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La ricerca scientifica come fattore di sviluppo della
zootecnia
G. BITTANTE, L. GALLO, S. SCHIAVON
Dipartimento di Scienze Zootecniche, Università di
Padova, Agripolis, 35020, Legnaro (PD)
Il sistema della ricerca zootecnica in Italia è analizzato nei suoi diversi aspetti: filiere di ricerca, obbiettivi,
finanziamenti, metodologie, risultati, comunicazione e immagine, con lo scopo di valutarne i punti di forza e
di debolezza in relazione ai mutamenti culturali, economici e politici con cui il settore deve oggi misurarsi.
Viene sottolineata la difficoltà di definire il concetto di “sviluppo” cui gli utenti della ricerca (comunità
scientifica, comunità degli operatori e collettività) attribuiscono significati differenti. Il processo conoscitivo
è descritto secondo linee di flusso che identificano tre filiere di ricerca: quella industriale, quella agraria e
quella strategica, le cui componenti evidenziano elementi di discontinuità sulle quali occorre intervenire.
Particolare accento viene posto sulle carenze conoscitive di tipo strategico sul sistema zootecnico e sulle
filiere e i settori che lo compongono. Con riferimento agli obiettivi, la scienza deve porsi come cerniera
rispetto ai diversi utenti che manifestano finalità divergenti. La riduzione dei fondi pubblici per la ricerca
accentua la necessità di partecipare a progetti internazionali e di trovare forme di finanziamento dal mondo
operativo garantendo però il principio di indipendenza della ricerca. Dal punto di vista strutturale, il sistema
di ricerca zootecnica italiano è frammentato in moltissimi gruppi operativi di piccole dimensioni che
potrebbero operare efficientemente solo adottando forme di collaborazione stabilendo reti capaci di
valorizzare tutte le diverse componenti. Nel trasferimento delle conoscenze occorre, da un lato, collegarsi
alla comunità scientifica internazionale mediante pubblicazioni su riviste referizzate e, dall’altro, superare i
limiti di immagine nei confronti del mondo produttivo, velocizzando i tempi di trasferimento dei risultati alla
collettività, trovando forme nuove di comunicazione, anche a mezzo web, per illustrare concetti complessi in
modo semplice.
Premessa
Il secolo appena trascorso ha visto una crescita di enorme portata delle conoscenze scientifiche e delle
applicazioni tecnologiche nel comparto delle produzioni animali, cui ha fatto riscontro una sostanziale
evoluzione dei modi e delle forme di produzione. Tra gli esiti più appariscenti di questi complessi processi
innovativi, quelli probabilmente più eclatanti riguardano l’impressionante e progressivo incremento medio
delle prestazioni produttive degli animali allevati. Una analisi dettagliata ed esaustiva delle complesse
relazioni esistenti tra attività di ricerca e sviluppo del settore delle produzioni animali è al di fuori degli scopi
della presente relazione; alcuni elementi a questo proposito possono essere ricercati in Bonsembiante et Al.
(2000). L’obiettivo della presente nota, più circoscritto , è infatti di analizzare in chiave critica alcuni aspetti
che caratterizzano attualmente il processo di ricerca, con particolare riferimento al settore agrozootecnico,
con la finalità di offrire spunti di riflessione utili per valutare in modo più consapevole l’attività scientifica e
per cercare collocare l’ambito di lavoro in una dimensione realistica.
E’ sensazione diffusa che vi sia stato, in questi ultimi anni, un progressivo scollamento fra il mondo della
ricerca scientifica, il mondo operativo e l’universo dei consumatori e, più in generale, dei cittadini. Questo
scollamento rischia di isolare i ricercatori creando una sorta di “sindrome del pesce rosso”, il quale ritiene
che l’universo si esaurisca nell’acquario che lo ospita. E’ altresì vero che, come ricercatori, siamo
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maggiormente abituati, per formazione, tradizione e consuetudine, a discutere e a misurarci sulle singole
ricerche,piuttosto che a ragionare sul funzionamento del “sistema ricerca” nel suo complesso.
Un primo problema che emerge nell’affrontare argomenti relativi alla ricerca e allo sviluppo riguarda la
valenza semantica, il significato da attribuire a questi termini che, nell’accezione attuale, sono spesso usati
quasi come sinonimi e sono comunque legati in modo stretto da reciproche relazioni di causa e di effetto.
Anche alla luce di quanto riportato da Whittemore (1987), per ricerca si può intendere l’insieme degli
strumenti filosofici, mentali e applicativi finalizzati a fornire risposte rigorose a domande altrettanto rigorose.
In questo ambito, la sperimentazione è parte della ricerca, è strumento che però non esaurisce il percorso
della ricerca, ma si limita a fornire informazioni. L’obiettivo della ricerca è quindi la conoscenza, che può
essere inquadrata come una sintesi delle informazioni disponibili relativamente ad un dato argomento
strutturate in modo logico e coeso, in grado di individuare le forze causali e di quantificare le relazioni che
intercorrono tra cause ed effetti. Elementi essenziali a questo proposito sono un corpo di ipotesi iniziali,
valori attesi sulla base delle informazioni disponibili, e la possibilità ed abilità di analizzare e interpretare i
risultati ottenuti. Proprio nella capacità di formulare e controllare in modo appropriato modelli interpretativi,
nel sintetizzare la conoscenza proveniente dalle informazioni, nel creare ipotesi, nel testarle e, quando
necessario, nel rigettarle, nello sviluppare, nel verificare e nel ricompilare idee stanno in larga parte gli
elementi che distinguono il ricercatore dal tecnico.
Il termine sviluppo implica invece un’accezione dinamica della realtà cui è applicato; è spesso usato come
sinonimo di avanzamento, progresso o crescita. In prima istanza sviluppo spesso sottintende l’aggettivo
economico. Volpi (1990), ad esempio, esprime lo sviluppo in termini di incremento del prodotto lordo per
unità di fattore produttivo impiegato, terra, capitale, lavoro. Tuttavia, negli ultimi decenni l’accezione data a
questo termine ha assunto connotati sempre più ampi, dilatandosi a considerare aspetti non sempre e non
esclusivamente esprimibili in termini monetari. Ne consegue una certa difficoltà nella condivisione del
significato da attribuire allo sviluppo, sia in relazione a quanti soggetti ne usufruiscono, e a che prezzo, che
nella prospettiva dei risultati di lungo periodo. Infatti elementi che garantiscono la crescita nel breve termine
possono comportare un uso di risorse tale da costituire un problema per il futuro.
La ricerca costituisce senza dubbio un elemento di sviluppo, e la potenzialità di indurre sviluppo è
probabilmente il miglior elemento di valutazione a posteriori dell’attività di ricerca. La ricerca crea sviluppo
quando l’avanzamento della conoscenza si inserisce in modo armonico nel contesto politico-sociale,
comportando una crescita del bene complessivo.
Le scienze animali trovano uno sbocco applicativo naturale nell’industria e, in modo più ampio e generale,
nella società, nel mondo reale (Westendorf e coll., 1995). Storicamente la ricerca in agricoltura si è
dimostrata uno strumento di pubblica utilità ed ha presentato un ampio ritorno sociale (Huffman e Just,
1999). Tuttavia, la crescita economica, sociale e culturale, conseguente all’intenso processo di sviluppo, ha
ridisegnato gli ambiti di molte attività, che hanno dovuto o devono ricercare nuovi equilibri e nuove forme di
interazione con la collettività. Anche l’attività di ricerca in ambito zootecnico è in questa condizione e si
trova a dover fronteggiare evoluzioni, cambiamenti e contraddizioni a molti livelli.
Per affrontare in chiave critica questo processo di evoluzione, si farà riferimento ai seguenti punti,
ovviamente correlati ed interdipendenti, che possono costituire elementi importanti nella valutazione del
processo di ricerca:
a)
Filiere di ricerca;
b)
Obiettivi;
c)
Finanziamenti;
d)
Metodologie;
e)
Risultati, comunicazione, immagine.
Filiere di ricerca
L’attività di ricerca viene classificata dall’Istat (1999) nelle seguenti categorie: 1) ricerca di base: attività
intrapresa al fine di acquisire nuove conoscenze sui fondamenti dei fenomeni e dei fatti osservabili, non
immediatamente finalizzata ad una specifica applicazione o utilizzazione; 2) ricerca applicata: attività
originale intrapresa per acquisire nuove conoscenze finalizzate principalmente a specifiche applicazioni
pratiche; la ricerca applicata si raccorda frequentemente in modo armonico con le conoscenze sviluppate
dalla ricerca di base e ne costituisce in genere una naturale continuazione ed espansione; 3)
sperimentazione: lavoro applicativo sistematico basato sulle conoscenze acquisite condotto al fine di
migliorare materiali, prodotti e processi produttivi, sistemi e servizi.
Quando sono condotte in modo efficiente, le attività di ricerca di base e applicata e le sperimentazioni
relative comportano innovazione tecnologica, intesa come un prodotto o un processo tecnologicamente
nuovo introdotto dall’impresa o un miglioramento tecnologicamente significativo apportato dall’impresa ai
propri prodotti o processi produttivi.
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Tranne che in casi sporadici, la ricerca di base richiede elevati costi di investimento e di conduzione e
presenta tempi molto lunghi di trasferimento delle conoscenze acquisite alla realtà operativa ; tuttavia, le
ricadute potenziali di questa attività possono essere straordinarie, basti solo pensare ad esempio alle
innumerevoli applicazioni derivanti dalle scoperte di Mendel, alla comprensione della struttura del DNA o
alla identificazione della struttura aminoacidica delle proteine. All’estremo opposto, l’attività di
sperimentazione, finalizzata alla soluzione di specifiche problematiche, manifesta costi e ricadute
relativamente limitate ma è frequentemente caratterizzata da tempi di trasferimento dei risultati alla pratica
molto rapidi.
La ricerca di base e in parte quella applicata sono svolte per lo più da enti pubblici, dati gli elevati
investimenti necessari e la mancanza di un legame certo tra conoscenze acquisite e ricadute operative. I
risultati assumono una valenza planetaria, o comunque internazionale, sono in genere di pubblico dominio e
di accesso relativamente facile, grazie alla piena comunicazione che avviene a livello scientifico.
La ricerca applicata e, soprattutto, la sperimentazione sono svolte da enti pubblici o, più spesso, da privati, i
risultati hanno valenza locale e ricadute operative dirette sull’innovazione tecnologica e lo sviluppo del
comparto. Le informazioni sono più difficilmente acquisibili e spesso sono addirittura coperte da segreto.
È evidente che un Paese con una vocazione alla leadership mondiale dovrà investire risorse importanti anche
nella ricerca di base. Un Paese, invece, con potenzialità e vocazioni più limitate dovrebbe utilizzare i risultati
della ricerca di base disponibili a livello mondiale e privilegiare nettamente la ricerca applicata e la
sperimentazione, in modo da massimizzare l’innovazione tecnologica interna e accelerare lo sviluppo. La
priorità alla ricerca applicata e alla sperimentazione dovrà essere tanto più accentuata quanto più limitate
sono le risorse disponibili. Tuttavia le diverse tipologie di ricerca sono funzionalmente interdipendenti. In
linea generale, il processo conoscitivo si sviluppa seguendo linee di flusso che consentono di individuare
delle vere e proprie filiere di ricerca (Westendorf e coll., 1995).
In relazione ai beneficiari finali dei risultati del processo conoscitivo possiamo distinguere: 1) la filiera della
ricerca industriale, 2) quella della ricerca agro-zootecnica e 3) quella della ricerca strategica, i cui
risultati finali vanno a beneficio dell’intera collettività.
Le tre filiere, pur presentando tratti comuni, differiscono nelle funzioni e nel ruolo esercitato dai diversi
soggetti, o attori, che partecipano allo sviluppo del processo conoscitivo.
• Nel caso della filiera di ricerca industriale il ruolo delle imprese, sebbene variegato in relazione alla loro
dimensione economica ed organizzativa, diventa significativo e importante nell’attività di ricerca precompetitiva o sperimentale e nello sviluppo delle innovazioni di prodotto o di processo da implementare
in ambito aziendale per rafforzare la propria posizione sul mercato. Si tratta frequentemente di un’attività
di ricerca mirata a risolvere problemi specifici di una specifica azienda, per cuila valenza dei risultati
rimane in larga misura circoscritta nel tempo (breve o brevissimo periodo) e nello spazio (scala locale).
La struttura di questa filiera presenta elementi di debolezza conseguenti alla necessità da parte delle
imprese di capitalizzare in termini di competitività gli investimenti fatti, per cui la conoscenza dei
risultati conseguiti è difficilmente fruibile all’esterno dell’azienda ed è spesso preclusa anche a chi opera
nelle categorie di ricerca a monte. Questo contribuisce talora a rendere difficoltosi il dialogo e il mutuo
scambio di esperienze tra ricercatori e mondo operativo, elementi che sono invece necessari per
individuare le problematiche che maggiormente meritano l’impegno di risorse economiche ed umane. Si
corre anche il rischio che finanziamenti ingenti vengano impegnati nella esecuzione di sperimentazioni
che si limitano all’accumulo discontinuo e ripetuto di informazioni non adeguatamente prese in modelli
interpretativi di validità più generale ed estensibile.
• Nella filiera della ricerca agro-zootecnica le singole aziende sono troppo piccole per proporsi come
committenti o attori della ricerca scientifica e questo ruolo viene assunto da intermediari rappresentati
dalle Associazioni di Produttori e dalle agenzie territoriali di assistenza tecnica e divulgazione. Queste
organizzazioni operano prevalentemente nella predisposizione di sperimentazioni, per lo più a carattere
dimostrativo e applicativo, finalizzate all’acquisizione degli elementi necessari per disseminare le
innovazioni presso gli operatori agricoli. Difficoltà, a questo proposito, possono nascere
nell’impostazione di disegni sperimentali corretti, nella programmazione e nella esecuzione rigorosa delle
prove. Alla preparazione metodologica degli sperimentatori, non sempre inappuntabile, si affiancano
infatti le difficoltà oggettive, tecniche ed organizzative, di far coesistere nell’ambito delle strutture di
allevamento l’attività sperimentale e quella produttiva e commerciale (si pensi ad esempio alla necessità
di creare più gruppi sperimentali da testare contemporaneamente). In molti casi un maggiore rispetto
delle competenze di ciascun operatore potrebbe aumentare l’efficienza e l’efficacia del sistema nel suo
complesso.
• La terza filiera, e cioè la filiera della ricerca strategica, presenta caratteristiche peculiari, dato che
accanto agli elementi tecnico-analitici, se ne inseriscono altri di sintesi. E’ ormai fuori dubbio che il
futuro del sistema zootecnico debba essere studiato e preparato sviluppando visioni strategiche che lo
mettano in rapporto allo sviluppo delle altre attività economiche e all’evolversi delle istanze di vario
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genere, etiche, politiche, sociali ed ambientali, che la società ed i politici oggi perseguono con sempre
maggiore determinazione. Vi è la necessità di cogliere, conciliare e coagulare queste istanze con le
conoscenze e le esperienze acquisite nei diversi settori scientifici, tecnici, economici ed umanistici, con la
finalità di costruire solidi modelli interpretativi capaci di fornire risposte sull’orientamento da dare
all’attività agro-zootecnica per un uso più efficiente e rispettoso delle risorse disponibili, in armonia con
le attese della società. I grandi utilizzatori, e quindi i possibili committenti, della ricerca strategica sono le
grandi im prese, le associazioni di categoria e gli organismi pubblici responsabili di scelte politiche di
lungo periodo. Il problema non riguarda evidentemente solo l’Italia, come testimoniano le diverse
relazioni apparse su riviste e convegni esteri (Swanson, 1999; Meeker, 1999; Gibon e coll. 1999);
tuttavia, è innegabile che il nostro Paese appare piuttosto arretrato su queste tematiche. Ne è esempio il
settore zootecnico italiano. mancando, sia a livello governativo che di associazioni di comparto, una
chiara visione delle interconnessioni esistenti tra le diverse componenti ecologiche, sociali, economiche,
biologiche e tecnico-operative che condizionano l’esistenza stessa dei sistemi di allevamento, il nostro
Paese ha subito, nella definizione delle politiche comunitarie di sviluppo, le linee strategiche messe a
punto in altri Paesi della Comunità più organizzati, preparati e dotati di visioni sistemiche più complete,
lungimiranti ed efficaci. Tale visione di sistema dovrebbe poi collegarsi a quella da sviluppare
nell’ambito delle singole filiere e dei diversi settori produttivi che la compongono, in modo da creare un
insieme strutturato, coerente e intercomunicante, in grado anche di rendersi visibile e garante dei prodotti
e deiprocessi produttivi di fronte alla società. La ricerca strategica deve anche dare, come importante
risultato, la definizione degli obiettivi principali della ricerca applicata.
Obiettivi
Il passato: l’ottica sui prodotti
Dal secondo dopoguerra a tutti gli anni ’80 gli obiettivi della ricerca in campo zootecnico
sono stati finalizzati quasi esclusivamente all’incremento quanti-qualitativo del processo
produttivo. D’altra parte, l’aumento quantitativo dei prodotti di origine animale era una
pressante richiesta della collettività che, attraverso i finanziamenti pubblici, ha sostenuto la
ricerca in ambito zootecnico a fini sostanzialmente produttivistici. Si noti che in questa
fase la collettività e il mondo produttivo avevano comuni obiettivi e pertanto le funzioni, il
ruolo, l’impostazione e le modalità di conduzione della ricerca erano relativamente
semplici, di immediata comprensione e di piena e condivisa visibilità. Di conseguenza,
anche i rapporti e le relazioni tra i diversi attori coinvolti nella utilizzazione dei risultati
delle ricerche erano più evidenti, diretti e chiari. Col trascorrere degli anni è via via
cresciuto il peso delle caratteristiche qualitative dei prodotti, ma la ricerca ha continuato
ad avere una ottica concentrata in modo quasi esclusivo sulla produzione (di latte, carne,
ecc.). Weber et al. (1995) parlano a questo proposito di un “contratto implicito” , stipulato
tra la collettività e il settore primario/zootecnico, secondo cui la società forniva supporto
all’attività agricola/zootecnica per ricerca e formazione ricevendone in cambio un
abbondante rifornimento di prodotti di origine animale a prezzi contenuti e di qualità
standard e verificata. L’attività di ricerca e sperimentazione, è stata quindi indirizzata a
studiare e divulgare gli elementi di base del processo zootecnico (fabbisogni nutritivi,
basics e enhanced in miglioramento genetico, fisiologia e controllo della riproduzione,
ecc.) e a ottimizzare la combinazione tra i diversi fattori produttivi nella prospettiva di una
massimizzazione delle produzioni e del reddito rispettivamente a beneficio della
collettività e dei produttori.
La forte finalizzazione degli obiettivi di ricerca, l’identificazione tra aumento della produzione e aumento del
reddito e il fatto che le esternalità del processo produttivo sono state in larga misura trascurate o considerate
con peso poco rilevante hanno facilitato da un lato un approccio metodologico di tipo sperimentale, dall’altro
hanno reso più semplice il trasferimento delle conoscenze e delle innovazioni alle imprese.
L’aumento di conoscenze è stato globale, nel senso che gli avanzamenti negli aspetti di base o pretecnologici
(biologia degli animali domestici, fisiologia, genetica di base, biometria e approcci statistici di analisi, ecc.)
hanno trovato in larga misura sbocchi operativi e applicazione pratica a livello aziendale e/o industriale
(nutrizione e alimentazione, tecnica mangimistica, miglioramento genetico, soluzioni stabulative e
management aziendale). Il processo è stato in parte autocatalitico, dal momento che in alcuni casi la ricerca
di base ha stimolato quella applicata e sperimentale (vedi ad esempio la definizione dei fabbisogni nutritivi),
in altri lo sviluppo tecnologico ha stimolato l’avanzamento delle conoscenze della ricerca di base e
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pretecnologica (vedi ad esempio lo sviluppo della tecnica unifeed). La impetuosa crescita dell’informatica ha
da ultimo facilitato la traduzione pratica dei risultati della ricerca, basti pensare alle innovazioni nelle
tecniche di stima del valore genetico degli animali.
Ne è conseguito uno sviluppo straordinario, innanzitutto in termini di produttività ed efficienza di tutte le
specie e categorie di animali allevati. Ci limiteremo a ricordare, a titolo di esempio, come tra gli anni
Settanta e l’inizio dei Novanta la selezione effettuata sulle vacche da latte abbia consentito di raddoppiare la
produzione di proteina prodotta per capo e come l’inserimento di aspetti qualitativi nei criteri di selezione
abbia invertito, verso la fine degli anni Ottanta, la precedente tendenza alla progressiva riduzione del titolo
proteico del latte.
Si sono avute per contro anche profonde conseguenze sulla composizione strutturale del settore, la cui
evoluzione dicotomica ha portato ad una intensivizzazione sempre più spinta in alcune zone geografiche, con
conseguenti problemi di inquinamento ambientale, e a una progressiva marginalizzazione e abbandono in
altre; il numero di aziende e quello del personale addetto si sono fortemente contratti, mentre le dimensioni
medie aziendali sono sensibilmente aumentate (Pretolani, 1999).
Il presente: l’ottica sui sistemi
Il pieno soddisfacimento dei fabbisogni per tutti i maggiori prodotti di origine animale, l’evoluzione delle
modalità di produzione animale in un’ottica sempre più rivolta al processo di filiera, la maggiore attenzione
dei consumatori verso gli aspetti qualitativi dei prodotti e l’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica
verso le istanze ambientaliste e welfariste hanno fatto maturare, in ambito tecnico e scientifico, la percezione
che il successo dell'attività zootecnica non dipendesse più esclusivamente dal perfezionamento delle tecniche
di alimentazione, di allevamento, di riproduzione e di miglioramento genetico. E’ divenuto, infatti,
necessario considerare anche aspetti di marketing, di salvaguardia ambientale e di rispetto di normative
sempre più esigenti e vincolanti. Si è assistito pertanto a una notevole diversificazione e soprattutto a un
ampliamento degli obiettivi di ricerca e di sperimentazione. Si sono introdotti schemi di analisi che
considerano l’animale e l’allevamento come “sistema” che fornisce risposte multiple (ad esempio produzione
quantitativa e qualitativa di prodotti vendibili e sottoprodotti inquinanti dell’allevamento) in risposta
all’azione contemporanea ed iterativa dei diversi fattori che contribuiscono a definire l’ambiente di
produzione, nei suoi aspetti tecnici, economici e legislativi. Si noti che tali schemi interpretativi
rappresentano il tentativo del mondo scientifico di conciliare e comporre in una visione organica le
divergenti esigenze manifestate dal mondo produttivo, orientato al conseguimento del massimo profitto, e
dalla società, sempre più sensibile alle esternalità associate all’attività di allevamento.
Il mondo accademico deve dunque oggi saper individuare e promuovere soluzioni alle
nuove, spesso disomogenee e talora contraddittorie, istanze promosse dalla collettività. Il
mondo scientifico e con esso i produttori zootecnici sono chiamati, su posizioni e con ruoli
diversi, a misurarsi su temi quali la globalizzazione e l’aumento di competitività, la
salvaguardia ambientale (marginalizzazione, inquinamento ambientale e genetico,
biodiversità), la qualità e la diversificazione dei prodotti, la sicurezza alimentare (agenti
chimici e biologici, OGM), l’etica nei processi produttivi (sviluppo sostenibile, benessere
animale, biotecnologie). E’ evidente che lo sforzo scientifico nell’individuazione delle
possibili risposte a tali esigenze non può più limitarsi alla sfera delle soluzioni tecniche ed
economiche da applicare in ambito aziendale, ma deve indirizzarsi allo studio delle
possibili strategie di sviluppo dei sistemi di allevamento, confrontandosi,. come
schematizzato in figura 5 (Jacoponi, 1994), con scenari differenti ma coesistenti.
Sistemi industriali
I sistemi industriali costituiscono idealmente l’evoluzione degli attuali sistemi agrozootecnici intensivi e specializzati in sistemi di filiera sempre più integrati ed intensivi. Per
questi è possibile ipotizzare una riduzione dell’impiego di lavoro per ettaro di superficie
coltivata e un aumento del reddito per addetto. Questi risultati devono essere sostenuti da
un crescente ricorso all’impiego di inputs produttivi e tecnologici nel rispetto però dei
criteri di convenienza economica e dei possibili vincoli che saranno imposti dal legislatore.
Tale evoluzione è prevista dall’attuale orientamento della PAC, che tende a favorire la
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permanenza di un numero limitato di grandi aziende in grado di misurarsi sul mercato
sotto il profilo di una sempre maggiore competitività su scala mondiale.
Sistemi marginali ed estensivi
Si tratta di forme di conduzione dell’attività zootecnica che derivano in modo diretto
dall’evoluzione dei sistemi intensivi industriali, dato che le aziende meno competitive
usciranno presto o tardi dal mercato con possibili conseguenze in termini di
marginalizzazione e abbandono del territorio. Tale evoluzione tuttavia è in parte
contrastata da specifiche misure di sostegno previste dalla PAC per mantenere una
agricoltura e una zootecnia di presidio ambientale, condotta prevalentemente secondo
metodologie di tipo estensivo. Numerose perplessità rimangono tuttavia sulla reale
efficacia, in rapporto agli obiettivi dichiarati, dei criteri e dei parametri utilizzati per la
concessione degli incentivi.
Sistemi sostenibili o meglio “accettabili”
Il terzo scenario, quello dell’agricoltura sostenibile, e quello dell’agricoltura biologica che
ne rappresenta per certi versi un estremo, rivelano contorni ancora piuttosto incerti, vaghi e
discutibili. Tale incertezza è soprattutto causa dell’ambiguità stessa del concetto di
sostenibilità a cui sono attribuiti significati diversi a seconda delle posizioni ideologiche
dei possibili interlocutori. Coesistono infatti in questo termine istanze ecologiche di
stampo ambientalistico e/o animalistico, che non sempre si conciliano con altre di
ispirazione antropocentrica, con accenti salutistici, di giustizia sociale, volte ad assicurare,
secondo la definizione di Brundtland (1987), “… uno sviluppo che incontra i bisogni della
presente generazione senza compromettere la possibilità delle generazioni future di
soddisfare i propri”. Pur condividendo il principio di questa definizione, non si può fare a
meno di osservare le difficoltà pratiche di stabilire chi e quali criteri dovrebbero definire
queste esigenze. Più pragmaticamente, appare più opportuno parlare di sviluppo
“accettabile”, ammettendo così la necessità di disegnare direttrici di sviluppo basate su
equilibri e compromessi tra le diverse istanze espresse dalla collettività. La soluzione più
realistica sembra quindi quella di proporre, come suggerito da Spedding (1995), dei limiti
di accettabilità in rapporto a tutti gli input, gli output, i metodi e processi utilizzati nei
sistemi di produzione dei prodotti di origine animale. Il ruolo della scienza in questo caso
si deve necessariamente dilatare a fornire elementi oggettivi di discussione e giudizio per
valutare i benefici e i limiti sociali, economici, ecologici ed etici dei possibili modelli
alternativi di sviluppo. In altre parole, è necessario che il processo decisionale del politico
venga orientato sulla promozione di strategie di sviluppo che siano oggettivamente in
grado di dare risposta alle esigenze espresse dall’uomo di oggi e non basate sulla
prevaricazione di schemi ideologici i cui elementi di emotività irrazionale e di parzialità
potrebbero generare soluzioni da cui derivano risultati contrari a quanto desiderato.
Finanziamenti
Se l’entità delle fonti finanziarie disponibili esercita ovvie influenze sul volume della ricerca prodotta, la
provenienza dei finanziamenti è in una certa misura in grado di orientare gli obiettivi della ricerca e le linee
tematiche affrontate.
Poiché non sono disponibili statistiche disaggregate per i vari settori produttivi e disciplinari, una sintetica
analisi delle fonti di finanziamento è forzatamente limitata all’attività di ricerca e sviluppo (R&S) nel suo
complesso.
Secondo l’Istat (1999), l’incidenza percentuale della spesa complessiva per R&S in Italia si è stabilizzata
negli ultimi anni tra 1 e 1,2 % del prodotto interno lordo, valore che pone l’Italia appena al diciannovesimo
posto tra i Paesi dell’OCSE. Oltre la metà della spesa è a carico delle imprese (54%) mentre la quota restante
è sostenuta dal settore pubblico, suddiviso tra Università (25%), Enti di ricerca (17%) e altre Istituzioni (4%).
I dati Istat (1999) evidenziano ancora come la ricerca di base assorba circa il 22% dei finanziamenti
complessivi, il 44% sia utilizzato per la ricerca applicata mentre allo sviluppo sperimentale sia destinato il
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restante 34%. La ricerca di base e quella applicata costituiscono le tipologie prevalenti nelle Università e
negli altri Enti di ricerca, mentre nelle imprese prevalgono l’attività di sviluppo sperimentale e la ricerca
applicata. Considerando le fonti di finanziamento, si rileva come gli organismi pubblici di ricerca dipendano
per oltre il 90% da finanziamenti pubblici, mentre le imprese ricevono contributi che nell’ultimo decennio si
sono mantenuti intorno al 15% della loro spesa complessiva per R&S.
L’attuale sistema di finanziamento pubblico della ricerca
I finanziamenti erogati dallo Stato, provenienti dai contribuenti, vengono ripartiti tra gli enti di ricerca e le
imprese e successivamente in parte recuperati attraverso tasse e imposte. Va osservato che talora i
finanziamenti pubblici alle imprese vengono vissuti più come una occasione di finanziamento dell’attività
produttiva piuttosto che come una reale occasione di investimento per la ricerca, l’innovazione e lo sviluppo.
I finanziamenti a enti di ricerca e/o singoli ricercatori su specifici temi ad opera delle imprese private
tendono invece ad essere sostanzialmente limitati sia nella frequenza che nell’entità complessiva.
La ricerca pubblica dipende così in modo quasi esclusivo dai finanziamenti dello Stato e viene oggi messa
fortemente in crisi dalle misure di risparmio generate dalla necessità di contenere il debito pubblico.
Particolarmente evidente è in caso del settore agricolo, la cui importanza, misurata in termini prettamente
finanziari, appare decrescente in raffronto ad altri settori produttivi (Huffman e Just, 1999)
Un sistema alternativo di finanziamento pubblico della ricerca
E’ nell’interesse di tutti individuare strategie nel finanziamento che sappiano risolvere in modo più efficace
sia il problema della integrazione dei momenti conoscitivi nella filiera di ricerca che quello di un uso più
efficiente delle risorse umane ed economiche disponibili.
Una possibile strategia potrebbe prevedere che le scarse risorse finanziarie disponibili vengano interamente
dedicate alla ricerca pubblica, anche in considerazione del crescente peso degli interessi collettivi sulle
esternalità connesse ai processi produttivi, ma come cofinanziamento di quella di imprese, associazioni, enti
territoriali, ecc.. Sarebbe opportuno che lo Stato incentivasse, anche attraverso opportune politiche di
detassazione, una compartecipazione finanziaria delle imprese nelle ricerche commissionate alle istituzioni
preposte, non solo al fine di utilizzare le competenze scientifiche derivanti da una preparazione tecnica e
culturale specifica, ma anche al fine di garantire una reale integrazione e condivisione, tra ricercatori e
imprese, delle conoscenze fondamentali, strategiche e di base, con quelle di natura applicativa, pretecnologica e sperimentale necessarie per conseguire il progresso del settore.
Un simile schema avrebbe il merito di rendere più conveniente per le imprese investire in ricerca presso
istituzioni pubbliche invece che gestirla direttamente, dato che pagherebbero solo una parte del costo
complessivo. Inoltre l’attività degli enti di ricerca verrebbe orientata in maniera molto più efficace verso
tematiche condizionanti lo sviluppo del Paese e verrebbero introdotti elementi di competizione tra gli enti
che non possono che portare ad un aumento dell’efficienza degli stessi.
Una simile direzione verrebbe certamente accelerata se fosse facilitata, rispetto ad oggi, anche una possibilità
di incremento del reddito dei ricercatori legata alla quantità di finanziamenti che gli stessi riescono a
canalizzare verso l’istituzione.
Esistono già, d’altra parte, incoraggiamenti diretti e indiretti per i ricercatori pubblici a reperire fonti di
finanziamento aumentando i rapporti con il settore privato. La maggiore partecipazione dei privati al
finanziamento della ricerca su temi di interesse specifico offre maggiori opportunità e disponibilità per i
finanziamenti pubblici su temi socialmente importanti ma giudicati dai privati non di profitto immediato, e
stimolano al contempo una maggiore aderenza delle tematiche di ricerca che investono la sfera della
produzione e un miglioramento della rapidità e della facilità di trasferimento delle conoscenze fra ricercatori
e operatori.
Non si nasconde però che vi sono allo stesso tempo anche limiti non trascurabili.
Rapporti troppo stretti con le imprese private riducono i margini di libertà operativa nella direzione, cioè
negli obiettivi, di ricerca e in secondo luogo creano vincoli e pressioni nella predisposizione e nella gestione
delle ricerche, come pure nella pubblicazione dei risultati.
In una ricerca a finanziamento prevalentemente privato, condotta però da ricercatori pagati e formati dalla
collettività, è anche possibile che si vengano a creare sul piano deontologico conflitti fra gli interessi delle
compagnie private e quelli pubblici. La perdita, o limitazione, del principio di indipendenza può avere
conseguenze non solo sulla direzione e sui risultati della ricerca, ma anche sull’immagine stessa e sulla
credibilità dei ricercatori nei confronti della collettività. Si tratta quindi di una direzione non scevra da
limitazioni e problemi.
Metodologia della ricerca
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La crescente complessità degli obiettivi e delle tendenze della ricerca in campo zootecnico suggeriscono un
ripensamento in chiave critica di alcuni aspetti metodologici dell’attività di ricerca, inerenti in primo luogo
alla disponibilità, capacità e possibilità di interazione e collaborazione tra singoli ricercatori e singole unità
di ricerca sia entro settori scientifico-disciplinari che, soprattutto, tra settori di ricerca.Gli avanzamenti
scientifici sono invariabilmente associati con la personalità, la formazione scientifica e culturale e le
attitudini dei singoli ricercatori. Il ritmo sempre più rapido di acquisizione di nuove conoscenze e la necessità
di ampliare l’orizzonte di applicazione delle stesse impone oggigiorno ai ricercatori un continuo
aggiornamento, base essenziale per mantenere una ferma, profonda e ampia visione dei problemi scientifici
ed applicativi. La soggettività delle opinioni, da non confondere con il pregiudizio e la parzialità, costituisce
un elemento basilare di progresso, a patto che i ricercatori siano disposti a condividere e discutere in modo
aperto le loro idee con i colleghi della propria e di altre discipline su scala nazionale e internazionale. Al
ricercatore è quindi sempre più demandato il compito non semplice di identificare le problematiche su cui
impostare l’attività di ricerca coniugando gli elementi conoscitivi e culturali che provengono da un dialogo
continuo e costruttivo nell’ambito del proprio gruppo di ricerca, della comunità scientifica, del mondo
operativo e della collettività.
Altrettanto fondamentale è poi il rigore metodologico nella progettazione, nella esecuzione e nella
interpretazione degli esperimenti, che va perseguito adottando approcci di studio deduttivi o induttivi
coerenti con la natura dei problemi da risolvere.
Purtroppo, l’attuale sistema di ricerca nazionale risente della frammentazione e dispersione sul territorio dei
centri di ricerca che, pur funzionale ad un più stretto collegamento con il mondo della produzione e alla
attività didattica e formativa delle nuove generazioni, riduce di fatto le possibilità di conseguire nei singoli
gruppi di lavoro, la massa critica umana (ricercatori e tecnici), finanziaria e tecnologica (disponibilità di
laboratori, strutture e attrezzature di ricerca) necessaria per la realizzazione di ricerche più articolate ed
approfondite. Il sistema della ricerca zootecnica in Italia conta oggi su 336 professori e ricercatori,
appartenenti a 4 settori scientifico disciplinari frammentati in 40 Facoltà e 160 unità di ricerca,
corrispondenti ad appena 2,1 docenti per gruppo. I problemi conseguenti alla polverizzazione del nostro
sistema di ricerca sono poi acuiti dalle difficoltà di comunicazione tra settori disciplinari diversi e, sovente,
dalla tendenza all’eccessivo individualismo, il cui superamento appare necessario per la predisposizione di
progetti di ricerca più ambiziosi ed organici in cui le diverse risorse e competenze specialistiche siano
coniugate in un’ottica di collaborazione e interdisciplinarietà.
Nella fase attuale di sviluppo la ricerca scientifica pubblica deve quindi trovare una nuova impostazione
culturale, metodologica e strutturale che sia in grado di valorizzare i punti di forza e le risorse umane,
tecniche e finanziarie disponibili.
Una prima direttrice risiede nella formazione e nella valorizzazione delle attitudini dei singoli ricercatori, per
rivitalizzare l’entusiasmo e per assicurare nel tempo la “riproduzione e la crescita” delle competenze
scientifiche. I criteri su cui basare la progressione in carriera dei ricercatori dovranno sempre più riferirsi da
un lato alla qualità dell’attività scientifica svolta, utilizzando allo scopo parametri accettati
internazionalmente come ad esempio l’impact factor delle pubblicazioni, e dall’altro alle ricadute applicative
dell’attività svolta, valutata mediante l’ausilio di parametri esterni oggettivi come ad esempio i finanziamenti
ottenuti. Più controverso sul piano concettuale, e comunque complicato in termini pratici, è invece l’aspetto
che riguarda l’enucleazione del contributo personale nelle ricerche condotte in collaborazione che, se
applicato con eccessivo rigore e rigidità, potrebbe costituire un elemento di demerito anziché di merito.
Altrettanto importante è l’individuazione di strategie organizzative capaci di superare il problema della
frammentazione del sistema ricerca. Difficilmente praticabili sul piano concreto, e forse velleitarie nelle
intenzioni, appaiono le soluzioni tradizionali, in parte adottate in altri Paesi, quali quelle di stampo
statalistico e dirigistico, tese a ridurre il numero di sedi per legge e/o a favorire la loro aggregazione in grossi
centri di ricerca, o, al contrario, quelle di carattere liberistico finalizzate a incentivare una maggiore
competizione fra le sedi lasciando alle forze di mercato l’evoluzione del sistema. In entrambi i casi citati è
concreto il rischio di creare maggiori rigidità ed inefficienze e di perdere molte opportunità sia in termini
didattici (è indispensabile assicurare una buona formazione dei futuri dirigenti e tecnici che opereranno nel
settore), che in termini di aggancio con la realtà produttiva ed economica presente sul territorio.
Forse più in linea con l’attuale realtà universitaria italiana potrebbero essere gli interventi tesi a favorire reali
processi di collegamento tra sedi diverse, formando dei network che condividano idee, programmi, strutture,
risorse e finanziamenti secondo un modello a sviluppo diffuso. Certo questo richiede un ripensamento
organizzativo, uno sforzo collettivo per abbandonare pregiudizi e inutili rivalità, una capacità nel ricavare e
mantenere spazi in specifiche nicchie di ricerca e nel riconoscerle ad altri, ma potrebbe anche essere una
straordinaria occasione per mettere a pieno frutto le particolarità e il radicamento sul territorio di molte realtà
di ricerca italiane.
8
Risultati, comunicazione, immagine
E’ chiaro che non può esistere sviluppo se i risultati acquisiti nell’ambito del sistema non vengono poi
comunicati, trasferiti ed applicati nel modo più rapido ed efficiente possibile nel mondo reale. Nel definire le
modalità di trasferimento dei risultati è oggi fondamentale tener presente la necessità di porsi
contemporaneamente in relazione a diversi soggetti utilizzatori, comunità scientifica, comunità di operatori e
collettività, spesso caratterizzati da obiettivi e finalità differenti e talora divergenti.
La comunità scientifica è il principale referente del lavoro del ricercatore. Le modalità di divulgazione dei
risultati scientifici ottenuti sono oggigiorno molteplici, presentazioni a convegni, congressi, seminari e
workshop,condivisione in rete di documenti di vario genere, pubblicazione su riviste specializzate
divulgative o scientifiche. Tra le varie forme di comunicazione, non vi è dubbio che la pubblicazione su una
rivista scientifica con referee debba costituire per il ricercatore l’obiettivo principale della sua attività, grazie
al vaglio operato da giudici competenti ed anonimi che garantiscono normalmente una valutazione seria,
oggettiva ed imparziale dei lavori proposti. La validità dei risultati ottenuti trova la sua massima attestazione
quando questi sono presentati in un contesto internazionale su riviste di elevato inpact factor, divenendo
quindi un patrimonio collettivo di dimensione mondiale.
La possibilità e capacità di inserirsi nel processo di sviluppo internazionale tramite la partecipazione a
progetti di ricerca sovranazionali, consente di disporre di finanziamenti importanti, di acquisire in anticipo le
conoscenze necessarie e di accelerare i tempi di trasferimento.
E’ oramai un dato di fatto che la lingua scientifica ufficiale sia l’inglese e questo pone indubbi svantaggi per
i ricercatori del nostro Paese, che in molti casi preferiscono pubblicare in italiano rinunciando così
all’occasione di incidere maggiormente nel contesto internazionale. D’altra parte la pubblicazione dei
risultati in una lingua non familiare conduce inevitabilmente a perdite di tempo che si riflettono sia sulla
produttività scientifica che sulla velocità di comunicazione dei risultati, con rischi in termini di impatto ed
originalità dei lavori. La conoscenza della lingua inglese e la capacità di dialogo con colleghi stranieri
divengono quindi necessari strumenti di lavoro che il ricercatore acquisisce più facilmente da giovane
trascorrendo periodi di lavoro in centri di ricerca stranieri in cui si creano anche le opportunità di predisporre
progetti di ricerca internazionali. Grazie alla responsabilità e sensibilità dimostrata dai responsabili dell’iter
formativo dei giovani ricercatori e alla introduzione di parametri oggettivi di valutazione nelle procedure
concorsuali, l’internazionalizzazione del nostro sistema di ricerca sta procedendo rapidamente, come
dimostra l’evoluzione, per taluni versi sorprendente, dell’incidenza percentuale di lavori italiani sul totale di
quelli pubblicati dalle maggiori 5 riviste internazionali nel settore delle produzioni animali.
La comunità di operatori
Il lavoro di ricerca coniugato con quello di divulgazione e di formazione e assistenza tecnica ha, per quanto
detto in precedenza, grandi margini potenziali di interazione con l’industria e più in generale con il mondo
produttivo. Il collegamento tra il mondo della ricerca e la realtà operativa “di campo” avviene generalmente
attraverso pubblicazioni a carattere prevalentemente divulgativo o attraverso l’intermediazione dell’industria
e delle agenzie di diffusione pubbliche o semi-pubbliche di assistenza tecnica e sviluppo agricolo.
Nel primo caso la connessione fra l’unità che diffonde l’innovazione e quella che produce è strettissimo,
perché di tipo organico e operativo allo stesso tempo, e questo pone l’industria in una posizione privilegiata
nel recepire informazioni sulle problematiche in cui operano gli operatori agricoli. L’industria poi acquisisce
informazioni da sperimentazioni condotte in proprio.Ma in questo caso difficilmente è in grado di affrontare
da sola in modo sistematico, con gli opportuni strumenti e con rigore metodologico, tutte le problematiche
connesse alla raccolta e sintesi delle conoscenze già disponibili, alla predisposizione dei disegni sperimentali,
all’analisi dei dati, alla interpretazione dei risultati e alla valutazione delle possibili ricadute strategiche che
invece possono essere più facilmente ed efficacemente risolte nei centri di ricerca.
Certo, esiste anche un problema di “immagine” della ricerca pubblica a cui si chiede, accanto ad una minore
“arroganza accademica”, una maggiore rapidità nell’adeguare obiettivi e metodologie e tempi di
trasferimento dei risultati. I problemi temporali della ricerca pubblica sono oggettivi e risiedono non solo
nelle difficoltà di ottenere rapidamente i finanziamenti necessari all’adeguamento dei propri strumenti di
lavoro, ma anche in quelle conseguenti alla necessità di porsi contemporaneamente in relazione a più
interlocutori (comunità scientifica, comunità di operatori, studenti, collettività).
Nel settore pubblico la filiera di trasmissione è assai più frammentata ed esistono problemi oggettivi sia nel
collegamento tra istituzioni di ricerca ed agenzie di sviluppo che tra queste e gli operatori. Anche in questo
caso sono possibili sinergie, ma la soluzione reale del problema risiede probabilmente in direttive politiche
che stabiliscano in modo più organico e coordinato i ruoli e le competenze di ciascuno, riservando agli enti di
ricerca la formazione dei tecnici, la coordinazione, la programmazione, la valutazione delle sperimentazioni
e alle diverse agenzie l’esecuzione delle sperimentazioni e l’opera di divulgazione ed assistenza tecnica.
9
La collettività
E’ indubbio che negli ultimi anni le attività di ricerca e di produzione nei settori agrario e zootecnico hanno
fornito frequenti elementi di controversie e di sospetto in parte della comunità sociale; i motivi di
controversia trovano una base diversificata e non riguardano solo gli aspetti più squisitamente produttivi o
politici, ma investono sempre più la sfera sociologica, etica e filosofica. Questi elementi sono destinati in
prospettiva a crescere di pari passo con l’aumento dell’impiego a fini applicativi/produttivi delle
biotecnologie.
Particolarmente significativo è a titolo esemplificativo l’intervento di J. Franklin al meeting annuale
dell’ASAS nel 1996, dove si sosteneva che: “..They have poisoned the water you know. They have laced the
very air we breathe with toxins, seeded our bodies with the chemical generators of cancer, poisoned the food
we eat. They have poisoned the apples our children eat, even the very milk they drink. Who? Who, you ask?
Read!, Listen!…. It’s not the communists, this time, but the scientists, the technologists, the dr.
Frankensteins, and the transnational corporations they works for” (Davis, 1999).
Esiste quindi un oggettivo problema di immagine del mondo della ricerca e della produzione zootecnica, per
il cui miglioramento il possesso di una solida preparazione tecnica non è sufficiente, se questa non è
affiancata da un’altrettanto sviluppata sensibilità sociale..
D’altronde, non ci si può nascondere che la collettività, costituita dai contribuenti-elettori-consumatori, è il
principale referente del mondo politico e rappresenta indirettamente il principale finanziatore dei ricercatori e
della ricerca, oltre a costituire il “target” a cui si rivolge il mondo della produzione. Il suo ruolo è quindi
centrale e gli elementi di controversia che essa solleva devono essere attentamente considerati da coloro che
operano nel settore. L’immagine della ricerca, come mezzo per risolvere i problemi, dipende dal grado di
aderenza degli obiettivi di fondo della ricerca con i bisogni espressi dalla società. In caso di divaricazione di
questi elementi, l’immagine si deteriora. Un risvolto di questo problema risiede nella reale volontà e
possibilità del mondo della ricerca di ascoltare la società e di interpretarne i bisogni. E’ essenziale un
maggior sforzo di comunicazione e di partecipazione sui media e a pubblici dibattiti di persone formate e
preparate ad illustrare concetti complessi in modo semplificato e a evidenziare con linguaggio semplice e
chiaro i vantaggi e i limiti derivanti dalla applicazione delle nuove tecnologie o forme di allevamento.
Questo anche in considerazione del fatto che la società esprime spesso bisogni irrazionali e che la fiducia
stessa nella scienza come mezzo per risolvere i problemi è oggi messa in dubbio. Per questi motivi è
possibile che in un prossimo futuro, accanto alle unità di “extension service”, specializzate nella
divulgazione e collaborazione con le unità produttive, si dovranno prevedere anche servizi di comunicazione
con la collettività, per ripristinare il dialogo e riannodare dei legami oggi allentati.
INDICE BIBLIOGRAFICO
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10
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LA RICERCA NEL CAMPO DELLE PRODUZIONI
ANIMALI PER LA SICUREZZA ALIMENTARE
DELL'UOMO
Gianfranco Piva1 - Giovanna Cavanna2
La maggiore o minore disponibilità e la qualità degli alimenti hanno condizionato il progresso civile delle
popolazioni, la pace sociale e l'evoluzione delle nazioni. Le carestie sono state la causa, nel corso dei secoli,
di enormi sofferenze per l'umanità.
La storia è un susseguirsi di epidemie che falcidiavano periodicamente e frequentemente le popolazioni.
La situazione era particolarmente drammatica alla fine del Medio Evo, quando in Italia, nel giro di 150 anni,
dal 1351 al 1499 sono stati contati ben 455 eventi epidemici (tabella n. 1).
Tabella n. 1 - Popolazione residente ed incidenza di epidemie in Italia dal 1351 al 1499 (McEverdy &
Jones, 1978; Biraben, 1978; citati da Matossian M.A.K., 1989)
Popolazione stimata
nel 1400
7,0 (milioni)
N. epidemie
fra 1351-1430
235
Popolazione stimata
nel 1500
10,0 (milioni)
N. epidemie
fra 1431-1499
220
La situazione non era certo migliore nell'Europa nord occidentale, forse era peggiore (tabella n. 2).
Tabella n. 2 - Popolazione residente ed incidenza di epidemie in Europa Nord Occidentale* dal 1351 al
1499 (McEverdy & Jones, 1978; Biraben, 1978; citati da Matossian M.A.K., 1989)
Popolazione stimata
nel 1400
26,75 (milioni)
N. epidemie
fra 1351-1430
625
Popolazione stimata
nel 1500
23,4 (milioni)
N. epidemie
fra 1431-1499
710
* Isole Britanniche, Francia, Paesi Bassi, Germania, Austria, Boemia e Svizzera
La demografia storica evidenzia chiaramente che l'allungarsi della vita media ed il buono stato di salute sono
una "benedizione del cielo" molto recente, che ha favorito soprattutto i paesi più industrializzati.
Prima del 1750, l'aspettativa di vita per un membro della nobiltà inglese era solo di 36,7 anni. La situazione
era ancora peggiore per le classi meno abbienti. Cento anni dopo, l'aspettativa di vita era migliorata
notevolmente e raggiungeva i 58,4 anni. Nel frattempo, la popolazione in Europa era raddoppiata. Secondo i
ricercatori dell'Università di Cambridge, all'aumento della popolazione aveva contribuito soprattutto
l'aumento della fertilità, più che la riduzione della mortalità (Matossian M.A.K., 1989). In quel periodo vi era
stata verosimilmente una riduzione di fattori depressori della fertilità, probabilmente di origine alimentare.
I cereali rappresentavano la base della dieta delle popolazioni europee. Al nord delle Alpi e dei Pirenei, il
cereale dominante era la segale, al sud, l'orzo, la segale, il frumento e, a partire dal XVI secolo, il mais.
1
2
Docente di Nutrizione ed Alimentazione Animale - Direttore ISAN, Facoltà di Agraria, Piacenza.
Titolare di assegno per la collaborazione ad attività di ricerca e Dottoranda - ISAN, Facoltà di
Agraria, Piacenza.
11
Fra il 1750 ed il 1850 si erano verificati due fatti importanti: l'aumento della disponibilità di calorie e un
notevole miglioramento della salubrità delle derrate. In quei cento anni, i cereali tradizionali erano stati in
gran parte sostituiti dal frumento.
La disponibilità di questo cereale ha evidentemente contribuito a migliorare drasticamente la qualità
dell'alimentazione, tanto da influire sull'aumento della natalità. Il frumento è di gran lunga meno esposto, nei
climi europei, alla contaminazione da funghi produttori di micotossine di quanto non siano gli altri cereali.
Le carenze alimentari, le contaminazioni da xenobiotici e microbiche, conseguenti alle scarse condizioni
igieniche, erano responsabili di elevata mortalità infantile e di ridotta fecondità delle popolazioni europee.
Fame e carestie sono ormai state bandite da gran parte dell'Europa e da larghe aree del mondo. Sussistono
però ancora zone ove le carestie sono causa di migliaia di vittime. Nel 1984, in Etiopia sono morte per
carestia 800.000 persone. Nell'anno 2000, nel Corno d'Africa (Etiopia, Eritrea e Somalia) sarebbero a rischio
12,5 milioni di persone. Il Segretario Generale dell'ONU, Kofi Annan, in occasione della sua visita a Roma
del 5 aprile 2000, ha lanciato una pressante richiesta di aiuto per queste popolazioni.
Negli ultimi anni si è verificata, in Europa ed in tutto il mondo industrializzato, la più straordinaria
rivoluzione della storia dell'umanità. Si è riusciti a produrre cibo abbondante e di buona qualità. A questo
miracolo molti di noi hanno l'orgoglio di aver contribuito come scienziati, tecnici e come produttori.
Nonostante questo risultato sia il frutto della ricerca scientifica e della conseguente evoluzione tecnologica,
oggi una larga fascia di consumatori è ansiosa, non si sente tranquilla. Alcuni recenti episodi hanno creato
allarme. I vantaggi del progresso scientifico sono posti sotto accusa.
Ci si rivolge con incosciente speranza al sistema alimentare del "buon periodo antico",
quando carestie e malattie dominavano il mondo. Si guarda con sospetto alla scienza.
Sembra persa quella fiducia nella ragione che, negli ultimi due secoli, ha assicurato un
inimmaginabile sviluppo al genere umano.
Una pressante domanda di sicurezza alimentare condiziona ciascuno di noi.
La sicurezza alimentare riguarda due aspetti: la disponibilità di alimenti per soddisfare i fabbisogni primari e
la disponibilità di alimenti con elevato standard di qualità adeguati al sistema di vita attuale.
Soddisfatta, negli ultimi decenni, la copertura dei fabbisogni per i paesi più industrializzati, il problema della
sicurezza alimentare si è spostato sugli aspetti qualitativi intrinseci degli alimenti o, più in generale, della
dieta.
A quest'esigenza il sistema produttivo è chiamato a rispondere, ma soprattutto le organizzazioni governative
nazionali e sovranazionali sono chiamate a dare garanzie di tutela dei cittadini.
Questo motivo ha spinto la Commissione Europea a porsi come obiettivo che l'UE abbia una strategia per
"assicurare che l'Europa disponga degli standard più elevati possibili di sicurezza alimentare" (E.C., 1999c Libro Bianco sulla Sicurezza Alimentare).
Il Libro Bianco esprime un programma di lavoro finalizzato a fare acquisire e soprattutto "ad accrescere la
fiducia dei consumatori nella politica di sicurezza alimentare dell'UE". La sicurezza alimentare è diventata,
per dichiarazione esplicita, uno strumento politico.
Non è una novità, duemila anni fa, l'Impero Romano si assicurava la pace sociale distribuendo alla plebe
quattrocento chilogrammi all'anno di cereali e, due volte alla settimana, carne di maiale. Le cronache non ci
dicono se ci si preoccupasse o meno della qualità, ma la civiltà romana notoriamente non trascurava gli
aspetti igienici della qualità delle acque e dei cibi.
Nel Libro Bianco della Commissione si rileva l'importanza economica del settore agro-alimentare per
l'Europa. La produzione europea annua è pari a quasi 600 miliari di Euro, corrispondente al 15% dell'output
manifatturiero. Il settore da lavoro a 2,6 milioni di persone (30% in piccole imprese). A questi dati della
produzione industriale di alimenti vanno aggiunti 220 miliardi di Euro e 7,5 milioni di lavoratori derivanti
dal settore agricolo.
Si tratta nel complesso di un'attività produttiva che soddisfa le esigenze alimentari di 292 milioni di
consumatori, per disponibilità quantitative adeguate e con livelli qualitativi mai raggiunti in passato.
Alcuni eventi hanno creato recentemente preoccupazioni nell'opinione pubblica:
- il timore della trasmissione all'uomo del morbo della "vacca pazza" (BSE);
- la minaccia microbica (es. Salmonelle, Listeria, Botulismo, ecc.), connessa alla paura della diffusione della
resistenza microbica (es. Escherichia coli H O 157-H7);
-
il dubbio della presenza negli alimenti di "supertossici" quali le diossine, i PCB, i PAH
od altri;
- la paura della contaminazione genetica dall'impiego di organismi geneticamente modificati (OGM);
- il rischio micotossine.
A questo stato di cose la ricerca scientifica è chiamata a dare una risposta.
12
Il caso della BSE
La malattia in 14 anni (il primo caso ufficiale risale al 1986) è stata diagnosticata ad oggi in 180.603 animali
(tabella n. 3) ed ha coinvolto bovini allevati in 15 paesi.
Tabella n. 3 - Casi confermati di BSE in vari paesi al 31/01/00 (OIE, 2000) e aggiornamenti.
(1)
(2)
(3)
Paese
Totale(2)
Paese
Totale(2)
GB
Nord Irlanda
Isola di Man
Jersey
Guernsey
176.200
1.789
437
146
685
Irlanda
Italia
Lussemburgo
Olanda
Portogallo
Isole Falkland
9(1)+472
2(1)
1
6
6(1)+365
1(1)
(UK)
179.257
UE (eccetto UK)
987
Belgio
14
Svizzera
354
Danimarca
1(1)+1
Altri(3)
5
Germania
6(1)
Totale (escl. UK)
1.346
Francia
1(1)+102
Totale (mondo)
180.603
Animali importati
Totale provvisorio. Data di conferma degli ultimi casi: Belgio (08/06/00), Francia (27/06/00),
Olanda (10/03/00), Portogallo (11/01/00) e Danimarca (25/02/00). Dati fino al 30/04/00 per
l'Irlanda, 26/05/00 per la Svizzera e 30/06/00 per il Lussemburgo.
1989 (Oman: 2(1)) - 1993 (Canada: 1(1)) - 1998 (Liechtenstein: 2)
Varie sono le specie sensibili alle TSE (tabella n. 4), uomo compreso, la cui infettività sembra sostenuta da
"prioni" (Prusiner S.B., 1987).
Tabella n. 4 - Specie sensibili alle TSE
Primati
Ruminanti
Felini
Uomo
Lemure?
Scimmia Rhesus?
Scimmie:
- Uistitì
- Macaco
- Scoiattolo
- Cebo cappuccino
Bovino
Bufalo
Nyala
Antilope sudafricana
Cudù maggiore
Orice arabo
Alce
Bisonte
Pecora
Capra
Gatto domestico
Puma
Ghepardo
Ocelot
Tigre
Leone
Mustelidi
Visone
Roditori
Topo
Artiodattili
Suino
Nell'uomo, la BSE si manifesterebbe in una forma giovanile di CJD, denominata nvCJD, che, ad oggi,
avrebbe determinato manifestazioni cliniche in 63 persone (tabella n. 5).
Tabella n. 5 - Casi di CJD e di nvCJD in UK (Department of Health, UK, 2000)
Anno
Sporadici
Probabili vCJD
Confermati nvCJD
Totali
13
1994
51
-
--
51
1995
35
-
3
38
1996
40
-
10
50
1997
59
-
10
69
1998
63
-
18
81
1999
60
1
13
74
9
31
2000*
12
10
* Al 30 Giugno 2000, i casi totali di nvCJD confermati = 63
La diffusione della malattia è un tipico problema alimentare legato all'ingestione di farine di carne da
mammiferi contenenti tessuti ad elevata infettività (materiali a rischio specifico - SRM "specific risk
material") (OIE, 1998) (tabella n. 6).
Tabella n. 6 - Infettività potenziale di organi di animali infetti da BSE (OIE, 1998)
CATEGORIA
1. ALTA
INFETTIVITÀ
ORGANI
a)
b)
cervello, occhi, midollo spinale e gangli spinali, dura mater, ipofisi, cranio e
colonna vertebrale, polmoni di bovini
cervello, occhi e midollo spinale, gangli spinali e colonna vertebrale di
ovini/caprini; milza e polmoni ovini e caprini
2. MEDIA
INFETTIVITÀ
a)
b)
3. BASSA
INFETTIVITÀ
fegato, pancreas, timo, midollo osseo, altre ossa, mucosa nasale, nervi periferici
4. INFETTIVITÀ
NON RILEVATA
muscolo scheletrico, cuore, rene, colostro, latte, tessuto adiposo, ghiandola
salivare, saliva, tiroide, ghiandola mammaria, ovario, testicolo, sperma, tessuto
cartilagineo, tessuto connettivo, pelle, pelo, coagulo sanguigno, siero, urina, bile,
feci
intestino dal duodeno al retto, tonsille
milza bovina, placenta, utero, tessuti fetali, surrenale, fluido cerebrospinale,
linfonodi
Le preoccupazioni per questa malattia derivano dalla pratica impossibilità, per ora, di diagnosticare la
malattia in fase preclinica negli animali destinati alla macellazione. La constatazione che il passaggio da una
fase di sorveglianza passiva (rilievi sui cervelli degli animali sospetti), ad una fase di sorveglianza attiva
(rilievi sistematici sugli animali a rischio) abbia evidenziato un rapporto piuttosto alto di animali infetti senza
manifestazioni cliniche, ha aggravato le preoccupazioni.
L'estrema resistenza del "prione" ai trattamenti di sterilizzazione convenzionali rende il problema molto
complicato. Trattamenti a secco fino a 600°C per 5-15 min. non consentono di eliminare completamente
l'infettività (tabella n. 7).
Tabella n. 7- Inattivazione del prione della scrapie per trattamento a secco per 5-15 min. (Brown P. et
al., 2000)
Temperatura
Infettività su criceto
log10LD50/g
14
Iniziale
150
300
600*
1.000
9,9
6,0
4,0
--- (5/35 casi)
0
* molecole inorganiche inducono una replicazione biologica dell'agente della scrapie.
I trattamenti tradizionali per la produzione delle farine di carne sterili nei riguardi dei patogeni
convenzionali, sono stati modificati dall'UE nel 1996. Le condizioni di trattamento termico sono state portate
a 133°C, per 20' a 3 bar (Direttiva 96/449/CE). Viene precisato che il trattamento deve essere eseguito su
parti con dimensioni massime di 50 mm, in situazioni di vapore saturo e con il vapore prodotto
dall'evaporazione dell'acqua contenuta nei tessuti da sottoporre a trattamento (E.C., 1998a). In questo modo
si riduce di 3 log l'infettività (E.C., 1998b). Questa riduzione di infettività è del tutto inadeguata per i
ruminanti. La variazione di trattamento, dal vecchio sistema al nuovo sistema, non determina effetti
particolarmente negativi sul valore alimentare, per i monogastrici, delle farine di carne (tabelle n. 8 e 9).
Tabella n. 8 - Dati sperimentali sull'effetto di alcuni trattamenti fisici sul valore alimentare dei
sottoprodotti della macellazione (Progetto Strategico CNR - CT 99.02113.ST74) (Piva G. et al., 2000 - in
press)
Trattamento
teorico
effettivo
nessun trattamento
prodotto liofilizzato
80°C/30'-115°C/30'
119,3°C/30'
133°C/20'/3 bar*
133°C/20'/3 bar
a, b, c, d
A, B
: P<0,05
:
P<0,01
* Riduzione di infettività = 3 log
P.E.R.
3,12dB
2,29bcA
bcA
2,16
Tabella n. 9 - Composizione in alcuni aminoacidi (% EAA*) e in lisino-alanina [LAL] (mg/kg di
proteina) delle proteine nelle farine di carne prodotte con i diversi trattamenti (Progetto Strategico
CNR - CT 99.02113.ST74) (Piva G. et al., 2000 - in press)
Trattamento
nessun tratt. (liofilizzato)
LYS
18,1
MET
5,2
THR
10,0
CYS**
2,5
LAL
0
80°C/30'-115°C/30'
(119,3°C/30')
133°C/20'/3 bar (133°C/20'/3
bar)
* EAA= sommatoria aminoacidi
** % di (EAA + CYS)
17,2
5,2
9,4
2,0
157,3
16,8
5,5
9,8
1,9
67,7
Solo l'abbinamento di trattamenti termici in pressione con trattamenti alcalini risulta efficace nell'abbattere in
assoluto l'infettività (Taylor D. et al., 1997).
Per questo motivo sono considerati sicuri, anche per l'alimentazione dei ruminanti, i trattamenti adottati per
la produzione di idrolizzati proteici. La normativa (Decisione 1999/29/CE) prevede trattamenti alcalini
estremamente energici (trattamento alcalino: pH>11 a temperatura >80°C per >3h seguito da trattamento
termico a temperatura >140°C per 30 minuti a pressione >3,6 bar). La norma richiede l'ottenimento di
peptidi con peso molecolare inferiore ai 10.000 Dalton, almeno al 95%. L'ottenimento di questo parametro
non è giustificato da motivi di sicurezza, ma è considerato solo un mezzo per la verifica dell'avvenuto
trattamento di idrolisi alcalina. Infatti molecole anche di dimensioni più piccole dei 10.000 Dalton sono in
grado di agire da induttore di variazioni della struttura proteica del prione tali da provocare la malattia
(Supattapone S. et al., 1999).
È il controllo del rispetto dei parametri idrolitici il fattore di sicurezza da considerare in via prioritaria.
In ogni caso il controllo del peso molecolare degli idrolizzati e del fatto che solo un valore non superiore allo
1-5%, in funzione della sensibilità del metodo analitico, sia maggiore dei 10.000 D, è oggi importante. Sono
da definire le procedure analitiche più opportune date le caratteristiche degli idrolizzati ottenuti a seguito di
processo alcalino e di trattamenti termici energici.
15
Fra le procedure analitiche possibili praticabili ci sono:
- l’ultrafiltrazione su membrane con taglio molecolare definito (10.000, 30.000, 50.000 D), separazione
delle frazioni per ultracentrifugazione e determinazione dell’azoto delle frazioni stesse. Il limite di questo
metodo è dato dai parametri della centrifugazione (quantità di campione, tempo e numero dei giri). Si
tratta di condizioni non sempre facilmente definibili inoltre la procedura analitica si presta male ad una
definizione quantitativa;
- gel-filtrazione su colonne SUPERDEX 75 e SUPERDEX PEPTIDE (la prima con limite di esclusione di
100.000 D, la seconda con limite di esclusione di 20.000 D). La separazione per HPLC con rivelatore
UV, consente di ottenere ottimi risultati per pesi molecolari decisamente inferiori ai 10.000 D. Più
problematico è il dosaggio quantitativo di piccole frazioni che possano superare i 10.000 D.
La messa a punto di un metodo di controllo a larga diffusione ed attendibile richiede una ulteriore e laboriosa
fase di validazione.
Con una ricerca in corso, in collaborazione con l'Institute of Animal Health, Neuropathogenesis Unit
(Edinburgh, UK), stiamo verificando se trattamenti alcalini, quali quelli previsti dalla legislazione,
indipendentemente dalle dimensioni delle molecole peptidiche, consentano di ottenere un adeguato
abbattimento dell'infettività.
Come pure stiamo verificando, sempre in collaborazione con l'Institute of Animal Health, la possibilità di
migliorare l'efficacia dei trattamenti delle farine di carne previsti dalla CEE (133°C/20'/3 bar), ai fini
dell'abbattimento dell'infettività, con nuove condizioni fisiche od abbinando opportune condizioni di pH. Si
tratta di una ricerca finanziata in parte dal CNR (Progetto CNR: "Sistemi di trasformazione in farina degli
scarti di macellazione e metodologie di controllo dell'efficacia dei trattamenti") ed in parte dall'UE (FAIR
Program UE: "TSE-agent inactivation, product quality evaluation and sterilization process simulation in
rendering processes for the production of feed grade animal proteins").
Il problema fondamentale è quindi quello di mettere a punto degli strumenti scientifici per rarefare il rischio
di contagio, in altre parole, per ridurre il numero di prioni modificati in circolazione.
Il recente caso di BSE in Danimarca (25 Febbraio 2000) in un bovino autoctono, che potrebbe aver contratto
l'infezione dopo il bando dell'uso dei tessuti con proteine da mammifero nell'alimentazione dei ruminanti, ha
sollevato molti interrogativi.
Particolare attenzione è quindi posta nei riguardi di quei tessuti da ruminanti che possono
inserirsi nella catena alimentare dei ruminanti, senza barriera di specie, e senza specifici
trattamenti. L'inserimento nella catena alimentare può avvenire in via diretta, per
assunzione di alimenti addizionati volontariamente di farine di carne od accidentalmente,
soprattutto per cross-contamination dei mangimi per ruminanti o per utilizzo improprio di
mangimi per monogastrici nei ruminanti. È ipotizzabile anche una via indiretta, ad es.
attraverso i fertilizzanti ottenuti da residui di macellazione, senza adeguati trattamenti, e
distribuiti su pascoli. È un problema potenziale non trascurabile per l'agricoltura biologica
che è all'attenzione dei comitati scientifici.
Una ulteriore via indiretta può essere l'utilizzo nell'alimentazione dei ruminanti di residui di macellazione di
volatili derivanti da allevamenti che utilizzano mangimi contenenti farine di carne da mammiferi.
L'utilizzazione di residui di macellazione da macelli avicoli è autorizzato nell'alimentazione dei ruminanti.
Per questi residui di macellazione non sono richieste le condizioni di trattamento previste per quelli dei
mammiferi (130°C/20'/3 bar). Nella situazione prevedibile peggiore, i residui dei macelli avicoli, costituiti da
parti di carcasse non eduli e dall'apparato digerente con il contenuto intestinale, ecc., potrebbero contenere
porzioni di proteine da ruminanti contaminate, residuate nell'apparato digerente dei volatili. Questo rischio è
considerato reale, anche se remoto, se non si adotta un adeguato periodo di sospensione, prima della
macellazione, nella somministrazione di mangimi contenenti farine di carne da bovini (E.C., 1999b).
Il problema maggiore è forse la cross-contamination dei mangimi per ruminanti, da cui la necessità di
sviluppare metodiche in grado di evidenziare le situazioni di rischio di contaminazione, di rapida esecuzione
ed attendibili (ELISA, DNA, NIRA, ecc.). La pubblicazione il 23/05/00 del D.M. del 30 settembre 1999 che
recepisce la Direttiva 98/88 che stabilisce "Orientamenti per l'identificazione al microscopio e la stima dei
costituenti di origine animale nell'ambito del controllo ufficiale degli alimenti per animali", non risolve il
problema di disporre di un metodo rapido e di facile esecuzione che consenta di monitorare i punti critici del
processo produttivo dei mangimi.
Un aspetto particolare riguarda l'utilizzo, nell'alimentazione dei ruminanti dei grassi provenienti dai residui
di macellazione dei bovini stessi. Il tessuto adiposo è considerato dall'OIE a livello d'infettività non
rilevabile, come il latte (OIE, 1998). I grassi derivanti dalla colatura del tessuto adiposo sono fra l'altro
praticamente privi di proteine. Tuttavia per evitare rischi, la Decisione della Commissione 99/534/CE
16
impone che nei grassi fusi ottenuti dai residui di macellazione dei ruminanti "il tenore massimo di impurità
insolubili residue totali non superi lo 0,15% in peso"3.
Una ulteriore forma di sicurezza per l'utilizzo dei grassi nell'alimentazione dei ruminanti potrebbe essere
raggiunta se i grassi colati fossero sottoposti a trattamento
di esterificazione o transesterificazione o idrolisi ad almeno 200°C, ad una pressione adeguata per almeno 20'
(Decisione 1999/534/CE). I grassi potrebbero essere saponificati, ovviamente in ambiente alcalino, con
NaOH o con Ca(OH)2, (a temperature - 140/200°C - a pressioni elevate e per adeguato periodo di tempo).
Gli acidi grassi potrebbero essere anche riesterificati con glicerolo a temperature attorno ai 200°C a pressione
corrispondente e per almeno 20 minuti. In questo modo si ottengono dei grassi riesterificati che certamente
hanno subito un energico trattamento.
Si tratta di trattamenti che non pregiudicano il valore alimentare dei prodotti di partenza, anzi, come nel caso
degli acidi grassi salificati, attribuiscono prerogative nutrizionale di particolare interesse, soprattutto per i
ruminanti.
Nei riguardi di questi prodotti vanno superati molti pregiudizi. Nel caso dei saponi utilizzati nei ruminanti, la
digeribilità dell'energia è molto elevata e si attesta per gli acidi grassi derivati dall'olio di palma sull'85%
dell'energia grezza (Elmeddah & Doreau, 1990), con un rapporto fra energia digeribile ed energia
metabolizzabile pari a 1. L'energia netta latte rappresenterebbe poi l'82% dell'energia metabolizzabile
(Vermorel M.et al., 1986). Quindi, in pratica, l'energia netta latte può essere stimata pari al 70% dell'energia
grezza.
Per i prodotti riesterificati, verosimilmente anche per i saponi, l'energia disponibile per ruminanti e
monogastrici è funzione delle caratteristiche degli acidi grassi. La riesterificazione è un processo che avviene
normalmente in condizioni fisiologiche a livello dell'epitelio del piccolo intestino. L'attività della trigliceride
sintetasi è localizzata nella frazione microsomiale dell'epitelio intestinale. Alcune specificità influenzano la
velocità con la quale i monogliceridi sono trasformati in trigliceridi. Il mono-oleatato è accettore migliore
degli acidi grassi attivati, di quanto non siano il mono-oleato ed il mono-stearato (Freeman C.P. et al., 1976).
La digeribilità dei grassi è funzione del livello di insaturazione (tabella n. 10).
Tabella n. 10 - Digeribilità dei grassi e degli acidi grassi in funzione della quota di acidi grassi insaturi
(da Zumbado M.E. et al. 1998 - modificata)
Acido linoleico (%)
PUFA (%)
Digeribilità (%)
Olio di palma grezzo
10,2
47,3
73,9
Acidi grassi liberi da palma 90%
8,0
40,5
71,0
Olio di palma (1)
9,0
43,9
72,5
Acidi grassi da olio di soia
51,7
76,0
88,7
Sego bovino
2,9
39,3
67-72
GR1 - oleine da palma (2)
12,6
55,2
78,9
GR2 - olio di soia (3)
24,3
65,8
91,3
Yellow grease (4) = sego + GR
13,6
52,6
80,4
(1)
miscela al 50% di olio di palma ed acidi grassi da olio di palma
(2)
GR grasso da ristorante a base di olio di palma
(3)
GR grasso da ristorante a base di oli di soia
(4)
Tipico Yellow Grease commerciale contiene il 21% di acido linoleico e 69% PUFA
L'intervento della ricerca e dei sistemi di controllo non deve essere solo per evitare l'impiego alimentare di
proteine da mammiferi a rischio, ma per verificare le condizioni migliori per garantire i trattamenti di
sanificazione più efficaci, compatibilmente con il mantenimento di un adeguato valore alimentare ai prodotti
trattati. Un problema è rappresentato dagli SRM per i quali i comitati scientifici hanno proposto la
distruzione.
Con decisioni autonome, in funzione delle diverse situazioni locali, i vari paesi della UE hanno provveduto
nell'ultimo decennio a mettere al bando gli SRM (figura n. 1). Nel caso di alcuni paesi (Italia e Spagna), il
bando riguardava solo gli animali da importazione.
3
Secondo il parere del TSE/BSE ad hoc group, questa frazione insolubile può essere costituita
tutta da frazione azotata (E.C., 2000a).
17
Figura n. 1 - Bando degli SRM in paesi CE, Svizzera e Norvegia (anno di entrata in vigore) (E.C.,
2000b)
* solo per animali non autoctoni
Nell'ambito della Comunità, la distruzione degli SRM andrà in vigore dal 01/10/2000 a
seguito della Decisione 2000/418/CE.
Alternative alla distruzione potrebbero essere di particolare interesse.
Non è certamente pensabile di distruggere, per motivi prudenziali, tutti i residui di macellazione, preziosa
fonte alimentare (almeno per le specie onnivore non ruminanti), ottimi fertilizzanti organici, importante
materia prima per il settore alimentare umano (es. gelatine, grassi) o per l'industria farmaceutica.
A parte i costi e la mancanza di strutture vi sarebbe un grave problema di riduzione della disponibilità di
proteine nobili per l'allevamento animale. Vi si potrebbe
fare fronte aumentando l'importazione di proteaginose o la loro coltivazione (tabella n. 11).
Tabella n. 11 - Conseguenze ambientali di un bando completo dei residui di macellazione (Piva G.,
1997)
Fabbisogno aggiuntivo di proteaginose
(soia, pisello, colza canadese, girasole)
Superficie agraria aggiuntiva richiesta
Fabbisogno di aminoacidi sintetici: Lys, Met, Thr, Try
5.100.000 o 4.000.000 t.
1,5-2,5 o 1,2-2,0 Mha
Elevata, per ora non quantificabile
Un impegno particolare deve essere posto per assicurare l'espulsione dal ciclo produttivo degli animali in
fase preclinica, a seguito di diagnosi in vita con un sistema di monitoraggio attivo rapido (ammesso che sia
possibile disporre di adeguati test preclinici).
L'emergenza BSE a distanza di 15 anni dalla prima segnalazione, di 6 anni dai primi provvedimenti a livello
europeo e di 4 anni dall'allarme del rischio della trasmissione all'uomo avanzata dal Governo Inglese, non è
superata, ma certamente stiamo imparando a gestirla. L'evoluzione dei casi clinici segue le previsioni, pur
con qualche eccezione (come il caso della Danimarca). Non tutte le preoccupazioni sono superate anche per
l'uomo, alcuni scienziati temono, in un futuro non lontano, un'esplosione di casi nell'uomo per ingestione di
carni contaminate in passato. Certo la razionalizzazione della valutazione del rischio su base geografica
attraverso la valutazione combinata del "Challenge" e della "Stabilità" del sistema allevamento deve
informare correttamente i consumatori dei vari paesi.
Figura n. 2 - Rischio geografico della BSE nella CE, Svizzera e Norvegia (E.C., 2000b)
18
Classe I:
molto improbabile
Classe II:
improbabile ma non da
escludere
Classe III:
probabile ma non confermato
o confermato a bassi livelli
Classe IV:
confermato a livelli elevati
Dal punto di vista della ricerca vi è ancora moltissimo da fare per ridurre al più basso livello possibile la
diffusione delle TSE:
- interrompere il rischio di trasmissione alimentare;
- sviluppare metodiche rapide per il controllo della contaminazione degli alimenti;
- verifica della corretta esecuzione dei trattamenti di sanificazione;
- diagnosi in vita degli animali infetti.
Il caso delle Diossine
Un evento drammatico ha creato allarme nei primi mesi del 2000. Alimenti di origine animale di provenienza
dal Belgio potevano essere contaminati da diossine o da PCB.
Diossine:
policloruri dibenzodiossine (PCDD) e dibenzofurani (PCDF), sono una serie di composti
lipofili, piuttosto numerosi, costituiti da 210 "cogeneri" (75 PCDD e 135 PCDF). Si tratta di
composti che si originano nel corso di lavorazioni industriali, o sono il frutto di processi
termici. Queste sostanze si caratterizzano per una distribuzione ubiquitaria. Dei 210 cogeneri
solo per 17 è stata definita una tossicità. Il composto più tossico è il 2,3,7,8-ptetraclorodibenzodiossina (nota come la Diossina di Seveso). I cogeneri a funzione tossica
esplicano lo stesso tipo di tossicità, ma con varia intensità. Si legano con affinità differente allo
stesso recettore. Pertanto, nota l'equivalenza di tossicità (TEF posto = 1 per il 2,3,7,8 TCDD)
dei cogeneri è possibile calcolare la tossicità totale ed esprimerla in tossicità equivalente
(TEQ) (Van den Berg, M. et al., 1988). Si fa riferimento ad uno standard internazionale I-TEQ
(NATO/CCMS) o WHO-TEQ (WHO). Oltre a composti clorurati vi sono composti bromurati
e furanici a tossicità equivalente.
PCB:
i policloruri difenilici comprendono 209 cogeneri. Si tratta di prodotti ottenuti industrialmente
ed utilizzati per le loro prerogative chimiche (non infiammabili, ritardanti le fiamme, alto
punto di ebollizione, bassa conducibilità termica, elevata costante dielettrica, repellenti
dell'industria della carta, nell'industria delle plastiche, della gomma, ecc.). Nell'UE il loro uso è
andato fuori legge nel Dicembre 1999. Sembra che negli ultimi 20 anni sia stato prodotto oltre
un milione di tonnellate di PCB. Nel processo di fabbricazione dei PCB si formano anche
diossine, come pure dalla combustione dei PCB a temperatura prossima ai 1000°C.
Per quanto riguarda la tossicità, a certi livelli di esposizione, diossine e PCB determinano
alterazioni al sistema immunitario, disordini riproduttivi e favoriscono lo sviluppo di
tumori maligni. Per l'uomo, il WHO, nel 1998, propone come ingestione giornaliera
tollerabile (ADI) di diossina da 1 a 4 pg di WHO-TEQ/kg di peso corporeo (WHO-ECEH,
1998).
19
Per quanto riguarda i livelli di accettabilità dei PCB non disponendo di dati relativi alla tossicità dei singoli
cogeneri e tenendo presente che molte osservazioni probabilmente erano relative a miscele di prodotti forse
contaminate anche da diossine, l'OECD (1998) ha proposto prudenzialmente un valore di 1 µg di PCB totali
per kg di peso vivo.
Il 90% delle diossine assunte dall'uomo derivano dagli alimenti e di queste, il 90% da alimenti di origine
animale. L'alimentazione animale è quindi il più importante anello della catena alimentare per il controllo
dell'assunzione di diossine da parte dell'uomo.
La contaminazione degli alimenti per gli animali può avvenire per:
- deposizione di emissioni varie sui prodotti agricoli;
- essiccamento a fuoco diretto di prodotti utilizzando come combustibili sostanze che generano diossine;
- miscelazione dei mangimi o dei foraggi con prodotti contaminati da diossine o PCB;
- impiego di pesticidi, detergenti e disinfettanti contaminati da diossine;
- contatto con materiali legnosi trattati con conservanti del legno in grado di cedere diossine;
- allagamento dei pascoli e contatti con acque di scarico contaminate;
- processi industriali di preparazione degli alimenti generatori di diossine o contatto con materiali che
cedono diossine;
- terreno contaminato sul quale sono allevati gli animali;
- acque di abbeverate o degli allevamenti ittici contaminate.
Alcuni casi di rilevante contaminazione sono stati segnalati a partire dal 1997:
1)
2)
3)
4)
5)
La FDA nel 1997 individua in una certa tipologia di argille "Ball Clay" la fonte di elevati livelli di
diossine in polli. Le argille "bentoniti" erano utilizzate come "antimpaccanti" nei mangimi.
Una contaminazione analoga è stata riscontrata in Europa in "argille caoliniche". Nel mondo sono
state per ora identificate alcune aree dove si sono formate, per processi geologici delle diossine, a
seguito di reazioni fra sostanza organica e composti clorurati. Si tratta di zone localizzate nei pressi
del Mississippi, nell'area Westerwald in Germania e nell'East Coast in Australia.
Sulla scorta di questa contaminazione, il Ministero cella Sanità ha emanato una circolare che limita
i controlli della presenza di diossine solo ad alcuni composti minerali usati come adiuvanti
tecnologici.
Nel 1998 è stato trovato contaminato il "pastazzo di agrumi pellettato" proveniente dal Brasile. La
contaminazione derivava dalla calce addizionata prima dell'essiccamento al pastazzo umido per
portare il pH ad un valore di 6-7. Il latte di calce utilizzato, proveniente da uno specifico fornitore,
era contaminato. Il problema non è quindi il pastazzo ma il processo tecnologico.
Nel 1999, in Belgio, è stato utilizzato del grasso contenente PCB, per la produzione di mangimi; n'è
derivato un grave scandalo. La contaminazione è stata originata dal fatto che il PCB utilizzato per
raffreddare i trasformatori elettrici è stato scaricato nel sistema di raccolta dei grassi destinati ai
mangimi.
Nel 1999, farina di fieno disidratata, con livelli di diossina elevati, è stata segnalata in Germania
nella zona di Brandenburg. La contaminazione sarebbe derivata da un impianto di disidratazione a
fuoco diretto, che utilizzava ogni tipologia di legno (compreso legno con vernici e conservanti vari)
come combustibile.
Dai processi di combustione a fuoco diretto possono derivare vari tipi di sostanze potenzialmente
cancerogene come le dinitroso-metilamine (DNMA) e i carboidrati policiclici aromatici (PAH).
Questi ultimi sono stati recentemente segnalati in oli di palma (Guillén M.D. et al., 2000).
Nel giugno del 2000, un preparato a base di cloruro di colina, proveniente dalla Spagna, è stato
trovato contaminato con diossine a livelli piuttosto elevati. La contaminazione sarebbe derivata
dall'impiego di un supporto a base di farina di tutolo di mais mescolato con segatura di legno
contaminata.
Discorso a parte riguarda gli oli di pesce e le farine di pesce ad alto contenuto in diossine, che possono
elevare il tenore in diossine dei mangimi dove sono addizionati. I prodotti ittici derivanti dai mari europei si
caratterizzano, in genere, per livelli di contaminazioni apprezzabili e decisamente superiori a quelli derivanti
dalle zone del Pacifico.
Le due filiere produttive che richiedono una sistematica e particolare attenzione sono quella dei ruminanti,
specie se allevati al pascolo, e quella delle produzioni ittiche, soprattutto per i prodotti della pesca. Per i
ruminanti il problema deriva dalla contaminazione dei foraggi e dei terreni, per i pesci, deriva dal fatto che si
comportano da depuratori biologici delle acque.
Il trasferimento delle diossine dai mangimi alle derrate animali dipende:
20
- dal grado di clorazione (numero di atomi di cloro) e dalla posizione degli atomi di cloro del PCDD/F. I
cogeneri 2,3,4,7,8 sono i più stabili ed i meno metabolizzabili. Di questi cogeneri ve ne sono 17 con
differente metabolismo;
- dalla specie animale. Nei mammiferi, predominano i cogeneri 2,3,7,8, sostituiti. Negli uccelli e nelle uova
si trovano prevalentemente sempre i cogeneri 2,3,7,8, sostituiti, ma nel caso della recente contaminazione
riscontrata in Belgio, sono stati evidenziati anche altri cogeneri. Nei pesci sono frequentemente presenti
cogeneri diversi dai 2,3,7,8, sostituiti.
- dal tipo di matrice. Le diossine apportate con il terreno e con le ceneri sono molto meno disponibili di
quelle apportare da altre matrici.
- dalla composizione della razione. L'aumento del tenore lipidico aumenta l'assorbimento delle diossine.
Nella produzione del latte, la catena aria, foraggio, vacca è più importante della catena suolo, foraggio, vacca
(Furst P. et al., 1993).
Si stima che il trasferimento nel latte oscilli fra lo 0,17 e l'1,21% per il TCDD proveniente da ceneri (Slob
W. et al.,1995) o da foraggi contaminati. Valori analoghi sono stati riscontrati per il trasferimento da
contaminazione del pastazzo di agrumi (Malisch R., 2000). Si tratta di valori largamente indicativi e variabili
in funzione dei cogeneri originari.
Il fattore di trasferimento per il latte (FT) può essere espresso dalla formula:
FT =
Clg
Plg
------- x ------Ca
A
Dove:
Clg
Ca
Plg
A
= concentrazione nel grasso del latte (pg/g)
= concentrazione nell’alimento (pg/g)
= produzione giornaliera di grasso del latte (g)
= quantitativo giornaliero di alimento ingerito (g).
Come già detto, una grossa limitazione nella valutazione dei FT per TEQ è data dal fatto che questo
parametro dipende da vari fattori:
- tipo di cogeneri
- il tipo di matrice che apporta le diossine (es. suolo, foraggio, grassi)
- dalla specie animale.
Il trasferimento nelle carni può essere stimato non dissimile da quello del latte, fa eccezione il fegato.
Per i pesci il fattore di trasferimento dipende dalla maggiore o minore presenza di sedimento. La presenza di
sedimento ridurrebbe il fattore di trasferimento che, in questa situazione è stimabile dell'ordine dello 0,155
per 2,3,7,8 TCDD (Lonen H. et al.,1994).
Il problema delle diossine è quello del controllo delle materie prime, di precisare l'entità del carry-over e le
condizioni che lo influenzano ed eventualmente di verificare l'efficacia di sostanze sequestranti da
addizionare agli alimenti per ridurre l'inserimento nella catena alimentare umana. È importante controllare la
contaminazione di fondo dei vari prodotti. In dieci anni, la contaminazione media nei paesi industrializzati si
è ridotta di 10 volte, ma certamente è un problema non risolto, soprattutto per gli alimenti di origine animale.
La minaccia microbica
La resistenza agli antimicrobici esisteva nei microrganismi certamente prima che gli antibiotici fossero
introdotti nella pratica medica umana e veterinaria. La resistenza antimicrobica è largamente diffusa
nell'ambiente, nelle acque costiere, nelle acque interne, nel terreno, ecc. (E.C., 1999a). In via recente però si
è riscontrato un inesorabile aumento nella resistenza ai farmaci che si è manifestato parallelamente alla
diffusione dell'uso degli antibiotici in tutti i settori. Particolari difficoltà sono poste nella gestione di
quest'aspetto dallo sviluppo di microrganismi che hanno acquisito resistenza nei riguardi della maggioranza
o dei possibili agenti antimicrobici. Il progressivo aumento di resistenza dei vari microrganismi patogeni ha
delle implicazioni serie per la terapia e la prevenzione di molte malattie infettive degli uomini e degli
animali.
Le aree di utilizzo degli antimicrobici sono sostanzialmente:
1) terapia e prevenzione delle malattie nell'uomo;
2) terapia e prevenzione delle malattie negli animali;
3) miglioramento delle performance produttive nell'allevamento animale (additivi alimentari);
4) protezione delle piante;
5) additivi per alimenti per l'uomo (es. Natamicina, Nisina);
6) marcatori in organismi geneticamente modificati.
21
Particolare attenzione è posta agli antimicrobici impiegati come additivi, come definiti dalla Direttiva
70/524/CE, che suddivide i prodotti praticamente in tre grandi categorie: antibiotici (numero 9);
coccidiostatici ed altre sostanze medicinali (numero 20); promotori di crescita (numero 2). L'autorizzazione
degli antimicrobici come additivi è finalizzata a livelli di impiego ai quali sia escluso un effetto di
prevenzione e terapia delle malattie. A questo principio fanno eccezione i coccidiostatici che sono utilizzati
come additivi alimentari per prevenire la coccidiosi (lo stesso vale per le altre sostanze medicamentose).
Gli auxinici antibiotici hanno determinato notevoli miglioramenti nelle performance in termini di
accrescimenti ponderali e di indice di conversione, specie nei giovani animali. Soprattutto hanno assicurato
un miglioramento dello stato sanitario e del benessere degli allevamenti intensivi.
Molteplici le spiegazioni proposte per giustificare il miglioramento delle performance negli animali allevati e
correttamente riassunte da Rosen G.D. (1995). Si tratta di una risposta di tipo multifattoriale complessa
(tabella n. 12).
Tabella n. 12 - Effetti fisiologici, nutrizionali e metabolici degli AMGP (fattori di crescita
antimicrobici) (Piva G. & Rossi F., 1999)
Effetti fisiologici
- velocità di transito intestinale ↓
- diametro della parete
↓
intestinale
- lunghezza della parete
↓
intestinale
- peso della parete intestinale
↓
- capacità di assorbimento
↑
intestinale
- perdita di nutrienti con le feci ↓
- turnover degli enterociti
↓
↓ = riduzione ↑ = incremento
Effetti nutrizionali
- ritenzione energia
- sintesi di vitamine
Effetti metabolici
↑ - produzione di NH3
↓
produzione
di
ammine
tossiche
↓
↓
- ritenzione azotata
↑ - produzione di α-tossine
↓
- assorbimento di vitamine
- assorbimento di altri
nutrienti
↑ - fosfatasi alcalina intestinale
↑ - ureasi intestinale
↓
↓
- sintesi di proteine nel fegato
↑
In sintesi gli effetti più evidenti possono essere sintetizzati in un'inibizione dello sviluppo di microrganismi
indesiderati ed in un effetto di risparmio metabolico (Vanbelle M., 2000).
Il maggiore problema dell'impiego degli additivi antibiotici è che questi sono utilizzati su tutti gli animali
allevati, non solo su animali ammalati, ed in genere per lunghi periodi o per tutta la vita utile. Questo fatto
può accentuare il rischio di induzione di fenomeni di resistenza batterica agli antimicrobici.
La resistenza batterica ad un antimicrobico può essere:
- intrinseca:
una specie microbica non è suscettibile ad un particolare farmaco;
- acquisita:
la specie è normalmente suscettibile ad un certo farmaco, ma alcuni ceppi esprimono
resistenza.
La base della resistenza è genetica. Nel caso della resistenza acquisita, questa è portata da una mutazione
random del DNA del genoma batterico.
Il trattamento con antibiotici favorisce la selezione delle specie e dei ceppi resistenti.
La resistenza antimicrobica varia in funzione della specie, dalla tipologia di malattia in essere e dall'impiego
di antimicrobici.
L'allevamento intensivo con elevato numero di animali giovani concentrati in zone limitate induce
condizioni favorevoli per lo sviluppo e la diffusione di agenti patogeni. In queste condizioni diventa
necessario l'utilizzo di antimicrobici che finiscono per esercitare una pressione di selezione verso ceppi
microbici resistenti. Va quindi considerata la possibilità del trasferimento della resistenza batterica acquisita
dagli animali all'uomo.
L'uso degli antimicrobici come promotori di crescita altera i normali equilibri della microflora intestinale e
può favorire la colonizzazione da parte di microrganismi patogeni (es. Salmonelle). Si tratta della
conseguenza della riduzione della resistenza alla colonizzazione indotta da alcuni antimicrobici auxinici
(E.C., 1999a). È fatto ben documentato per l'avoparcina il cui impiego nei polli riduce la minima dose
infettiva necessaria allo sviluppo dell'infezione (Barrow P.A. et al., 1984).
L'impatto medico dell'uso degli antimicrobici come additivi alimentari è stato ampiamente discusso da parte
dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 1997) e, nel meeting di Berlino dell'ottobre del 1997, si
era giunti alla conclusione che "l'incidenza nel campo medico e della salute pubblica dell'utilizzo degli
antimicrobici in alimentazione animale non era ben chiara, tuttavia vi erano sufficienti elementi per creare
preoccupazioni e per decidere di intervenire". Nel meeting del 1998 dell'Organizzazione Mondiale della
22
Sanità (WHO, 1998) è stato associato l'utilizzo dei fluorochinoni in allevamento animale a rischi per la salute
dell'uomo.
La Comunità Europea ha preso coscienza della gravità del problema ed ha posto in atto una serie di azioni,
fra queste il fatto che dal 1 ottobre 1999, a parte i coccidiostatici e le altre sostanze medicamentose, gli unici
additivi antibiotici autorizzati sono: flavomicina, monensin sodico, salinomicina sodica e avilamicina. In
Svezia il bando totale agli antibiotici come auxinici data dal 1986.
Per gli antimicrobici utilizzati nella protezione delle piante, l'UE ha definito una normativa generale
(Direttiva 91/414/EC), con applicazioni differenziate nei diversi paesi membri. In Italia, l'utilizzo di
antimicrobici nella difesa delle piante è proibito dal 1971.
"La resistenza agli antimicrobici è un problema globale ed il solo intervento nei paesi della UE può essere
poco efficace, fino a quando provvedimenti analoghi non sono presi anche nei paesi extra UE" (E.C., 1999a).
In questo senso si stanno muovendo anche gli Stati Uniti con la proposta di legge HR 3266 (Preservation of
Essential Antiobiotics for Human Diseases Act of 1999) che ha come scopo di vietare l'uso di antibiotici
nell'allevamento animale, se non si ha una ragionevole certezza che questo non crei danni alla salute
dell'uomo. Se la proposta sarà approvata antibiotici come penicillina, tetraciclina, eritromicina, lincomicina,
tilosina, bacitracina e virginiamicina approvati come additivi alimentari non saranno più ammessi due anni
dopo l'approvazione della proposta (Osvath R., 2000).
La riduzione della pressione selettiva dovuta agli antibiotici, a seguito di un loro impiego più prudente,
dovrebbe determinare una progressiva riduzione delle forme di resistenza acquisita e favorirne l'eliminazione
dall'ecosistema. Però alcuni ceppi di E. coli resistenti hanno sviluppato dei meccanismi compensatori che
precludono alla reversione verso uno stato di normale sensibilità (Morrel V., 1997). Questa constatazione
rende particolarmente urgente e drammatica la necessità di affrontare il problema (Piva A., 2000).
23
Il bando nell'utilizzo degli antibiotici come additivi, entrato in vigore in Svezia nel 1986, ha coinciso con la
comparsa di una serie di manifestazioni cliniche nell'allevamento dei suini, specie nella fase di svezzamento
(diarree, aumento della mortalità, riduzione degli accrescimenti) (Robertson J.A. & Lundeheim N., 1994).
Nei due anni successivi al bando in Svezia, vi è stato, come conseguenza della maggiore morbilità, un
aumento temporaneo dell'utilizzo degli antibiotici come farmaci (Bjornerot L. et al., 1996). Un progressivo
miglioramento della situazione fino alla normalizzazione anche senza antibiotici come auxinici è segnalata, a
distanza di vari anni nel 1998, da Wierup (Wierup M., 1998).
La riduzione dell'impiego degli antimicrobici come additivi (con finalità auxiniche e profilattiche) impone di
ridisegnare il sistema di allevamento intensivo che si è andato sviluppando in questi ultimi 50 anni.
In questi termini è molto chiara l'opinione, sugli antimicrobici come additivi, adottata dallo SCAN, il 28
maggio 1999: "L'uso degli antimicrobici che sono o possono essere utilizzati in medicina umana o
veterinaria (compreso quando vi è il rischio di selezione di resistenza crociata da trattamenti di infezioni
batteriche) deve essere abolito al più presto. Sforzi devono essere sviluppati per sostituire questi agenti
promotori di crescita antimicrobici per evitare il rischio di infezioni intestinali in assenza di alternative agli
antimicrobici. Quest'azione deve essere sviluppata parallelamente a modifiche nelle tecniche di allevamento
che assicurino il mantenimento dello stato sanitario e del benessere durante la fase di transizione".
Molteplici sono le possibili vie per tentare di supplire all'impiego degli antimicrobici come additivi negli
allevamenti intensivi:
- Interventi a livello di tecniche di allevamento quali, trattamenti farmacologici in acqua di abbeverata per
brevi periodi (due giorni) in sostituzione degli auxinici nel mangime (Wierup M., 1998); lo svezzamento dei
suinetti su paglia invece che con sistemi convenzionali ridurrebbe il consumo di farmaci post-svezzamento di
3-4 volte (Holmgren N. & Lundheim N., 1994);
- Sviluppo di vaccini. L'introduzione dell'utilizzo di vaccini contro la foruncolosi degli allevamenti intensivi
di pesci in Norvegia ha eliminato un utilizzo allarmante di antimicrobici dispersi nelle acque (Markestad A.
& Grave K., 1997).
- Alternative alimentari ai promotori di crescita nell'allevamento animale sono essenziali ai fini di garantire il
mantenimento di un adeguato livello produttivo. Già più di dieci anni fa, Vanbelle ipotizzava lo sviluppo di
una zootecnia europea senza antibiotici (Vanbelle M.,1989) ed ha ripreso il tema il 18 giugno u.s. (Vanbelle
M., 2000).
- Ridefinizione delle modalità di razionamento:
a)
riduzione del tenore proteico delle diete, nel caso dei suini, diminuiscono i rischi di turbe intestinali
(diarrea). Un eccesso di proteine indigerite che raggiunge il grosso intestino favorisce lo sviluppo di
una microflora indesiderata (Kjeldsen N. et al., 1999). Si tratta di attivare un razionamento più mirato
all'applicazione della "proteina ideale" ed a ridurre l'entità del turnover proteico.
Un interesse particolare riveste un intervento sul metabolismo intermedio con l'utilizzo dell'acido αchetoglutarico (AKG). In diete a tenore azotato pari a zero, l'AKG consente di ridurre drasticamente il
turnover azotato (Piva A. et al., 2000) (tabella n. 13).
Tabella n. 13 - Eliminazione di azoto (endogeno fecale e urinario) in diete prive di azoto (Piva A. et al.,
2000)
N Fecale
(mg/topo)
N urinario
(mg/topo)
N totale
a,b
(mg/topo)
(mg/topo/d)
Giorni
0-6
7-12
0-12
0-6
7-12
0-12
0-12
0-12
Controllo
51,40±19,12
46,49±10,78
97,89±25,44
175,00±32,98b
60,35±39,65b
235,35±65,01
333,25±77,42
27,77±6,45
AKG 3g/kg
42,70±21,00
46,13±16,68
88,83±26,50
141,82±31,68a
50,74±39,52a
192,56±64,99
281,39±81,46
23,45±6,78
AKG 6g/kg
36,78±10,59
53,94±19,42
90,72±26,09
148,96±37,74ab
49,79±29,56a
188,79±54,16
279,50±62,98
23,29±5,25
: P<0,05
b)
controllo e riduzione al minimo dei fattori antinutrizionali (antienzimi, micotossine, perossidi,
polisaccaridi ad effetti indesiderati, ecc.)
c)
alimentazione biotica: gestione biotica dell'alimentazione (Luchansky J.B., 2000) che deriva dalla
necessità di considerare gli apporti alimentari per gli aspetti di tipo para-farmacologico attraverso un
approccio BIOfarmaceuTICO che comprenda: sinbiotica (= probiotica + prebiotica), erbiotica e
nutribiotica.
- utilizzo di Sinbiotici:
24
-- Probiotici, definiti come "microrganismi viventi che esplicano effetti benefici nell'animale ospite
migliorando il bilancio della sua microflora" (Fuller R., 1989), intesi come adeguati ceppi di batteri
lattici vivi, sono riconosciuti in grado di migliorare le performance di giovani animali in crescita. "La
probiosi esprime la capacità della microflora gastro-intestinale di resistere allo sviluppo abnorme di
singoli componenti o di ceppi esogeni". L'efficacia dei probiotici è fortemente condizionata dai ceppi
utilizzati, dalla loro capacità di superare la barriera gastrica e di insediarsi aderendo alla parete
intestinale. L'azione va ricondotta a meccanismi di colonizzazione competitiva ed esclusiva (Piva G.
& Rossi F., 1999) e di produzione di specifiche sostanze a funzione antibiotico simile (es.
batteriocine) (Piva A., 1998). L'efficacia è fortemente condizionata dalle situazioni ambientali nelle
quali si opera. La Commissione Europea ben conscia dell'importanza di questi "additivi" li ha definiti
come categoria ed ha dato mandato allo SCAN di proporre delle linee guida specifiche per la loro
valutazione. Lo SCAN ha espresso la propria opinione (18/02/00) indicando la necessità di effettuare
le sperimentazioni (almeno 3) in condizioni differenti. I lieviti, ad esempio, rientrano in queste
categorie e ad alcuni ceppi è riconosciuta la prerogativa di stimolare la risposta immunitaria (Hansel
R., 1998 citato da Vanbelle M., 2000), oltre a modulare l'attività della microflora del digerente. Molti
sono gli aspetti ancora da chiarire per quanto riguarda i meccanismi d'azione. È un settore di ricerca
assai promettente.
-- Prebiotici I prebiotici sono stati definiti come "ingredienti alimentari non digeribili che inducono
effetti benefici nell'ospite stimolando la crescita o l'attività di uno o più microrganismi desiderabili nel
colon". Si tratta di una definizione che si avvicina a quella di alimenti funzionali (Saris W.H.M. et al.,
1998).
Si tratta di ingredienti alimentari non digeribili nel piccolo intestino e che sono fermentati dalla
microflora dal grosso intestino.
La maggior parte dei carboidrati non digeribili sono dei carboidrati non amilacei (NSP: cellulosa,
emicellulosa, pectine, betaglucani, pentosani, gomme, mucillagini, polisaccaridi di alghe, acidi
uronici e fruttani), amidi resistenti e oligosaccaridi.
--- Un cenno particolare meritano gli sc-FOS. Con tale sigla sono indicati i frutto-oligosaccaridi a
corta catena, un particolare sottogruppo di frutto-oligosaccaridi (polimeri composti di meno di 10
molecole di fruttosio legate in posizione b, e per questo indigeribili da parte del monogastrico),
costituiti da 2, 3 o 4 molecole di fruttosio. Tali composti ampiamente rappresentati in natura (sono
contenuti ad esempio nella barbabietola da zucchero) sono dotati di una proprietà esclusiva, che li
differenzia dagli altri FOS e dalle inuline (molecole costituite da lunghe catene di fruttosi e reperibili
nella cicoria): possono essere utilizzati come nutrimento solo dai batteri "utili" (bifidobatteri,
lattobacilli e Bacteroides spp.), favorendone quindi una proliferazione ai danni delle specie patogene
(tabella n. 14).
Il miglioramento delle performance di crescita osservato nei suini alimentati con gli sc-FOS può
essere dovuto, oltre che al migliore stato sanitario, anche ad un miglioramento dell'efficienza
alimentare: gli acidi grassi volatili a corta catena prodotti dalla fermentazione di questi composti da
parte dei bifidobatteri stimolano la proliferazione delle cellule della mucosa intestinale, accelerando il
ricambio cellulare o rigenerando i villi atrofizzati per effetto dello stress (per esempio quello
accumulato nei due giorni successivi allo svezzamento) ed esaltando l'assorbimento delle diverse
componenti dietetiche.
La somministrazione di sc-FOS consente di ridurre le emanazioni fecali sgradevoli e di ottenere, in
virtù del miglioramento sanitario, partite di suini più uniformi. La ridotta presenza di germi patogeni
nell'intestino dovrebbe infine concorrere a migliorare l'igiene in sede di macellazione.
Tabella n. 14 - Metabolismo dei FOS da parte di batteri (Wada, 1990)
Substrato
Positivo
Bifidobacterium
L. acidophilus
Lactobacillus
Bacteiroides
Non Positivo
Clostridium
Eubacterium
Fusobacterium
Peptostreptococcus
Veilonella
Citrobacter
E. coli
Salmonella
25
--- Gli amidi resistenti che non sono digeriti nel piccolo intestino raggiungono il grosso intestino e
sono fermentati con la produzione di butirrato, che esplica effetti benefici sul trofismo della mucosa
della parete intestinale. Gli acidi grassi a corta catena derivati dall'attività fermentativa dei
microrganismi esercitano un effetto sistemico sul metabolismo dei lipidi e del glucosio (Saris V.H.M.
et al., 1998).
- Nutribiotici:
-- Lectine: Le lectine solubili di bucaneve, aglio, banana, ecc. sono allo studio per le loro proprietà di
competere nell'occupare i siti glicosati delle fibrio-adesine utilizzate dai patogeni (Pusztai A. &
Bardocz S., 1995). In questo modo i patogeni non possono insediarsi.
Le lectine interagiscono poi con le poliamine modificando lo sviluppo della struttura dei villi,
condizionano la capacità di riparazione dell'intestino e l'efficienza della capacità assorbente.
-- Enzimi: molteplici le potenzialità derivanti dall'utilizzo degli enzimi che hanno iniziato ad essere
proposti in alimentazione animale negli ultimi 15 anni.
26
Le opportunità derivanti dall'impiego degli enzimi in alimentazione animale possono essere così
riassunte (Vanbelle M., 2000):
- aiutare l'attività digestiva degli animali in fase di svezzamento ad incompleta attività di secrezione
enzimatica;
- degradazione di composti ad azione antinutrizionale non digeriti dagli enzimi dell'apparato
digerente (betaglucani in orzo ed avena; pentosani solubili in segale; frazioni fibrose strutturali in
vari alimenti) che creano situazioni digestive anomale e riducono l'assorbimento di molti nutrienti;
- valorizzazione di vari sottoprodotti: cruscami vari, granelle di leguminose, sorgo, patate, ecc.;
aumento della disponibilità del fosforo costituente i fitati;
migliorare la qualità delle farine di carne da sottoprodotti del macello;
miglioramento del benessere dei polli per riduzione dell'umidità della lettiera;
- modificare favorevolmente, agendo sulle caratteristiche del substrato, la qualità della microflora del
digerente;
- inibire l'attività di alcuni patogeni in polli e suini (es. salmonelle, coli, treponema, ecc.) con
lisozimi, chitinosi e betaglucanasi;
migliorare la qualità degli insilati;
degradazione delle micotossine.
Gli enzimi possono esplicare la loro attività come adiuvanti tecnologici specie nell'alimentazione ad
umido (suini) o possono agire nel grosso intestino resistendo all'azione proteolitica degli enzimi del
digerente.
Lo SCAN ha fissato delle linee guida per la valutazione dell'attività degli enzimi da utilizzare in
alimentazione animale che rappresentano certamente un indirizzo per lo studio di questi additivi
alimentari.
Uno dei campi più promettenti è certamente, accanto a quello di migliorare l'utilizzabilità dei
nutrienti, quello di riduzione delle sostanze tossiche, micotossine in particolare.
-- Acidi organici: vari acidi organici, a volte mescolati ad acidi inorganici, sono stati utilizzati da
decenni (antibatterici ed antimuffa) per migliorare la salubrità e l'efficacia degli alimenti
(Kirchgessner M. & Roth F.X., 1988). Più recentemente è stato evidenziato un chiaro effetto positivo
degli acidi organici sulle performance dei suini come documentano varie ricerche ed in particolare
quelle di Kirchgessner M. & Roth F.X. (1995). Per una sintesi degli effetti si rimanda alla rassegna di
Piva G. & Rossi F. (1999).
Non univoca l'interpretazione dei meccanismi di azione e non semplicisticamente riconducibile ad un
effetto sul pH intestinale.
I meccanismi di azione nei riguardi dei vari ceppi microbici sono stati esaminati e discussi in una
recentissima rassegna (Piva A., 2000). In quest'ambito si è anche evidenziata la possibilità, nel caso di
un non corretto impiego degli acidificanti organici, dell'induzione di fenomeni di resistenza microbica
(Guilfoyle D.E. & Hirshfield I.N., 1996). Il fenomeno sembrerebbe ovviabile con l'impiego di acidi
organici gastro-protetti, dato che il meccanismo di induzione di resistenza si verificherebbe nelle
condizioni di basso pH a livello gastrico. Il processo di induzione di resistenza sembrerebbe
condizionato dalla basse condizioni di pH gastriche, per cui in queste situazioni la presenza di certi
acidi organici favorirebbe lo sviluppo di fenomeni di resistenza microbica. Per ovviare a questo
inconveniente, l’adozione di sistemi di gastro-protezione degli acidi organici sembra efficace. Diventa
quindi critico l'utilizzo di adeguate miscele di acidi organici ed una precisa definizione e gestione del
punto di azione degli stessi. Gli acidi grassi adeguatamente protetti sembrano essere molto più efficaci
di quelli non protetti.
Gli acidi organici attualmente oggetto di attenzione sono:
- acido formico
- acido fumarico
- acido malico
- acido tartarico
- acido citrico
- acido benzoico
- acido sorbico
- acido acetico
- acido propionico
- acido butirrico
- acido lattico
Altri acidi organici sono allo studio per le loro peculiari capacità di interferire sul metabolismo dei
tessuti.
27
Interessanti in merito le ricerche sull'utilizzo dell'AKG, al quale sono riconosciuti effetti positivi sullo
sviluppo della mucosa intestinale (allungamento dei villi) (figura n. 3).
Figura n. 3 - Correlazione tra allungamento degli enterociti e dose di AKG (Piva A. et al., 2000)
28
Contaminazione Genetica
Attualmente oltre 50 organismi vegetali geneticamente modificati sono stati approvati per l'utilizzo in
differenti paesi (Beever D.E. & Kemp C.-F., 2000). Si tratta di vegetali modificati per aumentare la
resistenza agli attacchi parassitari e alle malattie, per migliorare il valore alimentare, per assolvere a funzioni
farmacologiche e particolari utilizzi industriali, ecc.
Nei riguardi della difesa dagli attacchi parassitari, questi vegetali vanno a sostituire gli insetticidi aspecifici,
con funzioni insetticide specifiche, con benefici effetti sulla biodiversità degli insetti e dell'entomofauna in
generale. La riduzione della richiesta di insetticidi ed erbicidi diminuisce la contaminazione delle acque e del
suolo. Il controllo degli attacchi da insetti, muffe e virus migliora la qualità delle derrate per l'uomo in
aggiunta a particolari prerogative nutrizionali ottenibili (maggior tenore in vitamine, caratteristiche
desiderate nella composizione dei grassi e delle proteine, ecc.). A questo si accompagna una riduzione dei
costi di produzione ed un risparmio di fertilizzanti e di acqua per unità di prodotto.
Nonostante tutto questo vi è una crescente preoccupazione da parte dei consumatori per possibili pericoli
derivanti dall'ambiente (riduzione della biodiversità), ma soprattutto per l'esposizione al DNA modificato,
attraverso gli alimenti, degli animali e dell'uomo.
In merito agli OGM si devono distinguere i prodotti derivati da organismi geneticamente modificati
(POGM), quali enzimi, vitamine, zuccheri, amidi, grassi, ecc., e OGM per se stessi, come colture
microbiche, alimenti o sottoprodotti alimentari (es. farine di estrazione).
Nel 1996, la Commissione Europea, in base alla Direttiva 90/220/EEC, ha autorizzato la
commercializzazione di soia GT (Tollerante al Glifosate), OGM, da impiegarsi in alimentazione umana ed
animale. Nel 1997, concesse la stessa autorizzazione per il mais OGM denominato Bt.
Attualmente vengono sollevate alcune perplessità in merito a:
- sostanziale equivalenza fra i prodotti OGM ed i relativi isogenici non modificati dal punto di vista
nutrizionale e di effetti sulla fisiologia degli animali;
- destino di frammenti di DNA modificato ingeriti dall'animale;
- influenza degli OGM sulla salute degli animali e sulla qualità dei prodotti.
La valutazione della sostanziale equivalenza fra i POGM ed i relativi isogenici dipende dalla tipologia di
modifica che si è voluta indurre con il DNA modificato. Ci limitiamo ad un esame degli OGM modificati per
la resistenza a certi insetti (mais Bt) o per la tolleranza a specifici erbicidi (mais e soia).
Per quanto riguarda i principi alimentari principali non si evidenziano differenze apprezzabili in mais e soia
per il valore alimentare (tabella n. 15).
Tabella n. 15 - Riassunto degli studi per valutare l'equivalenza sostanziale tra alimenti transgenici e
linee isogeniche originali (Flachowsky G. et al., 1999).
Autori
Padgette et al. (1996)
Hammond et al. (1996)
Alimento transgenico
Soie GT
Soie GT
Ingredienti1) Somministrati a Valutazione
varietà animali nutrizionale e
fisiologica1)
≈
≈
≈
Topi
≈
≈
Broilers
≈
Pesce gatto
≈
Bovini da latte
≈ (?)2)
Aulrich et al. (1998)
Brake & Vlachos et al. (1998)
Halle et al. (1998)
Daenicke et al. (1999)
Mais Bt, granella
Mais Bt, granella
Mais Bt, granella
Mais Bt, insilato
≈
≈
≈
≈
Meyer et al. (1999)
Bohme & Aulrich et al. (1999)
Mais Bt, insilato
Mais resistente al "Basta",
granella
Barbabietole da zucchero
resistenti al "Basta",
granella
Mais Bt granella
Bohme & Aulrich et al. (1999)
Piva et al (2000)
≈
≈ (?)3)
≈
≈
≈
≈
Galline ovaiole
Broilers
Broilers
Pecore
Bovini da
ingrasso
Bovini da latte
Suini
≈
Suini
≈
≈
Broilers
≈
≈
≈
29
1
≈: nessun cambiamento significativo (p>0.05)
aumento significativo, miglioramento (p<0.05)
3
riduzione significativa (p<0.05)
2
Abbiamo avuto l'occasione di controllare comparativamente la composizione del mais Bt e del relativo
isogenico raccolto a maturazione cerosa per la preparazione di insilati di trinciato integrale e non è stata
evidenziata alcuna differenza apprezzabile sia sul prodotto alla raccolta sia sul processo di fermentazione
dell'insilato. Si tratta di valori ottenuti da mais coltivati in varie località della pianura padana.
Effetti della presenza di DNA modificato nel sistema alimentare
L'uomo e gli animali sono stati esposti per milioni di anni a DNA estraneo proveniente dagli alimenti. Il
DNA "estraneo" fa parte dell'ecosistema (tabella n. 16).
Tabella n. 16 - Circolazione di DNA come componente dell'ecosistema (Doerfler W. & Schubert R.,
1997)
1. Ingestione alimenti
Escrezione
Eliminazione per 1 milione di abitanti
2. Infezione da virus e microrganismi
3. Persone morte
4. Pressione stagionale da mondo vegetale
5. Trasmissione nei rapporti sessuali
6. DNA ricombinante in laboratorio
100 - 1000 mg DNA/gg
1 - 10 mg DNA/gg
1 - 10 kg di DNA/gg
100 g per persona
88 t./anno in Germania
Pollini, foglie e frutti probabilmente tonnellate
10 a 30 mg DNA/anno
5 - 15 kg DNA/anno/mil./abitanti
10-0 - 10-6 g DNA/laboratorio/esperimento
1-5. si sono verificati per milioni di anni
6. DNA ricombinante dal 1972
Si può stimare che un suino di 80 kg ingerisca circa 5 g di DNA ed una vacca circa 50 g (Flachowsky G. et
al., 1999). A questi quantitativi va aggiunto il DNA prodotto dai microrganismi nell'apparato digerente. In
una vacca ad elevata produzione, il quantitativo di proteine microbiche può raggiungere e superare i 3,000g
al giorno. Queste contengono vari grammi di azoto come acidi nucleici, componenti fondamentali del DNA.
Su questi quantitativi di DNA la quota di frammenti GM è certamente insignificante ed è stimabile
dell'ordine dello 0,00016-0,00066% dell'intero genoma per mais resistente agli insetti e per soia tollerante
agli erbicidi (Beever D.E. & Kemp C.-F., 2000).
Il DNA ed i frammenti di DNA, dopo l'ingestione sono rapidamente degradati nell'ambiente acido gastrico e
dall'azione di enzimi specifici nel tratto digerente. Gli enzimi coinvolti nell'idrolisi del DNA sono delle
endonucleasi secrete nell'uomo dalle ghiandole salivari, dal pancreas, dal fegato e dalle cellule di Paneth nel
piccolo intestino. L'attività delle endonucleasi si esprime anche a livello dei lisosomi nei fagociti ed è
coinvolta nella frammentazione del DNA durante l'apoptosi. Non può in ogni caso essere escluso che
frammenti di geni possano entrare in contatto con l'epitelio intestinale ed essere assorbiti. Alcune ricerche
hanno evidenziato la presenza di frammenti di DNA anche modificato in alcuni tessuti e liquidi fisiologici. Il
DNA estraneo è stato ritrovato nelle cellule e nei tessuti del sistema immunitario (Schauzu M., 1997), ma
non sono stati trovati frammenti di DNA modificato nel latte (tabella n. 17).
Tabella n. 17 - Indagine sulla trasmissione di DNA "estraneo" in animali da laboratorio (Flachowsky
G. et al., 1999).
Autori
Schubbert et al.
Origine DNA
DNA fagico
Specie animale
Topo
Schubbert et al. (1997)
DNA fagico
Topo
Schubbert et al. (1998)
DNA fagico
Topo in gestazione
Soia GT
Bovino da latte
Klotz & Einspanier
(1998)
Risultati
Frammenti di DNA nel flusso
sanguigno
Frammenti di DNA fino a 8h nei
leucociti, fino a 24h in reni e
fegato
Trasmissione placentare di DNA ai
feti (in 16 su 108 feti)
Frammenti di DNA della pianta in
leucociti, nessuna presenza nel
30
latte
In ogni caso, il trasferimento di frammenti di DNA dal mondo vegetale al mondo animale è un processo
continuo e non può certo essere considerato un problema derivante dall'utilizzo di OGM. È un aspetto che va
certo approfondito.
In merito ai possibili effetti sulla salute animale per ora i dati disponibili relativi agli effetti del controllo
della presenza di micotossine sono positivi.
31
Per quanto riguarda la proteina insetticida espressa nel mais da frammento di DNA derivato dal Bacillus thuringiensis,
questa risulta sostanzialmente identica a quella identificata come agente attivo nel controllo degli insetti nell'agricoltura
biologica ed utilizzata da oltre 40 anni. Allo stesso modo l'EPSP synthase espressa nel mais e nella soia, dal gene
tollerante agli erbicidi, è stata consumata dagli uomini e dagli animali da quando hanno iniziato a consumare il mais e la
soia.
Antibiotici come marker del DNA
Recentemente è stata avanzata l'ipotesi che l'assunzione alimentare di piante GM con resistenza antibiotica di origine
genomica possa favorire lo sviluppo di nuovi microrganismi resistenti agli antibiotici (Forbes J.M. et al., 1998). È noto
che l'antibiotico resistenza viene trasferita tra differenti ceppi batterici attraverso i plasmidi (frammenti circolari
extracromosomali di DNA o per trasferimento di geni antibiotico resistenti da un genoma all'altro). Ad oggi è stata
segnalata una sola specie batterica (Acinetobacter sp. BD413) che abbia incorporato frammenti di DNA da piante,
questa specie batterica è molto inusuale. Quindi il rischio di aumentare la resistenza nei riguardi della neomicina e della
canamicina per questa via è molto remoto.
Anche questo è un problema che va ovviamente approfondito.
Il rischio micotossine
È un problema di attualità per alcuni prodotti di origine animale ed abbondantemente noto. I limiti posti dalla Comunità
Europea per il latte, entrati in vigore da alcuni mesi, hanno accentuato la sensibilità nei riguardi di questo problema
forse troppo a lungo sottovalutato. Il problema della presenza di aflatossina M1 nel latte o nei latticini, è un problema
del quale si è già abbondantemente discusso, per il quale sono noti gli strumenti per tenerlo sotto controllo. Alcuni
interventi per ridurre la contaminazione degli alimenti (adeguate miscele di antimuffa) e per ridurre il carry-over sono
ormai pratica comune.
Alcune argille (bentoniti in particolare) hanno un notevole effetto sequestrante dell’aflatossina B1 (in vitro superano il
90%) ed in questo modo è possibile diminuire il carry-over nel latte di oltre il 40%. Sono allo studio sistemi di
decontaminazione biologica che sfruttano l'azione in tal senso di alcuni microrganismi (lattici) e di alcuni enzimi. È un
campo affascinante di ricerca.
Due micotossine, oltre all’aflatossina, sono oggetto di attenzione nelle nostre condizioni climatiche: l'ocratossina A e le
fumonisine.
L'attenzione sull'ocratossina nella filiera animale deriva da una recente indagine di ricercatori dell'Agenzia Francese per
la Sicurezza Alimentare ("Agence Française de Sécurité Sanitaire des Aliments", AFSSA) che ha tenuto sotto controllo
nel 1997 e nel 1998 oltre mille suini per la presenza dell'ocratossina A in reni, fegato e carni.
L'ocratossina A è stata valutata dal International Agency for Research on Cancer (IARC, 1993) appartenente al gruppo
2B come sostanza probabilmente carcinogenica per l'uomo, almeno in base ai dati ottenuti sugli animali. È la tossina
sospettata di essere il maggiore agente eziologico della BEN (Balkan Endemic Nephropathy) nell'uomo e correlata ad
una nefropatia dei suini (Krogh P., 1976). Indagini in vari paesi hanno permesso di riscontrare una contaminazione del
sangue dell'uomo e del latte materno, più o meno accentuata. Di maggiore rilievo è quella riscontrata in Francia nelle
popolazioni rurali (Creppy E. et al., 1993).
La contaminazione da ocratossine riguarda soprattutto gli alimenti di origine vegetale, oltre all'orzo, il caffè, il
cioccolato ed i più insospettabili come il vino, la birra. Anche le carni suine possono essere contaminate. Secondo i dati
dei ricercatori dell'AFFSA, derivati da un programma di monitoraggio condotto per 2 anni sulla presenza di ocratossina
A nei reni dei suini, nel 1998 il 7,6% dei campioni di suini controllati al macello denunciava livelli di contaminazione
compresi fra 0,5 e 5,0 µg.kg-1 (tabella n. 18).
33
Tabella n. 18 - Livelli di ocratossina A (OTA) risultati in reni di suini in Francia; Controllo nazionale 1998
(Dragacci S. et al., 1999)
N° campioni controllati
(1)
Campioni con tracce di OTA (%)(1)
472
livello di rilevamento medio: 0,20 µg.kg-1
Campioni con OTA
≥ 0,5 µg.kg-1 (%)
7,6
25,9
Anche se la carne suina non può essere considerata la principale fonte di contaminazione per l'uomo è evidente che i
suini sono esposti al consumo di alimenti contaminati. È quindi necessario tenere sotto controllo la produzione suina e
quella degli alimenti per suini (Dragacci S. et al., 1999). In Danimarca, per esempio, il monitoraggio delle nefropatie è
già tenuto sotto controllo sistematico.
Le fumonisine B1, B2, B3 e B4 sono micotossine prodotte da funghi del genere Fusarium (F. moniliforme e F.
proliferatum) che attaccano molto frequentemente il mais e che sono presenti in questo cereale anche senza determinare
sintomi evidenti. Spesso l'infezione avviene o viene aggravata a seguito dell'attacco della piralide (Ostrina nubilalis).
Le fumonisine sono micotossine che determinano leucoencefalomacia mortale nei cavalli e nei conigli (Beier R.C. &
Stanker L.H., 1996), edema polmonare nei suini e tumori nei ratti (Marasas W.F.O., 1995). Il tumore esofageo
nell'uomo è associato al consumo di mais o di suoi derivati ad alta concentrazione di fumonisina. Queste sostanze sono
ora classificate in Classe B2 come probabili sostanze cancerogene dal IARC (IARC, 1993).
L'allevamento animale rappresenta una barriera biologica all'inserimento di questa tossina nella catena alimentare
dell'uomo, ma resta pur sempre un problema per il mais ed i suoi derivati che giungono sulla nostra tavola e per gli
animali, dato che la nostra zootecnia è prevalentemente basata sul mais.
I mais geneticamente modificati sono in grado di esprimere la presenza di proteina CryIA che li rende resistenti alle
infestazioni da piralide. Questa resistenza si traduce in una minore suscettibilità all'attacco da Fusarium. Infatti la
letteratura segnala una minore contaminazione da funghi del genere Fusarium nel caso del mais Bt e viene ovviamente
avanzata l'ipotesi di una minore presenza di micotossine (Munkvold G.P. et al., 1997).
In esperienze con infestazione manuale da larve di piralide, i mais GM che esprimono la proteina CryIA sono risultati
meno contaminati da fumonisine (Munkvold G.P. et al., 1999).
In condizioni di campo, nella pianura padana, abbiamo controllato mais Bt e mais isogenico coltivato in tipiche
condizioni di campo in 3 località. Il differente livello di contaminazione delle granelle da fumonisine è molto
significativo (Masoero F. et al., 1999) (tabella n. 19).
Tabella n. 19 - Contaminazione da micotossine in mais Bt ed isogenico proveniente da differenti località (1997)
(Masoero F. et al., 1999)
ISO
Fumonisina
Ergosterolo
Aflatossina
Zearalenone
Deossinivalenolo
ppb
ppm
ppb
ppb
ppb
Bt
19759,33
34,23
0,02
0,00
358,83
P
2020,89
9,78
0,01
34,44
290,80
0,0672
0,0298
0,7418
0,2415
0,1879
Figura n. 4 - Contenuto in micotossine di mais normali e transgenici (Bt) (Masoero F. et al., 1999)
40
35
30
35.0 B
25
Normale
Bt
20
15
20.05 b
10
5
0
1.97 a
Fumonisina B1
10.0 A
Ergosterolo
a,b (P<0.05) A,B (P<0.01)
34
Gli interventi per controllare la contaminazione da micotossine sono molteplici:
-
di tipo agronomico per la riduzione della contaminazione fungina al momento della produzione (es. mais Bt), al
momento del raccolto (scelta di cultivar che evitano i periodi climatici a maggiore rischio) e dell'essiccamento;
di gestione degli stoccaggi per controllare le contaminazioni da magazzino delle materie prime;
di controllo dei processi di produzione dei mangimi per controllare la contaminazione in questa fase;
scelta di alimenti a basso rischio, per specie sensibili o per prodotti sensibili;
impiego di adeguati sequestranti per ridurre il carry-over;
ricerca di microrganismi in grado di degradare le micotossine (batteri lattici) o di produrre enzimi specifici;
scelta di adeguati programmi di gestione delle informazioni per verificare il rischio di contaminazione e per
effettuare interventi e trattamenti mirati.
La ricerca in questo campo è appena agli inizi e può dare un contributo fondamentale ad un grave problema di sicurezza
alimentare.
CONCLUSIONI
Le scienze dell'alimentazione animale sono in primo piano sul fronte della sicurezza alimentare. Quello che mangiano
gli animali allevati alla fine diventa nostro cibo. Le nostre conoscenze sulle possibilità di intervento sono ancora
limitate e mai come ora sono apparse entusiasmanti le possibilità in questo settore.
Molte delle scelte operative degli ultimi cinquanta anni sono destinate ad essere rapidamente superate.
La ricerca scientifica deve avere la capacità di rassicurare il consumatore e di comunicare onestamente i risultati delle
sperimentazioni.
Per fare questo gli scienziati devono avere una chiara coscienza del proprio ruolo ed operare liberamente. Si assume
gravi responsabilità chi, con scelte oscurantistiche, limita queste possibilità e per decreto impone che "il sole ruoti
attorno alla terra" o, fra un danno grave certo, ed un rischio ipotetico scelga quest'ultimo come riferimento per le proprie
decisioni.
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"La ricerca zootecnica tra biotecnologie
e produzioni tipiche"
Donato Matassino1, 2
Sommario
1. Introduzione
Siamo in una fase storica caratterizzata da forti, profondi e repentini cambiamenti che accentuano le speranze e le
angosce dell'umanità. Il rapido progresso nell'innovazione dei processi produttivi e nell' innovazione dei prodotti e il
passaggio da una concezione piuttosto statica degli eventi della vita quotidiana a una fortemente dinamica sono forieri
di grande fascino e potenzialità ma, perché no, di problematiche nuove non prive di una componente determinante del
cambiamento, quindi di gravi difficoltà nell'adattamento di ciascuno di noi da considerare nella sua specifica dinamicità
di pensiero e di idee. Questo dinamismo è foriero di proposizione di numerosi problemi dalla cui soluzione dipenderà il
tipo di società che sarà presente dal'2000' (Matassino e Cappuccio, 1998).
37
La biotecnologia è lo 'studio delle applicazioni dei processi biologici nel campo della tecnica'. Comunemente, ma
erroneamente, con il termine biotecnologia si intende: 'utilizzazione progettuale di sistemi biologici per ottenere beni e
servizi' oppure ‘utilizzazione industriale di sistemi o processi biologici al fine sia di migliorare le produzioni, sia di
ottenere sostanze e composti nuovi, sia di rendere possibili progetti in grado di rivoluzionare parecchi aspetti della
biologia'. Il trasferimento operativo dei risultati del predetto studio va definito con il termine 'biotecnica' (Matassino,
1988a).
I cambiamenti in atto nei processi produttivi con l’uso di biotecniche innovative (BI) sfociano nell’ottenimento di nuovi
prodotti.
La gestione corretta delle leggi biologiche conduce a innovazione di 'prodotto' e/o di 'processo' (quadro I). Tale
gestione, però, deve essere compatibile con i conseguenti problemi ascrivibili alla sfera dell'etica.
La valutazione dei benefici e dei rischi della rivoluzione biotecnologica costituisce un’ardua impresa date le notevoli
implicazioni sociali, etiche, economiche e ambientali. Essendo insostituibile il ruolo del ‘sistema educativo’,
considerato nella sua articolazione la piú ampia possibile, necessita un’informazione seria e disinteressata, quindi non di
parte, senza 'demonizzare' , nè 'santificare' le biotecnologie.
Lo schema II mostra i principali settori d’interesse delle biotecnologie.
Numerose ricerche hanno ampiamente evidenziato la grande variabilità di comportamento alimentare presente nelle
diverse aree geografiche del pianeta terra.
Il progresso scientifico nel settore della nutrizione dell'uomo ha raggiunto traguardi molto interessanti, ma vi è la
necessità di attuare una politica peculiare di ricerca, con particolare riguardo a temi che interessano il rapporto tra
nutrizione e salute (interpretazione dei meccanismi biochimici) e la valutazione della qualità nutrizionale degli alimenti
in relazione a tutti i segmenti della filiera produttiva.
Considerando l'obiettivo 'protezione e miglioramento' dello stato di salute del singolo cittadino, bisogna individuare
una serie di modelli nutrizionali, in relazione alla disponibilità degli alimenti, alle condizioni socio-culturali e alle
abitudini alimentari dell'area geografica di riferimento. Pertanto, l'imperativo futuro sarà 'sicurezza nella qualità totale'
(Matassino et al., 1991).
Il progresso scientifico è la 'conditio sine qua non' per realizzare innovazione di processi quindi di prodotti. Particolare
significato operativo hanno e avranno le conoscenze sui meravigliosi e fantastici meccanismi che regolano la vita,
specialmente a livello di 'fisiologia' del gene. Secondo Bettini (1986) le relazioni fra ‘stabilità del gene’ e adattamento
(= ‘capacità al costruttivismo’) dovrebbero essere oggetto di maggiore interesse da parte della ricerca. L’importanza di
tali problematiche è attestata dal fatto che la Commissione di Genetica animale della Federazione Europea di Zootecnia
(FEZ) ha previsto, per il 53. meeting che si svolgerà in Cairo nel 2001, una sessione dedicata alla seguente tematica:
‘La regolazione nutrizionale dell’espressione del gene’, specialmente in relazione all'uso di organismi geneticamente
modificati (OGM) e/o loro derivati.
L'applicazione delle leggi che regolano la vita degli esseri viventi deve tendere a ottenere alimenti in grado di soddisfare
la dinamica delle mete nutrizionali che, a loro volta, variano in funzione dello 'status' fisiologico della persona; 'status'
che è, quindi, peculiare ma dinamico nel tempo e nello spazio (Matassino, 1991).
Già Ippocrate diceva 'fa' che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo'.
La diversità di esigenze in nutrienti dell'uomo in relazione alla sua età e alla sua attività quotidiana, che si svolge in un
determinato contesto microambientale, influenzerà sempre di piú la futura politica agroalimentare. Per quanto
concerne gli alimenti di origine animale, quindi la loro produzione, alcuni aspetti fondamentali sono (Matassino et al.,
1991):
(a) l'elevato valore biologico delle proteine della carne e il giusto equilibrio fra gli aminoacidi essenziali rendono
insostituibile l'uso di questa derrata nell'alimentazione umana; particolare ruolo nutrizionale rivestono gli aminoacidi a
catena ramificata ('BCAA = Branched Chain Amino Acids') presenti in giusta proporzione nella carne
(b) la composizione chimica di un alimento non è in grado di soddisfare 'in toto' le diversificate esigenze in nutrienti di
un individuo
(c) l'allevatore dovrà essere messo in condizione di produrre alimenti capaci di ridurre la conflittualità delle
'controversie nutrizionali'
(d) la possibilità di disporre di un grande numero di tipi genetici, autoctoni o 'culturali' ognuno adatto a una determinata
nicchia ecologica e capace di raggiungere livelli ottimali quali-quantitativi delle proprie prestazioni; ciò consentirà di
soddisfare l'enorme variabilità dell'ambiente di allevamento, della cultura, della tradizione, dell'organizzazione sociale e
istituzionale, del livello economico e professionale, e del potenziale scientifico presente sul 'pianeta terra'
(e) le continue acquisizioni conoscitive dell'organizzazione e del funzionamento del genoma, con particolare riguardo
alla topologia del DNA e dell'RNA, rendono possibile la manipolazione del materiale genetico, e, quindi, le innovazioni
dei processi produttivi, quindi dei prodotti
(f) l'uso delle BI permetterà di produrre non solo di piú ma quasi certamente a rendimenti crescenti per unità animale
nell'unità temporale
(g) l'uso delle BI influenzerà l'organizzazione produttiva animale specialmente per quanto concerne:
(i) il miglioramento genetico, con particolare riguardo alla compatibilità fra 'tempo genetico' e 'tempo economico'
(ii) la gestione delle risorse alimentari esistenti e future ottenibili con l'uso di BI applicabili negli altri settori produttivi
specifici
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(iii) la collocazione geografica delle attività di allevamento degli animali in produzione zootecnica specialmente per
quanto concerne il dualismo 'allevamento intensivo' o 'allevamento estensivo' e l'utilizzazione delle risorse alimentari
delle regioni cosiddette 'difficili'
(iv) la strutturistica dell'unità produttiva zootecnica e la dinamica dell'impresa zootecnica
(v) le strategie di produzioni di qualità, attesa la sempre crescente domanda del consumatore di un prodotto
nutrizionistico in un contesto culturale tanto diversificato regionalmente sul pianeta terra
(vi) il ruolo e la funzione dell'imprenditore zootecnico che deve essere capace di percepire e di attuare i modelli di
produzione suggeriti; a loro volta questi modelli devono essere tali da adeguarsi pienamente alla dinamica e alle
differenti realtà produttive per una meno errata gestione delle risorse genetiche animali e vegetali indigene, idriche e del
suolo; il tutto in un contesto armonico capace di conciliare gli aspetti generali e specifici (tra questi, quelli sanitari)
(h) l'uso delle BI consentirà, a esempio, di modificare, anche profondamente, la composizione del latte; tenendo conto
della diversa destinazione nell'utilizzazione del latte (consumo diretto, trasformazione casearia, frazionamento
industriale, ecc.) e delle mete nutrizionali, non è piú sufficiente conoscere del latte:
(i) il suo contenuto proteico totale, ma occorre sapere il valore delle proteine e, possibilmente, la loro qualità e
quantità
(ii) il suo contenuto lipidico totale, ma è necessario determinare la composizione in acidi grassi, considerata l'enorme
importanza che riveste il rapporto acidi grassi saturi/acidi grassi insaturi ai fini nutrizionali.
Alcune BI sono già una realtà e non presentano problemi particolari per il loro uso; altre, implicanti modificazioni
profonde dell'organizzazione del sistema biologico, sono ancora in fase di studio e sono oggetto di sperimentazione,
ma si ritiene che nel giro di pochi anni potranno diventare operative. Oggi, grazie alla tecnica dell'ingegneria genetica, è
possibile manipolare, a volontà, il DNA nel senso che esso può essere frantumato, modificato, ricostituito e prodotto in
un numero infinito di copie giungendo, quindi, alla cosiddetta 'clonazione dei geni'.
Per effetto di questa
manipolazione, il corrispondente RNA è in grado di sintetizzare molecole proteiche dalla composizione desiderata.
Per un approfondimento sull'uso di BI nel settore delle produzioni animali si rinvia a: Matassino (1988a e b, 1989,
1990); Chupin (1992); Madan (1993); Matassino et al. (1993a); Zicarelli et al. (1993 e 1996); Matassino e Cappuccio
(1995 e 1997); Polge (1995); Seren e Bacci (1995); Russo et al. (1996); Russo e Davoli (1998); INRA (1998).
2.Transgenia
La transgenia racchiude in sé un potenziale ancora tutto da scoprire in quanto essa può modificare profondamente il
sistema produttivo zootecnico analogamente a quanto si ha nel settore vegetale. Numerosi problemi devono essere
risolti tra cui, segnatamente si ricordano: la casuale integrazione del DNA esogeno nel DNA dell'ospite che, in taluni
casi, determina: fenomeni di mutagenesi inserzionale, modificazioni della fisiologia e morfologia dei transgeni in
seguito all'espressione dei geni in distretti cellulari in cui ciò normalmente non avviene, ecc.. Questi incontrollabili
eventi costituiscono barriere all'applicazione dell'ingegneria genetica nell'allevamento animale. Nelle specie in
produzione zootecnica lo scambio interspecie modificherà in futuro il profilo quanti-qualitativo delle produzioni
animali. Al momento, i problemi che si pongono al ricercatore sono quelli della scelta di geni utili, del loro isolamento,
della loro eventuale modifica e del controllo della loro espressione negli animali transgenici. Indubbiamente la
possibilità di ottenere individui con nuove combinazioni geniche consente di disporre di animali non presenti in natura
per una serie di barriere non superabili attraverso la via riproduttiva 'naturale' (Matassino, 1988a).
Un esempio estremo è quello della 'costruzione' di piante transgeniche che hanno incorporato nel loro patrimonio
genetico i geni di pesci viventi in acque artiche o antartiche. Nel prossimo decennio sarà possibile coltivare piante
transgeniche per produrre vaccini, componenti del sangue e sostanze simili alle plastiche o per eliminare inquinanti dal
terreno (Matassino, 1998b).
Recentemente (Matassino, 2000a), è stato evidenziato che la 'transgenia' è un evento naturalissimo. La differenza fra
un individuo transgenico 'naturale' e uno 'culturale', cioè prodotto dall'uomo, è sostanzialmente di natura temporale,
nel senso che il primo è il risultato di trasferimenti genici non dipendenti - ordinariamente - da una scelta antropica; in
piú, i diversi trasferimenti 'naturali' di geni sono sottoposti a 'verifiche combinatorie' di lunga durata; durante queste
'verifiche' alcuni individui si riproducono altri no per incompatibilità biologica.
Matassino (1988c), nel delineare le caratteristiche dell’ipotetica ‘vacca del 2000’, evidenziava l’importanza del
contributo delle BI e, segnatamente, della transgenia, per la sua realizzazione.
Attualmente, gli animali geneticamente modificati interessano soprattutto:
(a) la produzione di farmaci per uso umano (la mammella dei mammiferi è un ottimo bioreattore per la produzione di
molecole)
(b) le ricerche in corso per la produzione di organi da suini transgenici per xenotrapianti
(c) l'ottenimento di latte modificato per alcuni suoi costituenti da destinare all'alimentazione umana al fine di
migliorare la resa in formaggio e di ridurre la carica microbica; un progetto molto ambizioso dell'industria
biotecnologica dei transgeni è quello di 'umanizzare' il latte bovino inserendo nei geni per le proteine del latte sequenze
tipiche dei geni umani.
La produzione di molecola-farmaco nel latte di mammiferi di interesse zootecnico geneticamente modificati ('gene
pharming') rappresenta un settore di ricerca in rapida espansione. Il risultato delle ricerche di Gordon et al. (1987) con
l'ottenimento di topi transgenici capaci di produrre l'attivatore del plasminogeno umano nel latte può essere considerato
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la pietra 'miliare' per il ‘gene pharming’; da allora, le ricerche in tale settore sono notevolmente intensificate su varie
specie animali allo scopo di migliorare la resa in prodotto nel latte sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Le
tappe storiche fondamentali di tali ricerche sono descritte da Wall et al. (1997) e da Wall (1998). A oggi, sono circa 20
le proteine umane ricombinanti prodotte nel latte delle specie d’interesse zootecnico e di esse, 11 sono espresse a livelli
utili dal punto di vista commerciale (≥ 1g/l).
La sostituzione dei costosissimi bioreattori convenzionali basati sulle colture cellulari con le specie di interesse
zootecnico comporta notevoli vantaggi, sia economici che operativi; la ghiandola mammaria, infatti, consente di
concentrare la produzione della proteina desiderata in un singolo compartimento, dal quale può venire facilmente
recuperata in modo non invasivo; inoltre, l'epitelio alveolare della ghiandola mammaria è in grado di fornire alla
proteina prodotta tutte le modificazioni post-traduzionali necessarie affinché la molecola possa acquistare l'attività
biologica appropriata; vari studi (Drohan et al., 1994; James et al., 1995; Morcol et al., 1994) evidenziano che tra le
specie esaminate vi sono differenze per quanto concerne le modificazioni post-traduzionali; tali differenze possono
influire positivamente sulla funzionalità della molecola prodotta quando somministrata all'uomo; a esempio, alcune
modificazioni post-traduzionali tipiche della specie umana promuovono la rapida rimozione della sostanza da parte del
fegato, mentre la stessa proteina, prodotta dal maiale, contiene modificazioni post-traduzionali che ne ritardano la
rimozione; in questo modo la proteina viene impiegata come farmaco ad azione ritardata.
La ricerca attuale è orientata verso la produzione di animali transgenici contenenti due transgeni: uno che codifica per la
proteina d'interesse, l'altro per migliorare le modificazioni post-traduzionali e quindi la resa in proteina biologicamente
attiva (Drews et al., 1995).
La dimensione della mandria, richiesta per soddisfare l’esigenza annuale di una proteina umana ricombinante, può
essere stimata mediante la seguente formula riportata da Rudolph (1999):
1,3*esigenza annuale della molecola-farmaco (g)/livello di espressione molecola farmaco(g/l)*livello della produzione
lattea annuale del singolo mammifero transgenico (l)*resa di purificazione della molecola (%),
ove il fattore 1,3 tiene conto del fatto che, qualunque sia il periodo considerato, il 30% - mediamente - dei soggetti
presenti in una mandria da latte non è in lattazione.
Attualmente, sono due le linee di ricerca percorse al fine di ottimizzare la produzione di molecole-farmaco nel latte:
(a) massimizzazione dei livelli di espressione della proteina eterologa
(b) massimizzazione dell’efficienza nell’ottenimento dei soggetti transgenici ‘fondatori’ e dell’espansione numerica a
partire dal fondatore.
Per il conseguimento del primo dei suddetti due obiettivi vengono seguiti vari approcci; uno di essi è l’inserimento, nel
costrutto transgenico, di sequenze introniche regolatrici; queste ultime possono appartenere al promotore utilizzato per
dirigere l’espressione del transgene specificatamente nella ghiandola mammaria, oppure alla sequenza del transgene; a
esempio, nel caso dell’ antitripsina, l’aggiunta dei primi introni della sequenza del gene alla sequenza di cDNA ha
come risultato l’esaltazione del livello di espressione della proteina nel latte di topi transgenici (Whitelaw et al., 1991);
invece, nel caso del fattore VIII, l’inserzione del cDNA nel primo introne del promotore WAP (whey acid protein)
incrementa la produzione del fattore VIII nel latte di scrofa (Paleyanda et al., 1997). Un altro approccio finalizzato al
miglioramento dei livelli di espressione della proteina ricombinante consiste nello studio dei fattori responsabili
dell’espressione dei geni in maniera indipendente dalla loro posizione sul cromosoma; a esempio, l’integrazione nel
costrutto genico delle regioni LCRs (locus-control regions), che sono sequenze poste a monte o a valle della regione
codificante, potrebbe contrastare la variabilità del livello di espressione dei transgeni dovuta alla casualità del sito
d’integrazione nel genoma ospite, conferendo al gene estraneo autonomia di espressione; in questo modo il livello di
espressione del transgene diventa solo proporzionale al numero di copie presenti nel genoma e non alla sua posizione.
Un secondo tipo di elemento di regolazione, che conferisce capacità di espressione indipendente dalla posizione, è
rappresentato dalle regioni MAR (matrix-attachment region), che sono zone di confine tra domini genetici adiacenti;
tali regioni, una volta isolate e integrate nel costrutto transgenico, potrebbero essere utilizzate come ‘isolatori’ in modo
da rendere l’espressione del transgene indipendente dagli effetti di posizione dovuti alla cromatina fiancheggiante il sito
di integrazione (McKnight et al., 1992).
L’altra linea di ricerca nel ‘gene pharming’, avente come obiettivo l’incremento dell’efficienza nell’ottenimento dei
soggetti transgenici e la riduzione dei tempi intergenerazionali per la costituzione di una mandria transgenica in grado di
soddisfare le esigenze annuali di farmaci, riceve un valido supporto dall’impiego delle biotecniche innovative
riproduttive (superovulazione, inseminazione strumentale, coltura e manipolazione di embrioni in vitro, clonazione).
Anche le analisi genetiche per l’identificazione del sesso e per il rilievo del transgene, condotte su biopsie effettuate
sull’embrione prima del suo trasferimento nella ‘ricevente’, contribuiscono in maniera significativa al raggiungimento
dei suddetti obiettivi in quanto solo gli embrioni del sesso desiderato e portatori del transgene desiderato vengono
trasferiti alle riceventi.
Tra le BI riproduttive, la clonazione si rivela la più promettente; infatti, è possibile trasfettare 'in vitro' qualsiasi tipo di
cellula con sequenze di DNA esogeno e utilizzare la cellula trasfettata come 'donatrice' di nucleo per il trasferimento
nucleare (TN). Tale linea operativa è stata seguita con successo da Schnieke et al. (1997) e da Cibelli et al. (1998).
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La cellula ‘donatrice’ di nucleo per il TN può anche provenire da embrioni transgenici prelevati dalla ‘fondatrice’
oppure da embrioni sviluppatisi a partire da oociti raccolti da ‘fondatrici’ superovulate e fertilizzati in vitro.
I successi nella clonazione somatica a partire da individui di qualsiasi età di sesso femminile e, recentemente anche da
maschi (Galli et al., 1999), costituiscono uno strumento validissimo per ridurre i tempi necessari per l’ottenimento di un
numero sufficiente di soggetti in grado di soddisfare le esigenze del farmaco e per poter avviare le prove cliniche.
Per una descrizione dei vantaggi del TN, rispetto alla microiniezione, si rimanda al capitolo 3.
Per ulteriori approfondimenti sulla transgenesi si rimanda a : Wall et al. (1990); Reddy et al. (1991); Persuy et al.
(1992); Bremel (1993); Carver et al. (1993); Ebert e Schindler (1993); Pursel e Rexroad (1993); Devinoy et al.
(1994); Bleck et al.(1995); Lavitrano et al. (1995); Lee et al. (1996); Wall et al.(1997); Wall (1998); Rudolph (1999).
3. Clonazione
La clonazione ha suscitato nel mondo scientifico e operativo notevole interesse in quanto potrebbe costituire da sola o
in associazione ad altre biotecniche una strategia per raggiungere con maggiore velocità determinati obiettivi genetici e
operativi da parte delle imprese zootecniche. E’ opportuno, però, precisare che tale biotecnica di per sé non potrà
sostituire i metodi tradizionali di miglioramento genetico, ma va considerata come un ausilio ai sistemi tradizionali.
La biotecnica innovativa del cosiddetto TN viene, attualmente, impiegata in programmi di miglioramento genetico nelle
maggiori specie di interesse zootecnico (bovini, ovini, caprini, ecc.), con una percentuale di sviluppo a termine di circa
il 4%.
La produzione di animali identici di elevato valore genetico porterebbe a un progresso genetico maggiore rispetto a
quello ottenibile, ad esempio, con l’inseminazione strumentale (IS); infatti, ponendo uguale a 100 il progresso genetico
che si ottiene con la sola inseminazione strumentale, con l’impiego anche della clonazione si ottiene un incremento del
50% di tale progresso:
biotecnica
progresso genetico
solo inseminazione strumentale (IS)
100
IS + predeterminazione del sesso (PS)
115
IS + trasferimento embrionale (TE)
134
IS + PS + TE
149
IS + trasferimento nucleare (TN)
159
IS + PS + TN
174
L'impiego del trasferimento nucleare come biotecnica per la salvaguardia e la moltiplicazione dei tipi genetici in via di
estinzione o di popolazioni a limitata diffusione, risulta estremamente importante, se non irrinunciabile. Non sembri
un controsenso, ma la variabilità genetica può essere salvaguardata avendo a disposizione diverse linee clonate.
Un clone, così come oggi viene prodotto, non è il frutto di una manipolazione genetica.
La disponibilità di cloni geneticamente identici permetterà di studiare gli effetti di una vasta gamma di fattori ambientali
sulle prestazioni riproduttive e produttive degli animali in produzione zootecnica e, quindi, di suggerire agli
imprenditori zootecnici soluzioni ottimali in relazione a differenti microambienti di allevamento (Matassino, 1998).
Notevoli vantaggi operativi potrebbero derivare dall'impiego di una cellula somatica prelevata da un individuo adulto,
piuttosto che da una cellula somatica fetale; infatti, se la ricerca dovesse evidenziare l'assenza di effetti negativi sulla
durata della vita riproduttiva e produttiva di cloni nati da una cellula somatica di un soggetto dalle prestazioni note,
sarà possibile incrementare la replicazione dei soggetti piú produttivi (Matassino, 1999).
Lo stesso dicasi nel caso si voglia aumentare la numerosità di soggetti con particolari attitudini comportamentali frutto
di combinazioni geniche difficilmente ripetibili con l'uso di altre tecniche riproduttive.
Secondo Smith (1989), nei bovini da carne sarebbe importante selezionare 2 tipi di cloni:
(a) il cosiddetto clone terminale, prodotto da linee paterne selezionate per le caratteristiche produttive (tasso di
accrescimento, vitalità, efficienza della conversione alimentare, composizione e qualità della carcassa, ecc.); l’embrione
prodotto da questo clone costituirà la generazione futura per la produzione di un animale da destinare alla macellazione
(b) clone materno, utilizzato come ricevente per il clone terminale; esso va selezionato in base alle caratteristiche
riproduttive (età alla pubertà, fertilità, facilità di parto, produzione di latte, longevità, propensione ai parti gemellari,
ecc.); tale clone sarà utilizzato come animale da carne soltanto alla fine della sua carriera riproduttiva
La clonazione è la sola via che consentirà di utilizzare in un programma di selezione i geni a comportamento non
additivo. La clonazione, infatti, è tanto piú efficiente rispetto alle tecniche tradizionali di miglioramento genetico
quanto piú il comportamento dei geni è di dominanza o epistatico; rientrano in tale categoria la fertilità e i caratteri a
essa collegati.
Nella specie ovina, date le difficoltà di utilizzazione dell'IS come mezzo di diffusione di materiale genetico di alto
valore, la clonazione di riproduttori maschi sarebbe certamente una strategia vantaggiosa per rendere piú efficienti i
programmi di miglioramento genetico (Matassino, 1999).
I recenti successi ottenuti dall'impiego di cellule del cumulo ooforo e dell'ovidutto permettono di individuare in tali tipi
cellulari un valido strumento per la produzione di femmine; in particolare, la cellula della granulosa può essere
prelevata facilmente, senza danneggiare l'animale, usando la tecnica dell’‘ovum pick up’ .
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La clonazione, abbinata ad altre biotecnologie, può costituire un valido strumento per il miglioramento di metodi già
esistenti nel campo della biologia molecolare. A esempio, il TN a partire da una cellula in coltura, rispetto alla tecnica
classica della microiniezione per la produzione di un animale transgenico, che nelle specie di interesse zootecnico e,
soprattutto nel bovino, ha una bassa efficienza, fra l’altro, presenta i seguenti vantaggi operativi:
(a) consente di verificare, attraverso l'inserimento di un marcatore, l'avvenuta integrazione del costrutto transgenico 'in
vitro' e, quindi, di selezionare la cellula portatrice del transgene, senza dover attendere la nascita dell'animale; ciò è
particolarmente importante quando si lavora con i mammiferi d’interesse zootecnico diversi dal topo, che sono meno
prolifici e hanno un ciclo riproduttivo piú lungo
(b) viene superato il necessario passaggio attraverso lo stadio di chimera, rendendo disponibile l'animale geneticamente
modificato in prima generazione
Con tale sistema è possibile, fra l’altro, ottenere:
(a) un animale d’interesse zootecnico geneticamente modificato in modo tale che i suoi organi siano compatibili con il
sistema immunitario dell'uomo, da utilizzare con successo per il trapianto trans-specifico o 'xenotrapianto'‘
(b) la messa a punto di modelli animali per lo studio degli elementi di regolazione dell'espressione genica nel corso
dello sviluppo embrionale e della vita adulta
(c) anche la profilassi nei confronti della BSE (bovine spongiform encephalopathy) potrebbe trarre giovamento
attraverso la clonazione a partire da cellule modificate in cui sia stato eliminato il gene della proteina prionica normale
(PrPc, prion proteincellular).
La tecnica riproduttiva della clonazione, sebbene in grado di offrire i suddetti vantaggi operativi avrà delle applicazioni
limitate fino a quando essa è associata, sostanzialmente, ad alti costi e a una certa probabilità di ottenere soggetti
portatori di anomalie fenotipiche.
Nel bovino, possiamo dire che il tallone di Achille è rappresentato dalla produzione, con una certa incidenza, di vitelli
con anomalie fenotipiche e con un'alta percentuale di mortalità neonatale.
Dalla ricerca di Wilson et al. (1995), condotta per il 70% sui tipi genetici Angus, Brangus e Simbrali, è emerso
quanto segue (tabella III; grafici I e II):
(a) un maggior peso alla nascita (circa il 20% in piú) del vitello (maschio o femmina) nato da clonazione rispetto a
quello ottenuto da TE o da IS+IN anche dopo che i pesi sono corretti o per il solo padre o per il padre e la madre
(b) la variabilità del peso alla nascita dei vitelli fratelli nati da TE risulta quasi doppia di quella dei corrispettivi fratelli
nati da IS + IN; lo stesso dicasi per il confronto fra i nati da clonazione e quelli da TE, per cui i cloni evidenziano una
variabilità quadrupla rispetto ai nati da IS+N; tutto ciò evidenzierebbe anche un effetto della 'ricevente'
(c) il tipo genetico della ricevente non influenza significativamente il peso alla nascita dei vitelli 'cloni'
(d) il peso alla nascita del vitello 'clone' è indipendente dal genotipo sia del donatore dell'oocita che di quello del
blastomero e l'interazione fra questi due genotipi non è statisticamente importante
(e) i fratelli cloni rispetto ai corrispettivi fratelli TE, per quanto concerne l'accrescimento intrauterino, crescono di piú
per un eventuale ipotetico effetto della tecnica di clonazione, non essendo possibile - a oggi - individuare altre
motivazioni.
E' da notare, inoltre, che alcuni problemi legati al parto, che interessano i nati da cloni, sono simili a quelli rilevati per i
soggetti nati da embrioni ottenuti in vitro . Il basso tasso di sopravvivenza dei nati potrebbe essere legato, fra l’altro, a
una componente epigenetica dovuta alla clonazione e alle procedure a essa correlate, come a esempio le condizioni di
coltura (carenze o eccessi nel mezzo di coltura), responsabili di una inadeguata attivazione del genoma embrionale.
Anche i fattori citoplasmatici e il modo in cui essi interagiscono con il nucleo sono importanti per lo sviluppo
embrionale. Perturbazioni di questo ambiente extragenico possono causare anomalie dello sviluppo e della metilazione
di alcuni geni.
Sulla base di quanto detto, è possibile trarre le seguenti conclusioni:
(a) la clonazione in generale e, segnatamente quella somatica, come metodo riproduttivo routinale, richiederà
indubbiamente la soluzione di tutta una serie di problemi tecnici, biologici ed economici
(b) non si può affermare che, biologicamente una cellula somatica ‘donatrice’ possegga un genoma perfettamente
identico a quello del soggetto di appartenenza
(c) la clonazione costituisce una biotecnica dal valore scientifico inestimabile ai fini dello studio e dell’approfondimento
dei fenomeni biologici in cui notevole è la componente epigenetica (imprinting, differenziamento, inattivazione del
cromosoma X nella femmina di mammifero, invecchiamento e cancerogenesi); a esempio, le ricerche sull’’imprinting
parentale’, fenomeno per il quale alleli identici a un determinato ‘locus’ vengono resi funzionalmente diversi a
seconda del genitore da cui provengono, sono rese possibili solo grazie all’impiego del TN; in particolare, attraverso la
clonazione da cellule somatiche, è possibile dedurre se l'imprinting è cancellato o conservato
(d) la clonazione può essere considerata una biotecnica innovativa da valutare positivamente nelle produzioni animali,
purché essa costituisca uno strumento da utilizzare e da gestire correttamente per raggiungere chiari obiettivi utili per
un futuro sempre piú a misura d'uomo, e quindi per il raggiungimento del ‘benessere psichico, fisico e sociale’
dell’uomo [well being e human welfare state (HWS)].
4. Biotecnologie e sostenibilità
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Tra i grandi problemi che stanno emergendo, indubbiamente quelli propri dei nuovi assetti della comunità di uomini
legati all'individuazione e all'utilizzazione delle BI e al ruolo determinante che queste svolgeranno, meritano sempre
piú un'attenzione e un interesse non piú epidermici. Infatti, il futuro dei nuovi equilibri, che caratterizzeranno la società
del divenire, sarà sempre piú influenzato dall'uso delle BI al fine di risolvere la poliedrica e caleidoscopica realtà in cui
l'essere vivente, compreso l'uomo, è inserito. In effetti, le BI vanno considerate come la condizione necessaria,
specialmente nel lungo periodo, per qualsiasi processo di sviluppo economico generale e specifico (Matassino, 1988a).
Tuttavia, la ricerca biotecnologica potrà incontrare alcune limitazioni etiche, dettate dai nuovi rapporti che verranno
definiti tra l'uomo e l'animale (Van der Zijpp et al., 1993).
Saranno individuate nuove strategie che consentiranno di accrescere la redditività dell'impresa attraverso la riduzione
dell'impiego dei fattori estrinseci della produzione e di ottenere prodotti piú salubri. Tutto ciò sarà sicuramente
realizzato nell'ottica della emergente sensibilità ai problemi della salvaguardia dell'ambiente. Nel contesto di queste
innovazioni, l'uomo è chiamato a prendere una serie di provvedimenti concreti che si ripercuoteranno ineluttabilmente
sull'attuale organizzazione della nostra vita economica, sociale e culturale e sulle progettualità future. Questi
provvedimenti dovranno costituire la base di un nuovo quadro di priorità di interessi connessi alle interrelazioni
presenti in una Comunità di uomini. La conservazione del 'presente' culturale, nell'accezione piú ampia, dovrà assurgere
a elemento primario considerata la notevole entità di valori etici ancora presenti e di risorse incontaminate che potranno
svolgere un ruolo insostituibile per un nuovo assetto dell'agroecosistema (Matassino, 1992; Wagner e Hammond, 1997a
e b).
Fra l'altro, la priorità dovrà riguardare (Matassino, 1992):
(a) la rivitalizzazione delle economie 'tradizionali'
(b) l'inversione delle uscite di risorse
(c) il blocco della distruzione delle risorse genetiche animali e vegetali autoctone, allo scopo di mantenere elevato il
'carico genetico' e la ‘variabilità genetica’; strumenti 'principe', questi, utilizzati dalla natura per aumentare negli esseri
viventi la loro 'capacità al costruttivismo' al mutare delle condizioni ambientali, mediante il sorgere di una moltitudine
di 'nicchie ecologiche' aperte
(d) la modificazione dei modelli attuali di produzione e di consumo allo scopo di ridurre il loro contributo al
deterioramento dell'ambiente e di raggiungere nuovi equilibri fra ambiente e sviluppo 'sostenibile'
(e) il cambiamento di quegli stili di vita che costituiscono 'fattori di rischio' per la sicurezza di un agroecosistema
'culturale'
(f) l'assunzione di responsabilità per un cambiamento culturale nella valutazione dei valori della vita da parte della
scuola, degli organi di comunicazione, dei politici e di quanti hanno funzione di motori di cambiamento.
Pertanto, lo sviluppo piú 'sostenibile' è quello in cui le innovazioni tecniche e biotecniche siano inglobate e incorporate
nei sistemi produttivi, sociali e culturali esistenti, senza determinare la sostituzione di questi. Cosí operando, è possibile
dare nuovo impulso all'economia locale e allo sviluppo sostenibile in armonia con una condizione ottimale di
utilizzazione delle risorse autoctone.
Concordando con Rosa (1998), al fine di realizzare uno sviluppo sostenibile con l'uso delle BI è necessaria
un'integrazione tra genetisti, etologi, economisti e sociologi in modo da conciliare le modificazioni biotecnologiche con
le finalità etiche ed economiche dell'uomo.
La logica di sviluppo sostenibile è rappresentabile dalla figura I (Giaoutzi e Nijkamp, 1993). Essa incorpora tre
'dimensioni' (obiettivi) fondamentali che devono interagire fra di loro: economica, sociale ed ecologica. Il diagramma a
triangolo equilatero vuole significare che i tre vertici (A, B e C) indicano la massimizzazione di un solo obiettivo. Le
diverse combinazioni all'interno del triangolo consentono di realizzare soluzioni variabili, temporalmente e
spazialmente, in una visione di ottimizzazione dinamica sistemica. Pertanto, la sostenibilità consiste nell'armonizzare,
in un equilibrio dinamico, le 'forze' eterogenee e conflittuali identificabili con: l'efficienza, la crescita e la stabilità nella
dimensione economica; la povertà, l'equità intergenerazionale e la cultura nella dimensione sociale; la biodiversità, la
resilienza e l'inquinamento delle risorse naturali nella dimensione ecologica (Matassino e Cappuccio, 1998).
Un approccio interdisciplinare può evitare agli economisti sostenitori del 'principio della sostituibilità' fra risorse
naturali e non naturali, di svolgere ragionamenti strettamente utilitaristici e agli ecologi, sostenitori del 'principio della
non rinnovabilità' delle risorse naturali, un approccio troppo conservativo. E' opportuno quindi un approccio
coevolutivo che comprenda l'evoluzione del sistema economico antropocentrico e del sistema ecologico biocentrico
verso la realizzazione di una migliore qualità della vita (Rosa, 1998).
Il benessere fisico, psichico e sociale dell'uomo è perseguibile nel futuro spaziale e temporale dell'uomo solo se questi
attuerà uno 'sviluppo sostenibile' nel significato proposto dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo
nel 1987: 'Lo sviluppo sostenibile è quello che soddisfa i bisogni delle generazioni presenti, senza compromettere le
capacità delle generazioni future di soddisfare i propri'.
Il documento continua precisando: 'Esso (lo sviluppo sostenibile) contiene due concetti chiave: il concetto di 'bisogni',
in particolare i bisogni primari dei poveri del mondo, ai quali deve essere data assoluta priorità; e l'idea di 'limiti'
imposti dallo stato della tecnologia e dell'organizzazione sociale sulla capacità dell'ambiente di soddisfare i bisogni
presenti e futuri'.
La suddetta definizione tende a esaudire tre esigenze basilari:
(a) la sostenibilità fisica: mantenere invarianti le peculiarità di riproducibilità e di integrità di una risorsa per il futuro
(b) la sostenibilità fisico-biologica: passaggio dalla singola risorsa a quella di un ecosistema o di un agroecosistema
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(c) la sostenibilità fisico-biologico-sociale: inclusione globalizzante della sfera relazionale della vita degli esseri
viventi.
Nell'esigenza (c) sono compresi due principi basilari:
(a) equità intragenerazionale
(b) equità intergenerazionale.
Tenendo conto della suddetta integrazione, affinché l'uso delle BI, soddisfi il requisito di sostenibilità sia ai fini del
raggiungimento di livelli ottimali di benessere dell'uomo che nella salvaguardia degli equilibri ambientali, debbono
essere rispettati i seguenti criteri (Rosa, 1998):
(a) ottimizzazione dell'uso delle risorse genetiche
(b) tutela della dinamica degli ecosistemi
(c) garanzia di compatibilità tra le specie naturali e quelle manipolate.
E' necessario evidenziare quanto sostenuto da Rosa (1998), quando afferma che: ’le ricadute dello sviluppo sostenibile
delle BI hanno impatti differenti per i PS e i PVS perché ‘la gerarchia dei bisogni e delle preferenze che sollecitano le
decisioni di produzione e di consumo dipende in primo luogo dal soddisfacimento dei bisogni primari’; nei PS si è
ormai raggiunta la consapevolezza della ‘necessità di modelli di sviluppo ecocompatibili con approcci
intergenerazionali alla tutela delle risorse’; nei PVS, invece, le necessità contingenti ostacolano l'approccio
ecocompatibile e, ancor piú quello intergenerazionale; tuttavia, questi paesi costituiscono ampie riserve naturali di
materiale genetico di enorme valore per gli scienziati e per l'umanità’.
Anche Buiatti (1999) ha identificato alcune ‘linee guida’ per uno sviluppo sostenibile delle modificazioni genetiche a
carico di piante e animali:
(a) i geni introdotti dovrebbero provenire da organismi non troppo diversi geneticamente affinché essi si inseriscano in
modo armonico nel contesto genetico precedente; la possibilità di trasferire, grazie alle tecniche di biologia
molecolare, materiale genetico proveniente da organismi geneticamente molto lontani dal ricevente, comporta
l’inserimento di geni che non si sono 'coevoluti' con quelli dell'ospite e possono quindi interagire, con effetti non
del tutto prevedibili con questo o con altri componenti degli ecosistemi con cui la specie manipolata si può
incrociare
(b) i prodotti a cui si mira debbono avere effetti positivi sull'agricoltura e cioè debbono tendere a renderla sostenibile
(c) mantenimento di un elevato livello di biodiversità in particolare negli ecosistemi naturali, con particolare attenzione
alle specie affini a quelle coltivate, nei luoghi di origine della variabilità genetica.
Buiatti ha anche individuato alcuni esempi di biotecnologie sostenibili nelle seguenti possibilità:
(a) impiego di biotecnologie non invasive; esistono metodi molto raffinati, basati sulle tecniche di biologia molecolare,
che non comportano modificazioni del patrimonio genetico, ma consentono di individuare in modo rapido e accurato, in
uno stadio di sviluppo precoce individui portatori di genotipi responsabili di caratteristiche produttive sostenibili
positive
(b) ottenimento di organismi sostenibili attraverso la modulazione dei geni già esistenti o l’introduzione di geni derivati
da corredi genetici affini; in questo modo vengono realizzate modificazioni del patrimonio genetico analoghe a quelle
ottenibili con le tecniche convenzionali di selezione, ma in tempi molto piú brevi rispetto a quelli che occorrerebbero
nel miglioramento genetico tradizionale; un settore di notevole interesse è la modulazione quantitativa dell’espressione
di geni ‘già esistenti’ attraverso l’intervento sui promotori; tale approccio potrebbe consentire:
(i) il miglioramento della qualità degli alimenti ottenuto attraverso il potenziamento della funzione di quei geni
responsabili di caratteristiche qualitative positive; in tale contesto potrebbe diventare interessante accentuare le
caratteristiche dei prodotti tipici tramite l’azione sui promotori di geni responsabili dei profumi, dei gusti, del colore e
di altre caratteristiche utili per le produzioni tipiche
(ii) l’incremento della produzione naturale di sostanze di uso farmaceutico da parte delle piante officinali
(iii) l’ottenimento di organismi che migliorino lo stato dell’ambiente; a esempio, è possibile esaltare la capacità delle
piante di interagire con i microrganismi del terreno, facilitando la fissazione dell’azoto e riducendo l’impiego dei
fertilizzanti chimici oppure esaltare la resistenza naturale delle piante allo stress o la capacità di immobilizzare
inquinanti presenti nel terreno.
Da quanto detto finora, al pari di ogni altra tecnica, anche le biotecnologie raggiungono il requisito di sostenibilità
quando vengono soddisfatte le seguenti condizioni di base (Ciappelloni, 1999):
(a) le applicazioni biotecnologiche a livello locale non debbono determinare la perdita della biodiversità animale e
vegetale, la degradazione della qualità dei suoli e delle acque
(b) le loro applicazioni debbono essere:
(i) tecnicamente appropriate
(ii) economicamente valide
(iii) socialmente accettabili.
La rivoluzione culturale in corso, nella visione e nella gestione del territorio, costituirà l'avvenimento piú importante,
in un approccio storico, del 3. millennio.
Per quanto concerne l’utilizzazione dell’animale, Zucchi (1998) distingue una ‘utilità oggettiva’ e una ‘utilità
soggettiva’. La prima è riferibile ai prodotti ottenibili dall’animale (carne, latte, pelle, lavoro, uova, ecc.) e ha un valore
prioritario decrescente con l’aumentare del grado di soddisfazione dei bisogni del consumatore; bisogni che tendono a
ridursi con il cambiamento degli stili di vita determinato dallo sviluppo socio-economico. La seconda è connessa al
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significato culturale che l’uomo attribuisce al rapporto con l’animale. Nella società affamata prevale 'l’utilità oggettiva',
in quella opulenta è piú appariscente 'l’utilità soggettiva'.
I futuri modelli produttivi tenderanno a incrementare la loro competitività, grazie (Matassino, 1993) alle conoscenze
acquisibili:
(a) sulle leggi che regolano i fenomeni biologici coinvolti nei diversi processi di produzione e di trasformazione
(b) sulle interconnessioni e sulle interazioni fra la strutturistica produttiva e quella di trasformazione e quella della
distribuzione
(c) sui meccanismi che regolano la domanda e l'offerta
(d) sui problemi riguardanti gli effetti della produzione, della trasformazione e della commercializzazione sull'ambiente.
Pertanto, la competizione si baserà sempre piú sull'abilità a saper gestire l'innovazione tecnica e biotecnica a livello
dei differenti e piú o meno numerosi anelli della catena (filiera) verticale della produzione: dalla ricerca di base alle
applicazioni produttive. Questo processo di continuità si concretizza in continue interazioni fra ricerca e impresa,
quindi - diremmo - che totale deve essere la sinergia fra questi due (Matassino, 1993). Alcune pecularietà (o
specificità) degli agroecosistemi culturali, specialmente nel caso delle piccole e medie imprese, richiedono
un'innovazione anche negli attuali rapporti intercorrenti fra di essi: adottare strategie competitive basate sulla
cooperazione fra imprese ('extended firm') (Matassino, 1993). Forte deve essere l'impegno della comunità scientifica ad
acquisire conoscenza da trasferire all'imprenditore zootecnico (Matassino, 1993; Morand-Fehre, 1996; Morand-Fehre e
Boyazoglu, 1998).
E' necessario tentare di individuare la funzione dell'animale in produzione zootecnica nella complessa politica
nutrizionale dell'uomo sul pianeta terra; politica che può realizzarsi solo per mete 'nutrizionali' (Matassino, 1991).
Si ritiene che le produzioni animali, nella loro multiforme diversificazione, sono ampiamente candidate a svolgere un
ruolo insostituibile, se non primario, nella soluzione dei non semplici problemi connessi alla nutrizionistica umana. Un
accettabile HWS è raggiungibile solo sulla base dell'obiettivo 'protezione e miglioramento' dello stato di salute del
singolo cittadino entro il suo microambiente di vita. Cosí operando, la tutela della salute del consumatore emerge in
tutta la sua importanza, nel rispetto della tradizione e della compatibilità economica (Matassino, 1991). In piú, è da
prevedere un conseguente aumento della richiesta di alimenti salutistici (healthy food) e con certificata sicurezza d'uso
(safety first).
Il futuro ruolo delle produzioni animali sarà condizionato, fra l'altro, da tre problemi fondamentali (De Haan et al.,
1997):
(a) conoscenza delle tradizioni locali, specialmente per quanto concerne la 'risorsa' umana
(b) consumo di alimenti di origine animale: quantità e/o qualità
(c) benessere animale e conservazione delle risorse naturali di un territorio: sistemi intensivi e/o estensivi
nell'allevamento dell'animale in produzione zootecnica.
La sfida sarà: soddisfare le diversificate esigenze umane in nutrienti di origine animale nell'ottica della sostenibilità
produttiva del pianeta terra. In questa ottica si deve inserire la variabile indipendente identificabile con l'incremento
demografico dell'uomo e la sua variazione per categoria.
5. Prodotto tipico
Il germoplasma
animale costituirà un tassello sempre piú importante nel cambiamento che interesserà
l'agroecosistema attuale, specialmente per ciò che concerne la necessità di ripristinare il piú ampio spettro possibile di
differenziazione genetica delle specie allevate al fine di poter attuare tutte quelle strategie future connesse al
raggiungimento di traguardi dinamici, ma propri di un sistema produttivo sostenibile dal punto di vista ambientale
(Matassino, 1997).
La diversità biologica è lo strumento principe che permette alla natura di sincronizzarsi alla velocità dei cambiamenti
ambientali, grazie a complessi e sofisticati meccanismi in grado di modulare la velocità di trasferimento e di
adeguamento dell'informazione genetica (Matassino, 1996a). I tipi genetici autoctoni (TGA) potranno essere impiegati
con successo per la produzione di derrate alimentari 'tipiche' capaci, tra l'altro, di contribuire alla soluzione dei
problemi connessi alle controversie nutrizionali. Infatti, un prodotto tipico non significa staticità, ma dinamicità, nel
senso di continua innovazione del processo produttivo per migliorare continuamente la qualità totale dello stesso
(Matassino, 1996b).
Tutto ciò al fine di affrontare il concetto di agricoltura 'sostenibile' mirando, in particolar modo, alla tipicità dei prodotti
di origine animale (Matassino et al., 1993b; Matassino, 1996b; Nardone, 1996; Flamant, 1997; Wagner e Hammond,
1997b).
In contrasto con la globalizzazione dei consumi e con l'impiego di BI nella preparazione di nuovi alimenti, nei Paesi
sviluppati (PS) si sta verificando un'accelerazione nel far emergere le tradizioni culinarie fortemente legate all'identità
del territorio. Questa naturale esigenza dell'uomo, sempre proteso a tenere ben saldo il suo legame con le sue origini
storiche, è ben nota alle grandi industrie alimentari che cercano di recuperare nell'immaginario collettivo i valori e i
sapori della cucina dei 'poveri'. Il paradosso in atto è che la società opulenta aderisce con piacere alla frugalità e alla
semplicità del modello alimentare basato sull'uso di alimenti provenienti da risorse animali e vegetali autoctone. La
tradizione, però, non è statica ma è in continua evoluzione; essa sarà tanto piú duratura quanto piú si integra nel
tempo con le diverse culture con cui viene a contatto. In realtà, una tradizione 'pura' non esiste e le innovazioni
interessano anche la gastronomia locale (Matassino e Cappuccio, 1998).
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Qualsiasi risorsa è da considerare un vero e proprio bene ‘culturale’, cioè essa è un patrimonio connaturato e connesso
all’antropizzazione dell’ambiente peculiare di quella determinata ‘nicchia ecologica’.
Parlando di antropizzazione dell’ambiente in genere (Matassino, 1996a), “sia lo scienziato che l'imprenditore non
possono piú ignorare che un alimento di origine animale o vegetale è il risultato di un coacervo di fenomeni biologici,
molti dei quali ancora ignoti. Crediamo che si possa affermare facilmente che ogni essere vivente destinato a fornire
alimenti, servizi, attività professionali, ecc. all'uomo sia sempre un passo piú in là rispetto alle nostre conoscenze”. Da
ciò è facile dedurre che la impossibilità di controllare totalmente la complessità biologica di un essere vivente deve
condurre a una maggiore prudenza nell'impiego di sistemi produttivi rivolti solamente all'incremento quantitativo.
Qualsiasi germoplasma è portatore di civiltà antiche e di vecchi equilibri biologici, la cui funzione e il cui ruolo non è
detto che siano finiti (Matassino, 1992).
Il recupero e la valorizzazione della diversità possono avere una valenza superiore alla stessa innovazione di processo
e/o di prodotto (Matassino, 1996b).
L'efficienza dell'uso delle risorse genetiche come fattore di produzione sarà sempre piú una variabile importante, se
non determinante, della competizione o dell'integrazione economica fra i sistemi produttivi territoriali.
La risorsa genetica riveste un ruolo insostituibile, specialmente per quanto concerne le caratteristiche qualitative degli
alimenti di origine animale.
E' merito della diversità biologica il continuo miglioramento qualitativo dell'informazione, quindi del grado di fitness o
successo biologico di un dato tipo genetico al variare delle condizioni ambientali (Matassino et al., 1993).
La salvaguardia del germoplasma autoctono è un problema di pubblico interesse che deve essere affrontato anche in
funzione della capacità di questi TGA di fornire prodotti qualitativamente migliori. Ciò permetterebbe il recupero di
tecniche di produzione artigianale di alcune derrate per l'ottenimento di prodotti di qualità e 'tipici' per la materia
prima utilizzata, per tecnica di lavorazione e per zona di produzione. Infatti, all'articolo 7 della Convenzione di Rio
1992 viene evidenziato che le Nazioni hanno l'obbligo di identificare, di monitorare e di mantenere la biodiversità
allo scopo di favorire uno sviluppo ecocompatibile del territorio.
E' proprio nell'ambito delle produzioni agroalimentari di qualità che vanno inseriti i TGA che sono gli unici in grado
di fornire al consumatore alimenti 'naturali' diversificati e rispondenti alle sue diverse necessità nutrizionali.
Le proprietà salutistiche possono variare in relazione alla diversa categoria demografica umana (neonato, bambino,
giovane, adulto, anziano); un alimento deve essere funzionale, pertanto, allo stato fisiologico o patologico
dell'individuo.
Il prodotto tipico e/o di 'nicchia', ottenibile dall'uso della materia prima che naturalmente un animale fornisce dalla
trasformazione degli alimenti prodotti 'in loco', rappresenta un sistema dinamico in continua evoluzione che può
ampiamente consentire di soddisfare appieno le diverse esigenze nutrizionali umane.
Il trinomio 'area geografica-tipo genetico autoctono-prodotto è un vero e proprio sistema culturale, identificabile con
una 'nicchia culturale', che comprende componenti proprie della storia, delle tradizioni, degli usi, dei costumi, dei riti
collegati o meno a espressioni religiose, dell'artigianato, dell'economia, del linguaggio (dialetto), della gestione della
biodiversità, del territorio in senso lato, ecc..
Ai fini salutistici dell'uomo, questo trinomio può trasformarsi in un quadrinomio: 'area geografica-tipo genetico
autoctono-prodotto tipico-benessere uomo'.
Nasce il bisogno di individuare e mettere in pratica tutte le possibili strategie atte alla valorizzazione delle risorse
animali endogene in un'economia agrozootecnica sempre pú votata alla qualità totale.
Favorire il motto 'tradizione e modernizzazione' significa'innovazione nella tradizione'; ciò deve essere l’imperativo
futuro dell’allevatore al fine di ottenere un prodotto qualitativamente certificato a partire dal momento produttivo.
La biologia molecolare può giocare un ruolo fondamentale quale strumento da utilizzare, non tanto per modificare le
caratteristiche degli alimenti, ma per realizzare il controllo della filiera produttiva; in tale contesto assume particolare
significato la tipizzazione genetica, al fine di definire, per ciascun soggetto, una carta d’identità molecolare che
permette di seguire il destino dell’animale lungo tutta la filiera produttiva. Inoltre, sempre grazie alla biologia
molecolare è possibile lo studio dei polimorfismi proteici del latte, al fine di identificare ‘genotipi particolari’, capaci di
produrre, a esempio, latti con proprietà peculiari da somministrare a soggetti portatori di forme di intolleranza ad alcuni
componenti del latte.
I TGA potranno svolgere una vera e propria funzione di banca genica da cui attingere informazioni per ottenere
prodotti diversificati sotto l'aspetto sia qualitativo che quantitativo dei nutrienti; in questo contesto, i TGA
svolgerebbero un ruolo cardine per la sostenibilità salutistica e sanitaria, sia per l'uomo che per l'animale, con riflessi
positivi anche sulla sostenibilità economica. E' necessario però che tali prodotti siano certificati ; in altre parole,
qualsiasi prodotto di nicchia, deve essere disciplinato in base a norme ben precise, che tengano conto di tutte le
componenti del momento produttivo: uomo, TGA e ambiente.
6. Conclusioni
Le produzioni animali, qualunque sia il livello territoriale geografico considerato (azienda, vallata, comune, provincia,
regione, nazione, continente, pianeta terra), sono state, sono e saranno sempre il risultato di una visione stocastica, nel
suo significato dotto di 'congetturale', quindi di una continua riflessione sugli eventi concreti da cui elaborare opinioni,
ipotesi, percorsi dinamici e sistemici per affrontare la vasta e incommensurabile problematica caratterizzante le stesse.
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La 'produzione animale', e tutto ciò che a essa è connesso, è una componente significativa del sistema 'agro-alimentareambientale' .
Grazie alle continue acquisizioni tecnico-scientifiche, sarà possibile adottare sistemi di produzione adatti alla dinamica
e alle differenti realtà produttive per una meno errata gestione delle risorse genetiche animali, di quelle idriche e di
quelle del suolo, coinvolgendo globalmente: il genotipo animale, l'alimentazione, la disponibilità e l'impiego di acqua
irrigua, la struttura demografica dell'allevamento, le strutture e le infrastrutture, la sanità dell'animale e l'allevatore
L'istituzione di un''Autorità indipendente' per la sicurezza alimentare, sia a livello nazionale che europeo, non è piú
procrastinabile alla luce di quanto si è verificato, anche recentemente, nel settore della produzione di alimenti per
l'uomo e per gli animali. E' auspicabile che il futuro quadro giuridico contempli il controllo dell'intera catena
alimentare che inizia dal produttore, chiunque esso sia, e termina sul desco del consumatore.
Bisognerà assicurare una procedura rigorosa, completa e integrata che realizzi un elevato livello di salute umana,
animale e vegetale.
Questa procedura, fra l'altro, deve prevedere:
(a) una consulenza scientifica indipendente
(b) una gestione precisa dei dati rilevati
(c) una metodica analitica non equivocabile
(d) un'informazione oggettiva del consumatore
(e) una totale indipendenza da interessi politici ed economici
(g) un controllo libero da parte del consumatore.
6. Alcune parole 'chiave' di tutto il sistema di controllo devono essere:
(a) la 'tracciabilità' dei percorsi degli alimenti, dei mangimi e dei loro ingredienti
(b) la valutazione, la gestione e la comunicazione del livello di rischio.
7. Scientificamente si concorda con il Massironi (2000) quando dice “qualunque modello di gestione del
‘problema’ biotecnologia deve tenere conto dell’erroneità della convinzione di avere in mano, con le conoscenze
biomolecolari, tutte le chiavi per comprendere e controllare gli organismi viventi”. Se cosí fosse, potremmo parlare di
‘riduzionismo’, quindi di limite nella capacità di esprimere un giudizio.
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