mai impiegata nelle transazioni con le
città della Magna Grecia, le quali
avevano già un sistema monetario perfettamente evoluto e un’
economia imprenditoriale e commerciale di tutto rispetto.
Nel frattempo, però, Roma stava
muovendo i primi passi per trasformarsi, in meno di due secoli,
da centro pastorale a centro di
potere mondiale.
Siamo nel 269 a.C.: Plinio, molto
più tardi fisserà questa data per
stabilire la nascita del Denarius,
la moneta che per la sua versatilità sarà la regina del sistema monetario romano.
A quel tempo Roma, aveva già affrontato la guerra contro Taranto
e Pirro, re dell’Epiro, famoso tattico e stratega militare, battuto a
Benevento nel 275 a.C. Il Console Curio Dentato sfilò a Roma con
gli elefanti del re dell’Epiro.
La vittoria ebbe conseguenze importanti, la più significativa delle
quali fu che Tolomeo Filadelfo, sovrano dell’Egitto, riconobbe il prestigio internazionale di Roma ed inviò
un’ambasceria per instaurare rapporti di amicizia. Taranto ebbe l’autonomia “alla romana”, potendo
mantenere un proprio esercito e
una flotta, battere moneta e conservare le proprie fortificazioni, ma dovette accettare un presidio romano
e promettere di fornire truppe e navi. Molti altri presidi furono posti in
altrettante città del sud Italia.
Roma era adesso in una posizione
contraddittoria. Permetteva ad altri
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di battere moneta, accumulava ricchezze, otteneva tributi e non aveva un sistema monetario degno di
questo nome. Il primo esperimento
venne fatto nel 269 a.C. con l’emissione di una moneta d’argento e un
tentativo di fissare il valore di
scambio tra l’argento e il bronzo.
Tramite i suoi stretti rapporti con il
mondo della Magna Grecia, Roma mise in circolazione la Didracma, una moneta con evidenti caratteristiche greche a cui vennero
affiancate frazioni bronzee che
ebbero forti oscillazioni di cambio
fino al 187 a.C., anno in cui il Denarius venne a portare un po’ di
pace nel travagliato sistema monetario romano.
Queste modificazioni, tuttavia,
non portarono alla sparizione definitiva dell’Aes Grave che continuò
ad essere in uso ancora per diverse decadi.
Nel frattempo Roma passava attraverso il torchio delle guerre contro Cartagine che prosciugarono
completamente le sue risorse
umane e finanziarie: flotte intere
erano state costruite e decine di
migliaia di uomini erano morti. Nel
249 a.C. i Romani dovettero fermare la guerra a causa delle ingenti perdite: 35.000 uomini solo
nel corso di quell’anno e 103 navi
gettate al vento per inesperienza
nella navigazione.
Nel 247 a.C. la guerra era costata
complessivamente 100.000.000 di
Denarii, anche se questa moneta
ancora non esisteva. Le spese, generalmente, venivano coperte con le
rendite delle province, con le indennità di guerra e con il prestito forzoso che veniva imposto ai cittadini e
agli alleati, che tuttavia non potevano contare loro stessi su grandi risorse, avendo principalmente un sistema economico a scarsa concentrazione di capitali. I costi erano comunque destinati ad aumentare per
tutto il corso delle Guerre Puniche.
Nel periodo di pace tra il I e il II
conflitto contro i Cartaginesi, che
poi pace non fu, e durante il conflit-
EURO
Chiusura di tomba con monete incastonate nell’intonaco. Roma, Catacombe di Panfilo.
Alcuni esempi di Aes Grave
(a sinistra al centro)
e di Aes Rude (a destra
e a sinistra in basso).
EURO
Aes Grave e Victoriatus.
Siclo in argento, VI sec. a.C.
Denarius di Silla, I sec. a.C.
Quinarii di Pirro, I sec. a.C.
Denarius di Silla, I sec. a.C.
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to contro Annibale, la monetazione
romana fu aperta alla sperimentazione e portò all’immisione di nuove monete, che in molti casi ebbero vita breve e a nuovi rapporti di
cambio tra l’argento e il bronzo.
Tra il 222 e il 205 i Romani introdussero il Quadrigatus (che essenzialmente corrispondeva alla
Didracma) e il mezzo-Quadrigatus,
ridussero ancora il peso dell’Aes e
immisero due monete d’oro, lo
Statero e il mezzo-Statero che in
periodo di pace non avrebbero potuto durare.
Il prosciugamento economico della
guerra colpì violentemente anche il
Quadrigatus, composto quasi di
argento puro, il cui peso venne dimezzato con le conseguenze che
possiamo immaginare. La moneta
stessa sparirà definitivamente dopo la fine delle Guerre Puniche.
Nel 205, i Romani sostennero il
proprio sistema monetario con l’introduzione di un nuovo conio in argento, il Victoriatus, immesso al
peso del mezzo-Quadrigatus, non
più in uso, che rimase la moneta
d’argento in circolazione fino all’introduzione del famoso Denarius.
Nonostante la confusione, le incertezze e i mutamenti nei rapporti di
cambio, l’introduzione di nuove
monete si rese necessaria a causa
di circostanze eccezionali e mutamenti economici: l’afflusso di ricchezze dalle colonie o i deficit di
guerra, l’apertura e la chiusura frequente di mercati e i continui cambiamenti di flusso nelle circolazione dei capitali. Mutamenti consistenti che erano avvenuti in tempi
relativamente brevi.
In questo frangente, i Romani si
erano posti due obbiettivi primari:
la realizzazione di un sistema di
cambio stabile, basato sul valore
della moneta bronzea come frazione della moneta d’argento, e
l’istituzione di un sistema monetario fondato sul conio.
Dopo le guerre Puniche e dopo
che l’economia generale della Penisola e di tutta l’Europa sud-occi-
dentale, esclusion fatta per la Grecia che avrebbe goduto di indipendenza fino al 167 a.C., Roma, ormai padrona di ingenti quantità di
metallo prezioso e fulcro economico di un consistente gruppo di province, si lanciò in una riforma monetaria che avrebbe garantito il
proprio successo economico, stabilità nei cambi, una consistente
ma equilibrata circolazione di moneta, anche se non senza alti e
bassi e avrebbe favorito l’imposizione dell’economia romana in tutto il bacino del Mediterraneo.
Siamo nel 187 a.C., la data più
probabile per la nascita del Denarius. Il vecchio sistema di rapporto
tra le monete d’argento e di bronzo, che i romani avevano cercato
di sostenere con la continua riduzione di valore della moneta bronzea e in ultima analisi con l’introduzione del Victoriatus era definitivamente collassato.
L’introduzione del Denarius, strinse il legame tra la monetazione romana e quella degli stati greci,
permettendo, se non un’equiparazione nella relazione argento/bronzo, almeno un avvicinamento consistente come non si era mai avuto. Nel 269 a.C., l’argento in Italia
Centrale valeva 270 volte il bronzo, 2 volte più alto che in Magna
Grecia. Nel 187 a.C., il rapporto
era sceso 1:120.
Accanto al Denarius vennero introdotti il Quinarius, che come dice il
suo nome valeva metà del Denarius e il Sestertius, a sua volta metà
del Quinarius. Entrambe le monete,
però, non rispondevano bene alle
esigenze di mercato dell’epoca e
furono ritirate entro il 172 a.C.
Il Denarius subì gli ultimi aggiustamenti tra il 155 e il 120 a.C., originariamente di 4 scripule (4, 52 gr)
scese a 3 scripule (4 gr), il cui peso rimase costante circa fino
all’età di Nerone (54-68 a.C.).
Per comprendere a fondo cosa
rappresentasse il sistema monetario romano, è necessario comprendere anche come funzionas1/4
1/2
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sero le magistrature relative all’immissione di denaro liquido sul mercato.
Solo lo Stato godeva del diritto di
battere moneta, anzi potremmo dire che questo diritto era un “sacro
diritto”. A Roma esisteva una dea,
Sacra Moneta, che non era solo la
dea delle finanze e della produzione monetaria, ma lo spirito divino
stesso, il Genius, del conio. Concretamente, gli aspetti erano assolutamente inseparabili: la zecca si
trovava nel tempio di Giunone Moneta, nel quale, probabilmente si
trovava tutta l’attrezzatura per la
produzione materiale delle monete.
Nella capitale esistevano i Triumviri
Monetales, che per un breve periodo furono portati a 4 da Cesare nel
44 a.C., ma ridotti nuovamente a 3
nel 36 a.C.
I Triumviri, generalmente, erano
rampolli di famiglie abbienti che iniziavano una carriera politica e che
garantivano al proprio potente nucleo familiare un certo grado di
controllo sulle emissioni monetarie.
La moneta, in Roma antica, era
uno strumento durevole di dimostrazione di prestigio personale.
Uomini politici, famiglie in vista,
Tribuni della Plebe usavano la moneta per dichiarare al popolo i propri successi militari, la necessità di
riforme sociali, un legame speciale
con una qualche divinità.
Uno dei casi più interessanti è
senz’altro Silla, il quale mostra un
meccanismo particolarmente complesso. Silla era definito Felix, ed
era considerato il prescelto di una
divinità: il titolo gli venne ufficialmente tributato dal Senato dopo
l’83 a.C. La sua felicitas era il dono
di Venere che gli aveva concesso
di vincere contro tutti i suoi avversari e di riportare l’ordine a Roma;
credere in questo aspetto della
personalità di Silla era un elemento obbligatorio del credo sociale e
religioso. Questa Venere, dea della vegetazione di origine romana
era già molto popolare da prima
del 205 a.C ed era già entrata in
contatto con l’Afrodite della Magna
Grecia con cui si era fusa. Sull’Aureus e sul Denarius di Silla compaiono, come su un manifesto
elettorale estremamente sincretico, la testa di Venere insieme alla
doppia cornucopia egiziana che
attesta abbondanza, unitamente al
fiocco del diadema dei re. Espressamente sul Denarius Venere è
unita al caduceo, simbolo di fortuna e giustizia. La propaganda è
ancora più profonda se si pensa
che elementi di iconografia greca
collegano già la dea all’Afrodite
Troiana, da cui discendevano i Romani attraverso Enea. Come dea
lunare, era assimilabile a Bellona,
la dea romana della guerra, che in
sogno aveva consegnato a Silla i
fulmini per sterminare i propri nemici, a cui si univa la profezia di un
fanaticus di Bellona che aveva
profetizzato la vittoria del dittatore.
Silla, ovviamente, non fu l’unico a
fare uso di questo strumento di propaganda. Dopo di lui, nel tempo, le
rappresentazioni divine astratte si
accompagneranno alle rappresentazioni di persone realmente esistite. Il processo avviene in modo
piuttosto peculiare: l’Aureus del 44
a.C. mostra una figura femminile il
cui profilo coincide con quello di
Cesare; nello stesso periodo Pompeo conia in Spagna degli Assi di
bronzo su cui lui stesso è rappresentato come Giano bifronte. Antonio, si fa a sua volta rappresentare
per dimostrare la legittimità della
sua successione a Cesare.
In breve, nella Roma repubblicana
la moneta è un doppio strumento
di potere, sia per il suo valore intrinseco, sia per la sua capacità di
circolazione, semplicemente detto,
per la sua capacità di infilarsi nelle
tasche di tutti.
È ovvio che una moneta con scarso valore di acquisto faceva fare
una pessima figura all’uomo che vi
aveva fatto imprimere il suo volto.
Al contrario, invece una moneta
con un alto quantitativo di argento
faceva contenti tutti.
Moneta di electron e Julius.
Primitiva Didracma.
Quadrigatus.
Sestertius e Moneta aurea del III sec. a.C.