L`esperienza estetica nel tempo della complessità The aesthetic

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L`esperienza estetica nel tempo della complessità The aesthetic
L’esperienza estetica nel tempo della complessità
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L’esperienza estetica nel tempo della complessità
The aesthetic experience in the time of complexity
STEFANO POLENTA
Abstract: he organicistic thinking that characterized the era of Bildung has not disappeared, but it has continued to develop and today it is experiencing a profound rethinking with the epistemology of complexity. his latter allows to credit the idea of the work
of art as a living form, as an organism capable of composing, in an harmonic structure,
the dense network of relationships and contrasts that characterize the human experience,
intensifying this one and encouraging the development of thought. he paper aims at
highlighting how the thought of complexity allows to redeine the themes of the Bildung
period and how, now as at that time, the organicistic thought appears the most suitable
to combine science and humanism, restoring value to the ethical and educational dimension of the aesthetic experience.
Riassunto: Il pensiero organicistico che aveva caratterizzato l’epoca della Bildung non
è scomparso, ma ha continuato a svilupparsi e oggi sta conoscendo un profondo ripensamento con l’epistemologia della complessità. Questa permette di riaccreditare l’idea
dell’opera d’arte come una forma vivente, come un organismo capace di comporre in una
struttura armonica la itta rete di rapporti e contrasti che caratterizzano l’esperienza
umana, intensiicandola e incoraggiando lo sviluppo del pensiero. Il contributo si propone di evidenziare come il pensiero della complessità permetta di rideinire i temi cari
al periodo della Bildung e come, ora come allora, il pensiero organicistico appaia il più
idoneo per conciliare scienza e umanesimo, riavvalorando la dimensione etica ed educativa dell’esperienza estetica.
Parole chiave: Organicismo, Esperienza estetica, Complessità, Isomorismi, Intuizione.
1. Il problema
«[La bellezza] non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto
nella mente umana che la contempla ed ogni mente percepisce una diversa bellezza». Questa osservazione di Hume (1967, 37) è diventata celebre perché ben sintetizza l’idea della soggettività dell’esperienza estetica.
Si può tralasciare la speciica posizione di Hume – che pur non credendo
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nell’oggettività della bellezza ammetteva l’universalità del gusto – per constatare come anche oggi valga l’adagio: de gustibus non est disputandum.
Da Hume a oggi si è assistito a una frattura fra il pensiero artisticoumanistico e quello scientiico: solo la scienza può ambire a una conoscenza oggettiva della realtà. Così, l’esperienza estetica è stata relegata a
una sfera meramente soggettiva che l’ha profondamente mortiicata. Ma
allora, si chiede Whitehead (1979, 70), «i poeti sono totalmente fuori
strada [?] […] La natura è opaca, silenziosa, senza odore, senza colore;
è soltanto l’impetuoso incalzare di materia, senza ine, senza motivo?».
Anche sul versante educativo la scissione fra la cultura scientiica e quella
artistico-umanistica «spacca al centro l’integrità della natura umana […]
In molte università chi studia le scienze umane si sente spesso un cittadino
declassato. Einstein o Shakespeare, ma non entrambi nella stessa stanza»
(Kaufman, 2010, 9).
Scopo del presente contributo è:
a) evidenziare come il pensiero organicista, dai tempi della Bildung
all’odierno pensiero della complessità, sia stato capace di promuovere
una nuova alleanza (Prigogine, Stengers, 1981) fra arte e scienza;
b) indicare i temi centrali di un’estetica della complessità.
2. L’esperienza estetica come “qualità secondaria”
La scienza moderna (Galileo, Newton) e l’empirismo (Locke, Hume)
hanno iniziato a concepire il mondo come costituito da parti materiali governate da leggi. Ciò che esiste veramente sono solo la materia e le leggi che la governano. Ricollegandosi a un’antica concezione, Locke (2004)
distingue le qualità primarie – che sono le caratteristiche materiali delle
cose: massa, estensione, moto, ecc. – dalle qualità secondarie – che scaturiscono dal nostro modo di percepire le cose. A diferenza di quanto riteneva
Aristotele, per il quale fra sostanza e qualità vi è un nesso molto stretto, le
qualità secondarie non sono realmente esistenti nei corpi. Così, ad esempio,
il rosso di un iore, così come l’armonia di una musica, non sono proprietà
inerenti il iore e la musica, ma qualcosa che dipende dall’elaborazione degli
stimoli che gli oggetti producono nel nostro apparato percettivo-cognitivo.
L’interesse si sposta verso quei meccanismi mentali in virtù dei quali percepiamo le cose così come le percepiamo. In tale ambito, la metafora della
mente come computer o come elaboratore di informazioni, che si è andata difARTS AND MUSEUM EDUCATION
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fondendo dal secondo dopoguerra, è stata ben più di una metafora. Essa ha
conosciuto non solo un’ampia difusione nel mondo artistico e massmediale (si pensi ai temi dell’uomo cibernetico o all’impatto delle macchine
sul mondo umano), ma ha inaugurato un vasto approccio tendenzialmente
riduzionistico allo studio della mente – tanto che i più attenti fra quei ricercatori che, pure, contribuirono nel dopoguerra allo sviluppo della scienza cognitiva hanno temuto che si potesse arrivare a una robotizzazione
dell’umano; si pensi agli insistenti richiami in tal senso di von Bertalanfy
(1971, 44) o agli ammonimenti di Wiener ad un «uso umano degli esseri
umani» (1966). Un caso emblematico di tale riduzionismo si trova, per fare
un esempio recente, nella neuroestetica di Zeki (2010). A suo parere la
grandezza del nostro cervello consiste nella capacità di produrre astrazioni
(47-48); ma ciò costituisce anche la sua miseria perché ci induce a credere
nell’esistenza degli ideali platonici di bellezza, bontà e giustizia rendendoci
insoddisfatti della realtà. L’arte è l’espressione per eccellenza di tale contrastante capacità del nostro cervello. Naturalmente, non è in questione
il fatto che il nostro cervello produca astrazioni (o simboli, o pensiero)
ma come ciò avvenga. Ma su questo aspetto Zeki è generico (8-15) e sembra interessato piuttosto a fornire una propria ilosoia dell’arte forzando in
questa direzione le indicazioni non esaustive che ci provengono dall’indagine dei meccanismi neuronali. Per contro, si è assistito ad alcuni tentativi
di reintrodurre le esperienze qualitative in ambito neuroscientiico. Ma né
i qualia, negli anni ’80, né la più recente rivalutazione della fenomenologia
in Varela (1997), né l’antiriduzionismo di Searle (2005), né lo straordinario
afresco non riduzionistico di come dalla neurodinamica scaturisca l’intenzionalità in Freeman (2000) hanno cambiato il sentire di un’epoca. Siamo
in un periodo anti-mente. Subiamo ancora le conseguenze dell’aver attribuito uno statuto di realtà alle sole qualità primarie, relegando l’esperienza
estetico-artistica a un mero epifenomeno.
Ci chiediamo allora: qual è il valore dell’esperienza estetica e del senso
di armonia che ci restituisce? L’arte riesce a cogliere qualcosa di reale o è
espressione solamente del modo di funzionare del nostro cervello? E il suo
valore educativo? Perché attribuire all’arte un valore in ambito educativo se,
in fondo, è la conoscenza scientiica che incide nella realtà, è veriicabile e
genera progresso, mentre quella artistica è mera qualità secondaria, sempre
più relegata al ruolo di intrattenimento?
Occorre peraltro osservare che coloro che si sono riiutati di aderire a
tesi riduzionistiche si sono inviluppati in complicate opzioni dualistiche.
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Ad esempio, in Kant troviamo una netta distinzione fra ciò che è conoscibile scientiicamente e ciò che è conoscibile non scientiicamente, ma sentimentalmente, come nel caso del giudizio estetico (1997). Un altro esempio è quello di Heidegger, che denuncia l’occultamento che l’essere subisce
nell’essere pensato come ente e deinisce essenza di un’opera d’arte proprio
l’aprire alla verità dell’essere che risiede al di là della mera cosalità della
cosa, permettendo così il farsi evento della verità (1968, 21). La radicalizzazione del discorso sull’arte attorno alla diferenza ontologica che sussiste
fra essere e ente e l’attribuzione all’arte della capacità di mettere-in-opera
la verità conducono Heidegger in direzione di un pensiero rammemorante
molto vicino alla poesia, in cui il linguaggio ha il ruolo di manifestare l’essere – anzi: è la casa dell’essere (1987, 267). Tali proposte appaiono alquanto
sfumate ed esoteriche e mal si prestano a restituire la vitalità e la isicità
dell’impatto estetico, nonché il fatto che un’opera d’arte dice cose ben precise
non recita solo la voce dell’essere.
3. Una via di mezzo: l’organicismo
Sono state richiamate brevemente la prospettiva del riduzionismo materialistico e la correlata reazione per evidenziare come l’esperienza mentale
ne esca profondamente compromessa: in un caso essa viene interpretata
come inesistente, nell’altro caso come inefabile.
Una linea di pensiero diversa è quella che possiamo deinire organicista.
Secondo tale prospettiva, un fenomeno complesso, tipicamente il vivente, è
dotato di un’auto-dinamica in virtù della quale si innesca una concrescenza
fra le parti, come esito della quale si genera una totalità che “è più della
somma delle parti”. Si producono così un piano sovraordinato rispetto alle
parti (il più, l’organismo, il tutto) e un rapporto di reciproca implicazione fra
le parti e il tutto. La causalità estrinseco-meccanica è superata in direzione
di una causalità organica, con la conseguenza che se la parte è concresciuta
con il tutto in essa si trova riverberato il senso dell’intero organismo. Ad
esempio, la società può essere considerata come un organismo dotato di
una propria auto-dinamica, irriducibile agli elementi che la costituiscono;
gli individui, anche se dotati di una loro autonomia, risentono dello spirito
dei tempi e sono, così, individui-di-quella-società.
Una concezione dell’organicismo esisteva già in Grecia. In particolare, Aristotele fece un grande sforzo per attenuare il dualismo platonico e
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concepì la forma non come puramente immateriale, ma come intrinseca
alla materia. Per quanto riguarda i tempi moderni, un notevole approfondimento ilosoico dell’organicismo si trova in Hegel. Nelle scienze della
vita, l’organicismo si proila quale soluzione all’alternativa fra meccanicismo e vitalismo nel concepire gli organismi viventi. Per il meccanicismo
gli esseri viventi sono la somma di parti materiali tenute insieme da forze
puramente meccaniche. I vitalisti, o preformisti, ipotizzano l’esistenza di
una forza vitale, di una vis essentialis, capace di organizzare la materia di cui
gli organismi sono composti. Per tale ragione i vitalisti sono stati giustamente accusati di introdurre ipotesi metaisiche. In tale ambito, sul inire
del Settecento, Blumenbach (1781) propone il concetto di Bildungstrieb (da
Bildung, formazione, e Trieb, pulsione, impulso), un impulso che spinge la
materia a organizzarsi, ma non è né una forma estrinseca, come quella dei
vitalisti, né qualcosa di puramente meccanico. La condivisione di Kant verso il concetto di Bildungstrieb (Kant, 1997, § 81) ne permise la difusione
(Fabbri Bertoletti, 1990, 11). Egli ne illustra in questo modo l’azione: «in
una condizione di luidità, diversi materiali possono da se stessi disporsi
attraverso forze interne (si chiamino o no forze vitali) in una forma che è
organica» (Kant, 1900, XIII, 400, cit. in Fabbri Bertoletti, 1990, 46).
Il Bildungstrieb intende fornire una via di mezzo fra meccanicismo e
teleologia, ma è evidente che il suo statuto concettuale non è del tutto
chiaro. Basti pensare quanto la coppia meccanicismo/vitalismo abbia costituito una formidabile sida per il pensiero, da Aristotele ino alle attuali
ricerche dell’Evolutionary developmental biology (cfr. Calabi, 2008). Goethe,
che aveva compiuto studi sulla metamorfosi delle piante (1983), afermerà a
proposito del Bildungstrieb: «queste ci sembrano parole fatte soltanto per
lasciarci a mani vuote» (142). Comunque sia, esso conosce un periodo di
grande fortuna nell’area tedesca dagli ultimi due decenni del XVIII secolo
ino a circa metà del XIX secolo, ed ha avuto il merito di sollecitare contributi in diverse discipline in proicuo dialogo (ilosoia, biologia, letteratura
e poesia), intrecciandosi con l’elaborazione di quella più ampia prospettiva concettuale, così centrale per la pedagogia, che è quella della Bildung.
Da allora, la formazione-Bildung si gioca sul crinale fra autoformazione e
eteroformazione, fra l’essere organicisticamente attivo del soggetto e il suo
essere plasmabile dalla cultura e dalla società in cui è collocato, in quanto
Bildungstrieb va inteso «nel senso attivo e passivo della parola; impulso a
formare e a lasciarsi formare» (Fichte, 1957, 139). Il suo essere frutto di
un’epoca, nonché l’intrinseca oscurità concettuale del termine, come si diEDUCATION SCIENCES & SOCIETY
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ceva, sconsiglia però di assumere i concetti di Bildungstrieb e di Bildung
come autoesplicativi, richiedendo attenti ripensamenti concettuali (cfr.
Fadda, 2002; Granese, 2003). L’epistemologia della complessità può fornire
un importante contributo in tale direzione.
4. Organicismo ed esperienza estética
Il concetto di Bildungstrieb è assai importante anche sul versante estetico
in quanto costituisce quella legge organizzatrice immanente che permette
di interpretare l’opera d’arte come un organismo, ovvero come una forma
vivente (Schiller, 1959, 262) dotata di una propria logica interna, come una
«forma plasmata che vivendo evolve» (Goethe, 1989, 1019). Il dualismo
forma/materia, meccanicismo/teleologia è superato. Artista è colui che,
connettendosi al pulsare del Bildungstrieb, non assembla in modo arbitrario, ma intesse internamente. Infatti l’arte ha un’unità interna (Hegel, 2000,
54), una sintesi nascosta (Goethe, 1983, 157). I fenomeni sono già intrisi di
teoria: «non si cerchi dietro ai fenomeni: essi stessi sono già la teoria» (Idem,
163). Ciò apre la strada a quella capacità di pensare ai fenomeni come di per
sé signiicanti ed espressivi che verrà approfondita dalla Gestaltpsychologie.
Bildungstrieb, poi, è frutto della processualità incessante della natura, della
quale l’uomo è sia un prodotto, sia il prosecutore dell’opera della natura a un
livello più alto: di qui l’idea dell’uomo come una seconda natura e dell’arte
come strumento per lo sviluppo della natura. Ma ainché ciò avvenga il
Bildungstrieb non può essere falso, impuro, come quando è autoreferenziale e non obbedisce al volere della natura (Moritz, 1962a, 82). Per Hegel
(2000, 113) il vero «artista non rappresenta nulla della propria particolarità,
ma rappresenta solo la Cosa». Questa è vera originalità.
Il Bildungstrieb agisce nell’arte su due versanti.
– Da un lato particolarizza, concretizza, si concentra su un oggetto
(l’opera d’arte), e con ciò permette al soggetto di realizzare, oltre che
conoscere, se stesso. Scrive Goethe a questo proposito:
la grande e altisonante massima: Conosci te stesso! mi è sempre parsa sospetta, come un’astuzia di preti segretamente in combutta per confondere
l’uomo con pretese irrealizzabili e deviarlo dall’attività del mondo esterno
verso una falsa contemplazione interna. L’uomo conosce se stesso nella sola
misura in cui conosce il mondo (Goethe, 1983, 146).
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Peraltro, è nota la profonda elaborazione del tema dell’oggettivazione
dell’Io/Idea nella natura che proporranno le ilosoie idealistiche.
– Dall’altro lato, l’arte non perde il respiro cosmico dello spirito; questo continua a debordare dall’oggetto-organismo inteso come parte
dell’ininita processualità organica della natura. La continua trasformazione della natura esige un tendere perenne dell’artista proiettato verso l’impossibile uniicazione dell’intera realtà in una totalità
compartecipante (Moritz, 1962b, 85). Bildung è pertanto anche, e
soprattutto, Umbildung, continua trasformazione (Sola, 2003), costante e mai concluso lavoro di riscrittura del Sé e della natura di cui
è parte.
Il concetto di Bildungstrieb, in quanto espressione di un’epoca, non poteva durare (cfr. Fabbri Bertoletti, 9-10; 212), ma sarebbe un errore pensare che le istanze organicistiche di cui esso si faceva interprete siano state
quasi completamente rimosse nella contemporaneità (cfr. Gennari, 1995).
Piuttosto, esiste un ilo rosso che, attorno alla nozione di organicismo, lega
diverse concezioni successive al periodo della Bildung, ino al pensiero della
complessità. Prima di evidenziare il nesso fra complessità, estetica e formazione, non si può non richiamare il pensiero di un Autore in cui la tesi organicista, tramite la lezione di Hegel, conosce profondi sviluppi, e cioè Dewey.
Trascureremo invece, per ragioni di spazio, il pensiero di un altro importante “ilosofo dell’organismo”, Whitehead, le cui elaborazioni sul versante
della dimensione educativa dell’estetica sono peraltro di grande valore.
5. Organicismo ed esperienza estetica in Dewey
Il pensiero di Dewey è profondamente debitore nei confronti dell’hegelismo, del quale accoglie la dialettica, ripensandola come transazione (Dal
Pra, 1974), ma lasciandone cadere il carattere metaisico-totalizzante. La
prospettiva organicistica rimane intatta: si pensi all’inseparabilità delle
varie facoltà dell’uomo (sentimento, pensiero, sensorialità) (Dewey, 2007,
115), all’esperienza come a un intero, al fatto che l’educazione non ha un
ine (estrinsecità) ma è il ine (intrinsecità, organicismo) (Dewey, 2004,
57). Il principale contributo dell’arte è quello di superare i contrasti del
vivere componendoli in un tutto armonico, riconciliando il soggetto con
la realtà e permettendo un’intensiicazione dell’esperienza del vivere (2007,
34). Anche la bellezza è «un modo di vedere e di sentire le cose nel loro
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costituire un tutto integrale» (2007, 160). L’armonia insita nella bellezza
avvicina quest’ultima alla verità: “Verità è Bellezza”, aferma così Dewey
facendo propri i versi di Keats (Keats, 1983, 77, cit. in Dewey 2007, 58).
Inoltre, poiché i contrasti sono inglobati, secondo una progressione cumulativa, in prospettive via via più alte, l’arte permette la crescita continua
del soggetto nel suo rapportarsi al mondo (1990, 264). Essa consente, pertanto, quel progredire dell’esperienza verso livelli più alti di chiariicazione che è il movimento stesso del pensiero, tanto che per Dewey non c’è
vera diferenza fra l’attività del pensare e l’arte: «Il pensiero è arte in modo
eminente» (1990, 271); «l’idea è arte e opera d’arte» (1990, 267). Grazie
all’immaginazione (altra qualità estetica), il pensiero riesce a proiettarsi al
di là del dato immediato per costruire scenari più ampi e scoprire creativamente le potenzialità delle cose: «la conoscenza o la scienza, come opera
d’arte, come ogni altra opera d’arte, investe le cose di tratti e di potenzialità
che precedentemente non appartenevano loro» (1990, 273). La conoscenza
a cui Dewey fa riferimento ha il carattere denso e organico della ragione
hegeliana e non è un mero assemblare per prove ed errori: l’arte crea un
nuovo organismo dotato di armonia. L’armonia che l’arte (e più in generale
l’esperienza estetica) ofre è un aspetto così centrale dell’esistenza umana
(«è il culmine supremo della natura» [1990, 257]) che si può sostenere che
l’estetica rappresenti in Dewey, più che un singolo tema, un organizzatore
di fondo del suo pensiero. Pensare bene ha una valenza estetica, potremmo
afermare a partire dal suo pensiero. I isici tendono a pensare che quando
una formula non possiede bellezza ed eleganza probabilmente non è valida
in quanto «la natura non può essere così maldestra!» (Al-Khalili, 2014,
182). In ambito educativo, per di più, l’esperienza di bellezza-armonia genera insoddisfazione per tutte quelle esperienze che non arrivano a quel
livello (Dewey, 2004, 262).
6. Dall’organicismo alla complessità
Come si è accennato, l’epistemologia della complessità può essere vista
come una nuova forma di organicismo. Non è possibile tracciare in questa
sede la storia della complessità, se non per evidenziare che, fra le sue fonti,
ce n’è sicuramente una mitteleuropea, con un ruolo centrale dell’epoca della Bildung. Purtroppo il pensiero europeo, in particolare quello tedesco, è
uscito mortiicato dalle due guerre. Così, quando si pensa alla complessità, si
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fa riferimento alla sua origine statunitense, alle celebri Macy conferences degli anni ’40 e alla concomitante rivoluzione cibernetica, nonostante il tema
dell’organicismo avesse continuato a conoscere sviluppi nel vecchio continente anche al di fuori della cultura letterario-ilosoica. Successivamente,
molti celebri isici hanno adottato un approccio di tipo complesso, sdoganandolo e conferendogli autorevolezza, così che, ad esempio, l’articolo di
Anderson More is diferent (1972) è sovente ricordato come il manifesto
della complessità.
Il concetto-svolta che ha permesso di produrre un pensiero della complessità è stato quello di sistema. Il sistema complesso può essere pensato
come un’evoluzione del concetto di organismo. Infatti, in entrambi vige
un’organizzazione che non è imposta dall’esterno, ma deriva da un’autodinamica (che ricorda il Bildungstrieb). In alcuni casi, è ipotizzata l’azione di
una creatività cosmica che è capace di contrastare la dispersione e l’entropia
permettendo l’evoluzione di strutture complesse nell’universo (Whitehead,
1965; Waldrop, 2002, 459; Sander, 2007, XIX). Un sistema complesso è
composto da parti (o, meglio, substrutture, o unità più piccole subordinate)
ma la totalità del sistema è più della somma delle parti. Questo prodursi di
qualcosa in più è detto proprietà emergente. Essa ricorda l’incremento qualitativo che si produce durante la fatica del concetto dell’hegelismo ma, rispetto a questo, viene meno la prospettiva metaisica ed è piuttosto enfatizzata
l’idea che i processi si sviluppino dal basso (bottom-up). Altre caratteristiche
dei sistemi complessi sono: il loro essere in costante cambiamento (si parla
così di sistemi viventi [Weiss, 1969] e non di strutture statiche); il coesistere
di autodeterminazione ed eterodeterminazione; il loro evolvere, in modo
intrinsecamente aleatorio, verso conigurazioni possibili ma non necessitate (questa intrinseca imprevedibilità dei fenomeni complessi è interpretata
come esito del caos che è ad essi consustanziale. Qui si segna il punto di
massima distanza dall’hegelismo: i fenomeni complessi sono al bordo fra
ordine e caos).
7. Superamento del dualismo arte-scienza
Il pensare ai fenomeni come a sistemi complessi ha come conseguenza
l’impossibilità di studiare “scientiicamente” un fenomeno isolandolo totalmente
dall’ambiente-sistema in cui è incluso. Infatti, in quanto a loro volta parti di
un organismo, i fenomeni sono concepibili solo nella co-determinazione
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reciproca. Ignorare questo principio basilare signiica incorrere in ciò che
Whitehead chiamava l’errore della concretezza mal posta (1979, 65), ovvero
l’idea che si possa estrapolare un oggetto dalla rete cosmica degli eventi di
cui è parte.
Una conseguenza rilevante di tale prospettiva è che non ci può essere
una conoscenza esaustiva un fenomeno perché occorrerebbe assumere un
punto di vista assoluto. Ogni teoria risulterà pertanto inesorabilmente incompleta. Tale incompletezza è una conseguenza dell’inevitabile parzialità
dei presupposti fondativi di qualsivoglia teoria, come hanno evidenziato i
vari “teoremi di incompletezza” che, a partire da quello di Gödel, sono stati
elaborati durante il XXI secolo (Piaget, 1972, 67).
Ne segue che:
a) il pensiero analitico-speculativo può, sì, restituirci la conoscenza scientiica dei fenomeni, ma in modo parziale e incompleto, perché per studiare
un oggetto lo stacca dalla rete di relazioni che rimane sullo sfondo. Ogni
atto conoscitivo comporta ciò che in psicoanalisi si chiama investimento
oggettuale, che permette la rottura della simbiosi e l’evoluzione del pensiero
(cfr. Mitchell, 2000, 55-56). Ma i particolari trascurati sono proprio quelli
che possono rivelarsi determinanti per una nuova comprensione del fenomeno, perché costituiscono quei ponti sottili che sono centrali per la sua
evoluzione;
b) dall’altro lato, il pensiero estetico-intuitivo è capace di seguire il fenomeno nel suo debordare dalla prospettiva limitata in cui lo abbiamo ingabbiato per cogliere, come afermava Whitehead (1980, 87), quello «sfondo
ininito [che ne] rimane sempre come la causa non analizzata» e dove il
fenomeno «mantiene un rapporto con la totalità». Nell’arte, infatti, non
viene perduta la connessione dell’oggetto con la rete di relazioni (sociali,
storiche, personali-inconsce, cosmiche) in cui esso è incluso. Anzi, in quanto parte concresciuta in un tutto, si può afermare che “nella parte c’è l’intero”.
«Vedere un mondo in un granello di sabbia, / e un cielo in un iore selvatico,
/ tenere l’ininito nel cavo della mano / e l’eternità in un’ora» (Blake, 1996).
Morin si riferisce a questa caratteristica deinendola principio ologrammatico (2007, 28-29). Nel mettere in primo piano una singolarità, l’esperienza
estetica ci permette di cogliere la vaga ininità sullo sfondo dove si svolge l’interconnessione di quella cosa col tutto (Whitehead, 1961, 344), di
intuire, in modo quasi mistico (Dewey, 2007, 196), uno sfondo qualitativo,
un intero che si estende indeinitamente, del quale «cose, oggetti, sono solo
punti focali» (Idem). L’intuizione estetica è capace di restituire il pulsare
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di un’epoca (Hegel, 2000, 7), oggettivandola e contribuendo all’evoluzione
del pensiero.
Sulla base di tali considerazioni non appare più necessario rassegnarsi
al dualismo mortiicante scienza=conoscenza vs. arte=soggettività. Infatti,
i due approcci conoscitivi non sono in contrasto fra loro, né riavvalorano
un dualismo conoscitivo di tipo kantiano, perché coesistono nel medesimo
atto: l’esperienza estetica corregge la miopia e la parzialità della conoscenza scientiica incoraggiando l’evoluzione del pensiero verso prospettive più
ampie; l’approccio scientiico integra l’allusività e il carattere totalizzante
dell’esperienza estetica, richiamando l’attenzione sull’insistente particolarità
delle cose (Whitehead, 1965, 120-121), incoraggiando l’analisi dell’oggetto
(pur nella consapevolezza che questa non può avere ine perché ogni teoria
esplicativa dell’oggetto è strutturalmente incompleta [Stengers, 2007]).
Per utilizzare un concetto della psicologia della Gestalt, fra i due momenti vige un rapporto di igura-sfondo.
8. Verso un’estetica della complessità
Un’estetica della complessità, a quanto ci consta, è ancora tutta da scrivere (a parte qualche accenno in Morin [2010]). Integrando le argomentazioni sopra ricordate, vengono di seguito indicati alcuni punti di interesse
per un’estetica della complessità, con particolare attenzione alla valenza
formativa.
– Un’opera d’arte è un sistema vivente; pertanto ha una sua organizzazione, una sua struttura. Contrariamente alle tesi soggettivistiche, si
può ipotizzare che fra opera d’arte e fruitore, intesi come sistemi
complessi, si inneschino degli isomorismi (Bertalanfy, 1971a, 65-70,
1971b, 94, 126) in virtù dei quali essi iniziano a risuonare, “sintonizzandosi reciprocamente su proprietà corrispondenti” (Weiss, 1970,
162; Sander, 2007, 201). Anche Arnheim, riaccreditando la controversa tesi gestaltica dell’isomorismo (1999, 366), parla di risonanza per spiegare, ad esempio, la diretta corrispondenza fra l’espressività degli stati motori e quella degli stati mentali in un danzatore
(Arnheim, 1969a, 87-88). Ciò riavvalora la tesi dell’empatia di Lipps,
intendendola però come risonanza ed escludendo che vi sia solamente
una proiezione di reazioni personali sull’opera.
– Un’opera d’arte, in quanto sistema strutturato, è intrinsecamente espresEDUCATION SCIENCES & SOCIETY
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siva: come ipotizza la Gestalpsychologie, l’espressività non è aggiunta
da fuori o attribuita da un’elaborazione mentale, ma è la manifestazione dell’organizzazione del sistema. Tale posizione è coerente con
la teoria dei neuroni specchio.
– Quanto appena afermato non esclude l’esistenza di momenti interpretativo-ermeneutici. Infatti ogni fruitore, in quanto autoorganizzato,
risuonerà in maniera speciica con l’opera. Scrive Dewey a tale proposito:
Per percepire, chi osserva deve […] creare la sua propria esperienza. E
la sua creazione deve includere relazioni comparabili a quelle che provò
il produttore originario. Non sono le stesse in senso letterale. Ma per
colui che percepisce, come per l’artista, ci deve essere un ordine in cui
vengono messi gli elementi dell’intero che nella sua forma, pur non nei
dettagli, sia lo stesso del processo di organizzazione di cui ha fatto consapevolmente esperienza il creatore dell’opera (2007, 77).
– L’opera d’arte è densamente simbolica. Coerentemente con l’etimologia del termine (“mettere insieme, far coincidere”) un simbolo è
una ricomposizione a un meta-livello di una frattura che si è prodotta nell’esperienza concreta. Ad esempio, a fronte di una mancanza
nell’adattamento con l’ambiente, l’essere umano è capace di passare
dalla fatticità del contrasto a una sua risoluzione sul piano ideativosimbolico. L’arte è interpretabile, allora, come un’emergenza simbolica
in cui la concretezza dei contrasti è mediata sul piano simbolico. Per
Dewey «c’è un solo tipo di conoscenza, che è quello induttivo» (1990,
273), che è l’unico che attenga alla realtà. L’arte ofre quella primitiva
organizzazione di senso/signiicato della realtà di cui, poi, il pensiero
astraente si servirà per i suoi calcoli più precisi. È in tal senso che
Dewey può afermare, come abbiamo ricordato, che «la conoscenza è
un prodotto dell’arte» (Idem).
Per quanto attiene agli aspetti più propriamente educativi, oltre a quelli
già elencati, evidenziamo i seguenti.
– Educazione emotiva. Nell’organizzazione di senso/signiicato che l’arte ofre, un ruolo centrale è rivestito dall’esperienza emotiva, intesa
come legata a un sentire precategoriale e più esteso rispetto alla conoscenza fornita dal pensiero concettuale-deduttivo. Per Vico (1967,
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90) «gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono
con animo perturbato e commosso, inalmente rilettono con mente pura». Per Whitehead il “vasto feeling della totalità” viene prima
dell’“analisi dei dettagli” (1972, 161). L’arte non dovrebbe perdere
la connessione con quella dinamica basilare dell’emotività per cui le
cose, prima di essere ragionate, sono accettate o rigettate, “mantenute
o scartate” (Idem), amate o odiate. La continua connessione con i
“contenuti elementari della vita umana” (Arnheim, 1969b, 419) salva
l’arte dall’astrazione e dalla cerebralità. Per Dewey, addirittura, per
capire le fonti dell’esperienza estetica è […] necessario prendere in
considerazione la vita animale al di sotto del gradino dell’uomo. Le
azioni della volpe, del cane e del tordo possono almeno servire a
ricordare e a simboleggiare quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo quando il lavoro è mestiere e il pensiero ci isola dal mondo.
L’animale vivente è pienamente presente, tutto qui, in tutti i suoi atti:
nel suo sguardo diidente, nel suo ine annusare, nel suo drizzare
improvvisamente gli orecchi. Tutti i sensi egualmente sul “chi vive”.
A guardarlo, si vede che il moto si fonde nel senso e il senso nel moto
– costituendo quella grazia animale con cui è così diicile competere
per l’uomo (2007, 44).
Ciò non signiica che l’arte sia emotività allo stato puro, perché la
discriminazione e la simbolizzazione delle emozioni, come si diceva sopra, è tutt’uno con esse. Signiica piuttosto che il pensiero
ipotetico-deduttivo emerge, con un processo di costruzione dal basso, da modalità di rapportarsi alla realtà legate al sentire immediato e
viscerale, le quali, tuttavia, rimangono la base dell’esperienza umana.
Possiamo afermare, in coerenza con la griglia di Bion (1973b), che
fra il pensiero onirico-immaginativo e quello concettuale-deduttivo
vi sia continuità e costante dialogo. Quest’ultimo, però, come hanno
evidenziato Autori quali Stern (1987, 82) e Ricoeur (1981), smarrisce la primigenia pregnanza di senso contenuta nella codiica estetica
della realtà. Ma per quanto rafreddato rispetto alla vividezza delle
emozioni, il pensiero astraente deve tuttavia mantenere una connessione con queste ultime, pena la perdita di intensità e signiicatività
della vita. La funzione del pensiero astraente, allora, diventa quella di
costituire un meta-livello simbolico capace di retroagire nei confronti
dell’esperienza emotiva basilare, chiariicandola, espandendola, sviluppandone le potenzialità implicite, educandola, facendola crescere
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– ma senza perdere, contemporaneamente, l’ampiezza densa di signiicato dell’esperienza immediata, rifacendosi carne, sciogliendo quel
dualismo fra istinto e intelligenza che tanto attanagliava Bergson. Si
instaura così una circolarità fra categoriale e precategoriale, conscio e
inconscio, capace di alimentare una vita più ricca. Jung parlava in tal
senso di processo di individuazione. Nietzsche, paragonando l’uomo
all’albero, ha evocativamente descritto tale circolarità nei seguenti
termini: «Quanto più in alto e più nella luce vuole ascendere, con
tanta più forza le sue radici si spingono dentro la terra, verso il basso, nel buio, nel profondo, – nel male» (1988, 31). Questo lavoro di
reintegrazione delle parti precategoriali del Sé e di estensione del Sé
conduce per Fromm a quella naturalizzazione dell’uomo e a quella
umanizzazione della natura che era stata vagheggiata da Marx e che
costituisce la vera realizzazione efettiva dell’umanesimo, il cui esito inale è rappresentato dalla costruzione dell’uomo universale (Fromm,
1968, 113-14). Proprio per tale continua connessione fra le astrazioni più soisticate e un coinvolgimento viscerale con la vita, l’arte
riveste un ruolo assai importante nella crescita continua del soggetto
anche nella vita adulta.
– Educazione al pensare per immagini. Abbiamo ricordato come la concezione emergentista dell’epistemologia della complessità ci permetta
di interpretare il pensiero analitico-formale come l’ultimo stadio di
un pensare che afonda le radici in una dimensione in cui l’esperienza
è organizzata primariamente a livello estetico-simbolico. Tale codiica estetica non cessa mai di operare. Per lo psicoanalista Bion il sognare è un’attività simbolo-poietica costante, anche durante la veglia,
perché attiene all’originaria organizzazione di senso operata dalla
mente (1972, 42). Anche il pensare per immagini ha la stessa valenza,
tanto che Ferro, ricollegandosi a Bion, parla di pittogrammi (2002,
18). Scrive Jung nel suo Libro Rosso (2010): «parlo per immagini…
Non posso infatti esprimere in altro modo le parole che vengono dal
profondo». Per Pirandello l’immagine rappresenta l’intersezione fra
il materiale e lo spirituale, il farsi strada dello spirito nella materia:
«l’idea non ha valore in arte se non quando si fa sentimento, se non
quando, dominatrice di tutto lo spirito, diviene quell’impulso che suscita le immagini capaci di darle espressione vivente» (1977b, 177).
Sognare e produrre immagini, così, è già un’attività del pensiero che
non va svalutata, ma riconosciuta e aiutata a evolvere. Per Dewey
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l’immaginazione riveste un ruolo centrale perché, lungi dall’essere un
arbitrio o una proiezione, «rende manifesto il processo della natura»,
permette la «continuazione dei processi naturali» in direzione di ciò
che è propriamente umano (1990, 300), consente «la visione di noi
stessi come parte inseparabile di tutto il resto […] la corda di un’armonia che risuona dall’ignoto» (297-298).
– Valorizzazione del pensiero intuitivo. In quanto punto focale di una rete
di relazioni che rimane sullo sfondo, l’arte è capace di tematizzare
non il solo singolo fenomeno, come avviene nel pensiero analitico,
ma anche di intravedere lo sfondo di relazioni e cause sottili trascurate
dal pensiero analitico. Tale contestualizzazione in uno scenario più
vasto permette di possedere, per quanto a livello intuitivo, un quadro
più ampio di un fenomeno, e ciò è indispensabile per intuirne gli sviluppi possibili. È probabilmente in tal senso che Einstein afermava:
«l’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza
è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso e facendo nascere l’evoluzione» (1997, 169). Per Jung, «il contenuto dell’intuizione si presenta come un tutto in sé concluso, che
non si capisce come si sia formato» (1993, 363). L’intuizione è una
competenza centrale in ambito educativo, perché attiene alle possibili evoluzioni dell’ambiente educativo e dell’educando, al “come
far sorgere ciò che ancora non c’è”. Il pensiero intuitivo può essere
potenziato con l’ascolto, con l’epochè, con l’«accecarsi artiicialmente
ino a intravedere una iaccola di luce nell’oscurità», come scriveva
Freud in una lettera a L.A. Salomé (cfr. anche Bion 1973a, 62), con
il far tacere la nostra pulsione a comprendere così che possano parlare
le dimensioni inconsce.
– Formazione etica: abbiamo visto, parlando di Bildungstrieb, come
questo possa essere autentico o falso. La falsità dipende dall’arbitrio dell’artista, dalle interpretazioni estrinseche, ingombranti o non
rispettose; la verità scaturisce invece dalla sua capacità di vedere la
Cosa (Hegel), dall’adozione di uno stile di cose (Pirandello, 1977a,
392), dall’oggettività con cui ci si rapporta con la realtà (Metzger,
1971, 297). Tale oggettività non riguarda il conformarsi a un valore
astratto, ma la comprensione della situazione concreta, il sintonizzarsi con le esigenze della situazione, la capacità di favorire un’armonizzazione fra i diversi elementi in gioco. Ciò non signiica però, sia
chiaro, adottare un’ottica microecologica (cfr. Longo, 2010) e neppuEDUCATION SCIENCES & SOCIETY
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re difendere un primato dell’estetico sull’etico, della singola situazione sull’universale (Angelini, 2003, 13). La consapevolezza che non
si può estrapolare un sistema dalla sua connessione con tutti gli altri
esige il rispetto del delicato equilibrio delle situazioni che incontriamo, ma in una prospettiva molto ampia, cosmica.
Inoltre, vista l’incessante processualità della realtà, ogni situazione
ha delle potenzialità evolutive di cui occorre rendere ragione. L’etica
diventa la capacità di intensiicare il valore delle situazioni che incontriamo. Quest’ultimo aspetto è assai importante in ambito educativo,
dove per raggiungere valori più alti talvolta se ne devono sacriicare
altri. Anche Jaspers (1970) avvicina l’arte a un’etica del pensiero, a
un lasciar essere le cose per quello che sono e per quello che possono
diventare. La sensibilità estetica verso l’armonia è indicatore importante dei possibili sviluppi virtuosi della situazione.
– Educazione alla creatività: siccome per l’epistemologia della complessità l’organizzazione dei sistemi non è immessa da fuori, ma è
frutto di un’autoattività, anche la persona viene intesa già da sempre
agente, tutt’uno con la sua intenzionalità (Trevarthen, 1998, 37, 149;
Freeman, 2000). Winnicott (1974, 241-242) postulava l’esistenza
di un vero sé, da intendersi come propensione, come gesto spontaneo,
come creatività innata. Il vero sé è la verità del soggetto in quanto in
espansione, è la sua agency primaria. Il soggetto evolve rapportandosi
a oggetti, ma non potrà mai diventare oggetto. Così, la creatività primaria non si satura mai completamente in un oggetto e, per tutta la
vita, tenta di giungere a completa espressione, senza mai riuscirci. Per
tale ragione, ci riesce diicile pensare a un artista che ritenga di aver
concluso il suo compito creativo (Idem, 238).
9. Conclusioni
Tali e tante sono, ci pare, le possibilità di pensare all’esperienza estetica e
al suo valore educativo in modo nuovo grazie al pensiero della complessità
che un loro approfondimento si prospetta di grande interesse. Con la raccomandazione, sulla quale si spera che questo contributo abbia gettato luce,
di intendere la complessità non come un super-tecnicismo, né come una
rottura radicale con la tradizione, ma piuttosto come un nuovo pensiero
organicistico in parte già sviluppato e in parte ancora da sviluppare.
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Presentazione dell’Autore:
Stefano Polenta è Professore associato di Pedagogia generale presso l’ateneo di
Macerata. Si occupa di processi relazionali in ambito educativo, con una particolare attenzione al counseling, e dei rapporti fra arte e costruzione del sé, utilizzando
un duplice approccio epistemologico: quello psicoanalitico e quello derivante dalle
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