4. benchmarking competitivo: la redditività delle imprese

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4. benchmarking competitivo: la redditività delle imprese
4.
BENCHMARKING COMPETITIVO:
LA REDDITIVITÀ DELLE IMPRESE
4.1
Introduzione e sintesi dei risultati
Redditività e
competitività
In un mondo sempre più aperto e integrato si accentua grandemente
l’importanza della competitività dei sistemi nazionali d’impresa. La competitività delle aziende dipende dalla loro capacità di migliorare continuamente l’efficienza produttiva e creare valore. La valutazione della capacità
competitiva richiede a sua volta la determinazione delle potenzialità delle
imprese in termini di produttività e redditività dei fattori, in primo luogo
del fattore capitale: nessun paese può mantenere la competitività di lungo
periodo senza adeguati investimenti in beni-capitale nuovi e tecnologicamente avanzati che consentano di migliorare l’efficienza del processo produttivo; adeguati investimenti non si verificano se il capitale non è sufficientemente remunerato, in confronto con quanto avviene nei paesi
concorrenti.
La remunerazione del capitale è dunque una variabile fondamentale di
competitività. Essa influisce sulle decisioni degli operatori sia in termini
«correnti» che «attesi»: la remunerazione correntemente realizzata costituisce infatti una fonte importante (anche se non unica) di finanziamento degli investimenti; la remunerazione attesa è invece il prerequisito essenziale di ogni scelta che comporta l’assunzione di un rischio imprenditoriale.
Sulle decisioni di investimento influiscono molteplici variabili. Nel breve
periodo gli investimenti risentono soprattutto delle condizioni di domanda
(secondo il principio dell’acceleratore). Nel medio-lungo periodo, la remunerazione dell’investimento assume un ruolo preminente. Da questo punto di
vista, la redditività del capitale è una variabile che esercita un’influenza
strutturale sulla competitività di sistema.
Questa variabile di competitività così cruciale non «si presta» però a
essere confrontata facilmente a livello internazionale. Le differenze di redditività del capitale non sono infatti sempre interpretabili in modo univoco:
esse possono riflettere diversi gradi di efficienza, differenze nella specializzazione industriale, presenza di ostacoli alla concorrenza, differenze nei
premi al rischio-paese. Inoltre, gli stessi indici di redditività variamente
impiegati nella letteratura sono soggetti a problemi metodologici che possono in parte inficiarne il contenuto informativo in un confronto internazionale.
Indicatori
Per questi motivi, nel presente rapporto si è scelto di non basarsi su
macro e micro un’unica misura di redditività del capitale, ma di ricorrere a due diverse
«famiglie» di indicatori, schematicamente definibili come indicatori macro e
microeconomici. Gli indicatori macroeconomici sono fondamentalmente derivati dalle Contabilità nazionali dei diversi paesi; essi hanno il pregio di
fornire una visione complessiva del fenomeno, ma possono nascondere specificità settoriali e aziendali che solo un’analisi micro può evidentemente
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mettere in luce. Gli indicatori microeconomici sono invece ottenuti dai bilanci aziendali; essi consentono di andare maggiormente nel dettaglio del
comportamento d’impresa, ma sono soggetti a problemi di confrontabilità
derivanti da criteri di redazione dei bilanci che possono differire tra i diversi paesi. Solo una lettura congiunta dei due tipi di indicatori può dunque
fornire, con sufficiente approssimazione, una misura delle differenze di redditività del capitale tra le principali economie.
Sintesi dei
risultati
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La considerazione congiunta degli indicatori macro e microeconomici
porta a evidenziare, in Italia e in Europa, una bassa redditività del
capitale, conseguenza di una tendenziale «sclerosi tecnologica» che contraddistingue nel loro insieme i sistemi europei rispetto agli Stati Uniti:
un capitale in generale «eccessivo» e «invecchiato» (rispetto al benchmark
americano) frena l’efficienza dei sistemi europei. La considerazione degli
indicatori di redditività, ottenuti dai bilanci di imprese di medio-grande
dimensione, segnala inoltre che tale situazione sembra caratterizzare
l’industria manifatturiera italiana in misura relativamente più marcata
rispetto alle industrie dei principali paesi dell’Europa continentale. La
sclerosi tecnologica è il frutto del cattivo funzionamento del mercato del
lavoro europeo, della conseguente adozione nelle aziende di mix fattoriali
subottimali dal punto di vista dell’efficienza produttiva, delle esternalità
negative per il settore manifatturiero derivanti da liberalizzazioni insufficienti o troppo lente nelle public utilities: il risultato finale è un livello
di produttività totale dei sistemi europei notevolmente più basso che
negli Stati Uniti.
In termini puntuali, i principali risultati possono essere così riassunti.
— Gli indicatori macroeconomici relativi al settore privato evidenziano
un tasso di rendimento del capitale notevolmente più basso in Italia e in
Europa rispetto agli Stati Uniti e una quota di valore aggiunto assorbita
dal capitale (capital income share) sensibilmente più elevata in Europa, e
ancor più in Italia, rispetto agli Stati Uniti; quest’ultima riflette non una
maggiore redditività, ma il maggior impiego relativo del capitale che caratterizza l’Italia e l’Europa rispetto agli Stati Uniti.
— La più elevata intensità di capitale in Italia e nei paesi europei è la
risposta di questi sistemi economici alle rigidità nell’impiego del fattore lavoro che ne hanno scoraggiato l’uso nei processi produttivi; la conseguente
sovracapitalizzazione delle aziende e le sacche di inefficienza di sistema
hanno comportato un livello di produttività complessiva dei paesi europei
inferiore a quello americano.
— Gli indicatori di redditività dei bilanci aziendali relativi all’industria
manifatturiera mostrano anch’essi un netto stacco tra paesi dell’Europa
continentale da un lato e Stati Uniti e, in minore misura, Regno Unito dall’altro: nel decennio novanta il ROI medio dell’Italia e della Germania è risultato del 5,2%, quello della Francia del 7%; Regno Unito e Stati Uniti
hanno realizzato un ROI rispettivamente del 9,5% e dell’11,3%.
— La redditività operativa netta dell’Italia, a parte una breve fase positiva a cavallo della metà degli anni novanta favorita dalla svalutazione
della lira, evidenzia una tendenziale debolezza nei confronti della redditività tanto delle imprese tedesche che francesi. Alla fine del periodo considerato (1997-98) si ripropongono differenziali di ROI di entità simile a
quelli dei primi anni novanta (1991-93), quando le imprese italiane si trovavano in difficoltà competitiva; nella media del biennio 1997-98, il ROI
delle imprese manifatturiere italiane è pari al 5,6%, quello delle imprese
tedesche e francesi è rispettivamente del 6,6% e 7,8%.
— Se si prescinde dalle differenti politiche di ammortamento perseguite dalle imprese dei diversi paesi, i differenziali di redditività sfavorevoli all’Italia tendono ad amplificarsi: nella media del biennio 1997-98,
la redditività operativa lorda in rapporto al capitale investito era pari in
Italia all’11,6%; quella delle imprese tedesche e francesi si collocava nello
stesso periodo rispettivamente al 13,8% e al 16,9%; negli Stati Uniti e
nel Regno Unito la redditività, al lordo degli ammortamenti, era al
19,7% e 18,6%.
— La debolezza della redditività italiana rispetto ai paesi europei riflette una più bassa produttività del capitale che ha più che compensato la
maggiore incidenza, rispetto alle altre economie, del reddito operativo sul
valore aggiunto. Quest’ultima — come si è rilevato per gli indicatori macroeconomici con riferimento all’insieme dei paesi europei — non è un indice di «salute» delle imprese manifatturiere italiane, ma riflette l’uso più intensivo del capitale (e in particolare del capitale fisso) nei processi
produttivi del nostro paese. I dati dei bilanci aziendali sembrano dunque
indicare che la sovracapitalizzazione — risposta «europea» alle rigidità di
sistema — riguardi in particolare misura l’industria manifatturiera dell’Italia.
— I risultati delle aziende italiane peggiorano sensibilmente quando si
consideri la redditività netta del capitale di rischio. Il ROE del settore manifatturiero italiano è la metà di quello di Germania e Francia e circa un
terzo di quello americano e inglese. La maggiore debolezza del ROE italiano riflette l’elevata incidenza delle imposte, degli oneri finanziari e dei risultati della gestione straordinaria. Escludendo gli anni di maggiore crisi
(1992-94), nello scorso decennio l’industria manifatturiera italiana è riuscita mediamente a tradurre in reddito netto una quota di reddito operativo
compresa tra il 20 e il 30%; ciò significa che circa il 70-80% del suo reddito
operativo è stato assorbito da imposte, oneri finanziari e perdite su operazioni straordinarie o non caratteristiche.
— Il basso ROE italiano rappresenta un fattore di debolezza particolarmente grave, in quanto tende a ridurre la competitività dell’impresa sul
mercato dei capitali e può tradursi in una minore capacità delle aziende ad
accumulare fondi e, quindi, ad autofinanziarsi. La debolezza del ROE contribuisce peraltro a ridurre il grado d’attrazione del nostro paese nei confronti degli investitori stranieri, che preferiscono destinare i propri fondi
per partecipare a iniziative imprenditoriali in paesi dove il capitale di rischio è maggiormente remunerato.
Sviluppi
settoriali
Il monitoraggio sulla redditività delle imprese italiane verrà ulteriormente sviluppato. I risultati ottenuti in questo stadio della ricerca — pur
sufficientemente nitidi nel delineare alcune importanti tendenze di fondo
— meritano infatti ulteriori approfondimenti. In particolare l’analisi verrà
principalmente indirizzata verso l’interpretazione dei «comportamenti» settoriali, per vedere l’incidenza delle differenti specializzazioni (composizione
dell’output e dimensione delle imprese) sulle performance di redditività dei
vari paesi.
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4.2
La redditività delle imprese in Italia e nei principali paesi industriali: le evidenze macroeconomiche
La redditività delle imprese viene esaminata in questo paragrafo sulla
base di due indicatori ottenuti dai conti nazionali: 1) tasso di rendimento
del capitale investito, calcolato come margine operativo lordo in rapporto al
valore del capitale; 2) capital income share, calcolata come margine operativo lordo in rapporto al valore aggiunto. Il margine operativo lordo è dato,
in entrambi gli indicatori, dalla differenza tra valore aggiunto al costo dei
fattori e redditi da lavoro1.
Questi indicatori macroeconomici hanno una corrispondenza, per
quanto imperfetta, con gli indicatori microeconomici basati sui bilanci
aziendali (cfr. par. 4.3). In particolare, il tasso di rendimento del capitale
investito corrisponde all’utile operativo, comprensivo di oneri finanziari
netti e imposte, in rapporto allo stock di investimenti fissi. Esso dunque si
può affiancare alle informazioni provenienti dall’indice ROI. La differenza
rispetto al ROI è che nel calcolo di quest’ultimo il capitale viene considerato in un’accezione più ampia (oltre ai net fixed assets, inclusivi delle immobilizzazioni finanziarie, si considera il capitale circolante) e ai costi storici
(mentre i dati macroeconomici sono a prezzi correnti): l’indicatore macroeconomico del tasso di rendimento del capitale trova dunque una corrispondenza, nella microeconomia dei bilanci aziendali, in un ROI calcolato
in rapporto ai net fixed assets, senza le immobilizzazioni finanziarie, valutati ai costi correnti anziché storici. La capital income share esprime invece la quota di reddito prodotto dal settore destinata alla remunerazione del
capitale, considerata sempre al lordo di oneri finanziari e imposte; essa
corrisponde, a livello micro, al margine operativo netto valutato in rapporto al valore aggiunto dell’azienda, essendo quest’ultimo ottenuto deducendo dal fatturato aziendale costi operativi, costi intermedi e ammortamenti.
L’analisi viene effettuata partendo dagli indicatori che l’OCSE ha pubblicato fino al 1999 per il settore privato (comprendente industria manifatturiera, estrattiva, costruzioni, servizi vendibili, agricoltura) dei paesi industriali. La pubblicazione degli indici OCSE è stata sospesa nell’ultimo
anno nell’attesa che tutti i paesi si adeguino ai nuovi criteri di contabilità
nazionale che sono in via di adozione nelle varie economie (ESA95 per i
paesi europei, SNA93 per gli Stati Uniti). Gli indicatori esaminati sono
quindi costruiti sulla base dei dati dei conti nazionali SEC792.
Nella nostra elaborazione operiamo due modifiche sugli indicatori OCSE di tasso di rendimento del capitale e capital income share. La prima riguarda la valutazione dello stock di capitale che, negli indici OCSE, si ricava dalla somma cumulata nel tempo degli investimenti in macchine,
attrezzature e costruzioni, al netto della quota di obsolescenza tecnica (i
beni capitali sostituiti perché vecchi e non più utilizzabili), ma non di quella economica (la perdita di valore dei beni capitali invecchiati, ma ancora
1
I redditi da lavoro comprendono i redditi sia dei lavoratori dipendenti che degli autonomi. La
Contabilità nazionale dei vari paesi fornisce informazioni sui redditi dei lavoratori dipendenti, ma non degli autonomi; per quest’ultimi si deve dunque ricorrere a stime che possono comportare una sottovalutazione della relativa quota di reddito e conseguentemente una sopravvalutazione della capital income share (cfr. il riquadro La metodologia per la costruzione degli
indici macroeconomici di redditività).
2
Cfr. OECD, Economic Outlook, vari anni.
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LA METODOLOGIA PER LA COSTRUZIONE DEGLI INDICI MACROECONOMICI
DI REDDITIVITÀ
Negli ultimi anni sono stati effettuate notevoli revisioni dei dati di contabilità nazionale: negli Stati Uniti è stato adottato lo schema SNA93; in Europa è in corso la revisione dei conti secondo la contabilizzazione ESA95. L’estensione degli adattamenti varia da paese a paese ed è per ora
ristretta ad un arco temporale molto limitato. Dunque gli indici sono stati costruiti partendo dalle serie macroeconomiche contabilizzate secondo il SEC79. I diversi paesi hanno poi provveduto
solo parzialmente alla ricostruzione delle serie storiche del capitale. Mentre è pratica comune calcolare sia lo stock di capitale lordo che quello netto, a partire dal 1993 negli Stati Uniti è stata
soppressa la pubblicazione della serie dello stock di capitale lordo. Per gli Stati Uniti dunque
l’OCSE stima la serie di capitale lordo regredendo la vecchia seria di stock lordo su quello netto
e sui servizi del capitale sino al 1993 e proiettando in avanti i coefficienti ottenuti.
In questa appendice vengono illustrate le formule e le definizioni delle serie storiche associate al calcolo degli indici di redditività.
1. Capital income, shares:
(1)
α=
Y − wL
Y
dove con α si indica la capital share al lordo del costo d’uso del capitale. Y è il valore aggiunto del
settore privato misurato al costo dei fattori, ottenuto sommando i redditi (comprensivi delle imposte dirette e dei contributi sociali) corrisposti ai fattori produttivi, nonchè gli utili non distribuiti
delle imprese (al lordo degli ammortamenti); wL è il costo totale del lavoro. Le contabilità nazionali forniscono dati sulla remunerazione dei lavoratori dipendenti mentre il reddito da capitale
viene calcolato residualmente. Così facendo si ottiene però un reddito da capitale «misto» poiché
contiene sia il surplus afferente alla produzione sia la remunerazione del lavoro del proprietario
dell’impresa, nel caso dei lavoratori autonomi o delle imprese a conduzione familiare. Il metodo
utilizzato dall’OCSE, per inglobare nel termine wL anche il reddito dei lavoratori autonomi, consiste nell’assumere che la compensazione oraria media degli autonomi sia uguale a quella dei lavoratori dipendenti. Questa assunzione porta plausibilmente ad una sottostima della remunerazione totale del lavoro ed il problema è tanto più rilevante in Italia, dove la quota dei lavoratori
autonomi sul totale degli occupati è particolarmente elevata soprattutto a partire dagli anni ’80.
2) Tassi di rendimento del capitale investito:
(2)
R=
Y − wL
K
Mentre il numeratore coincide con quello del precedente indice, il denominatore è dato dal
valore dello stock di capitale al costo di sostituzione. In questa formula il capitale entra come misura lorda, non tiene cioè conto dell’obsolescenza economica.
Dopo aver dedotto dallo stock di capitale lordo anche l’obsolescenza economica le espressioni
(1) e (2) possono essere riformulate al netto del costo d’uso del capitale. Il costo d’uso (c) è il prezzo associato ai servizi del capitale. Poiché questi servizi non sono nella maggior parte dei casi
scambiati, il prezzo non si forma nel mercato ma è un prezzo «interno». Nella forma più semplice
esso comprende tre elementi1:
1. un tasso di rendimento (r), interpretato come il costo opportunità di impiegare il capitale in
modo alternativo;
2. il deprezzamento economico (D), ovvero la perdita di valore del bene a causa dell’età;
3. i guadagni o le perdite in conto capitale (∆q/q), cioè la variazione del valore del bene indipendentemente dalla sua età.
∆q
q
Secondo la teoria economica il costo d’uso eguaglia il tasso di rendimento del capitale investito se la funzione di produzione esibisce rendimenti costanti di scala, se i mercati sono perfettamente competitivi ed il tasso di rendimento atteso eguaglia quello ex-post. Nella realtà queste assunzioni sono solitamente smentite. Per il tasso di interesse nominale r è stato utilizzato il tasso
(3)
c=r+D−
1
Per un approfondimento dell’importanza del costo d’uso del capitale nel calcolo degli indici di redditività cfr.
P. Annunziato, I. Ganoulis, 1998, Stock e costo del capitale con misure di deprezzamento non geometrico, Rivista di Politica Economica, vol. III, pag. 31-68.
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di interesse a lunga sui titoli pubblici, mentre q è ottenuto dal deflatore dei beni di investimento.
La serie del deprezzamento è stata ricavata a partire dai dati sullo stock di capitale e sugli investimenti utilizzando l’espressione per l’accumulazione del capitale.
Capital income shares e tassi di rendimento del capitale investito sono legati dalla seguente
relazione:
(Y−wL)
(Y−wL) Y* p (Y−wL) Y* L p
(4)
=
=
K
Y
K* q
Y
L K* q
dove gli asterischi indicano le variabili espresse in termini reali e p, q rispettivamente i deflatori
del valore aggiunto e del capitale (Y=pY*; K=qK*). La relazione (4) indica che la capital share si
ottiene dal prodotto del tasso di rendimento del capitale con la produttività del capitale e dunque
andamenti divergenti tra i due indici dipendono dal tasso di utilizzo del capitale per unità di output. L’ultima uguaglianza pone infine in relazione la produttività del capitale con l’intensità relativa di lavoro e capitale.
in funzione). Nelle nostre stime calcoliamo il valore «netto» del capitale, ottenuto deducendo dai dati OCSE anche l’obsolescenza economica vale a dire il valore dell’ammortamento (economico) del capitale investito3. Il capitale netto, valutato al costo di sostituzione, esprime il valore finanziario dei
beni di investimento. Questa correzione incide sul denominatore dell’indicatore di tasso di rendimento del capitale investito.
La seconda modifica consiste nel calcolare il margine operativo al netto del costo del finanziamento, altrimenti detto costo d’uso del capitale. Il
costo d’uso del capitale misura il rendimento minimo che un progetto di investimento deve garantire per essere ritenuto economicamente conveniente. Esso viene qui valutato prima delle imposte e include sia il costo connesso all’obsolescenza economica del capitale investito sia il cosiddetto
costo opportunità del capitale, rappresentato dal rendimento che si potrebbe ottenere da un impiego alternativo dei fondi investiti nell’attività produttiva. Il margine al netto del costo d’uso consente dunque di valutare la
redditività «in senso stretto» dell’attività economica. È questa misura di
redditività che, a livello aggregato, consente di approssimare meglio gli indici calcolati a partire dai bilanci aziendali e di rappresentare l’effettiva capacità dell’impresa di intraprendere investimenti volti al sostegno della
competitività del processo produttivo. Questa correzione incide sul numeratore degli indicatori OCSE tanto di tasso di rendimento del capitale investito che di capital income share.
Tasso di
rendimento
La figura 31 riporta l’andamento del tasso di rendimento del capitale
del settore privato, al netto del costo d’uso, di Italia, Germania, Francia,
Spagna, Regno Unito e Stati Uniti nel periodo 1980-98. La figura evidenzia:
1. Un andamento relativamente omogeneo dei tassi di rendimento del
capitale dei paesi europei in contrapposizione agli Stati Uniti. In particolare, il tasso di rendimento per gli Stati Uniti si colloca dalla fine degli anni
ottanta costantemente al di sopra di quelli europei; tale differenza si è amplificata a partire dal 1992.
2. L’andamento del tasso di rendimento del capitale del settore privato italiano pur «seguendo» l’andamento europeo presenta delle specificità.
3
Sulla metodologia della costruzione del capitale netto e del costo d’uso del capitale, cfr. il riquadro La metodologia per la costruzione degli indici macroeconomici di redditività.
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Fig. 31 - Tasso di rendimento del capitale del settore privato al netto del
costo d’uso del capitale
Fonte: Elaborazioni CSC su dati OCSE.
Il tasso italiano subisce una rilevante contrazione tra il 1988 e il 1992, per
poi recuperare negli anni successivi; nel 1998 il tasso di rendimento dell’Italia si trova comunque ancora al di sotto del livello di dieci anni prima.
L’andamento
italiano
Il peculiare andamento del tasso di rendimento italiano ha risentito
delle fluttuazioni registrate nell’ultimo decennio dal cambio reale della lira
(e dunque dalla competitività) e delle ripercussioni che l’evoluzione dei tassi d’interesse ha avuto sul costo d’uso del capitale. In particolare, sulla forte caduta del periodo 1988-92 (quando il tasso di rendimento italiano toccò
un punto di minimo) hanno inciso la perdita di competitività sperimentata
in quel periodo dal paese e, soprattutto nella crisi del 1992, l’impennata dei
tassi d’interesse che ha finito col comprimere ulteriormente in quell’anno i
margini al netto del costo d’uso del capitale. Il successivo recupero registrato dal tasso di rendimento ha riflesso dapprima il miglioramento di competitività del sistema che si è accompagnato alla svalutazione della lira del
1993-95 e poi (in particolare nell’ultimo anno del periodo di osservazione)
gli effetti benefici sul costo d’uso del capitale della discesa dei tassi d’interesse conseguente all’ingresso dell’Italia nell’euro.
Il divario tra
Europa e
Stati Uniti
Con riferimento alle altre economie, la figura mostra in modo molto
netto la differente performance di redditività tra blocco europeo e Stati
Uniti. Un differenziale che è in linea con l’evidenza degli ultimi anni sull’ampliamento del divario di crescita tra Stati Uniti ed Europa. In particolare, il tasso di rendimento del settore privato degli Stati Uniti ha mostrato una accelerazione a partire dal 1992, in concomitanza con la fase di forte
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espansione dell’economia americana. Corrispondentemente, il tasso di rendimento del settore privato dei paesi europei è rimasto complessivamente
stagnante per buona parte del decennio novanta, periodo di crescita modesta dell’intera area.
Una considerazione a parte merita l’andamento del tasso di rendimento del Regno Unito che nei dati macroeconomici risulta estremamente basso — inferiore negli ultimi anni a quello di Italia, Francia e Germania —
mentre nei dati di bilancio aziendale evidenzia, in termini di ROI dell’industria manifatturiera, un’evoluzione nettamente migliore (paragonabile a
quella degli Stati Uniti). Questa discrepanza riflette sia il diverso universo
di riferimento delle due fonti statistiche sia la differente misura del capitale dei dati macro rispetto a quelli micro. In particolare, i dati di fonte macroeconomica includono oltre al manifatturiero, altri settori la cui redditività (è il caso ad esempio dei servizi di pubblica utilità) è stata nel periodo
considerato influenzata da strutture di mercato molto diverse da paese a
paese. Con riferimento invece alla misura del capitale, gli indicatori di
Contabilità nazionale si riferiscono, come detto, alle sole immobilizzazioni
«fisiche» (macchinari, impianti, capannoni), mentre quelli di bilancio al valore (ai costi storici) dei total assets dell’azienda. Valutando il ROI in rapporto ai soli fixed assets in senso stretto (escludendo cioè dal computo del
capitale sia immobilizzazioni finanziarie che circolante), le evidenze dei dati di bilancio relative all’industria manifatturiera tornano in linea con quelle macroeconomiche: il tasso di rendimento del Regno Unito si abbassa notevolmente, collocandosi al di sotto degli altri paesi europei.
Capital
income share
Un quadro molto diverso della redditività delle varie economie si ricava dall’osservazione delle capital income share. La figura 32 riporta le quote del capitale nel valore aggiunto del settore privato dei cinque paesi considerati. Da essa si vede che:
1. A partire dalla metà degli anni ottanta la capital income share degli
Stati Uniti si colloca costantemente al di sotto delle share dei paesi europei.
2. L’andamento nel tempo della capital share dell’Italia replica sostanzialmente l’evoluzione osservata nel tasso di rendimento del capitale, con
una profonda flessione tra il 1988 e il 1992 (periodo di perdita di competitività e di tassi d’interesse elevati) e un recupero negli anni successivi; al
contrario di quanto osservato per il tasso di rendimento del capitale, nell’ultimo anno (1998) la capital income share dell’Italia torna sui livelli dei
primi anni ottanta.
La coesistenza in Europa e, soprattutto, in Italia di tassi di rendimento del capitale bassi e capital income share elevate (e all’opposto, di tassi
elevati e capital share basse negli Stati Uniti) trova una spiegazione nell’uso intensivo del fattore capitale nei paesi europei, superiore a quanto si
verifica negli Stati Uniti4. L’elevata capital income share in Italia e in Europa non riflette dunque una maggiore redditività del capitale nei paesi
4
Tecnicamente i tassi di rendimento del capitale si ottengono moltiplicando le capital share
per la produttività del lavoro, l’intensità relativa dei fattori ed i prezzi relativi di prodotto e
capitale. Il loro andamento è quindi influenzato dalla possibilità di variare i coefficienti tecnici di produzione (fabbisogno di capitale, lavoro e altri input per unità di output), vale a dire la
tecnologia impiegata nei processi produttivi. Il mix di fattori della produzione utilizzati nelle
attività produttive può infatti variare sensibilmente, da paese a paese e nel corso del tempo,
in risposta sia ai cambiamenti tecnologici sia alle modificazioni dei prezzi relativi degli input
produttivi.
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Fig. 32 - Capital share del settore privato al netto del costo d’uso del
capitale
Fonte: Elaborazioni CSC su dati OCSE.
europei ma il maggiore impiego relativo di questo fattore nell’attività di
produzione del settore privato. La redditività del capitale in Italia e in Europa è invece, come mostrano i tassi di rendimento del capitale, stagnante
nel medio-lungo periodo e sensibilmente inferiore ai livelli americani; un
divario di redditività tra Stati Uniti ed Europa che si è peraltro notevolmente ampliato negli ultimi anni.
L’intensità dei
Questa considerazione può sembrare in contrasto con le indicazioni
fattori nei
circa le strutture delle diverse economie: maggiore rilevanza dei settori
processi
capital-intensive negli Stati Uniti (settori ad alta tecnologia e con forti ecoproduttivi
nomie di scala) rispetto ai paesi dell’Europa continentale e soprattutto all’Italia (dove prevalgono settori a media-bassa tecnologia, tipicamente
labour-intensive). Essa si spiega con la diversa reazione dei sistemi economici agli shock salariali e petroliferi che hanno colpito gran parte dell’area
industrializzata nel corso degli ultimi decenni. Gli shock petroliferi hanno
in particolare colpito l’intera area industriale, ma hanno avuto conseguenze più rilevanti per i paesi che erano maggiormente dipendenti dal petrolio
(l’Italia in primo luogo); gli shock salariali degli anni settanta e dei primi
anni ottanta sono stati invece un fenomeno soprattutto europeo, che non ha
avuto un riscontro di analoga misura negli Stati Uniti. Negli anni ottanta
la risposta delle economie europee a queste modificazioni dei prezzi relativi degli input è stata la ristrutturazione dei processi produttivi verso tecniche meno oil-intensive e meno labour-intensive (fig. 33). In presenza di elasticità di sostituzione tra fattori della produzione sostanzialmente elevate
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Fig. 33
A. Rapporto tra costo del lavoro per dipendente e prezzo del capitale
B. Intensità relativa del capitale (K/L)
Note: A. Indice 1970=1; B. prezzi costanti 1995 e PPP 1995.
in Europa5, gli shock salariali (e petroliferi) si sono tradotti in un calo più
che proporzionale dell’impiego (relativo) del lavoro (e di petrolio) nei processi produttivi e, simmetricamente, in un crescita più che proporzionale nell’uso (relativo) del capitale. Ciò ha finito col favorire l’innalzamento della
capital income share europea e, corrispondentemente, la riduzione del tasso di rendimento del capitale.
Questa tendenza è proseguita nel periodo più recente (seconda metà
degli anni ’80 e anni ’90), quando il ricorso a tecniche ad alta intensità di
5
Secondo recenti verifiche empiriche, l’elasticità di sostituzione in Europa è sostanzialmente
superiore a 1; cfr. O. Blanchard 1998, Revisiting European unemplyoment, Capital Accumulation and Factor Prices, NBER.
90
capitale (maggiore che negli Stati Uniti, cfr. fig. 33-b) ha principalmente riflesso le persistenti forti rigidità del mercato del lavoro europeo. Tali rigidità nell’impiego della manodopera hanno favorito l’ulteriore modificazione
dell’organizzazione dei processi produttivi nella direzione di tecniche
labour-saving; un processo che sembrerebbe peraltro avere penalizzato soprattutto l’impiego dei lavoratori con più bassa qualifica6.
La sclerosi
tecnologica
Il bias tecnologico europeo a favore del capitale, «forzato» dal cattivo
funzionamento dei mercati dei fattori della produzione, ha contribuito ad
accrescere quella che è stata recentemente definita «sclerosi tecnologica»
dell’Europa7: la sovracapitalizzazione, in risposta alla forte regolamentazione del mercato del lavoro, ha comportato che unità di capitale «vecchie»,
a bassa produttività, sopravvivessero più a lungo di ciò che si sarebbe verificato in un contesto flessibile e funzionale a un efficiente utilizzo dei fattori di produzione; al contrario, negli Stati Uniti l’utilizzo di tecniche produttive meno capital intensive ha reso meno oneroso — e quindi facilitato — il
rinnovo dello stock di capitale nella direzione di un crescente impiego dei
beni-capitale innovativi e tecnologicamente avanzati.
Il differenziale di redditività del capitale tra Stati Uniti ed Europa è
dunque fondamentalmente il risultato dell’inefficienza complessiva delle
scelte produttive europee. Un’inefficienza che si traduce in un livello della
produttività totale dei fattori della produzione strutturalmente molto più
basso nei paesi europei che negli Stati Uniti (fig. 34-b). Tale ampio divario
di produttività complessiva riflette sia l’organizzazione microeconomica dei
processi produttivi (scelta di mix non ottimali di fattori o, in gergo,
inefficienza-x) sia, più in generale, l’inefficienza dell’intero sistema economico che risente dell’inerzia nell’introduzione di innovazione e tecnologia in
sostituzione del capitale «invecchiato» e delle esternalità negative derivanti dalle sacche di bassa produttività di settori chiave dell’economia europea
(ad esempio, le public utilities).
Nel paragrafo che segue questi problemi vengono approfonditi sulla
base di una dettagliata analisi dei bilanci aziendali delle principali economie. Come si vedrà, l’analisi microeconomica dei bilanci d’impresa consente di evidenziare, con riferimento all’industria manifatturiera, l’esistenza
in ambito europeo di una specificità italiana di sovracapitalizzaizone dei
processi produttivi e conseguente tendenziale debolezza della redditività
del capitale.
6
S. Scarpetta, A. Bassanini, D. Pilat, P. Schreyer (Economic Growth in the OECD area: recent
trends at the aggregate and sectoral level, OECD working paper n. 248, 2000) osservano che
mentre negli Stati Uniti il processo di skill-upgrading ha giocato un ruolo relativamente modesto nell’evoluzione dell’occupazione, in Europa i guadagni di produttività sono stati raggiunti in parte sostituendo o decidendo di non occupare lavoratori a bassa produttività del lavoro.
Nella maggior parte dei paesi europei la lenta crescita dell’occupazione e la caduta delle ore di
lavoro è stata accompagnata da un significativo up-skilling della forza lavoro. Negli Stati Uniti invece questo fattore ha giocato un ruolo minore, poiché condizioni del mercato del lavoro
più favorevoli hanno ampliato la base occupazionale e aiutato ad accrescere i tassi occupazionali dei lavoratori low-skilled.
7
R. Caballero, M. Hammour, 2000, Institutions, Restructuring and Macroeconomic Performance, mimeo MIT; E. Phelps, 2000, Europe’s stony ground for the seeds of growth, Financial
Times (09/08/2000).
91
Fig. 34
A. Produttività del capitale
B. Produttività totale dei fattori
Note: B. Prezzi costanti 1995 e PPP 1995.
Fonte: Elaborazioni CSC su dati OCSE.
4.3
La redditività delle imprese in Italia e nei principali paesi industriali: l’evidenza dei bilanci aziendali
In questo paragrafo la redditività delle imprese italiane e delle principali economie industriali viene analizzata sulla base delle informazioni dei
bilanci aziendali. Gli indici di redditività di Italia, Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti sono analizzati con riferimento a cinque macro settori (energia ed acqua, costruzioni, distribuzione al dettaglio, trasporti e
comunicazioni, manifatturiero) nell’arco di tempo 1989-98. L’analisi, pur
riguardando l’insieme dei settori considerati, si focalizza in questo stadio
92
principalmente sul comparto manifatturiero, rinviando a successivi approfondimenti la disamina analitica degli altri settori e dei singoli comparti
che fanno parte dell’industria manifatturiera.
Gli indici sono stati calcolati sulla base delle informazioni contabili
contenute nella banca dati BACH (Bank for the Accounts of Companies
Harmonised) della Commissione Europea, che presenta i bilanci aggregati
(e riclassificati) delle imprese di quasi tutti i paesi della UE, del Giappone
e degli Stati Uniti8. Un criterio di «attendibilità» ci ha spinto a considerare solo le imprese che appartengono alla terza delle tre categorie in cui è
diviso l’universo della banca dati Bach, quella che comprende le aziende
con fatturato superiore a 40 milioni di euro (circa 80 miliardi di lire); l’attendibilità delle informazioni di bilancio decresce infatti fortemente per le
fasce dimensionali più piccole. Per ciascun paese, il campione di imprese
prescelto appare ampiamente rappresentativo dell’intero universo; con riferimento alle grandi imprese del settore manifatturiero, il grado di copertura del database BACH oscilla attorno al 40% nelle tre principali economie
dell’area dell’euro (del valore aggiunto manifatturiero) e raggiunge il 51%
negli Stati Uniti9. Per il Regno Unito si è fatto ricorso ai dati di fonte Bureau Van Dijk, contenuti nella banca dati Fame, che comprende un campione significativo di aziende britanniche.
Per collocare nella giusta prospettiva l’analisi della redditività è opportuno richiamare alcune caratteristiche delle fonti statistiche utilizzate, che
attengono sia al contenuto delle banche dati sia ai criteri di redazione dei
bilanci. Per quanto concerne il contenuto, il campione di aziende Bach è
«quasi» aperto: la numerosità delle imprese prese in considerazione (sulla
base di una prestabilita soglia dimensionale) viene modificata ogni due anni. Il lavoro di riclassificazione effettuato presso la CE per armonizzare i
dati limita, ma non esclude, problemi di omogeneità nella comparazione dei
valori. La banca dati Bureau Van Dijk si riferisce ad un campione di imprese aperto. Tutto ciò impedisce evidentemente confronti nel tempo tra valori assoluti, ma lascia aperta la possibilità di concentrare l’analisi sui rapporti tipici. Una seconda considerazione sulle caratteristiche delle banche
riguarda il peso delle diverse categorie dimensionali di imprese (mediopiccole, medie, grandi) che rientrano nel campione di ciascun paese: tale
peso non è evidentemente lo stesso in ogni economia; la diversa composizione dimensionale, date le caratteristiche di redditività strutturalmente diverse delle varie categorie d’impresa, finisce col riflettersi sui risultati medi di settore dei paesi esaminati. Infine, occorre considerare che,
8
I dati di bilancio sono riclassificati secondo lo schema indicato dalla IV direttiva comunitaria. Il database Bach non fornisce informazioni sulla Germania per quanto riguarda i due settori dell’Energia e acqua e dei Trasporti e comunicazioni. Per gli Stati Uniti, i bilanci non indicano i dati sul costo del lavoro e questo non cosente di ricavare il valore aggiunto; mancano
inoltre informazioni sul settore delle «costruzioni» e dei «trasporti e comunicazioni». In entrambi i casi si è fatto ricorso alle elaborazioni del Centro CBK di Ernst&Young, che ha utilizzato i dati Compustat di Standard&Poor.
9
Più esattamente, nel 1995, il valore aggiunto delle grandi imprese del campione BACH rappresentava il 34,5% per l’Italia (2091 imprese manifatturiere), il 36,3% per la Germania e il
43,8% per la Francia (rispettivamente 1506 e 1309 imprese). L’elevato grado di copertura del
campione americano è spiegato dal fatto che per gli Stati Uniti i bilanci sono consolidati; essi
includono di conseguenza le informazioni contabili relative alle imprese controllate. A titolo di
confronto, si può aggiungere che il campione R&S di Mediobanca sui bilanci dei primi 257
gruppi mondiali offre un grado di copertura più o meno analogo per la Francia e la Germania,
inferiore per quanto riguarda l’Italia (16%) e gli Stati Uniti (41%).
93
nell’analizzare un numero di aziende particolarmente rilevante, l’utilizzo di
banche dati con fonti differenti può comportare, inevitabilmente, alcune disomogeneità. Pur di «non perdere» paesi importanti dal confronto internazionale, si è preferito correre questo rischio, tenendo presente che il problema della disomogeneità delle fonti tende a ridursi significativamente lì
dove le differenze di performance tra paesi sono molto marcate e/o sono
confermate da altre analisi condotte su dati omogenei10.
Indipendentemente dal tipo di fonte utilizzata, i raffronti internazionali in tema di redditività delle imprese presentano sempre delle difficoltà,
legate principalmente alle differenze nelle prassi contabili e nelle discipline fiscali. I maggiori fattori di disomogeneità riguardano i trattamenti contabili delle poste pensionistiche, degli ammortamenti, le rettifiche di valore, le partite straordinarie, le imposte e la capitalizzazione degli interessi e
delle attività non tangibili. Queste differenze influenzano ovviamente in
vario modo il reddito operativo delle imprese e richiedono dunque cautela
nell’interpretazione dei risultati; per un’analisi dettagliata di queste problematiche, cfr. il riquadro Differenze nei criteri contabili tra paesi e indicatori di bilancio utilizzati.
L’analisi della
redditività
La valutazione della redditività aziendale distingue la redditività operativa, relativa all’andamento della gestione caratteristica dell’unità analizzata, e la redditività netta, determinata dai risultati ottenuti in tutte le
aree della gestione che incidono sull’economicità aziendale (oltre alla gestione caratteristica, la gestione finanziaria, quella straordinaria e quella
extracaratteristica). L’analisi della redditività operativa è condotta attraverso il ROI (return on investment) che indica il rapporto tra il risultato
operativo netto e il capitale investito totale nella gestione caratteristica.
Il secondo indicatore di bilancio fondamentale per valutare la redditività delle aziende è il ROE (return on equity), dato dal rapporto tra utile
netto (dopo le imposte) e capitale netto investito. Il ROE rappresenta una
misura della capacità espressa dall’attività aziendale nel suo complesso di
remunerare il capitale di rischio impiegato per lo svolgimento di tale attività. Offre quindi un’indicazione molto importante (sia pur con significativi limiti concettuali)11 della competitività dell’impresa sul mercato dell’equity e della sua capacità di attrarre nuove risorse finanziarie nel
capitale di rischio.
La redditività
dei settori:
energia e
acqua
Il confronto del ROI ottenuto nei diversi paesi in esame mostra
differenze significative nei vari settori. Nel caso dell’«Energia e acqua»,
l’Italia evidenzia risultati in costante crescita lungo tutto il decennio
considerato e generalmente superiori a quelli degli altri paesi (tab. 19).
A partire dalla metà degli anni novanta, il ROI delle nostre imprese
risulta più elevato di 4-5 volte rispetto a quello francese, superiore (sia
pure in misura contenuta) a quello degli Stati Uniti e sostanzialmente
10
È il caso della redditività del Regno Unito nel confronto con i paesi dell’Europa continentale. L’analisi condotta su dati (omogenei) R&S di Mediobanca conferma le evidenze qui ottenute; cfr. «Un confronto sulla redditività delle imprese in alcuni paesi industriali», in Confindustria, Prospettive dell’economia italiana, Roma, settembre 2000.
11
In estrema sintesi, il valore del ROE è distorto dal fatto che il reddito netto calcolato in bilancio non tiene contro del valore finanziario nel corso del tempo.
94
DIFFERENZE NEI CRITERI CONTABILI TRA PAESI E
INDICATORI DI BILANCIO UTILIZZATI
Differenze nei criteri contabili
Per quanto riguarda i fattori di natura contabile, la «filosofia» che ispira la legislazione contabile nell’Europa continentale si focalizza sulla protezione del creditore, mentre quella dei paesi
anglosassoni mira principalmente all’informazione dell’azionista, evidenziando al massimo la corrispondenza fra risultanze contabili e scelte del management. Con riferimento al funzionamento
delle previdenze pensionistiche, i criteri sono differenti persino in Europa. In Germania e, più limitatamente, in Italia il lavoratore matura presso l’azienda parte dei benefici pensionistici o di
altra natura; questi fondi, rimanendo all’interno dell’azienda, finiscono col costituire una fonte di
finanziamento dell’impresa che può quindi diminuire la domanda di capitale esterno. Negli Stati
Uniti e in Francia i fondi pensionistici vengono affidati in gestione ad entità esterne ed escono
quindi dal raggio di azione aziendale. Un’altra importante differenza è connessa al trattamento
delle immobilizzazioni immateriali. Tali poste negli Stati Uniti possono essere capitalizzate e ammortizzate in un periodo massimo di 40 anni, mentre in Germania, Francia e Italia non tutti gli
oneri possono essere capitalizzati e quelli capitalizzati sono comunque soggetti a periodi di ammortamento più abbreviati. Un fattore di particolare influenza è la metodologia di svalutazione e
in particolare l’uso di ammortamenti accelerati (cfr. il testo su questo punto). Il trattamento contabile dei fondi è un ulteriore fattore di distorsione nel confronto tra paesi europei e Stati Uniti.
Nel sistema contabile americano, i fondi non sono registrati in un conto separato ma tra i creditori nelle passività e non possono essere accantonati se non a fronte di spese future certe. Con riferimento ai fattori strettamente istituzionali, i paesi anglosassoni sono caratterizzati da sistemi
finanziari dove il reperimento delle risorse per gli investimenti avviene principalmente tramite
ricorso al mercato dei capitali; anche le medie imprese beneficiano di condizioni relativamente
agevoli di accesso al mercato finanziario. Nel caso dei paesi europei, nonostante gli importanti
progressi di questi ultimi anni, la capacità dei mercati di garantire condizioni ottimali di finanziamento per le imprese incontra ancora limiti significativi. Questa situazione incide evidentemente sulle politiche finanziarie delle imprese e, conseguentemente, sulla comparazione tra le
strutture finanziarie delle industrie dei vari paesi.
Gli indici utilizzati per il calcolo della redditività
Gli indici di bilancio utilizzati per l’analisi della redditività delle imprese sono i seguenti:
I. ROI (return on investment)
Rappresenta, con il ROE, il principale indicatore di redditività aziendale. Misura la redditività del capitale investito ed è espresso dal rapporto:
ROI =
Margine Operativo Netto
Capitale investito in attività operative
Questo indice esprime, in sintesi, la remunerazione operativa che l’impresa è in grado di trarre dalla gestione operativa, prescindendo dalle modalità con cui è stata finanziata; il capitale investito, infatti, è finanziato sia dal capitale proprio che da quello di credito e, per il principio della partita doppia, corrisponde alla somma dei due fattori. Il margine operativo netto, prescinde,
oltre che dal costo della struttura finanziaria, dai risultati della gestione straordinaria e dall’imposizione fiscale. Con riferimento a questo indicatore va considerato che
— i valori assunti dal ROI risentono del tasso di inflazione. L’influsso dell’inflazione è tanto
più sensibile quanto più esigui sono i nuovi investimenti realizzati dall’impresa;
— la distorsione di cui al punto precedente è attenuata dal fatto che al denominatore del ROI,
figurano oltre agli immobilizzi tecnici, anche le attività correnti, che seguono la dinamica dell’inflazione;
— per qualsivoglia tasso di inflazione i valori del ROI sono funzione decrescente del tasso di
sviluppo dell’attivo;
— l’influsso del tasso di sviluppo dell’attivo sul ROI cessa a partire da certi tassi negativi di
variazione dei prezzi.
95
II. ROE (return on equity)
È dato dal rapporto: ROE= Utile netto / Capitale proprio
Fornisce la redditività del capitale netto. Rappresenta il rendimento dell’azionista su ciascuna quota di partecipazione al capitale dell’impresa. A fini di analisi il ROE viene generalmente
trasformato nel prodotto tra ROI, rapporto di indebitamento operativo ed il tasso di incidenza degli oneri e proventi extra-gestione. La redditività del capitale proprio, pertanto, dipende: dalla
redditività della gestione caratteristica, misurata dal ROI; dalla struttura finanziaria dell’impresa e dall’onerosità della gestione extra-caratteristica.
III. Costo dell’indebitamento
È espresso dal rapporto tra oneri finanziari (escluse perdite su cambi) al lordo dello scudo fiscale ed indebitamento finanziario. Fornisce il tasso medio di remunerazione del capitale di credito, fattore rilevante in un’analisi di confronto tra paesi che possono presentare un costo del capitale non omogeneo.
IV. Turnover clienti
Indica la dilazione media di incasso dei crediti verso clienti. Evidenzia il tempo di attesa necessario affinché i crediti aziendali si trasformino in liquidità utilizzabile nel ciclo produttivo. Nel
calcolo non è stato depurato il fattore IVA, per la difficoltà nell’individuare le aliquote medie.
Tab. 19 - Energia e acqua
(Dati percentuali)
Francia
Germania
Italia
Regno
Unito
Stati
Uniti
ROI
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
2,90
3,37
4,19
3,81
3,43
4,02
3,15
1,96
2,20
0,24
−2,38
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
6,15
5,90
6,86
8,17
7,17
6,70
9,91
10,28
11,35
9,22
10,75
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
6,39
8,56
12,08
12,30
11,91
9,82
9,04
8,58
8,33
4,35
4,73
5,41
5,90
7,96
10,00
11,16
5,56
2,90
5,09
4,70
4,15
1,52
1,62
6,99
7,97
8,49
5,30
8,74
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
12,49
14,76
13,43
13,13
13,34
11,93
14,89
14,22
12,51
7,69
2,51
10,08
11,27
10,53
18,23
18,24
5,68
ROE
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
96
−7,76
3,01
6,03
6,40
5,17
3,88
7,80
4,51
2,57
–10,47
–24,60
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
allineato a quello del Regno Unito. Questa evidenza trova probabile spiegazione nell’assetto proprietario e nella regolamentazione dei settori in
questione, tradizionalmente caratterizzati da un rilevante grado di monopolio. Il minor livello di concorrenza esistente nel settore spiega con
tutta probabilità il fatto che in questo comparto le aziende italiane ottengono risultati migliori sia rispetto agli altri settori, sia, nello stesso
settore, rispetto agli operatori degli altri paesi. A partire dal 1995, l’Italia
evidenzia anche un ROE superiore a quello francese (che nel 1997 e 1998
registra risultati fortemente negativi), ma inferiore rispetto a Regno Unito e Stati Uniti.
Trasporti e
Decisamente differenti sono gli andamenti delle imprese (private e
comunicazioni pubbliche) nel settore dei «Trasporti e comunicazioni» (tab. 20). La redditività operativa del capitale investito delle aziende italiane è notevolmente
più bassa di quella di Regno Unito e Stati Uniti, anche se comparabile (almeno fino al 1996) con quella francese. A partire dal 1995, il ROI italiano
è risultato tendenzialmente in calo. Al contrario, nel Regno Unito e negli
Stati Uniti, l’indice ha mostrato una crescita costante anche se a tassi abbastanza contenuti. Anche la Francia registra, alla fine del periodo, un miglioramento rispetto alla situazione della metà del decennio. Per quanto riguarda il ROE, l’indice si è mantenuto positivo fino al 1991, per poi
Tab. 20 - Trasporti e comunicazioni
(Dati percentuali)
Francia
Germania
Italia
Regno
Unito
Stati
Uniti
ROI
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
4,73
4,19
3,43
3,57
4,41
2,99
3,33
2,17
2,49
4,35
4,45
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
6,48
6,37
6,04
4,71
0,37
3,33
3,18
3,95
3,76
0,12
2,53
n/a
n/a
n/a
n/a
1,93
7,95
2,87
6,23
7,59
8,61
8,45
n/a
8,41
6,21
4,59
4,50
5,64
7,00
7,43
7,85
8,42
7,97
5,72
5,46
4,98
3,06
–3,46
–3,63
–0,08
1,54
–0,50
–4,53
3,43
n/a
n/a
n/a
n/a
9,45
12,33
4,48
9,65
9,63
10,77
12,29
n/a
14,21
7,86
2,46
5,34
8,03
13,08
15,40
14,97
15,21
16,21
ROE
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
4,06
3,22
-0,43
0,02
–1,96
–6,93
–6,68
–19,36
–20,11
2,77
0,65
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
97
divenire negativo negli anni successivi (con l’eccezione del 1995); nell’ultimo anno (1998) il ROI italiano torna positivo, collocandosi al 3,4%. La differenza rispetto ai paesi anglosassoni in termini di remunerazione del capitale proprio sono più ampie di quelle riscontrate nel settore «Energia».
Negli Stati Uniti, il ROE mostra valori molto alti, in particolare a partire
dalla metà degli anni novanta (nel periodo 1994-98, si osservano valori medi pari a quasi il 15%). Anche le imprese inglesi registrano un’elevata redditività netta che si traduce in un ROE che, ad eccezione del 1994, oscilla
tra il 9,5 e il 12,3%. La Francia mostra risultati particolarmente negativi,
con un ROE che nell’intervallo di tempo 1992-1996 è risultato sistematicamente negativo e che negli ultimi due anni supera di poco lo zero.
Costruzioni
Anche nelle «Costruzioni», l’Italia registra un risultato di notevole debolezza, con valori del ROI attorno al 2-3% nel triennio 1989-91; dall’inizio
del decennio questi valori si riducono ulteriormente, per oscillare attorno a
zero fino al 1997. Solo nell’ultimo anno sembra registrarsi una timida ripresa (tab. 21). Deve, peraltro, essere osservato che la performance delle
nostre imprese non appare molto dissimile da quella degli altri paesi dell’Europa continentale; appare invece molto marcato il distacco da Regno
Unito e Stati Uniti che, in particolare nella seconda parte del decennio, ottengono risultati compresi tra il 7 e il 9%. In termini di ROE, il decennio
Tab. 21 - Costruzioni
(Dati percentuali)
Francia
Germania
Italia
Regno
Unito
Stati
Uniti
ROI
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
3,48
1,39
1,71
2,27
1,03
1,80
1,08
1,46
0,84
1,43
0,57
1,43
1,26
1,19
1,30
1,87
1,51
1,18
−1,34
–0,71
−3,25
n/a
n/a
3,00
2,95
2,88
0,11
0,21
–2,70
–1,02
–0,76
–0,02
–0,16
n/a
n/a
n/a
0,43
1,58
2,75
2,72
6,94
9,44
9,74
9,44
n/a
8,11
5,14
2,63
3,16
5,37
7,16
7,32
6,65
7,74
7,49
9,38
7,69
1,51
2,53
–34,83
–36,96
–112,91
–96,19
–18,61
–0,84
3,07
n/a
n/a
n/a
15,58
11,60
12,52
12,26
2,48
7,11
6,71
6,96
n/a
13,06
2,95
–6,43
–1,01
11,46
17,85
17,89
16,77
0,00
31,33
ROE
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
98
12,36
12,53
13,89
11,82
8,33
6,36
11,13
−13,35
9,64
6,82
3,56
6,22
6,70
5,87
7,03
7,72
7,79
7,22
0,09
0,66
–9,82
n/a
novanta è chiaramente un periodo estremamente critico. A eccezione dei
primi tre anni, il ROE è sempre stato ampiamente negativo, con un picco
nel 1994 (−113%) e 1995 (−96%). Gli ultimi anni del decennio registrano un
relativo miglioramento, che porta nel 1998 a un valore del ROE nuovamente positivo, sia pur molto limitato in valore assoluto. Questa debolezza non
trova riscontro in nessuno degli altri paesi; essa riflette la «dipendenza» del
settore dalla Pubblica Amministrazione ed la stasi degli appalti pubblici
che è seguita all’avvio delle indagini giudiziarie di inizio anni novanta. A
eccezione della Francia nel 1995, della Germania nel 1997 e degli Stati
Uniti nel biennio 1991-92, in nessuna economia sono stati registrati risultati negativi; anzi i valori del ROE oscillano intorno al 7% per la Germania
(con un crollo dal 1995 in poi); intorno al 6-10% per la Francia (seppure in
netto rallentamento negli ultimi due anni), tra l’11 e il 18% per gli Stati
Uniti (con un valore anomalo di 31,3% nel 1998) e tra il 6 e il 15% per il
Regno Unito.
Commercio al
dettaglio
Nel «Commercio al dettaglio», i valori del ROI ottenuti sulla base dei
dati Bach, che si riferiscono alla grande distribuzione, mostrano una
performance delle aziende italiane positiva e notevolmente stabile (tra il
4 e il 6%; cfr. tab. 22) lungo tutto il decennio considerato; essi appaiono
Tab. 22 - Commercio al dettaglio
(Dati percentuali)
Francia
Germania
Italia
Regno
Unito
Stati
Uniti
ROI
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
6,06
6,60
6,17
6,37
6,44
6,17
5,62
6,09
5,94
6,46
6,93
4,44
4,70
5,83
6,07
4,90
3,78
4,08
4,12
3,36
4,03
n/a
6,14
6,27
5,77
5,03
4,02
3,81
4,11
5,54
5,43
5,22
5,73
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
5,78
6,97
10,55
11,48
12,28
10,09
8,95
8,68
7,88
6,99
7,56
7,92
8,15
7,99
8,44
n/a
9,47
11,07
13,69
12,56
9,76
2,04
4,02
5,77
10,21
6,38
8,42
9,28
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
11,72
16,26
14,73
8,72
17,91
12,76
11,26
9,06
6,48
5,54
5,38
7,87
9,18
9,23
10,20
n/a
11,42
ROE
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
14,57
14,20
13,16
11,52
9,44
9,63
11,09
10,98
11,48
10,60
10,58
5,76
8,45
9,27
8,67
3,70
7,19
5,34
7,41
5,35
7,10
n/a
99
abbastanza allineati con gli analoghi indicatori degli altri paesi dell’Europa continentale. Rimane notevole il distacco da Stati Uniti e soprattutto Regno Unito; quest’ultimo paese ha registrato dal 1995 in poi rendimenti superiori al 10%12. Anche il ROE italiano mostra un andamento
complessivamente positivo durante l’arco di tempo considerato. A eccezione del triennio 1992-94, i valori risultano compresi tra il 6,5 e il 10%.
Si tratta di valori superiori a quelli della Germania e non troppo inferiori alla Francia, che dal 1994 in poi ottiene risultati tra il 10 e l’11%.
Maggiore è la differenza col Regno Unito, mentre gli Stati Uniti registrano in questo comparto una performance proporzionalmente più debole.
La redditività
L’andamento del ROI nel settore manifatturiero mostra due tendenze
nel settore
abbastanza marcate (tab. 23). In primo luogo, dalla prima metà del decenmanifatturiero nio in poi, emerge un persistente e rilevante divario di redditività tra Francia, Germania e Italia da una parte e Regno Unito e Stati Uniti dall’altra.
Nel decennio in esame il ROI medio dell’Italia e della Germania è del 5,2%,
per la Francia raggiunge il 7%; Stati Uniti e Regno Unito realizzano rispettivamente l’11,3% e il 9,5%. Il divario con gli Stati Uniti aumenta costantemente lungo tutti gli anni novanta così come quello col Regno Unito, a
partire dal 1995. Con riferimento al 1998, il ROI medio dei tre paesi dell’Europa continentale è pari al 6,8%, mentre il valore medio di Regno Unito e Stati Uniti è quasi doppio. È interessante osservare come le aziende
manifatturiere anglosassoni (e in particolare quelle statunitensi) abbiano
sofferto relativamente meno le condizioni macroeconomiche sfavorevoli che
hanno caratterizzato il biennio 1992-93: mentre nell’Europa continentale si
ottenevano valori di ROI molto bassi (con la Francia che riusciva a reagire
meglio degli altri), negli Stati Uniti si era tra l’8 e il 10% e nel Regno Unito (nel 1993) al di sopra del 6%. Peraltro, la ripresa della redditività operativa del capitale investito è stata molto più brillante nei paesi anglosassoni e, in particolare nel Regno Unito, di quanto sia stata in Germania,
Francia e Italia.
La seconda tendenza rilevante del ROI riguarda l’andamento riferito
alle imprese italiane nell’arco del decennio. Dopo una fase di sostanziale
debolezza tra il 1991 e il 1993 (con un ROI largamente inferiore anche rispetto ai paesi europei), si verifica un recupero a cavallo della metà degli
anni novanta (precisamente tra il 1993 e il 1996), seguito da un nuovo deterioramento relativo nell’ultimo periodo. Nella fase di miglioramento registrata tra il 1993 e il 1996 la capacità delle imprese italiane di generare
reddito operativo si allinea, grazie anche al recupero di competitività connesso alla svalutazione della lira, alle performance di redditività delle imprese di Germania e Francia. Tale processo si interrompe negli ultimi due
anni quando emerge nuovamente un divario di redditività nei confronti
delle aziende francesi e tedesche di entità simile a quello che ha caratterizzato la fase di debolezza dei primi anni novanta: a un ROI del 5,6% delle
12
Occorre sottolineare che l’indicatore di redditività ROI dell’Italia relativo a questo settore
calcolato sui dati di Mediobanca mostra valori notevolmente peggiori di quelli ottenuti con la
banca dati Bach: il ROI del commercio al dettaglio ottenuto con i dati di Mediobanca è negativo in quasi tutto il decennio novanta. Una simile discrepanza richiede evidentemente un approfondimento che sarà oggetto dell’ulteriore sviluppo della ricerca.
100
Tab. 23 - Settore manifatturiero
(Dati percentuali)
Francia
Germania
Italia
Regno
Unito
Stati
Uniti
ROI
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
10,77
10,84
8,58
7,60
5,94
4,05
6,35
6,13
5,40
7,15
8,42
7,19
6,52
6,89
6,17
4,26
0,33
3,97
5,73
5,16
6,66
6,68
8,39
7,57
5,68
3,96
2,87
3,22
4,55
6,80
5,25
5,73
5,43
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
6,35
8,69
11,91
12,63
13,35
11,52
12,06
10,98
9,95
7,91
8,69
10,10
13,13
13,24
12,93
13,30
13,39
5,85
7,88
4,66
0,06
–7,49
–9,03
0,27
6,14
3,05
4,23
5,04
n/a
n/a
n/a
n/a
10,04
12,28
15,43
16,07
13,56
18,62
13,34
15,83
13,19
10,11
5,91
2,10
7,55
15,69
16,09
15,73
16,31
16,91
ROE
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
16,08
14,92
10,59
6,90
4,44
0,51
7,27
7,69
7,34
8,71
9,38
9,20
9,91
8,37
7,30
4,12
1,79
4,91
7,15
7,12
9,17
10,33
imprese italiane (media del biennio 1997-98) corrisponde un risultato del
6,6% e 7,8% rispettivamente negli altri due paesi.
Nell’intero arco di tempo esaminato rimane notevolissimo il differenziale rispetto alle performance dei paesi anglosassoni: dal 1996 in poi, il risultato americano è superiore di oltre il 150% quello delle nostre imprese;
negli anni precedenti, la differenza è stata in alcuni casi anche più forte.
Nei confronti del Regno Unito, a partire dal 1993 la differenza di ROI è sistematicamente nell’ordine del 100%, con punte al 150% nel 1996 e 1997.
Anche per quanto riguarda la redditività del capitale proprio, i dati di
bilancio evidenziano che le imprese italiane realizzano un ROE significativamente inferiore a quello delle corrispondenti imprese di tutti gli altri
paesi (tab. 23). Il valore medio nel periodo 1989-98 per l’Italia è di 1,5%,
contro il 7% circa di Francia e Germania, il 12% del Regno Unito e il 14%
degli Stati Uniti. Sul risultato italiano pesano in maniera particolare le
performance fortemente negative del 1992 e 1993 (rispettivamente –7,5% e
–9%); tuttavia, anche considerando il valore medio del ROE al netto di questi due anni, si ottiene un risultato del 3,9%, ancora nettamente inferiore
dei risultati (non depurati) degli altri paesi.
I dati disponibili e la natura dei campioni utilizzati non consentono di
individuare una spiegazione univoca a queste evidenze, né di stabilire con
certezza le diversità che caratterizzano la struttura industriale dei vari
paesi. La lettura sistemica delle informazioni rilevate permette, tuttavia,
101
Tab. 24 - Valore aggiunto in % del capitale investito in attività operative
(Dati percentuali)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
47,66
47,23
44,22
44,85
42,86
42,45
42,96
41,83
43,47
43,20
46,45
Germania
59,00
56,12
58,85
59,77
58,58
53,80
56,24
57,61
55,97
53,29
53,26
Italia
36,16
34,95
31,90
29,94
28,95
29,68
29,16
30,23
30,03
30,06
29,26
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
43,11
46,04
48,76
53,28
48,93
Stati
Uniti
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
di avanzare alcune ipotesi che possono cogliere le tendenze di fondo e, soprattutto, sottolineare le variabili che in linea generale hanno rilievo critico sulla competitività dei sistemi economici.
La
produttività
del capitale
Il valore del ROI può essere ottenuto dal prodotto tra due rapporti: valore aggiunto diviso capitale investito e margine operativo netto diviso valore aggiunto13. Il rapporto valore aggiunto su capitale investito (tab. 24)
mostra nei paesi considerati un andamento abbastanza coerente nel tempo.
Il dato italiano è piuttosto stabile dal 1991 in poi, con valori sempre compresi tra il 29% e il 30%, e sensibilmente inferiori a quelli francesi (in media, intorno al 43%, con una crescita nel 1998), tedeschi (in media, intorno
al 56% con una leggera flessione negli ultimi due anni) e inglesi (in media
intorno al 48%)14.
Questo dato evidenzia come l’industria manifatturiera italiana abbia
registrato per tutto il decennio una produttività del capitale più bassa di
quella ottenuta dalla stessa industria degli altri paesi. Il valore aggiunto
per unità di capitale operativo in Italia è stato inferiore di circa l’80% a
quello della Germania, del 40-45% rispetto al dato della Francia (con un
peggioramento nel 1998) e minore di circa il 60% del rapporto registrato
dalle imprese inglesi.
L’incidenza
del margine
operativo
netto
L’andamento del secondo rapporto che compone il ROI, quello tra margine operativo netto e valore aggiunto (tab. 25) appare significativamente
diverso. L’Italia mostra una performance migliore rispetto a quella degli
altri due paesi dell’Europa continentale; nei confronti della Germania, questo differenziale è particolarmente forte nel periodo 1993-96; nell’ultimo
biennio il differenziale è di circa il 50%. Meno pronunciata la distanza dalla Francia, ma persistente a partire dal 1993 fino al 1998, anno in cui le industrie manifatturiere nei due paesi raggiungono un risultato sostanzialmente allineato. Nei confronti del Regno Unito, l’Italia mostra valori
13
In sostanza, si ha MON/K = MON/VA x VA/ K, dove MON è il margine operativo netto, K è
il capitale investito e VA è il valore aggiunto.
14
La banca dati Bach non rileva i valori del valore aggiunto per quanto riguarda le aziende
americane.
102
Tab. 25 - Margine operativo netto in % del valore aggiunto
(Dati percentuali)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
22,60
22,94
19,40
16,95
13,85
9,54
14,77
14,66
12,42
16,56
18,13
Germania
12,18
11,61
11,71
10,33
7,27
0,61
7,06
9,94
9,21
12,49
12,53
Italia
23,22
21,67
17,79
13,22
9,91
10,84
15,59
22,48
17,47
19,07
18,54
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
20,17
25,87
25,89
25,06
23,56
Stati
Uniti
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
inferiori anche nel caso del rapporto tra margine operativo netto e valore
aggiunto; la differenza a favore dell’industria inglese è, tuttavia, nell’ordine del 30%, sensibilmente inferiore a quella osservata nel caso del rapporto tra valore aggiunto e capitale investito.
Il confronto tra gli andamenti dei due indici considerati mostra in modo abbastanza chiaro che la tendenziale debolezza del ROI italiano (fatto
salvo il breve periodo 1993-96) è dovuta essenzialmente al minore valore
aggiunto per unità di capitale investito che caratterizza la nostra industria
manifatturiera rispetto a quella tedesca, francese e inglese. Questa osservazione è in linea con i risultati dell’analisi macroeconomica relativa all’andamento del settore privato (par. 4.2), i quali mostrano che in Europa, e in
particolare in Italia, si è manifestato un maggiore impiego relativo del fattore capitale, cui ha corrisposto una minore redditività di tale fattore.
Sul minor valore aggiunto per unità di capitale investito che caratterizza l’Italia possono in parte avere influito i maggiori costi per l’acquisto
soprattutto di input intermedi che gravano sull’industria italiana e ne comprimono il valore aggiunto. In particolare sembrerebbe pesare sui bilanci
delle imprese manifatturiere lo svantaggio sul costo dei servizi pubblici;
ipotesi questa che è in qualche misura avvalorata dai risultati osservati in
precedenza relativamente alla redditività dei settori energia e acqua.
L’andamento del rapporto tra margine operativo netto e valore aggiunto riflette l’incidenza del costo del personale e degli ammortamenti sul valore aggiunto. La migliore performance ottenuta dalle aziende manifatturiere italiane rispetto a quelle francesi e, soprattutto, a quelle tedesche può,
dunque, essere spiegata attraverso la considerazione del dato relativo alle
spese per il personale e agli ammortamenti in rapporto al valore aggiunto.
Costo del
personale
Per quanto riguarda il primo indicatore, i risultati mostrano una dinamica piuttosto delineata e costante durante tutto il decennio analizzato
(tab. 26). L’Italia si avvantaggia di un’incidenza del lavoro inferiore a quella della Germania di oltre il 20% (anche se nell’ultimo biennio, la Germania ha in qualche misura ridotto questa distanza). Anche nei confronti della Francia, le imprese italiane mostrano, a partire dal 1993, una minore
incidenza del costo del personale sul valore aggiunto, pur con un differenziale limitato a pochi punti percentuali. Nel caso del Regno Unito, l’indicatore in esame mostra nel periodo 1994-98 dei risultati caratterizzati da
103
Tab. 26 - Costo del lavoro in % del Valore Aggiunto
(Dati percentuali)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
59,92
59,82
62,23
62,55
64,42
67,34
63,91
63,48
65,53
63,18
61,42
Germania
74,64
74,72
74,52
75,89
78,19
83,43
78,07
76,25
77,22
73,88
74,33
Italia
60,50
62,10
65,93
67,40
67,79
66,37
62,80
57,57
62,23
60,58
60,99
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
71,66
63,06
63,46
58,75
61,43
Stati
Uniti
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
maggiore varianza. Di conseguenza, è più complesso, nel confronto con i
dati registrati negli altri paesi, individuare una tendenza univoca. È comunque possibile osservare che l’Italia ha un’incidenza del costo del lavoro
sul valore aggiunto generalmente inferiore al Regno Unito (a eccezione del
1997), che risulta tendenzialmente meno accentuata negli ultimi anni dell’arco temporale considerato nel confronto.
L’importanza che la diversa dinamica del costo del lavoro ha sulla redditività operativa del valore aggiunto nei vari paesi può essere derivata anche dalla considerazione delle diverse performance ottenute dal rapporto
tra margine operativo lordo (MOL) e capitale investito (tab. 27). Si osserva
che le imprese italiane hanno una minore redditività operativa lorda per
unità di capitale rispetto a quella di tutti gli altri paesi. La distanza della
redditività del capitale italiano rispetto alle altre economie è peraltro più
accentuata quando viene misurata sul margine operativo lordo rispetto a
quanto si osserva sulla base del margine operativo netto. La differenza tra
i due indicatori riflette — e su questo si tornerà tra breve — un tasso di
ammortamento del capitale che, nei dati dei bilanci aziendali, risulta più
elevato in Germania e Francia rispetto al nostro paese. Ciò che preme qui
Tab. 27 - MOL in % del capitale investito in attività operative
(Dati percentuali)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
104
19,10
18,98
16,70
16,78
15,26
13,86
15,49
15,27
14,97
15,92
17,92
Germania
14,98
14,19
15,00
14,43
12,78
8,91
12,33
13,68
12,75
13,92
13,67
Italia
14,29
13,25
10,87
9,76
9,33
9,98
10,84
12,84
11,34
11,85
11,42
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
10,61
17,22
17,33
18,19
19,39
17,76
Stati
Uniti
17,84
16,81
15,88
14,01
15,02
16,39
19,26
19,28
19,12
19,69
19,65
sottolineare è che nel rapporto MOL/capitale investito, il differenziale tra
l’Italia e gli altri paesi (in particolare, la Germania) si riduce notevolmente rispetto a quello osservato con riferimento al rapporto tra valore aggiunto e capitale investito. In particolare, mentre quest’ultimo rapporto nell’industria manifatturiera tedesca è, come visto, superiore a quello italiano di
circa l’80%, il rapporto MOL/capitale investito tedesco è maggiore di quello italiano di circa il 20%. Rispetto alla Francia, il differenziale del rapporto in considerazione è maggiore (nell’ordine del 30-40%) con una crescita
nell’ultimo biennio dovuta essenzialmente al maggior dinamismo dell’indice francese. Risulta dunque che le aziende italiane registrano un differenziale relativamente più contenuto nella redditività operativa lorda del capitale investito grazie alla minore incidenza della spesa per il personale. È
utile sottolineare che, nonostante le nostre imprese registrino i valori del
MOL su capitale investito più bassi rispetto a quelle delle altre aree considerate, dopo la caduta dei primi anni ’90, esse hanno realizzato un recupero di redditività nella misura di circa il 15%. La considerazione del rapporto tra MOL e capitale investito è utile anche perché sopperisce alla
indisponibilità del dato del valore aggiunto dell’industria manifatturiera
statunitense e quindi, alla impossibilità di calcolare per questo paese l’indice valore aggiunto su capitale investito. Gli Stati Uniti hanno una redditività operativa lorda del capitale più alta di quella italiana di oltre il 70%
e sensibilmente superiore a quella tedesca. Anche rispetto a Francia e Regno Unito, la performance degli Stati Uniti risulta costantemente superiore durante tutto il periodo analizzato.
Il minor peso delle spese per il personale rispetto al valore aggiunto
delle imprese italiane riflette, in parte, il forte aumento del valore aggiunto legato al recupero di competitività connesso alla svalutazione della lira
del 1993 e 1995; in parte, questa minore incidenza trova spiegazione in un
maggiore impiego di capitale e in un contenimento del costo del lavoro.
Da un lato, infatti, emerge un minor impiego del fattore lavoro nel ciclo produttivo da cui scaturisce la realizzazione di valore aggiunto. Il dato
in questione, può quindi essere considerato come una conferma del maggior
impiego del fattore capitale che caratterizza l’industria manifatturiera italiana rispetto a quella degli altri paesi. Questa ipotesi trova conferma nel
tasso di incidenza del costo del lavoro sul totale delle attività fisse nette
(tab. 28)15. Nonostante il più basso costo unitario del lavoro che caratterizza l’Italia rispetto a Francia e Germania, il differenziale tra i tre paesi è
talmente ampio nel periodo considerato da poter essere spiegato solo da un
livello di investimenti fissi nettamente superiore nel nostro sistema produttivo. Il Regno Unito ha un andamento del tutto diverso, che testimonierebbe un maggiore livello di investimenti fissi.
Dall’altro lato, la minor incidenza del costo del lavoro sul valore aggiunto in Italia è dovuta al maggior contenimento del costo del lavoro operato dal nostro sistema rispetto a quello degli altri paesi dell’area euro, a
fronte della svalutazione della lira nel periodo 1992-95. Questa ipotesi risulta confermata dal dato relativo al costo orario della manodopera (tab.
29) che mostra la netta distanza dalla Germania e una differenza non trascurabile rispetto alla Francia e agli Stati Uniti. Tra i paesi considerati, il
Regno Unito risulta quello dove il costo del lavoro è più contenuto; la distanza rispetto all’Italia si è ridotta negli ultimi anni sino ad annullarsi nel
1999, per via dell’apprezzamento della sterlina.
15
Le attività fisse nette includono le immobilizzazioni materiali e immateriali, al netto del
fondo ammortamento, ed escludono le immobilizzazioni finanziarie.
105
Tab. 28 - Tasso di incidenza del costo del lavoro sulle attività fisse nette
(Dati percentuali)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
121,93
110,77
103,76
103,88
100,20
101,49
104,12
105,16
107,96
113,28
116,27
Germania
153,56
148,55
147,07
145,01
147,52
148,64
154,23
158,00
155,18
145,72
153,37
Italia
93,47
94,76
84,70
66,79
65,08
66,01
62,12
61,91
63,95
64,82
63,00
Regno
Unito
—
—
—
—
49,77
53,15
59,59
50,77
54,10
54,66
49,78
Stati
Uniti
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
Tab. 29 - Costo orario della manodopera
(Indice Stati Uniti = 100)
Francia
1990
1995
1996
1997
1998
1999
104
116
113
98
98
94
Germania
147
184
176
152
147
140
Italia
117
94
100
96
92
86
Regno
Unito
85
80
80
85
88
86
Stati
Uniti
100
100
100
100
100
100
Fonte: US Department of Labor Statistics, 2000.
L’andamento del costo del lavoro deve essere interpretato anche alla
luce del maggior livello del costo per i servizi pubblici e in generale per gli
approvvigionamenti, rilevato in precedenza. In questa prospettiva, sembrerebbe che le imprese, «schiacciate» da un’elevata incidenza dei costi diretti
e dalla necessità di remunerare un elevato livello di stock di investimenti
in attività fisse, siano costrette per poter raggiungere accettabili livelli di
redditività operativa a contenere al massimo grado possibile le spese per il
personale. Se si tiene conto del rilievo sempre maggiore che la qualità e le
competenze delle risorse umane hanno nello sviluppo dell’impresa e della
sua competitività, ne consegue che il fatto che le nostre aziende siano costrette a ridurre queste spese costituisce, nel medio termine, un potenziale fattore di indebolimento della loro capacità competitiva.
Gli
L’analisi del rapporto degli ammortamenti sul valore aggiunto sembra
ammortamenti offrire un’ulteriore conferma delle tendenze sin qui delineate circa la peculiarità italiana di investimento in capitale nell’industria manifatturiera relativamente elevato. In tema di ammortamenti occorre ovviamente tenere
conto delle notevoli distorsioni indotte dalle specificità delle leggi fiscali
nazionali. Esse incidono soprattutto nel confronto tra paesi dell’Europa
continentale ed economie anglosassoni (il ricorso agli ammortamenti accelerati per fini fiscali, ad esempio, non è possibile negli Stati Uniti, dove i
106
Tab. 30 - Ammortamenti in % del valore aggiunto
(Dati percentuali
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
10,19
11,08
12,02
13,25
13,92
15,10
13,91
13,47
13,77
12,59
12,01
Germania
12,92
13,44
13,42
13,52
14,15
15,44
14,60
13,44
13,27
13,29
12,80
Italia
12,46
12,54
13,06
15,31
16,99
17,54
17,59
16,22
16,90
16,66
16,70
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
19,78
11,78
11,41
11,34
12,74
Stati
Uniti
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
bilanci ai fini civilistici sono nettamente separati dai bilanci fiscali). Nelle
fasi di espansione del ciclo, caratterizzate da forti investimenti, queste distorsioni (tra le due aree, Stati Uniti da un lato, Europa continentale dall’altro) portano a un volume di ammortamenti significativamente inferiore
negli Stati Uniti, e quindi, a utili significativamente più elevati16. L’incidenza di queste distorsioni è relativamente meno forte nel caso del confronto tra i paesi dell’Europa continentale, per cui si può tentare di spingersi,
per questi paesi, sul terreno di un’interpretazione economica delle evidenze di bilancio.
Gli indicatori derivati dai bilanci aziendali mostrano come, a partire
dal 1991, per le aziende italiane, gli ammortamenti abbiano «pesato» sul
valore aggiunto in misura costantemente superiore a quanto si verifica in
Germania, Francia e Regno Unito (tab. 30) nell’ordine, rispettivamente del
20-25%, del 20-30%, del 40-50%17. Peraltro, si osserva che, mentre in Francia e Germania il valore del rapporto è diminuito dal 1993 in poi in maniera piuttosto significativa, nel nostro paese esso è rimasto praticamente costante. A ciò si accompagna d’altro canto un tasso di deprezzamento del
capitale fisso (escluse le immobilizzazioni finanziarie) più basso in Italia
che in Germania e Francia (rispettivamente nell’ordine di un 60% e di un
30% nella media del periodo 1991-98; cfr. tab. 31). Ne consegue che il maggior peso degli ammortamenti italiani sul valore aggiunto non fa altro che
rispecchiare un rapporto capitale fisso su valore aggiunto notevolmente più
elevato nel nostro paese che nelle altre due economie dell’Europa continentale (cfr. su questo anche tab. 32)18.
La valutazione sistemica delle componenti economiche del rapporto tra
valore aggiunto e capitale investito ha dunque evidenziato come un limite
fondamentale del nostro sistema produttivo stia nel troppo basso valore
aggiunto prodotto da ogni unità di capitale investito. Appare, quindi, importante approfondire il modo in cui su questo risultato incidono le diverse
16
Cfr. Bundesbank, Monthly report, October 1997.
Fa eccezione per il Regno Unito, il dato anomalo relativo al 1994.
18
Si tenga presente che l’indicatore Ammortamenti/Valore aggiunto è dato dal prodotto del
tasso di deprezzamento (ammortamento diviso attività fisse, escluse gli immobilizzi finanziari) moltiplicato per il rapporto Attività fisse/ Valore aggiunto.
17
107
Tab. 31 - Ammortamenti in % delle attività fisse nette
(Dati percentuali)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
20,74
20,52
20,04
22,00
21,66
22,76
22,66
22,30
22,70
22,57
22,73
Germania
26,58
26,71
26,48
25,84
26,71
27,51
28,84
27,85
26,67
26,21
26,41
Italia
19,25
19,14
16,77
15,17
16,31
17,45
17,40
17,44
17,36
17,83
17,25
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
7,84
8,04
16,45
9,48
9,73
10,56
10,33
Stati
Uniti
13,27
13,14
12,91
13,06
13,46
13,56
13,39
13,27
13,70
14,41
14,08
componenti in cui si articola il capitale investito: immobilizzazioni tecniche
(tangibili e intangibili), immobilizzazioni finanziarie e capitale circolante
lordo.
Il capitale
fisso
A tal fine, è utile considerare il rapporto tra valore aggiunto e attività
fisse nette che non ricomprendono quella finanziaria (tab. 32). Si ottiene un
dato molto significativo; la redditività (in termini di valore aggiunto) del
capitale tecnico per l’Italia è rispetto alla Germania e alla Francia ancora
più bassa di quella osservata in relazione al capitale investito. Dal 1994 in
poi, il differenziale sale a quasi il 100% nel confronto con la Germania e
cresce fino a valori compresi tra il 60% e l’80% rispetto alla Francia. Questa evidenza conferma che il basso valore aggiunto per unità di capitale è
dovuto in primo luogo all’eccessivo stock di immobilizzazioni tecniche delle
aziende italiane rispetto a quelle delle altre aziende dei paesi dell’area dell’euro. Il Regno Unito mostra un andamento completamente diverso, con un
rapporto valore aggiunto su attività fisse nette molto basso; in particolare,
nel periodo 1994-98 compreso tra l’80 e l’85%, con la sola eccezione del 1997
Tab. 32 - Valore aggiunto in % delle attività fisse nette
(Dati percentuali)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
108
203,47
185,17
166,74
166,07
155,54
150,71
162,92
165,64
164,76
179,30
189,31
Germania
205,72
198,82
197,35
191,09
188,67
178,16
197,55
207,22
200,96
197,23
206,33
Italia
154,51
152,60
128,46
99,09
96,00
99,46
98,93
107,53
102,75
107,00
103,29
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
83,15
80,52
85,24
93,05
81,04
Stati
Uniti
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
Tab. 33 - Valore aggiunto in % delle attività fisse nette incluse le
immobilizzazioni finanziarie
(Dati percentuali)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
114,65
100,73
85,30
83,25
77,72
72,57
72,59
75,97
74,81
78,53
72,53
Germania
124,07
120,00
117,50
107,79
102,13
89,48
92,54
91,11
84,85
84,63
85,19
Italia
98,68
93,51
84,03
71,24
68,21
67,84
67,14
71,63
67,36
70,04
67,00
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
68,38
59,65
63,14
69,03
62,18
Stati
Uniti
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
(93%). Anche questo risultato rappresenta un’importante conferma delle
tendenze rilevate a livello macroeconomico nel settore privato.
Per quanto riguarda l’Italia, l’indicatore in esame mostra una significativa evoluzione nel decennio 1989-98. Nel primo biennio le nostre imprese hanno mostrato la migliore performance del periodo, ottenendo un risultato non troppo lontano da quello tedesco e francese. Tra il 1991 e il 1994,
si registra una situazione particolarmente critica con il valore aggiunto che
in termini assoluti è addirittura inferiore alle immobilizzazioni fisse nette.
Il 1995 segna una ripresa abbastanza marcata che però si consolida solo
parzialmente negli anni successivi. Il rapporto tra il valore aggiunto e le
attività fisse incluse le immobilizzazioni finanziarie (tab. 33) mostra il persistere di una situazione di svantaggio dell’Italia rispetto alla Germania,
ma le distanze con gli altri paesi si sono notevolmente accorciate.
Questa evidenza starebbe ad indicare che le imprese italiane recuperano una parte dell’eccesso di capitale tecnico utilizzato attraverso una quota di immobilizzazioni in attività finanziarie relativamente più contenuta.
Questo recupero è, tuttavia soltanto parziale come dimostra il confronto tra
il rapporto immobilizzazioni fisse su capitale investito (tab. 34).
Il capitale
circolante
La limitata produttività del capitale investito è aggravata dalla gestione del capitale circolante che per le aziende italiane risulta nuovamente
peggiore rispetto a quella degli altri Paesi. Infatti, nel passaggio dal rapporto tra valore aggiunto e immobilizzazioni fisse (comprendente le immobilizzazioni finanziarie) al rapporto tra valore aggiunto e capitale investito,
l’industria manifatturiera italiana mostra un peggioramento molto più sensibile di quanto accada all’analogo aggregato tedesco e francese. Di qui è
possibile ipotizzare che, se si considerano anche le attività fisse di tipo finanziario, la quota del capitale circolante lordo sul totale degli investimenti è proporzionalmente superiore nel caso delle imprese manifatturiere italiane.
Deve essere sottolineato che questa circostanza deriva essenzialmente
dal minor peso delle attività fisse di tipo finanziario nel sistema italiano.
Infatti, il dato relativo all’incidenza delle attività fisse nette sul totale del
109
Tab. 34 - Attività fisse nette in % del capitale investito in attività
operative
(Dati percentuali)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
23,42
25,51
26,52
27,01
27,55
28,17
26,37
25,25
26,38
24,09
24,53
Germania
28,68
28,23
29,82
31,28
31,05
30,20
28,47
27,80
27,85
27,02
25,81
Italia
23,40
22,90
24,83
30,21
30,16
29,84
29,48
28,11
29,23
28,09
28,33
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
52,09
52,99
51,84
57,18
57,20
57,26
60,37
Stati
Uniti
75,11
75,52
73,48
76,25
76,82
77,23
75,27
74,99
73,58
75,11
76,87
capitale investito in attività operative19 mostra valori dell’Italia più alti di
quelli francesi e analoghi, ma comunque superiori rispetto a quelli della
Germania. Quindi, il capitale circolante lordo nell’industria manifatturiera
italiana ha un rilievo rispetto all’investimento tecnico anche minore di
quanto abbia negli altri due paesi dell’area euro.
Non può essere trascurata la notevolissima differenza tra la situazione
nei tre paesi dell’Europa continentale e quella nel Regno Unito e, in misura ancora più netta, negli Stati Uniti. Nel primo di questi due paesi, il capitale circolante lordo era, nel 1992, poco meno del 50% del capitale tecnico, per ridursi progressivamente fino al 40% del 1998. Negli Stati Uniti il
capitale circolante lordo rispetto al capitale fisso netto ha sempre oscillato
tra il 24 e il 27%. I valori del rapporto tra capitale circolante lordo e immobilizzazioni tecniche devono essere considerati anche in relazione al fatto
che gli investimenti tecnici delle imprese manifatturiere italiane sono stati decisamente superiori a quelli tedeschi e francesi; in questa prospettiva,
si osserva che il fabbisogno delle nostre aziende di capitale circolante sia
stato in senso assoluto molto ingente. Questa evidenza testimonia un ulteriore svantaggio di «sistema» che penalizza l’industria del nostro paese: in
particolare, il problema dei tempi di incasso dei crediti (soprattutto verso
la pubblica amministrazione e verso i clienti esteri) estremamente lunghi e
ben più ampi di quelli dei concorrenti europei e degli Stati Uniti (tab. 35).
Il ROE del
L’analisi dell’andamento nel tempo della redditività netta del capitale
settore
proprio mostra (cfr. tab. 23) che l’industria manifatturiera italiana ha atmanifatturiero traversato una fase molto difficile nel quadriennio 1991-94; a parte la performance relativamente brillante del 1995 (che rappresenta una costante
in tutti i settori, anche con riferimento agli altri indici), le aziende italiane
hanno mostrato un recupero piuttosto limitato nell’ultima parte del decennio, anche se proporzionalmente superiore a quella di Germania e Francia.
Nel complesso, le aziende italiane hanno remunerato il capitale di rischio
ad un tasso che, alla luce del rendimento offerto nello stesso periodo dagli
19
110
Entrambi i valori sono al netto delle immobilizzazioni finanziarie.
Tab. 35 - Tasso di rotazione dei crediti verso clienti
(Numero di giorni)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
99
97
98
97
99
99
101
102
96
99
90
Germania
74
76
72
71
74
82
82
80
80
84
85
Italia
154
153
158
160
168
163
162
152
145
148
146
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
55
47
43
47
43
43
44
Stati
Uniti
61
60
60
60
60
59
59
60
59
60
62
investimenti non rischiosi, non sembra essere stato adeguato. Il fatto che a
fronte di questa evidenza non si sia manifestata una significativa riduzione del capitale netto delle imprese testimonia che nel loro complesso gli
imprenditori hanno accettato di mantenere un forte impegno finanziario
nelle imprese, nonostante il ritorno economico diretto del capitale investito
non giustificasse tale impegno.
È utile sottolineare che il notevole e persistente svantaggio del sistema
manifatturiero italiano relativo alla redditività netta del capitale di rischio
rappresenta in termini di competitività, un fattore di debolezza particolarmente grave. Tale svantaggio ha, infatti, una duplice conseguenza avversa:
da un lato riduce (a parità di altre condizioni) la competitività dell’impresa
sul mercato dei capitali; dall’altro può significare una minore capacità dell’impresa di accumulare capitale e, quindi, di autofinanziarsi20.
La leva
finanziaria
L’andamento del ROE può essere spiegato dall’osservazione del funzionamento del meccanismo di leva finanziaria. È noto che, per tale meccanismo, il ROE è pari (al netto della leva fiscale) alla somma del ROI e del prodotto tra la differenza tra ROI e costo del capitale di terzi, tale differenza
moltiplicata per il rapporto tra debito e capitale proprio. Di conseguenza, se
la differenza tra ROI e costo del capitale di terzi è positiva, il ROE è maggiore
del ROI di una quantità direttamente proporzionale al rapporto tra debito e
capitale proprio; al contrario, se tale differenza è negativa, il ROE si riduce
rispetto al ROI, sempre in proporzione al rapporto tra debito e capitale proprio. Per comprendere l’andamento del ROE è, dunque, utile confrontare i risultati del ROI con il costo del capitale di terzi (tab. 36).
La lettura dell’andamento del costo del debito mostra chiaramente come il meccanismo di leva finanziario abbia agito per le aziende italiane in
senso fortemente negativo. Durante tutto l’arco temporale considerato, il
20
Per valutare correttamente l’effetto del minor valore del ROE sulla capacità di autofinanziamento dell’impresa, occorrerebbe distinguere quanta parte di tale minor valore è dovuto ad
una minor redditività netta dell’impresa e quanta parte sia spiegata, invece, dal maggior livello di patrimonializzazione. Su questo punto la si rifletterà più avanti nella trattazione.
111
Tab. 36 - Costo del capitale di terzi
(Oneri finanziari in % dell’indebitamento)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
9,83
10,65
11,48
10,94
12,14
11,72
9,24
8,73
7,31
7,19
6,71
Germania
5,44
6,59
7,23
8,00
9,05
8,00
7,17
6,42
5,71
5,78
6,06
Italia
11,49
12,60
13,40
13,06
14,57
13,02
11,58
12,94
10,75
9,51
7,97
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
4,85
4,30
4,34
8,44
6,21
6,57
6,71
Stati
Uniti
n/a
n/a
2,84
5,74
17,37
10,04
0,37
n/a
n/a
n/a
8,95
costo del debito per le aziende manifatturiere italiane è stato superiore al
ROI per valori compresi tra gli 11 punti percentuali del 1992 e i 2,5 punti
percentuali del 1998. Anche la sensibile riduzione del costo delle risorse di
terzi avviata nel 1995 e proseguita costantemente nei periodi successivi
non è stata, dunque, sufficiente a riportare in equilibrio il moltiplicatore
della leva finanziaria. Al contrario, in Germania e Francia, il meccanismo
di leva finanziaria è risultato o neutrale (il ROI sostanzialmente simile al
costo del debito) o addirittura positivo. L’ingresso dell’Italia nell’area dell’euro ha tuttavia quasi del tutto annullato il differenziale con la Francia e
la Germania relativamente agli oneri finanziari; la tabella mostra in effetti che nella media del 1998, alla vigilia cioè dell’avvio dell’Unione monetaria, questo differenziale era di 1,9 punti con la Germania e di 1,2 punti con
la Francia, rispetto a un massimo di 6,5 punti nel 1995. La notevole redditività netta del capitale di rischio delle imprese manifatturiere inglesi e
statunitensi trova evidente spiegazione in un ROI costantemente superiore
al costo del capitale.
L’effetto patologico che il meccanismo di leva finanziaria ha avuto sul
ROE delle aziende manifatturiere del nostro paese trova conferma nel dato relativo all’incidenza degli oneri e proventi extra-gestione caratteristica
sull’utile netto (tab. 37), determinata dal rapporto tra utile netto e margine operativo.
Il risultato italiano mostra valori costantemente inferiori a quelli registrati in altri paesi. Questo significa che, in linea di massima, le aziende
italiane subiscono una maggiore erosione del margine operativo netto a
causa degli oneri finanziari, della gestione straordinaria ed extracaratteristica e dell’imposizione fiscale. La dimensione di questa erosione è davvero
notevole: senza considerare gli anni di particolare crisi (1992-94), l’industria manifatturiera italiana nel periodo considerato è riuscita a tradurre
in reddito netto una quota di margine operativo netto compresa tra il 20 e
il 30%; in altri termini ha speso circa il 70-80% del suo margine operativo
netto per oneri finanziari e imposte, oltre all’incidenza delle possibile perdite su operazioni straordinarie o non caratteristiche. Sempre con riferimento alla seconda parte del decennio, in Germania e Francia, questa spesa è stata compresa, rispettivamente, tra il 45 e il 25% e tra il 42 e il 35%.
Ancora minore è stata nei paesi anglosassoni: negli Stati Uniti, dal 1995 in
112
Tab. 37 - Utile netto in % del margine operativo netto
(Dati percentuali)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
54,46
56,15
51,63
40,33
34,52
5,97
57,91
60,31
68,48
63,47
64,29
Germania
49,88
57,22
46,73
47,88
39,02
230,00
54,98
57,32
64,79
64,80
74,47
Italia
22,35
35,08
28,05
0,54
−81,02
−90,03
1,97
29,28
20,61
25,32
32,05
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
n/a
93,60
93,19
82,30
66,41
83,59
69,80
Stati
Uniti
78,72
71,08
60,56
45,16
13,62
41,94
69,97
73,67
77,76
78,55
79,07
poi non ha superato il 25% e nell’ultimo biennio è stata di poco superiore al
20%; nel Regno Unito ha avuto maggiori oscillazioni tra il 30 e il 17%.
L’effetto congiunto della maggiore incidenza degli oneri finanziari e
delle imposte e della minore redditività operativa determina un forte indebolimento della capacità di produrre reddito netto. Questa dinamica si manifesta in modo molto evidente nel confronto tra i paesi dell’Europa continentale (e tra questi, l’Italia più degli altri) e quelli anglosassoni. I primi,
infatti mostrano sia un ROI più elevato, sia una minore incidenza degli
oneri finanziari, delle imposte (e della gestione straordinaria e non caratteristica) sul margine operativo netto.
La struttura
finanziaria
La performance in termini di ROE registrata dall’industria manifatturiera italiana può essere considerata nella prospettiva della struttura finanziaria che caratterizza tale industria, anche rispetto a quella delle imprese negli altri paesi (tab. 38). Le aziende italiane mostrano durante tutto
il decennio considerato una struttura finanziaria fortemente squilibrata
Tab. 38 - Capitale proprio in % del capitale investito
(Dati percentuali)
Francia
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
29,72
32,83
32,65
34,03
35,02
34,76
36,58
35,69
36,69
38,02
39,67
Germania
30,94
30,22
30,69
31,36
30,81
31,39
31,96
32,32
32,54
33,18
33,61
Italia
27,25
28,38
29,20
29,99
27,11
27,59
28,17
27,99
30,41
29,57
29,58
Regno
Unito
n/a
n/a
n/a
n/a
35,14
35,99
35,05
38,69
39,26
37,79
37,58
Stati
Uniti
41,68
40,20
39,83
39,79
36,56
35,84
37,00
37,79
38,80
38,69
36,96
113
verso il debito: il capitale proprio non arriva mai al 30% del capitale investito totale (ad eccezione del 1996, quando tocca il 30,4%). Rispetto all’inizio del periodo, si osserva tuttavia un leggero miglioramento; l’indice passa dal 27,2% del 1988 (che con alcune oscillazioni rimane praticamente
uguale fino al 1992) al 29,6% dell’ultimo biennio.
L’incidenza del capitale proprio sul capitale impiegato dall’impresa
mostra in Italia il valore significativamente più basso tra i paesi considerati. La meno lontana è la Germania con un valore che passa dal 30% circa dei primi anni del periodo in analisi ad oltre il 33% dell’ultimo biennio;
le imprese inglesi mostrano valori compresi tra il 35 e quasi il 40%. La
Francia vanta la struttura finanziaria complessivamente più solida con un
valore dell’indice che nel 1998 sfiora il 40%, al termine di un progresso costante durante tutto il decennio (nel 1998, il valore francese era inferiore
al 30%). Gli Stati Uniti mostrano un andamento piuttosto anomalo; è, infatti, l’unico paese ad aver avuto dal 1988 al 1998 una riduzione (sia pur
contenuta) del rapporto tra capitale proprio e capitale investito. In particolare, l’indice è passato da valori superiori al 40% nella fine degli anni 80%
a meno del 39% nella seconda metà degli anni ’90; l’ultimo valore disponibile, relativo al 1998 scende addirittura al 37% circa.
Il capitale proprio relativamente basso nelle imprese italiane ha rilievo sull’interpretazione dell’andamento del ROE sotto due punti di vista. In
primo luogo, sottolinea lo svantaggio di redditività netta delle imprese manifatturiere italiane rispetto a quelle degli altri Paesi; l’industria manifatturiera del nostro paese infatti, registra una redditività netta del capitale
proprio inferiore a quella dei concorrenti, nonostante un investimento in
capitale di rischio proporzionalmente inferiore. In secondo luogo, l’elevato
indebitamento implicito nel valore del rapporto in questione, anche per finanziare il maggiore fabbisogno di circolante rafforza la gravità degli effetti sul ROE del meccanismo di leva finanziaria. Il debito molto elevato ha,
infatti, amplificato l’effetto negativo sul ROE dell’eccesso del costo del capitale di terzi rispetto al ROI.
Sintesi dei
risultati dei
bilanci
aziendali
114
L’analisi effettuata mostra alcuni significativi elementi di convergenza
che consentono di trarre delle conclusioni relativamente all’andamento della redditività di bilancio delle aziende italiane nel periodo 1989-98, in relazione ai concorrenti dei principali paesi dell’area euro e ai paesi anglosassoni.
La dinamica della redditività risulta piuttosto differenziata sia dal
punto di vista dei settori che del tempo. Mentre il comparto «energia e acqua» e in una certa misura anche quello del «commercio» realizzano dei risultati in termini di ROI e in qualche misura di ROE di buon livello e in
linea (in qualche caso anche oltre) con gli altri paesi, l’aggregato «trasporti
e comunicazioni» e soprattutto quello delle costruzioni manifestano performance molto deboli che pongono l’Italia ultima tra le economie considerate.
Con riferimento specifico all’industria manifatturiera, lo svantaggio
delle imprese italiane sembrerebbe poter essere principalmente spiegato
dal minor valore aggiunto per unità di capitale, indice di una eccessiva intensità dell’utilizzazione del fattore capitale. Relativamente a questo indicatore, le imprese italiane risultano in una posizione costantemente peggiore rispetto sia alla Germania, che alla Francia e al Regno Unito. A maggior
ragione, se si considera il rapporto tra margine operativo lordo e capitale
investito, lo svantaggio della nostra industria manifatturiera trova ampia
conferma anche nel confronto con quella statunitense.
La grave penalizzazione sul fronte della produttività del capitale è, sia
pur solo parzialmente, compensata da un migliore risultato rilevato nel
rapporto tra margine operativo e valore aggiunto. Con riferimento a questo
indicatore, l’Italia appare in vantaggio rispetto a Germania e Francia e
meno distante dal Regno Unito. Questo risultato è spiegato essenzialmente dal minor peso delle spese per il personale, conseguenza anche del maggior impegno di capitale nei processi produttivi.
Il costo degli ammortamenti ha, invece, eroso una quota del valore aggiunto più alta in Italia rispetto a quanto ha fatto negli altri paesi. Questo
costituisce, del resto, una conseguenza inevitabile della maggiore quantità
di stock di immobilizzazioni fisiche delle nostre imprese. Peraltro, il confronto nei vari paesi del rapporto tra ammortamenti e immobilizzazioni fisse (al netto di quelle finanziarie) mostra che il livello degli ammortamenti
in Italia pesa in proporzione agli investimenti effettuati meno di quanto
accada in Francia e Germania (ma sempre di più di Regno Unito e Stati
Uniti).
Sempre con riferimento alle aziende italiane, le performance ottenute
in termini di redditività operativa del capitale investito sono generalmente
migliori di quelle relative alla redditività netta del capitale di rischio. Del
resto, i valori del ROE delle imprese italiane sono tendenzialmente al di
sotto del valore normale del saggio di remunerazione del capitale di rischio.
Nel settore manifatturiero, l’Italia registra un ROE largamente inferiore a quello di tutti gli altri paesi. In particolare, esso è circa la metà del
risultato tedesco e francese e addirittura un terzo (in media) di quello di
Stati Uniti e Regno Unito. La debolezza evidenziata nel ROE è spiegata in
buona misura da due circostanze: in primo luogo, il fatto che la redditività
operativa del capitale investito non è in grado di remunerare il costo del
debito (il meccanismo di leva finanziaria agisce in senso negativo); con riferimento specifico al settore manifatturiero si rileva, tuttavia, un certo
miglioramento nell’ultimo biennio considerato. In secondo luogo, l’elevata
incidenza sul risultato netto, oltre che degli oneri finanziari, anche delle
imposte e del saldo della gestione straordinaria e non caratteristica.
Nonostante un leggero miglioramento rispetto all’inizio degli anni ’90,
le imprese manifatturiere italiane mostrano anche un grado di indebitamento superiore a quello ottenuto dalle imprese nello stesso comparto in
tutti gli altri paesi analizzati; particolarmente forte è la differenza rispetto alla Francia e al Regno Unito; rimane elevata la distanza anche dagli
Stati Uniti, nonostante in questo paese, nel periodo considerato, si sia verificata una riduzione abbastanza sensibile del rapporto tra capitale proprio e capitale investito. L’elevato indebitamento amplifica gli effetti negativi sul ROE del funzionamento patologico del meccanismo di leva
finanziaria.
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