Jiari annuì. Rivaropa, Voraeda, forse anche a sud

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Jiari annuì. Rivaropa, Voraeda, forse anche a sud
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Jiari annuì. Rivaropa, Voraeda, forse anche a sud. E così non ci
sono più pesci e pescatori per i nostri magazzini, pensò.
“A cavallo. Rientriamo seguendo la via alta, quella che passa
sopra il fiume Erchio e aggira Rivaropa, proviamo a tagliare per
occidente e poi chissà. Se non altro, se sopravviviamo,
riusciremo a capire quanto è forte il nostro nemico.”
Il guerriero osservò la scena dietro le sue spalle: dentro, per le
vie ciò che restava del villaggio di Voraeda o bruciava o era
crollato. Cadaveri dappertutto, evidentemente non si sono
arresi o non hanno voluto cambiare credo. Chissà cosa se ne
sarebbero fatti dei prigionieri. Ostaggi per demoralizzare la
guarnigione di Nurné? Ammesso che sia ancora in piedi.
Fadia si avvicinò al suo comandante.
“Sono guerrieri formidabili. Sono guerrieri di mestiere.”
“Come tu ed io.”
Fadia annuì. “Già come noi, ma noi siamo io te e pochi altri, il
resto dei tuoi sono coscritti, hanno visto si e no qualche
duello, sedato forse due risse.”
Parlavano piano.
“Che suggerisci,” gli altri aspettavano, già sui propri cavalli
“vorresti dartela a gambe?”
“No, però considera quanto ti ho detto quando darai ordini ai
tuoi, non tutti sono pronti a morire o a seguire ordini che li
portino vicino alla morte.”
Aveva dannatamente ragione. Un pugno di uomini, con un po’
di belle armature di bronzo, qualche lancia, qualche spada.
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Capitolo 7 - Incontri
Jiari fece fermare gli uomini, qualcosa si muoveva davanti a
loro tra le lunghe ombre della sera; più a valle sul sentiero per
Rivaropa c'era qualcuno a piedi. In quel momento loro si
trovavano al riparo della vegetazione a quasi cinquecento
braccia di distanza, l'altra persona non sembrava averli né visti
né sentiti.
“Che facciamo?” Era Cuna uno dei suoi più abili.
“Deve essere un superstite di Rivaropa o di qualche casa qui
intorno.”
“Dovremmo lasciarlo perdere, come abbiamo fatto a
Voraeda.”
“Hai ragione, ma voglio pensarci ancora un attimo.”
Jiari si portò dietro il plotone.
“Proseguiamo, mi raccomando il massimo silenzio.”
“Ma non andiamo nemmeno a vedere chi è rimasto?” Fece
uno dei suoi.
“Mio caro Etare, non è saggio scendere ora.”
“Neanche avvertiamo quell'uomo, che deve rifugiarsi
nell'interno, oppure se vuole unirsi a noi?”
“Pazienta.”
Jiari era arrivato quasi in fondo.
“Fadia?” Chiamò “Fadia. Eccoti, vieni avanti con me,
parliamo.”
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“Cosa hai intenzione di fare? Io aggirerei il villaggio, senza
curarsi dei superstiti.”
Aveva ragione.
“Si ma se la via bassa è sgombra ci metteremo meno.”
“E' un rischio Jiari.”
“Che vale la pena correre per recuperare quasi un giorno.
Fadia sospirò “Quindi? Scendiamo giù?”
“Sì. Ci dividiamo: due gruppi, io con Etare e Valumi passiamo
sotto il limitare del bosco là e voi dall'altro lato a semicerchio,
così scenderemo da due lati; non dovrebbero esserci
problemi.” Fadia annuì, anche se non era convinto, perché
rimanevano alcune zone non sicure, non esplorate.
Mentre i due ritornavano davanti al gruppo, là in basso il
superstite di Rivaropa era arrivato vicino alle prime case.
Ildea era giunta a casa poco prima della notte, aveva quasi
corso, stupendosi di quanta forza dimostrasse di avere.
Mentre proseguiva, sola, si rese conto di quanto vulnerabile
fosse, ben visibile sulla strada, ma questo pensiero scomparve
come vide fumo acre levarsi in volute dal paese di suo padre.
Di ciò che restava del paese di Rivaropa. Sapeva cosa avrebbe
trovato anche qui. Ne era certa ancor prima di entrare.
Già vedere a terra i cani di Nesco, il loro vicino, fu un pugno
allo stomaco; non avevano risparmiato nemmeno i suoi cani
ed ora se ne stavano lì a terra senza muoversi, tra le rovine
delle prime abitazioni, sfondate, bruciate.
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Distesi senza vita c'erano due altri corpi, li conosceva: Nines e
Dorio due amici, due pescatori come suo padre,
imbracciavano ancora dei forconi, armi improvvisate. Cosa
potevano fare, cosa pensavano di fare? Li guardò con le
lacrime agli occhi per il fumo; il vento lo stava facendo
ristagnare nelle vie del villaggio.
Non si fermò, doveva vedere casa, suo padre doveva essersi
salvato, forse era in mare e non era rientrato o forse era stato
fatto prigioniero, o forse... Quella che raggiunse era la loro
casa, sembrava quasi intatta, non fosse stato per la porta
divelta; entrò dentro e guardò dappertutto: non c'era
nessuno, non c'erano tracce di battaglia né sangue per terra.
Poteva considerarlo un buon segno.
Uscì fuori per cercare guardò verso il mare, per vedere se le
barche erano tutte, probabilmente erano rientrati per la sera,
se li avevano attaccati all'imbrunire. Ancora non c'erano corvi
o avvoltoi, era anche vero che il fumo era denso e... Una
donna si aggirava per le vie.
“Danetria?” Ildea corse incontro alla donna, lacera.
“Ildea?” Osservò la giovane, gli abiti di entrambe erano
strappati e sporchi, quelli di Ildea però mostravano il petto là
dove le spade erano penetrate ed erano macchiati di sangue
rappreso.
“Ildea ma stai bene?”
“Sì, non è sangue mio,” Mentì “ti prego, dimmi di qui.”
“E' tutto finito ora, hanno smesso di cavalcare e prendere
tutti.”
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“Dove sono gli altri?” Le cinse le spalle.
“Chi è morto, chi è scappato, ma pochi. Quasi tutti trascinati
via.”
“Scappati? Sai se mio padre?”
Danetria scosse la testa.
“No piccola, non l'ho più visto. Come è successo il finimondo
so soltanto di avere sentito un dolore forte alla testa e,”
Sembrò cercare di mettere a fuoco “mi sono risvegliata solo
dopo, solo che il sole era già basso ed era tutto così.”
“Hai dove stare? Vedrai che qualcuno tornerà.”
“Sì. Rimarrò in casa. Il tetto di qualcuna è in piedi. I miei figli, li
ho cercati tra i morti, ma non ci sono. Li aspetterò.”
“Sì, è una buona idea.”
“I tuoi fratelli? Non li ho visti, si sono salvati forse.”
Ildea sospirò. “No, siamo stati assaliti. Non si sono salvati.”
La donna annuì. “Capisco.”
“Devo togliermi questi abiti ridotti in brandelli.” Fece Ildea e
rientrò in casa.
Come ordinato da Jiari, i due gruppi di guerrieri si erano
ricongiunti poco fuori Rivaropa; Fadia guardò la zona, osservò
il più attentamente possibile i resti dell'abitato e le due zone
boscose poco fuori.
“Da qui non vedo niente di particolare, ma qualcosa mi dice
che è pericoloso. C'è qualcosa di pericoloso lassù. Quando ci
siamo passati vicino non ho visto niente ma oltre il fitto del
bosco...”
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“Niente di certo? Sensazioni?”
“Esatto Jiari, niente di certo, però vedi dietro quel costone e
sotto, lungo quel boschetto dove entra il sentiero?” Jiari annuì
“ecco io mi nasconderei lì se per caso avessi un buon numero
di cavalieri a cui fare passare la notte.”
“Ci manderemo due uomini, per vedere se e chi arriva.”
“Ci sono due donne vive.” Disse Cuna, che nel frattempo aveva
percorso le strade del paese.
Jiari si girò verso il guerriero; come nell'altro abitato distrutto,
non voleva impedimenti, anche perché non poteva fare
niente, se non provare a rientrare a Nurné. Gli uomini con lui
erano tutti nativi di lì e non vedevano l'ora di tornare a casa,
per ritrovare i propri cari, sapere se erano vivi e se c'era
ancora una città da difendere. Mettersi a trasportare i
superstiti non serviva a niente comunque.
“Cavalli al passo,” Fadia indicò un punto al limitare del bosco.
“dalla strada bassa,” Quasi sorrise. “nel punto dove avevo
detto.”
Jiari cercò di contarli, erano un bel numero, almeno tre volte il
loro, forse di più. Venivano da nord.
“Formiamo due file, pronti al mio comando: rientriamo sul
sentiero alto.”
Proprio in quel momento dal plotone dei nemici si staccò un
gruppo; si misero al galoppo: stavano andando a coprire la
loro ritirata.
“Se ci lanciamo ora, potremmo ancora farcela. A quanto
saranno tre? Quattrocento braccia? Potremmo anticiparli.”
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Disse Cuna, pronto a fare scattare il proprio cavallo. Altri
cavalieri apparvero dietro i primi.
“Forse la via bassa dall'altro lato è davvero l'unica possibilità,
anche se ci allontaneremo da Nurné.” Disse Fadia.
Attimi preziosi.
“Non penso, andremo in bocca ad un eventuale esercito di
invasione e anche ritornare nel bosco da dove siamo usciti non
mi pare una buona idea,” Indicò i cavalieri che andavano a
coprire proprio quel sentiero. “se riescono anche solo a
rallentarci saremo perduti, non ci sganceremo in tempo e
verremo accerchiati. Forse se tentiamo la via bassa ripassando
da Grosizia avremo una speranza.” Jiari parlava come a se
stesso, mentre cercava di ragionare in fretta.
“Ha un senso. Che ne dici di usare la spiaggia?” Intervenne
Cuna.
“No Cuna,” fece Fadia “qui la spiaggia è chiusa da due
promontori, ci troveremo in trappola.”
“La via bassa; sì l'unica è la via bassa.” Jiari era pronto a dare il
comando, ritirarsi non era mai bello ma in quel caso era l'unica
via d'uscita quando, d'un tratto, non notarono lo scintillio di
armature anche nella direzione scelta per la fuga. Erano
circondati.
Cuna sbuffò e cominciò con calma a sistemare le cinghie
dell'armatura, prese lo scudo e impugnò bene la lancia.
In breve oltre cento cavalieri si erano messi a semicerchio
davanti a loro, a distanza di sicurezza e altri attendevano
all'imboccatura della via bassa. La luce del giorno si stava
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spegnendo sul mare e si potevano già vedere gli astri più
brillanti.
“Pronti a difendersi tra le vie del villaggio. Formate gruppi di
quattro, ci portiamo al centro della piazza e resistiamo.” Disse
Jiari a bassa voce. Gli uomini estrassero le armi e si
prepararono.
Dal gruppo nemico si staccarono due cavalieri, venivano a
trattare una resa? Jiari fece cenno ai suoi di arretrare, gli
uomini si cominciarono a disporre nelle vie; con lui rimase solo
Fadia.
Arrivati a dieci passi di distanza i due nemici fermarono i
cavalli. Portavano il vessillo di Onmaduri.
“Siete rimasti isolati da Nurné vedo.” Chi parlava indossava un
elmo che ne copriva i lineamenti quasi del tutto.
“Avete compiuto voi questo scempio?” Chiese Jiari.
“Non direttamente, ma sicuramente uomini al mio comando,
quindi sì. Chi non si piega viene eliminato.”
Parlava con voce chiara e alta, così da farsi sentire sia da Jiari e
Fadia che dagli altri dietro di loro. Era sicuramente una
giovane donna; ne aveva sentito parlare, uno dei comandanti
nemici era una giovane donna e su di lei circolavano strane
voci: magia.
Ildea aveva terminato di cambiarsi di abito e di indossare
nuovi calzari, quando udì gli uomini di Nurné cominciare a
sparpagliarsi per le vie; guardò fuori dalla porta i cavalieri
disporsi tra le volute di fumo e le case, che fare? Attendere la
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fine dell'ulteriore battaglia era l'unica soluzione, poi avrebbe
dovuto scegliere se andare da Enni, oppure se cercare di
raggiungere Nurné, forse il padre era andato lì; sia che fosse
prigioniero, sia che fosse libero. Provviste provviste,
comunque doveva mangiare e dell'acqua. Si avrebbe trovato
dei fiumi. Si sarebbe persa?
“Bene. Ci avete circondato, ora cosa avete intenzione di fare?”
“Avete avuto sfortuna, è stato deciso di riunire parte del
nostro esercito qui. Arrendetevi. Inutile sprecare le vostre
vite.”
Quella donna era fredda. Sicura di sé. Fadia si avvicinò a Jiari,
così da poter parlare sottovoce.
“E' il demone? Ne ho sentito parlare, si diceva che c'era un
demone dalle sembianze di donna a nord.”
“Può darsi Fadia, ma a me pare solo una donna.”
“Il tempo che vi ho concesso sta per finire, se vi arrenderete,
finirà questo inutile massacro. Queste terre hanno bisogno di
un nuovo ordine e Nurné deve cedere ad Onmaduri e come
altre faranno dopo. Non sprecate vite, i vostri dei non vi
proteggeranno, non lo hanno mai fatto, non lo faranno ora.”
Quella voce? Ildea sussultò. Quella voce le era rimasta in
testa! Era la donna guerriero, la donna che aveva comandato
la morte dei suoi fratelli e ora era qui, probabilmente a finire il
lavoro. L'avrebbe fermata sì, ci avrebbe provato perlomeno.
Suo padre teneva da qualche parte una spada, nascosta sotto
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le pietre del pavimento; si mise a cercare. Non l'avesse trovata
in tempo, avrebbe preso un bastone e se non ne trovava
l'avrebbe affrontata a mani nude. Se gli dei le avevano dato
un'altra opportunità per incontrarla, lei l'avrebbe sfruttata. Si
era così, probabilmente il suo destino era affrontarla di nuovo.
Prese a mormorare, quasi a canticchiare, una preghiera
insegnatale da Enni tempo fa; era utile per ricordare il nome
dei venti e magari il suo valore mistico era basso, però in quel
momento non importava: era appropriata.
“No, non ci arrendiamo, se vorrete potrete affrontarci qui ora.
Noi non scapperemo, né ci arrenderemo.”
“Nobili parole, rispetto il vostro desiderio di combattere. E
sia.”
“Un'ultima cosa,” Jiari si eresse sul cavallo e cercò di farsi
sentire bene da tutti. “se davvero hai a cuore le vite, se
davvero vuoi evitare spargimenti di sangue, perché non ci
sfidiamo io e te. Se io perdo i miei si arrenderanno e si
uniranno a voi.”
Fadia osservò il suo comandante. Promettere una cosa del
genere era rischiosa comunque, non era detto che i suoi si
sarebbero arresi o anche vincendo gli altri avrebbero
rispettato i patti.
Jiari osservava il terreno, il sole era scomparso, tra un po'
sarebbe stato buio, gli altri erano molti di più e sicuramente
nel corpo a corpo molto abili. Doveva giocare il tutto per tutto
per dare modo ai suoi di avvantaggiarsi del buio e del villaggio,
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magari sarebbero riusciti a ritornare sul sentiero alto, con un
po' di fortuna e confusione, potevano passare; non si
sarebbero salvati tutti, ma non sarebbero stati trucidati lì.
Vaansta osservò i suoi qualche centinaio di passi più dietro,
avevano sicuramente sentito, ma non le importava molto;
poteva rifiutare e cominciare la battaglia, non era significativo
accettare una proposta tanto stupida, come non era utile
vincere o perdere il duello.
La spada non si trovava, dannazione, fuori c'erano forconi e
altre armi, bastava trovarne una e poi andare contro la
maledetta; Ildea era convinta che questa seconda occasione le
venisse data proprio per vendicarsi; la donna che aveva ucciso
i suoi fratelli era una blasfema, aveva distrutto il tempio di
Enni ed era rea di averne spento la fiamma; gli dei adirati
avrebbero guidato il suo braccio, ne era sicura. Uscì in cerca di
una qualche arma e fu fortunata, a terrà c'era una corta spada
di bronzo. Le si gelò il sangue: era quella del padre.
“In un altro posto, in un'altra occasione, avrei accettato, ma
oggi ...”
Vaansta si fermò, dal fumo, con gli occhi roventi per la rabbia
e con in mano una corta spada di bronzo, forse anche
scheggiata, c'era la vestale. Non era possibile; gli dei erano
all'opera in quel momento o forse il dio dell'infinito si faceva
beffe di lei. Come interpretare quel segno?
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Jiari si voltò, per cercare di capire cosa il comandante nemico
avesse visto e rimase sorpreso nel vedere una giovane
avanzare tenendo davanti a sé una spada, con lo sguardo
pieno di odio. La impugnava come si tiene un coltello da
cucina però le intenzioni erano chiare.
Superato il primo attimo di stupore, Vaansta tento di capire:
doveva pensare velocemente e doveva catturare la donna. Per
farlo non poteva rischiare un attacco; doveva catturare la
vestale, sempre ammesso che non fosse una sorella gemella di
quella uccisa il giorno precedente. Se era la stessa ragazza
doveva portarla da Nusaca quanto prima.
“Tu! Tu scendi da cavallo! Affrontami da sola stavolta!” Ildea
gridava.
Era indubbiamente lei, la vestale; affascinante situazione,
l'aveva vista trafitta a morte rotolare giù per il bosco, giacere a
terra come un ramo spezzato ed ora era qui in piedi che le
puntava contro una spada.
Fadia saltò giù da cavallo e la fermò prima che arrivasse vicino
agli altri due, non solo per evitarle una fine certa, ma anche
per evitare un attacco prima del tempo.
Nella mente di Vaansta affiorarono molti pensieri. Doveva
parlare con quella ragazza e non voleva rischiare che venisse
colpita.
“Ho cambiato idea, ti affronterò uomo di Nurné. Se vincerò
allora vi arrenderete, se vincerai tu allora avrete libero il passo
sino al sorgere della luna.” Disse Vaansta.
“I tuoi rispetteranno il patto?”
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“Sì.” Vaansta si rivolse all'uomo con lei. “Va a riferire il mio
volere, risolveremo con un duello.”
L'uomo guardò il proprio generale e la ragazza, non era tra
quelli che con Vaansta avevano ucciso i fratelli di Ildea, quindi
non sospettava niente; obbedì e si allontanò velocemente.
Mentre Fadia aveva un bel da fare a tenere ferma Ildea,
Vaansta e Jiari scesero da cavallo.
“Maledetta! Hai ucciso i miei fratelli!”
“Le tue azioni ti seguono.” Fece Jiari, mentre slacciava lo scudo
dalla cavalcatura.
“E mi precedono.” Vaansta era pronta, lo scudo e la spada in
posizione.
“Non sempre è un bene.” Jiari si tolse i calzari, non voleva
impedimenti su quel terreno infido.
“Pronto?”
Fadia alzò di peso Ildea e la spostò dal luogo del duello,
mentre ancora gridava la sua ira; nel frattempo altri due
guerrieri di Onmaduri si erano avvicinati per osservare il loro
comandante affrontare l'uomo di Nurné e riferire.
Il duello ebbe inizio nel più totale silenzio: Jiari teneva lo scudo
circolare e nero ben alto, Vaansta ne aveva uno più piccolo e
quadrato che teneva tra sé e l'avversario; si stavano
studiando.
Le spade cozzarono una prima volta, un modo per saggiare la
forza altrui, poi Vaansta tentò un rapido affondo con lo scudo,
provò a sbilanciare l'altro per attaccarlo all'inguine; Jiari era
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preparato e si allontanò rapido. La giovane pensò che avrebbe
dovuto togliersi il mantello, poteva intralciarla.
Un altro scambio e un altro ancora e ancora. Colpi veloci
precisi e mortali. Anche Cuna si era avvicinato a cavallo ed
osservava. Jiari era molto bravo lo sapeva, la donna non era da
meno e forse, tecnicamente gli era superiore.
Vaansta fintò attaccò e parò un affondo e di nuovo attaccò; il
bracciale di bronzo a difesa del polso di Jiari lo salvò da un
fendente, ma la lama scivolò lunga l'avambraccio; goccioline di
sangue presero a scendere. Nessuno dei due emise un fiato.
Ancora Vaansta prese l'inziativa: finta, attacco, colpo con lo
scudo ad apire la guardia di Jiari, che rispose e quasi colpi la
donna, sfiorandole l'elmo; erano scambi rapidi. Fadia era grato
di tenere ferma la furia di Ildea, che tremava di rabbia, lui non
aveva neanche visto partire gli ultimi due attacchi di Vaansta.
I combattenti si muovevano con cautela sul terreno, Jiari tentò
un affondo poi calciò contro lo scudo della donna e di nuovo
cercò di colpire la testa di Vaansta, senza successo: con un
movimento corto del braccio sinistro Vaansta parò e
contrattaccò con la spada; fu solo con uno sforzo immenso
che Jiari bloccò col suo scudo l'affondo che l'avrebbe ferito alla
coscia sinistra. Vaansta fu comunque lesta nel movimento di
ritorno, si era portata sul lato non coperto dallo scudo e
l'aveva colpito alla spalla; per fortuna lo spallaccio
dell'armatura lo aveva salvato, ma c'era mancato poco. Così
non andava, si disse l'uomo, ci voleva un'idea.
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Vaansta attaccò ancora e ancora Jiari rintuzzò e ancora venne
graffiato, stavolta ad una coscia; fu solo grazie alle protezioni
di cuoio se il taglio risultò non particolarmente profondo.
Doveva prendere lui l'iniziativa, farla stancare, la resistenza
era il suo punto forte.
Jiari prese a muoversi in cerchio e a portare colpi in diagonale
sia dal basso che dall'alto, cercava di usare il vantaggio dello
scudo più grande per spostare l'avversaria e tenerne la spada
impegnata; cominciò così uno scambio interminabile: senza
quasi rifiatare i due si scambiarono una serie di attacchi e
parate velocissime; Jiari sentiva la stanchezza rallentarlo, il
braccio e la coscia sanguinavano e la spalla colpita cominciava
ad indolenzirsi. Il piano di fiaccare la resistenza della guerriera
non dava frutti. Ci voleva altro.
“Perché tua sorella vuole ucciderti?”
Inaspettatamente Vaansta ebbe un sussulto, rifletté un attimo
di troppo: sua sorella? Ecco: il momento di distrazione fu
sufficiente e permise a Jiari di entrare nella guardia della
guerriera; la colpì con un affondo alla gola strappandole un
grido strozzato. La spada entro per più di quattro dita, il
sangue ribollì uscendo dalla ferita gorgogliando; aveva vinto.
Con quell'espediente, insperato, impossibile, aveva vinto.
Fece alcuni passi indietro mentre Vaansta lasciava cadere lo
scudo e si portava la mano alla gola dalla quale usciva sangue
a fiotti. Il guerriero attese, aveva vinto l'altra sarebbe caduta
e, se i suoi soldati erano di parola, loro sarebbero andati per la
loro strada, almeno fino al sorgere della luna. Attese, però
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Vaansta non cadeva, anzi il sangue aveva smesso di colare e in
poche decine di respiri, la ferita era scomparsa.
Vaansta era rimasta sconcertata dall'affermazione dell'altro,
tua sorella aveva detto. Indubbiamente quella giovane donna,
la vestale era in piedi, di nuovo in piedi; eppure l'aveva vista
cadere. Pensare ad una parentela di sangue l'aveva distratta e,
in fondo, non era la vestale del tempio il cui sacerdote era
temuto da Nusaca? Un pensiero, un pensiero l'aveva
rallentata e Jiari ne aveva approfittato, ma ora contava poco,
doveva scoprire di più.
“Bene, guerriero di Nurné, hai vinto, mi hai sconfitta. Sarò di
parola siete liberi di andare, noi non ci muoveremo finché la
luna non sarà in cielo.”
Jiari era a bocca aperta, anche Fadia e perfino Ildea, che non
credeva ai propri occhi ma che come Vaansta stava pensando
a sé e a come era risorta dopo la morte.
La guerriera recuperò lo scudo da terra andò verso il proprio
cavallo e ce lo fissò, senza dire una parola.
Fadia si era avvicinato “Ma cosa è successo? Hai visto la sua
gola era squarciata! Un demone è un demone.”
Anche Cuna si era fatto vicino “Allora quello è il demone? E'
qualcosa di terribile. E' terribile, è una creatura delle tenebre.”
Fece scongiuri con le dita, tutti quelli che conosceva.
A quelle affermazioni Ildea si sentì morire di nuovo: anche lei
era una creatura delle tenebre? Del resto come spiegare i due
avvenimenti? Entrambe erano state ferite a morte eppure,
tutte e due erano ancora lì.
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Vaansta rimontò a cavallo, ma proprio mentre stava per
risalire si rivolse a Ildea. “Se vuoi sapere qualcosa di più su di
te e su di me, vieni.” Le tese la mano.
Ildea ci pensò per qualche istante, anche se la curiosità c'era,
non poteva. Non poteva perché quella guerriera aveva
distrutto la sua famiglia, il resto non importava. Scosse la
testa.
“Come vuoi. Sappi che potrai sempre unirti appena ti sentirai
pronta.” Fece per andarsene, quando alcuni uomini di Jiari si
fecero avanti.
“Ci uniamo a te o mandata dagli dei.”
Sebbene interdetti, Jiari e Fadia non intervennero, non dissero
nulla. Non c'era da aggiungere niente: osservarono soltanto.
Vaansta fece loro un breve sorriso
“Avete scelto bene.”
Li lasciò passare.
“Se il destino, vorrà ci incontreremo di nuovo. Combatti
bene.”
Vaansta e gli altri, se ne andarono al piccolo trotto.
Ruppe il silenzio Fadia, “Non abbiamo molto tempo.”
“Andiamo.” Fece Jiari.
“E lei?” Fadia indicò Ildea.
Prima di rispondere Jiari rifletté: il comandante dei nemici le
aveva chiesto di unirsi a loro, il comandante dei nemici era
una creatura ultraterrena e dotata di grandi poteri, portare
quella ragazza con loro era saggio? Poteva essere utile? “Vuoi
venire con noi? Cerchiamo di raggiungere Nurné.”
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Ildea ci rifletté: voleva dire avvicinarsi al luogo che Enni
doveva raggiungere. “Sì, verrò con voi.”
Capitolo 8 - Il vuoto
Ennie e Bastiaji stavano fiancheggiando il sentiero; l'idea di
Enni era portare l'amico ferito in un posto sicuro dove poterlo
lasciare, così da andare più spedito a Nurné o in uno dei paesi
nei dintorni e ritornare a prenderlo dopo avere controllato se
la situazione lo permetteva.
“Non ce la faccio più.” L'uomo era sofferente, muoversi
zoppicando, appoggiandosi all'amico e ad un bastone lo
sfiancava e poi le fratture duolevano di più ad ogni passo.
“Ti lascerò al riparo di quel bosco là, lì vicino c'è un torrente e
ti lascerò alcuni unguenti per le tue escoriazioni. Cercherò
aiuto a Nurné e ti porteremo in salvo. Dovrai resistere per un
po' da solo, ma so che sei abituato alla vita nel bosco.”
Enni si stava tenendo le reni tentando di stirare la spina
dorsale; aiutare Bastiaji l'aveva sfiancato.
“Sono pesante vero?” Bastiaji abbozzò una risata.
“Oh, se lo sei.”
Ora il problema era: capire l'entità della razzia, se era una
semplice razzia e capire quali strade erano percorribili.
Tornare indietro? Enni guardò le montagne dietro di loro.
Lassù difficilmente un esercito sarebbe passato, non con la
stagione fredda alle porte. Sì, Nurné era l'unica soluzione,
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avrebbe preso un cavallo o un mulo, fatto una lettiga e
trasportato Bastiaji al sicuro.
Un suono cupo, cavalli? Erano appena fuori dal fitto della
vegetazione, ma Enni non era uno stupido e non aveva seguito
il sentiero principale; si trovavano dietro alcune formazioni
rocciose, dove degli alberelli li nascondevano alla vista.
Rimasero zitti.
Era un drappello di soldati di Nurné, malridotto ed
impolverato, che avanzava al trotto; Enni li contò trenta,
trenta uomini, alcuni di loro con ferite ai bracci e alle gambe,
qualcuno senza elmo, qualcuno a stento dritto sul cavallo.
Chissà perché non avevano ancora capito come sarebbe stato
più comodo avere i piedi saldi in delle staffe solidali ad una
seduta in cuoio legata al cavallo. Ci sarebbero arrivati prima o
poi, lui non poteva dargli una simile dritta, le sue regole ferree
glielo impedivano.
Dopo che furono passati, Bastiaji si appoggiò ad una delle
rocce e chiese “Perché non li hai fermati?”
Enni fece cenno all'uomo di nascondersi bene, un altro
rumore, stavolta più forte. Stava arrivando un gruppo molto
più numeroso.
“Erano inseguiti.”
Oltre duecento cavalieri sbucarono da dietro gli alberi,
galoppando compatti in fila per due; i primi indossavano
lucenti armature di bronzo, seguiti da altri guerrieri armati di
lancia e scudo, anche loro reduci da una lunga cavalcata. La
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situazione non prometteva bene, Nurné era sotto attacco e
forse andare là era troppo tardi.
Come l'ultimo fu passato Enni si accovacciò accanto a Bastiaji.
“Non ti posso lasciare qui dopo quello che ho visto e Nurné
probabilmente avrà le porte chiuse.”
“Pensi ad un assedio?”
“Non so.”
“Che facciamo? Anzi no, te lo dico io. Tu mi porti nel bosco, mi
lasci un po' di legna e le tue erbacce e al resto penso io.”
Enni sapeva che l'altro aveva ragione, inoltre aveva come il
presentimento che su al tempio qualcosa fosse andato storto;
quella notte avrebbe tentato di cavalcare il vuoto per vedere
casa.
“E va bene, temo sia l'unica soluzione per il momento.” Si
sistemò bene la bisaccia ed prese Bastiaji per le ascelle.
“Andiamo.”
Si addentrarono per un bel tratto, sino ad un piccolo spiazzo
dietro alcuni massi, vicino ad un ruscello. Enni depose lì
Bastiaji e si guardò intorno pensoso.
“Va', vai Enni, qui sono nel mio regno amico mio.”
“Si, però sei ferito e questo...”
“Ah,” lo interruppe con un gesto. “no no niente discorsi, vai,
prima arrivi da qualche parte a Grosizia o Nurné o dove vuoi
tu, prima puoi tornare a riprendermi e comunque: ho cibo, ho
acqua ho di che sopravvivere per un po'.”
“La notte farà freddo.”
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“Mi arrischierò ad accendere un piccolo fuoco: là dietro.”
Indicò delle pietre e dei cespugli di rosa canina.
“E sia. Ti lascerò il mio coltello.”
“No, ho con me Tifa, il mio. Quello non me l'anno preso.”
“Hai dato un nome al coltello?”
Bastiaji annuì.
“Allora. A presto.”
Si congedarono così, con un sorriso. Non c'era poi molto altro
da dirsi.
Adesso il problema era dove andare: Grosizia probabilmente
era stata razziata, Nurné sotto attacco, tutte le strade
pericolose. Enni voleva comunque vedere se Linnea stava
bene e quindi decise per Grosizia, solo che sarebbe passato
lontano dai sentieri battuti. Era preoccupato per le bande di
cui aveva parlato Bastiaji più che degli armati regolari. I
secondi molto probabilmente si sarebbero mossi su strade, in
grande numero ed avrebbero attaccato altri guerrieri, non un
viandante solitario e quindi li avrebbe potuti evitare; mentre
gli altri, più imprevedibili, potevano nascondersi dietro una
roccia, nel folto della foresta e sbucare all'improvviso.
Pensava questo mentre camminava a passo rapido, superando
rovi, alberi, come non gli capitava da tempo. In lui si era
riattivato qualcosa di antico; era confortante e preoccupante
al tempo stesso, perché riaffiorava in lui una sensazione di
pericolo particolare, non legato a quel mondo semplice. Si
ripromise di tornare al tempio, al vecchio tempio della Luce,
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sarebbe arrivato a Grosizia, avrebbe visto se Linnea si era
salvata e poi, il più in fretta possibile sarebbe tornato indietro,
sì. Doveva recuperare degli oggetti nascosti lì.
Nusaca si trovava nell'osservatorio, meditava ad occhi
socchiusi mentre il cielo si tingeva di viola scuro. Al centro
della sala davanti ad una pietra nera e rettangolare montata
all'interno di un telaio d'argento; di tanto in tanto emetteva
dei bagliori dorati, solo qualche volta comparivano delle
scritte luminescenti. Il re fanciullo, sempre seguito da due
delle sue fidate guardie era seduto su di una seggiola da poco,
li vicino.
“Mi porterai il regno che hai detto?” Chiese il giovane re.
“Ancora non è sufficiente,” Mormorò “le anime che sono
cadute nel vuoto o che sono state portate dentro l'infinito,
non bastano ancora. Occorre che una grande città cada. Nurné
deve essere presa e poi sarà la volta di Aderi.”
“Perché Aderi? Il suo esercito è forte e le sue navi molte.” Il
giovane lo chiese con sincera curiosità non mostrando, almeno
apparentemente, il minimo segno di timore o di dubbio.
“Aderi ha grandi templi, grande potere, grandi opportunità.”
“Pensi che Vaansta sarà in grado?”
“Vaansta ed i suoi comandanti sono bravi e se cade Nurné io
potrò darle un nuovo devastante potere.”
Ci fu una lunga pausa di silenzio, la tavoletta nera rimase
cupamente buia tranne un piccolo riquadro su di un lato, dove
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strani disegni si alternavano. Il giovane re si alzò e si
incamminò verso l'uscita.
“Nusaca, il mio regno è piccolo, ma già oggi è doppio rispetto
a ieri e questo grazie a te e a Vaansta. Tuttavia il consiglio mi
mette in guardia.”
“Diventerà più grande e Vaansta non diverrà un despota. Il suo
cuore è devoto.” La vecchia lo disse convinta.
“Bene. Domani, ora che i messaggeri mi hanno detto che le
coste fino a Nurné sono nostre, manderò le navi.
Sbarcheranno a dare manforte. Avverti Vaansta.”
Se ne andò seguito dalle due guardie, che come ombre gli
stavano dietro a tre passi, senza parlare.
Nusaca lo guardò andarsene. Il suo piano era a metà, Nurné
avrebbe sbloccato alcune cose e poi la conquista di Aderi
avrebbe permesso di comunicare con gli astri. Avrebbe
richiamato il suo popolo.
Mentre la notte scendeva, Enni era arrivato a Grosizia. Come
prevedibile il piccolo paese era stato attaccato, ma non era
così devastato come pensava; sapere dell'epidemia di febbri
aveva tenuto lontani gli attaccanti, più di alte mura di pietra.
Senza indugio percorse stando basso il tratto scoperto prima
di arrivare alle porte. La palizzata era stata abbattuta in due
punti, il tempio al centro della strada principale era stato
incendiato e una delle pareti, annerita, era parzialmente
crollata. Le colonne che formavano un cerchio, erano state
rovesciate ed l'altare gettato a terra. Uno scempio inutile.
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Come arrivò si diresse alla casa di Linnea. Purtroppo ciò che
trovo non gli piacque affatto; la donna doveva avere ospitato lì
i malati più gravi ed infatti, erano ancora lì: c'erano tre corpi
due donne di mezza età ed un anziano uomo, uccisi, trafitti nel
letto. Di Linnea non c'era traccia, per fortuna.
Continuò a girare per i vicoli, il villaggio era quasi deserto, ed
arrivò nelle vicinanze di una delle case, dalle finestre sbarrate
filtrava luce, qualcuno era vivo. Controllò ancora, poi girò
l'angolo ed andò verso la locanda. Le porte erano spalancate il
tetto bruciato, avrebbe comunque passato lì la notte, in una
delle stanze da basso. Non voleva farsi vedere da nessuno per
il momento, se trovava Linnea tanto meglio, inutile per ora
parlare con gli altri abitanti.
Trovò una stanza, uno dei magazzini sul retro la cui porta era
stata aperta con forza, ma i cardini avevano retto, entrò; le
provviste erano state razziate, non tutte per fortuna: trovò
delle anfore con del forte vino e del pane ancora buono;
mangiò in fretta e bevve, servivano forze per il viaggio. Si
chiuse dentro e si sedette a terra, in un angolo, con le spalle
rivolte al muro e lo sguardo alla porta.
Iniziò a mormorare una litania, non importavano le parole ma
il suono, il lento e monotono suono che gli apriva la mente;
ecco. Prese da una sacca un cilindretto dorato, lo strinse tra le
dita e poi si concentrò sulle ghiere e sui dischetti di cui era
composto, li ruotò e li regolò ed alla fine fu in alto.
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Qualcosa si risvegliò a giorni di cammino, un oggetto di pietra
e cristallo vibrò ed emise una tenue luce in quello che era
stato il suo tempietto, lì dove aveva lasciato Ildea. Il cristallo
era caduto dalla trave su cui l'aveva lasciato e si era
scheggiato, però era ancora vivo ed ora era in perfetta
sintonia con la mente di Enni.
Vide rovina, vide pareti divelte e i suoi preziosi rotoli bruciati,
tanto che il suo cuore ebbe un sussulto: erano stati anche lì.
Cercò di aggirarsi lì attorno, sforzando la mente per vedere di
più, regolò le ghiere in modo che alcune tacche coincidessero
con altre ruote e dischetti ed osservò con attenzione; il tempio
era stato danneggiato, bruciato e saccheggiato, eppure nella
sala del fuoco, il cui tetto non esisteva più, la fiamma ardeva
ancora. Che fosse stata Ildea? Forse era viva e si era salvata.
No. Non la vide e però non vide nemmeno il corpo. Osservò di
nuovo la fiamma, spirava da basso come animata, come se un
soffio di vita la facesse bruciare vivida, quasi bianca,
alimentandola da sotto terra. Se non era un segno quello.
D'un tratto sentì di nuovo quel presentimento... Qualcuno lo
cercava ed era qualcuno che non pensava di trovare lì, così
lontano: non era un'energia così familiare, ma neanche del
tutto nuova. Decise che poteva bastare e che aveva visto
abbastanza.
Nusaca stava ruotando dei prismi tra le mani, li faceva
riflettere in un bacile pieno d'acqua sul quale proiettavano
lampi di luce. A volte si vedevano riflesse le stelle in cielo, a
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volte invece si vedevano immagini sfocate, come quando si
guarda da un vetro appannato. Vedeva le mani di un uomo
seduto a terra a gambe incrociate, nel pugno destro stringeva
un cilindro dorato. Era lui, il sacerdote, Vaansta non lo aveva
eliminato e questo era male.
Era il momento di parlare con Vaansta. Si concentrò sul suo
elmo, sul metallo di cui era composto e lo sentì vibrare, lo
toccò mentre nelle sue mani i prismi emanavano una luce
bianca.
“Mia piccola.”
La distanza era grande e questo costava molto sforzo a
Nusaca, quella sera avrebbe avuto bisogno di due nuove
anime da bruciare.
“Nusaca.” Vaansta era accampata assieme al suo esercito in
attesa di potere muovere verso Nurné e riunire finalmente
tutte le sue forze.
“Col vento propizio, il re manderà le sue navi.” Nusaca sentiva
l'altra a disagio e chiese: “Sento che hai delle preoccupazioni.”
“Sì, ho dei pensieri: oggi ho trovato una sorella in spirito,
anche lei è come me, anche il suo corpo è immune alla
morte.”
La fronte di Nusaca si imperlò di sudore, possibile? La stirpe di
Kericsa contava altri? Allora la nave ... Forse, o forse le navi
erano due. Quella notte aveva visto le fiamme in cielo, aveva
pensato ad una sola nave. Forse ce n'erano due? Arrivate in
due luoghi. Forse forse, quanti forse! Aveva poca importanza.
“Questo è bene. Occorrerà unirla a noi.”
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“Ho ucciso la sua famiglia.” Sebbene fosse solo pensiero e non
voce, nella testa di Nusaca quell'affermazione non arrivò con
la consueta intonazione piatta, tipica della giovane guerriera,
ma con una sorta di rimpianto; inconsueto.
Nusaca rimuginò su quanto aveva sentito e rimase a lungo in
silenzio. Lei conosceva come spezzare la vita della stirpe da cui
Vaansta discendeva, poteva darle questa conoscenza? Non
sapeva se consegnare questo potere a Vaansta; perché anche
se l'anziana rassicurava il re fanciullo della fedeltà di Vaansta,
lei per prima era consapevole di quanto potente, intelligente
ed ambiziosa fosse.
“Cerca di portarla con noi, siete due sopravvissute della vostra
casta. Se non ti seguirà, da viva potrebbe risultare pericolosa,
ma tu potrai eliminarla.”
“Può morire?” Vaansta era sorpresa.
C’era troppo in gioco e così l’anziana sacerdotessa decise di
dire a Vaansta la verità, una particolarità del corpo di chi come
lei era immune alle ferite fisiche: dove non era invulnerabile.
Ma non lo disse a parole nemmeno se parlava alla mente
dell'altra.
“Osserva.” Nusaca formò un'immagine nei pensieri di Vaansta;
era difficile e lo costava, ma non voleva dirlo, non voleva
pronunciare quanto le stava facendo vedere, sarebbe
comparso nella testa dell’altra e solo lei avrebbe saputo.
“Vedo.”
“Se la colpirai dove hai visto...”
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“Morirà.” Vaansta cercò di non pensare a niente, di fare il
vuoto nella mente.
“Sì. Non sapevo di una tua simile, non credevo ce ne fossero
più. Quando sarai qua ne parleremo. Ora devo andare, ricorda
col vento le navi salperanno e Nurné cadrà.”
Nusaca poggiò i due prismi sul bordo del bacile e subito il
contatto con la mente della guerriera si interruppe.
Vaansta si tolse lentamente l'elmo e lo poggiò lontano da sé,
perché non voleva che i suoi pensieri, anche solo piccole
tracce, potessero venire letti da Nusaca. Ripensò all'immagine,
la visualizzò bene; Nusaca le aveva mandato l'immagine di
dove colpire si, formandola nella sua testa. Valeva per la
giovane vestale e ovviamente anche per lei, non poteva che
essere così anche perché l'anziana donna, aveva usato il corpo
di Vaansta per rappresentarlo. Sorrise. Da un certo punto di
vista, sapere di poter morire e di avere un punto debole le
dava, inaspettatamente, sollievo.
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Capitolo 9 - In marcia
Enni aveva camminato nascondendosi per tutto il giorno.
Dopo avere lasciato Bastiaji con la promessa di tornare, aveva
percorso: ora i sentieri degli animali, ora le piste dei cacciatori
e solo dove c'era abbastanza vegetazione aveva seguito la via
principale per guadagnare un poco di tempo. Alla fine, aveva
raggiunto Grosizia al tramonto, trovando i pochi superstiti che
non erano stati deportati o che erano scappati prima
dell'attacco.
Non si era fidato ad entrare ed aveva fatto bene perché non
c'erano solo gli abitanti, c'era anche un gruppo di sbandati,
forse mercenari, che in quel momento stavano mangiando e
bevendo sguaiatamente, usando i resti del tempio come
taverna, l'altare delle offerte come tavola e uno dei bracieri
per scaldare la carne di un vitello macellato per la via. Questo
aggiungeva offesa alla profanazione ed evidentemente quei
farabutti lo stavano facendo apposta.
Sfruttando il sole basso e il terreno, Enni si era avvicinato
senza venir visto. Riconobbe tra i sopravvissuti Linnea: era
vestita con una tunica grezza, scalza e col volto tumefatto;
probabilmente l'avevano malmenata.
Enni non amava la violenza né voleva togliere la vita delle
persone, però quegli uomini avevano ucciso, razziato e ora
stavano vessando i pochi superstiti inermi; tra l'altro
sembravano ignorare l'epidemia di febbre che aveva colpito
Grosizia, evidentemente troppo sicuri di sé o troppo stupidi.
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Era probabile che fossero arrivati qui assieme o dopo l'esercito
regolare, erano in sei; pochi per avere ragione della
guarnigione di difesa. Portavano archi corti, probabilmente si
trattava degli stessi che avevano aggredito Bastiaji.
Bene, per il momento non poteva fare niente, avrebbe
aspettato il buio completo per agire. Si mise seduto dietro
bassi cespugli vicino ad una faggeta; chissà magari poteva
usare ancora la sua lama d'aria.
Aprì la bisaccia tolse i panni che l'avvolgevano e la osservò: era
uno dei pochi oggetti che ancora conservava del suo passato
di viaggiatore; oramai gli era rimasto ben poco.
Annica la madre di Ildea un giorno lo aveva chiamato, era già
malata e non si alzava più dal letto, gli aveva consegnato
alcuni prismi di vari colori e lo aveva pregato di badare ad
Ildea. La donna lo aveva riconosciuto come parte dei Popoli
del Cielo, non della sua stirpe, non venivano dallo stesso
posto, ma Enni era comunque un viaggiatore, venuto da fuori
e poteva capire. Quei prismi contenevano la storia del popolo
di Annica e Annica li aveva sempre portati con sé, cuciti nei
suoi vecchi abiti.
Ildea, Enni pensò alla ragazza e sperò di incontrarla di nuovo,
doveva parlarle e raccontarle delle sue vere origini. Forse non
era una buona idea. Sospirò e cercò di riposare.
Il sacerdote si era mosso poco prima che la Luna sbucasse in
cielo e si era portato a ridosso dell'abitato quasi strisciando tra
i fossati e i resti del terrapieno. Guardò il gruppo di case: uno
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degli uomini si era allontanato dal bivacco e stava arrivando
vicino a dove era Enni; questi lo osservò grattarsi l'inguine,
alzarsi la tunica, slacciare le braghe di pecora e mettersi a
pisciare soddisfatto. Bene.
Il sacerdote estrasse dalla bisaccia quello che sembrava un
pugnale: tozzo con due occhielli dove infilare indice e pollice al
posto dell'impugnatura; lo puntò in direzione del petto
dell'ignaro predone e tirò verso di sé l'indice. La lama d'aria
emise un bagliore ed un lampo dorato saettò contro l'uomo
ancora intento a rimettere il pene al suo posto; non ce la fece:
il lampo aprì un largo e profondo taglio nel torace uccidendolo
all'istante. Cadde all'indietro a gambe e braccia spalancate con
gli occhi sbarrati. Nessuno aveva sentito, l'arma era silenziosa
quando scagliava il lampo, si sentiva il suono come di una
improvvisa folata di vento, nulla più. Ne restavano cinque.
Enni avanzò un altro po', tra qualche istante gli altri si
sarebbero insospettiti; il loro compare non tornava. Osservò le
pietre multicolore sulla sommità della lama d'aria, non
brillavano più molto, segno di indebolimento, ci avrebbe
pensato poi.
Sgusciò tra le ombre sino ad arrivare dietro il tempio in rovina;
dei cinque rimasti uno solo era sveglio e in quel momento se
ne stava al buio tra le colonne di guardia, gli altri erano nella
casa vicina, probabilmente dormivano. Vide delle ombre
muoversi tra le vie, si bloccò. Forse qualcuno con le sue stesse
intenzioni? L'importante ora era di non farsi coinvolgere. Si
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gettò a terra e strisciò fino ai piedi di una delle abitazioni;
attese.
Jiari e due suoi compagni sorpresero l'uomo di guardia,
bloccandolo e tagliandogli la gola; Fadia con altri due uomini
raggiunsero la porta del rifugio dove dormivano gli ultimi
razziatori, uno di loro si svegliò e fece in tempo a sguainare ed
uscire, ma venne affrontato da Jiari sopraggiunto nel
frattempo e ucciso, gli altri non riuscirono ad alzarsi e furono
trafitti.
Enni si arrischiò ad alzare la testa per osservare meglio: erano
uomini dell'esercito di Nurné, però mostrarsi poteva non
essere una buona idea. Da fuori del suo campo visivo sentì il
rumore di cavalli; una manciata di cavalieri si radunò nella
piazza di Grosizia, con loro c'era una donna. Anche solo alla
luce della Luna Ildea era perfettamente riconoscibile.
Jiari diede ordine ai suoi di trascinare fuori dalla casa i
cadaveri dei predoni e di riunirli al centro del tempio, poi si
rivolse agli abitanti: “Siamo uomini di Nurné, sono Jiari, mi
conoscete, molti di voi mi hanno già visto.”
Dapprima non ci fu risposta, poi lentamente qualcuno uscì al
chiarore della Luna, poche donne, due bambini e un vecchio:
ecco cosa restava di Grosizia. Enni a quel punto si alzò e si
incamminò verso gli altri.
Jiari si rivolse ai superstiti: “Quanti erano ?”
Si fece avanti Linnea: “Ne ho contati sei.”
Cuna guardò i cadaveri “Ce n'è scappato uno.”
“No, il sesto cadavere è poco lontano da qui.”
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“Enni?”
“Si Linnea, sono io.”
Mentre Linnea lo fissava incredula, Ildea corse incontro al
sacerdote e lo abbracciò.
“Sono morti, i miei fratelli sono morti.” Disse.
Enni ricambiò l'abbraccio. “Hai visto tuo padre?”
“No, non so dove sia.”
Jiari nel frattempo ordinò ai suoi di preparare in fretta una
pira, dove bruciare i morti.
Cuna non poté trattenersi, parlò con rabbia. “Che li briciamo a
fare? Perché questo onore?”
Jiari rispose neutro. “Non è per loro. Ricordi? Siamo seguiti.
Non devono trovare loro alleati morti, potrebbero uccidere i
pochi rimasti.”
Enni chiese “Venite da Rivaropa?”
Cuna fece cenno di sì. “Si, abbiamo cavalcato per una notte e
tutto un giorno senza sosta. Siamo inseguiti da un buon
numero di cavalieri, stiamo tentando di rientrare a Nurné.”
Jiari si avvicinò. “Qui eravamo già stati, volevo vedere com'era
la zona più a nord, capire quanti nemici... E per poco non
rimaniamo tagliati fuori.”
“Linnea, le febbri?”
“I soldati di Onmaduri hanno ucciso tutti quanti. C'erano
undici malati, anche bambini, io ho cercato di fermarli Enni e
per poco non hanno ammazzato anche me.”
Rimasero in silenzio, finché Jiari non si rivolse al sacerdote.
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“Finito di accatastare legna appiccheremo il fuoco ai cadaveri
dopodiché ce ne andremo verso Nurné. Ti chiamano Enni,
portaci all'uomo che hai eliminato, brucerà con gli altri.”
“Sì, io devo tornare indietro, al mio tempio e porterò con me
Ildea. Indicò la ragazza.”
Jiari la guardò e disse “C'è qualcosa in lei che non mi è chiaro e
ho visto una donna immortale guidare il nemico. Ci sono gli
dei dietro tutto questo?”
“Ci sono forze misteriose, antiche e lontane in azione sì; Ildea
potrebbe essere una pedina importante.”
Jiari accennò una risata. “La tua risposta non aggiunge niente
a quanto so, ma non sarò certo io a fermarvi.”
Era stanco e non si era fermato da giorni, comandò a due
uomini di seguire Enni, per prendere anche il sesto corpo per
gettarlo nel fuoco, quindi andò a parlare con Fadia. Il corpo del
sesto predone venne recuperato e trascinato con gli altri,
fortunatamente nessuno si domandò come mai non era
stillata una sola goccia di sangue da una ferita così profonda.
Ildea ed Enni erano già ad una buona distanza da Grosizia,
mentre le prime fiamme cominciavano a brillare nell'oscurità,
segno che avevano appiccato il fuoco alla pira. Il sacerdote
aveva preso qualche provvista e delle bende pulite non era
molto per aiutare Bastiaji. La ragazza era rimasta silenziosa per
tutto il tempo ma poco prima di andarsene aveva ringraziato
Jiari, sentiva che lo avrebbe rivisto, ne era convinta.
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Ora lei ed il sacerdote suo maestro, camminavano con la sola
luce della Luna.
“Ho incontrato la morte.” Disse d'un tratto la giovane.
“Parli dei tuoi fratelli e di Rivaropa?”
“No, parlo di me.”
“Continua.”
“Mi hanno,” portò le mani al petto, sentiva ancora le spade
che la trapassavano. “colpita a morte, insieme ai miei fratelli.”
Enni non parlò, lasciò continuare Ildea “Mi sono risvegliata,
senza un graffio, eppure le mie vesti erano intrise di sangue e
lacerate. Eppure da piccola se cadevo, mi graffiavo, e i lividi
rimanevano per giorni.”
“Sei tornata a Rivaropa?”
“Sì con le mie gambe, ed è lì che ho incontrato, di nuovo, la
guerriera che aveva ucciso i miei fratelli. Quel guerriero di
Nurné che hai visto l'ha ferita a morte, le ha squarciato la gola
in duello. Anche lei non è morta,” Sospirò. “questa cosa mi
sconvolge. Siamo simili e sono diventata come sono proprio
quando ho incontrato la guerriera.”
“Andremo al tempio, sarà ridotto in rovina, ma so che la
fiamma arde ancora e questo è un segno.”
C'era davvero in azione una forza misteriosa e Ildea era parte
di un disegno.