Il Notturlabio
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Il Notturlabio
IL NOTTURLABIO Tre soli si stagliavano contro un crepuscolo rosa e acquamarina, velati da una trama di sbuffi e batuffoli che richiamava il sapore di lana di fata filata alle feste. Il cielo mi diceva che l’indomani avrebbe piovuto, ma quale messaggio comunicava quel triplice Sole? - Samara, Samara, vieni a vedere – sussurrai. Un effluvio di ambra e vaniglia mi avvolse e stemperò i brividi di freddo che mi correvano su e giù per la schiena. - Sembrano braci ardenti rinfocolate dal vento – disse lei. - A me fanno pensare alle sfere di fuoco che crei tu, quelle con la coda, ma non è possibile che un Trimorfo sia in grado di fare una cosa del genere – gli dissi. - No, non è possibile. Sono lontane, e poi guarda come sono uguali tra loro e allineate alla stessa distanza dal Sole, una da una parte e una dall’altra. - Ma cosa sono, allora? Faranno parte del mondo o del cielo? Scompariranno o il Sole viaggerà per sempre assieme a quei due compagni? – presi a porre domande senza riflettere sulle possibili risposte e con una smorfia aggiunsi – Sembra che il Sole vada a passeggio con i suoi cani da guardia. - Chissà se Mikolai sta guardando il cielo. Se è così, di sicuro sta elaborando una teoria per spiegare questo Sole trino. Lui conosce così bene la volta celeste – sospirò Samara. Serrai i pugni: ero lì con la testa incassata tra le spalle, in attesa che qualcosa precipitasse giù dal firmamento, e mia figlia non trovava di meglio da fare che pensare a quello scellerato di Mikolai. Allora avevano ragione tutti gli altri Osservatori quando asserivano che quei cambiamenti del cielo erano presagi di sventure. Guardai quella scena con occhi ormai consapevoli: altro che cani da guardia, quelli erano Samara e Mikolai che mi avevano messo in mezzo. Povero Cornelis, tradito dalla figlia e dal folle innamorato di lei. - Ti vedi ancora con Mikolai? – sibilai e chiusi le imposte – Per amor dello Spirito, ma perché non dai ascolto a tuo padre. - Ma noi ci amiamo, io lo voglio sposare! - Senti Samara, non sei più una ragazzina. È ora che tu metta la testa a posto, che ti sistemi. Non puoi sposare chi ti pare. Bisogna essere accorti e muoversi nel modo giusto. Vuoi far soffrire lo spirito della tua povera mamma? Samara si portò le mani alle tempie ringhiando, arrotava i denti l’uno sull’altro. Mi fermai dall’altra parte del banco, aggrappandomi al bordo di legno. Le mie nocche sbiancarono di fronte al caldo rossore che le mani di mia figlia irradiavano, mentre archetti di luce bianca si attorcigliavano tra le sue dita avvolte in un’aura azzurrina. - Sta’ calma – la pregai – sta’ calma, bambina mia. Soprattutto non pensare al pavimento, mi raccomando, non farci finire di sotto come quella volta sul ponte. Si voltò contrò di me e mi lanciò un urlo che mi fece accucciare sotto il banco. Scariche elettriche corsero schioccando e scintillando tra i miei marchingegni: un paio di automi caddero e persero la testa; e un mulino in miniatura minacciò di volare via trascinato dalla ruota che vorticava sul mozzo, ticchettando come un metronomo impazzito. Prima che il laboratorio venisse devastato da una tempesta di fulmini, decisi di lanciarmi contro mia figlia per dargli una bella sculacciata; ma il mio pastrano rattoppato mi schiacciò sul pavimento, divenendo sempre più pesante. Per lo Spirito della Vita! Ero bloccato riverso, i muscoli mi dolevano e facevo fatica a respirare. – Samara – soffiai come una biscia presa sotto le ruote di un carro. - Oh, povero papà. Scusa, scusa, ora mi calmo – gridò Samara. Si gettò su di me, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo. Il mantello tornò leggero e io mi misi seduto, abbracciandola a mia volta. Singhiozzava e sentii le sue lacrime colare tra noi fino a bagnare la lanugine bianca che mi ricopre il petto. Diedi uno sguardo al laboratorio e non mi sembrò ci fossero danni di rilievo, ad eccezione del montante della porta d’ingresso in parte scavato da solchi ardenti. - Dai, tiriamoci su. È tutto a posto figliola, sto bene. Certo che hai ripreso tutto da tua madre, anche lei aveva un caratterino burrascoso. - Papà, scusa. Mi dispiace tanto – piagnucolò rivolta agli automi decapitati. - Non preoccuparti, li aggiusterò, non ci vuole niente. Piuttosto siediti e prometti di ascoltare – alzai le mani, agitandole come quando cercavo di tenere a bada i venditori ambulanti – Niente “ma”, per favore. Siediti, sta’ calma, e ascolta. Non capisci che sono preoccupato per te? Devi comprendere che tutto quello che dico e che faccio è solo per il tuo bene. Come potrei, io, tuo padre, farti del male? - Mi fai soffrire proibendomi di amare Mikolai – piagnucolò lei per tutta risposta. - Samara – ripresi io con un cipiglio serissimo – alla tua età sei già una dei migliori Trimorfi di Nurn: le tue manipolazioni energetiche sono potenti e precise; alteri la materia tanto da far sì che un solo uomo possa scaricare un intero bastimento, come se la stiva fosse colma di cuscini di piume d’oca, invece che di casse così pesanti che se il capitano tracannasse un boccale in più di sidro la nave colerebbe a picco. Samara fece spallucce e allargò le braccia. - Lo so, lo so – ripresi – lo Spirito ti ha donato l’Arbitrio del Bene e del Male e per te è del tutto naturale, come per ogni Trimorfo del resto. Però tutto questo talento non ti porterà a niente se non darai retta a tuo padre. - Ma io voglio fare come dici tu, non voglio essere una figlia indegna dell’amore del proprio papà – miagolò carezzandomi il viso – Se solo tu trovassi il modo di farci stare pure Mikolai! – ruggì all’improvviso, mettendosi in piedi con i pugni puntellati sui fianchi. - Basta ora! Ma allora proprio non capisci. Tu sei destinata a far parte dell’Assemblea dei Comandanti, magari diventare il Capo Trimorfo, un giorno. Ma se insisti nell’accompagnarti con quell’Osservatore invasato, che è pure arrogante ancorché squattrinato, non avrai un futuro e ti ridurrai al margine di una strada rotta e infangata a chiedere quattro soldi per un paio di fulmini scagliati in cielo. Sarai buona solo a far ridere i monelli! - Ti odio, e non ti arrostisco qui sul posto e ti spedisco in cielo solo per amore della mamma. - Guarda che se tua madre fosse ancora viva la penserebbe come me – gli urlai, ma le mie parole si scontrarono contro la porta che Samara si chiuse dietro: le ferite incise nel telaio dell’uscio si ravvivarono e si allungarono. Feci un po’ d’ordine nel laboratorio e pensai all’appuntamento dell’indomani. Le mie elucubrazioni mi tennero sveglio per tutta la notte e al mattino fu un sollievo constatare che il chiarore diffuso da una grgia coltre nuvolosa proveniva da un unico sole. Il Considerato Giocattolaio Tubulkain mi ricevette nel salottino allestito all’ultimo piano della sua abitazione. Le mura rientranti formavano ambienti a tronco di piramide ed erano rivestite da oggetti prodotti dall’abilità tecnica del figlio: l’allievo Giocattolaio Lamech. Le lenti, gli specchi e i prismi decoravano la stanza e permettevano di amplificare la debole luce di quella giornata uggiosa, donandole una calda tonalità. Tubulkain armeggiava con una lente ustoria per accendere il fuoco nel caminetto e io ero sprofondato in una poltrona che sembrava cambiare forma non appena trovavo una posizione comoda. Alla luce delle prime fiamme del focolare esordii – Consideratissimo Tubulkain, abile Giocattolaio d’Armi, Prima Scelta dell’Assemblea dei Comandanti... - Cornelis, ti prego, siamo cresciuti insieme! - Ma allora, caro amico mio, perché conduci il nostro incontro in un contesto così riservato? Oggi avremmo dovuto gioire. Come mai né Lamech e né la tua adorata consorte presiedono al nostro colloquio? Tubulkain tacque e si diresse alla libreria da dove prelevò una chimera in legno di sandalo. - Vuoi mostrarmi una delle tue ultime creazioni? È forse la versione che sputa fuoco? – chiesi. Lo fissai mentre si sedeva nella poltrona di fronte a me, e devo dire che feci fatica a ritrovare il volto del mio amico in quel viso da mummia. Tubulkain poggiò la chimera sul tavolinetto tra le nostre ginocchia e incrociò il mio sguardo: i suoi occhi evocarono l’inverno alla mia mente. Mi scossi e osservai le due metà della statuina: una oscillava ancora, l’altra era tenuta ferma da un libriccino rilegato in pelle rossa. Lessi, senza pronunciarle, le lettere che formavano il titolo e il nome dell’autore incise sulla copertina, mi sembrarono tracciate con l’orina. Tubulkain prese tra le punte del pollice e dell’indice il libro e lo infilò tra le fiamme. – Questa era l’ultima copia in mio possesso, ma di certo ne girano altre. L’Assemblea dei Comandanti sta già discutendo su quale provvedimento prendere. Boccheggiai e i miei occhi minacciarono di saltar fuori dalle orbite, il mio ospite continuò - Cornelis, tu e tua figlia dovete assolutamente prendere le distanze da questo eretico, e dovete farlo pubblicamente, chiedendo clemenza di fronte all’Assemblea. Prega lo Spirito che dimentichino la vostra parte, amico mio. - Ma... ma noi non abbiamo fatto e detto nulla – sentii le mie gambe liquefarsi e ricaddi sulla poltrona, a corto di fiato aggiunsi – denunciai anche il meccanismo che con l’inganno mi fece costruire... io e Samara... - Cornelis! – mi riprese il mio amico, scrollandomi per le spalle – Si chiedono perché mai sia venuto proprio da te. Samara si è incontrata più volte con lui. Pare esserci un testimone che una notte l’ha visto levitare fino alla finestra di tua figlia. E lui non è certo un Trimorfo – sputò le parole puntando un indice verso le pagine che bruciavano nel focolare – tua figlia era consenziente, lo ha sollevato lei! La durezza di Tubulkain mi scosse, facendomi rendere conto che non c’era più tempo per difendersi. – Capisco che la mia presenza in casa tua importuna la tua famiglia, se non, addirittura, la mette in pericolo. Ti ringrazio per avermi ricevuto, andrò via subito – dichiarai tra un tremore e l’altro delle labbra, dei denti e della lingua. Uscìì in strada sotto la sferza della pioggia. All’esplosione dei tuoni mi rannicchiavo convinto che fosse lo Spirito della Vita che mi condannava. Mi voltai indietro verso la casa di Tubulkain: gli edifici stipati nel vicolo, con i telai in legno a disegnare confini sugli intonaci bianchi, mi sembrarono carcerati dietro le sbarre; e i tetti aguzzi erano frecce che indicavano le catene che tiravano per il collo quei miserabili. Strisciai contro le mura degli edifici erette ad argine dei vicoli, urtando i passanti costretti ad avventurarsi sotto il temporale. Il garzone di un Giocattolaio prese a strattonarmi neanche fossi un destriero da battaglia che dovesse arrestare la sua carica, mentre provava e riprovava a cacciarmi un ombrello tra le mani. Riparato dalla pioggia, grazie a un Trimorfo manipolatore d’acqua, scrutai un Osservatore che raccoglieva le gocce che precipitivano dal cielo in ampolle di vetro. – Perché non vai a coprire lui dall’acquazzone? – chiesi al Trimorfo dei fluidi. Quello, per tutta risposta, raccolse un volume d’acqua sopra la mia testa e lo scagliò sull’Osservatore. Sghignazzai e urlai dietro alla vittima di quello scherzo – È inutile, tanto non lo riprendi, ti farà scivolare in un fiume. Allagherà tutta Nurn! Mi accasciai a terra e piansi colmo di rancore. In quei pochi minuti avevo avuto davanti il futuro mio e di Samara: io sarei finito a vendere giocattoli e divertimenti al bordo della strada, sporco di letame; e Samara, vestita con una sottana sbrindellata, avrebbe potuto illuminare i vicoli per i signori e magari donare un pugno di tepore alle dame infreddolite. Giocattolai, Trimorfi e Osservatori da strada, ecco cosa saremo diventati, a meno di non rimetterci la testa. In quell’istante decisi di uccidere Mikolai, comunque fosse andata. Mi accorsi di battere i denti e strizzando i vestiti giudicai di pesare almeno il doppio. Se volevo vendicarmi non potevo certo lasciarmi morire di freddo o permettere che le mie ossa si paralizzassero. Aggrappandomi ai ciottoli della strada mi trascinai fin dentro la locanda più vicina. Ho giudicato questo posto una vera bettola visto che nessuno si è degnato di rilevare la presenza di un disperato come me che scalava un pavimento, e magari l’oste avrà pure confidato che gli pulissi per terra. Il tepore dell’ambiente mi ha ridonato una vista abbastanza chiara e così ho deciso di guadagnare quest’angolo fumoso. Non ti nascondo che, prima di svenire ai tuoi piedi, ho anche pensato di sgraffignare qualcuno dei tuoi aggeggi, giusto per compiere qualche cattiveria anch’io. - Posso capire, Cornelis, non ti giudico. Ora va meglio, sei quasi asciutto. Ti stai scaldando? - Si, grazie. Come hai detto che ti chiami? - Il mio nome è Sebald. - E sei un Trimorfo, tu? - Una specie. - Hai drenato l’acqua dalle mie vesti e mi hai scaldato con una sfera di calore; tieni in una bolla di spazio contratto tutta la tua roba, qui, su questo tavolaccio minuscolo. Direi che possiedi un Arbitrio del Bene e del Male piuttosto versatile. - Sì, e non solo quello. - Mi vuoi dire che quei marchingegni li hai costruiti tu? Hai l’abilità di un Giocattolaio? - Oh, appena sufficiente per considerarmi uno di quelli modesti, non certo un tuo pari grado Cornelis. - Vorrei ben vedere, mio da poco amico Sebald, anche se ti sei dimostrato di certo non da poco, e di questo ti sono grato. Io sono il Giocattolaio Prima scelta dell’Assemblea per giochi e divertimenti. Ma ora tutto finirà, saremo bollati come eretici, io e la mia Samara. - Chissà, magari ho la soluzione al tuo problema. - Arrotondi come sicario? No, voglio che Mikolai muoia tra le mie mani, voglio sentirne lo spirito abbandonare il corpo. Ma questo non risolverebbe niente comunque. - Immagina, Cornelis, se tu fossi in grado di amministrare l’Arbitrio della Vita, cosa faresti? Cornelis quasi rovinò dalla panca. Vide Sebald muovere la mano come per sciogliere un polso contratto e notò l’opacità di uno schermo sonoro. Sebbene i due erano in grado di sentire il brusio che invadeva la taverna, potevano abbandonarsi a pericolose speculazioni senza temere di essere ascoltati. - No, non è possibile quello che dici. Lo Spirito non ci ha donato l’Arbitrio della Vita – rispose Cornelis, guadagnando lo spigolo esterno della panca su cui sedeva – E, forse, lo stesso Spirito non può amministrarlo. - Cornelis, non immaginavo che tu fossi fedele alla visione dello Scisma. Non credi quindi in uno Spirito onnipotente? Ritieni che lo Spirito della Vita non sia in grado di manipolare il tempo? - Tu sei un compare di Mikolai! Ora mi verrai a dire che l’eresia di quel folle è la verità e che la Terra gira intorno al Sole. Se solo Samara non si fosse innamorata di quello scellerato o io avessi compreso prima cosa rappresentavano quegli osceni disegni. Sebald si mosse e una forza invisibile contrasse i muscoli del suo interlocutore, rimettendolo a sedere. Cornelis boccheggiò. - Adesso calmati Cornelis e perdonami, ti assicuro che da questo momento in poi non ti tratterrò più. Potrai andartene quando vorrai ma permettimi di mostrarti i miei strumenti. D’accordo? Il Giocattolaio in disgrazia sentì i muscoli rilassarsi, per un istante contrasse le cosce per guizzare via ma poi i visi di Samara e di Mikolai gli si fissarono in mente. Decise di percorrere qualsiasi strada che gli avrebbe potuto permettere di salvare la figlia e di vendicarsi di quell’Osservatore eretico. - Ecco, iniziamo dal meccanismo più semplice – Sebald trasse dalla bolla di spazio alterato una clessidra in ottone. – Questo non è vetro, è un cristallo puro e durissimo. La sabbia all’interno proviene da terre remote che rimarranno sconosciute ancora per molto tempo. In verità non ha nulla di particolare, uso questo sedimento perché proviene dalla mia terra. Nostalgia. - Che durata può misurare? – chiese Cornelis, affascinato dalla finitura della clessidra e dalla tecnica che l’aveva resa possibile. Sebald scosse la testa sorridendo – La domanda giusta è quale durata può fermare. Vedi, Cornelis, basta scorrere queste incisioni e pronunciarle mormorando, così... Cornelis si guardò intorno e cominciò a sudare freddo. Inquadrò un avventore inciampato e sospeso in aria a metà della caduta; la cameriera, imporporata in volto, con i muscoli del braccio in rilievo colti nell’atto di caricare uno schiaffone ai danni del beone che le strizzava il seno; e le fiamme del focolare che si stagliavano come coralli nella grassa atmosfera della locanda. Gli sembrò di ammirare un dagherrotipo colorato. - Ora abbiamo tempo a sufficienza affinché ti mostri gli altri miei strumenti senza essere disturbati. Sebald pose al centro del tavolo un anello costituito dall’unione di tre fasce d’oro poste l’una accanto all’altra. Le più esterne erano fisse e saldate a un occhiello all’interno del quale passava una catenina chiusa su se stessa. La terza fascia era mobile e dotata di un foro passante. – Presso alcune città questo strumento è noto come anello ad altezza – spiegò Sebald – una volta era in uso anche qui a Nurn, prima dell’introduzione dei dittici. Solo che questo anello non serve per leggere l’ora attuale ma per conoscere l’ora in cui è accaduto un certo evento, e funziona con qualsiasi fonte luminosa. - E quale utilità può avere? – domandò Cornelis, seguendo con gli occhi il pendolare dell’anello dalle dita di Sebald. - Capirai, amico mio, che questo anello è di fondamentale importanza per utilizzare il prossimo meccanismo che ti mostrerò. Sebald fissò Cornelis – Ti ricordi l’istante in cui hai compreso che Tubulkain non avrebbe mai acconsentito alle nozze tra suo figlio e tua figlia? – Cornelis mosse la testa per annuire, Sebald proseguì – Ora mi concentro su questo evento, scorro le incisioni, fammele mormorare... Cornelis vide un puntino luminoso formarsi sulla superficie di una delle fasce interne dell’anello. – Leggi la scala graduata sul lato alla mia sinistra – lo istruì Sebald. – È l’ora giusta, al minuto, vero? - È molto preciso – dovette constatare Cornelis. - Bene, ora completiamo la tua istruzione – disse Sebald, traendo dallo spazio contratto un marchingegno più grande e complesso dei primi due. – Questo è un notturlabio – rivelò a Cornelis. - E non serve solo per leggere l’ora di notte – indovinò il Giocattolaio in disgrazia. - Con la clessidra ti nascondi agli altri, con l’anello conosci il momento esatto e con il notturlabio lo raggiungi – cantilenò Sebald e mostrò a Cornelis come allineare il regolo con i puntatori in cielo e muovere gli altri steli per scegliere l’epoca e l’ora passata. – Ma attento – ingiunse Sebald – potrai farlo solo una volta all’anno, quando i puntatori, a mezzanotte, sono posti in verticale nel cielo. - Quando? – sussurrò Cornelis. - Stanotte, amico mio. Con la destra e la sinistra ero riuscita a formare dei fulmini circolari in rotazione intorno all’asse che congiungeva i miei palmi. Abbassai le braccia verso il piano dello scrittoio cosparso di limatura di ferro. Quando vidi le minute scaglie metalliche migrare come l’acqua del fiume incanalata a valle delle chiuse, invece che sparpargliarsi nella camera, li sentii arrivare. Mi rifuggiai nell’angolo della stanza opposto all’entrata, di fronte la quale innalzai una barriera di fiamme. Aumentai il peso della porta fino a sentir scricchiolare il pavimento e caricai il fulmine tra le mani. Quando i soldati rivestiti di ceramica buttarono giù la porta chiusa con tutto il telaio, compresi quanto fossi stata sciocca a non rinforzare anche il muro, ma, soprattutto, a farmi distrarre dai tonfi rumorosi che le guardie avevano prodotto risalendo di corsa le scale. Con la coda dell’occhio feci appena in tempo a rilevare i vetri della finestra andare in frantumi, scaricai la mia rabbia infuocata e folgorante sui primi della fila e la stretta di non so quanti Trimorfi mi neutralizzò. L’unica mia consolazione è di essere, ora, in tua compagnia, amore mio. - Mia dolce Samara, gioia della mia vita! – esclamò Mikolai. - Vorrei tanto abbracciarti – Samara sporse un braccio per toccare il suo innamorato. - Vi prego, metteteci nella stessa cella – implorò la ragazza. Una figura avvolta in un mantello d’ardesia e con il viso interamente coperto da un cappuccio alzò una mano e Samara sentì una montagna schiacciarle il torace. - Smettila maledetto – urlò Mikolai – non fermarle il sangue, basta! Samara tornò a respirare, giacendo sul pavimento di pietra unta di muffa. Il sentore di marcio le stuzzicava le narici mantenendola in sé “La tomba deve avere questo odore” pensò. Mosse la testa in un diniego rivolto a Mikolai che, muto, l’aveva interrogata con lo sguardo, domandando se fosse in grado di attaccare il carcieriere. - Sei stata ferita amore mio? - No, la sua presa è stata la cosa peggiore – rispose Samara, indicando il fondo del corridoio dove era seduto il loro sorvegliante. – Potrebbe uccidermi in un istante, prima che possa caricare le mie energie. - Hanno preso anche tuo padre? Samara scosse la testa – Non era in casa. L’ho intravisto prima che mi chiudessero nella gabbia di annullamento dell’arbitrio, è fuggito ma forse l’hanno raggiunto. Povero papà, correva tutto piegato, oscillando, e trasportava un fagotto sulle spalle. Non credo sia andato molto lontano. - Non avrei mai dovuto incoraggiare il nostro amore – si disperò Mikolai – Come ho potuto infliggerti questa sofferenza, esporti al pericolo, ben sapendo cosa stavo per rendere noto. - Io e te amiamo la verità e la libertà, amore mio, così tanto da essere egoisti e ciechi alle sofferenze che infliggiamo agli altri. E io sono la peggiore tra noi due. - Perché dici questo? Sono io che avrei dovuto soccombere al mio orgoglio senza coinvolgervi. - Ma tu non hai mai avuto nulla da perdere. Io ho distrutto tutto quello che i miei genitori hanno costruito. Mi sono dannata in una ricerca di non so cosa quando tutto quello che mi serviva era già mio. - Rinneghi il nostro amore, Samara? - Oh no, povero Mikolai, questo no – sorrise, mentre le lacrime bagnavano le sue guance – Condanno solo me stessa, per non essere stata diversa. Alla fine, perché a questo siamo giunti, diventa tutto chiaro. Non avresti voluto continuare a credere che il Sole gira intorno al mondo? - No, Samara, certo che no, e non me ne pento. D’altra parte non pretendo che tu capisca. - Hanno fuso il meccanismo originale, hanno bruciato tutti i tuoi disegni, hanno distrutto tutte le copie dei tuoi scritti. Anni di impegno e sacrifici andati in fumo. Giornate e nottate passate a nascondersi, terrorizzati dalla paura di essere presi, come di fatto è accaduto, e per cosa? Come sei stato ripagato da tutta questa dedizione, dimmi? - Il mio planetario non esiste più, ma l’ho fatto studiare da altri Osservatori e Giocattolai, fuori Nurn. I suoi moti orbitali, le sue dimensioni e proporzioni, le sue ruote e i loro accoppiamenti, sono state fissate nelle menti e nelle annotazioni di altri. La verità non andrà persa con la mia morte. La vera geometria del cielo prima o poi sarà nota a tutti. - E vale la morte? – chiese Samara. - L’utilizzo dell’Arbitrio, così immediato e senza sforzo per chi lo possiede dalla nascita, non può far capire il valore dell’abnegazione, del lavoro del proprio pensiero e delle realizzazioni delle proprie mani. A volte mi chiedo come sia possibile la convivenza dell’Ingegno e dell’Arbitrio nel nostro mondo e se, prima o poi, l’uno non prevarrà sull’altro. - Perché ti sei innamorato di me, Mikolai? - Mi sono lasciato tentare dalla via in discesa, dimenticando che solo la salita può farti guadagnare un colpo d’occhio sul mondo tale da comprenderne la forma. Cornelis sentiva il cuore rimbombargli nel petto e le tempie pulsare. A ogni sguardo dietro di sé vedeva gli inseguitori più vicini. Con le gambe che bruciavano di dolore e il pianto negli occhi e nella gola che voleva essere sfogato, imboccò la gradinata di pietra intagliata nell’argine del fiume. Caracollò sui gradini che a malapena contenevano la sua impronta e, saggiato l’equilibrio, staccò un balzo per raggiungere la banchina. Una fitta alla caviglia gli folgorò i nervi e i rumori degli urti dei meccanismi che teneva nel sacco gli provocarono la nausea. Si infilò nell’ingresso dello sbocco della cloaca, pressandosi sulle sbarre che la chiudevano. Pregando che la curva del vicolo da cui era sbucato rendesse incerti i suoi inseguitori quel tanto che bastava, cercò la clessidra all’interno della coperta annodata che Sebald gli aveva dato come sporta, la agguantò ma il sudore la fece scivolare via dalla sua stretta e la vide roteare in aria riflettendo l’antro in cui si era cacciato deformato in un vortice. La clessidra riccade tra i suoi piedi, cozzando su di un sasso. Cornelis non sentì più battere il cuore e di riflesso bloccò il pompaggio dei polmoni, pensò che fosse meglio morire lì invece che sotto tortura. Vide le ombre dei soldati danzare come ballerini deformi sul pelo dell’acqua insozzata dallo sputo della fogna, e un topo canceroso rosicchiare un lembo scoperto della sua caviglia. La paura e il dolore rimisero in moto il sangue e il flusso d’aria dentro di lui, il cervello tornò a elaborare la realtà circostante informandolo che il cristallo della clessidra non si era infranto. Un sasso rotolò giù dai gradini, affondando nella mota ai suoi piedi, e le ombre si allungarono sul fiume. La mano di Cornelis guizzò come una vipera e le dita cominciarono a scorrerre le incisioni sul bordo della clessidra. Il Giocattolaio smise di mormorare la litania e scalciò via il topo che era rimasto nella sua bolla di tempo. Il roditore si arrestò a mezz’aria appena varcato il confine della discontinuità in cui lui si era rifugiato. Cornelis avanzò un passo alla volta e confermò la sua ipotesi sul funzionamento della clessidra: lo schifoso animaletto venne inglobato e percorse un altro breve tratto della sua parabola di lancio fino a ritornare all’esterno della bolla temporale. Il Giocattolaio in disgrazia uscì allo scoperto e sfilò di lato ai soldati, seguendo le strade meno affollate uscì da Nurn e si inoltrò nel fitto di un bosco fino a raggiungere un grosso albero che cresceva a mezzacosta di un pendio. Cornelis si nascose sotto le radici che fungevano da acrhitravi a un grappolo di cave naturali. Estrasse l’anello ad altezza e si concentrò, memorizzò la data e l’ora indicata e, assicuratosi che sporgendosi in fuori avrebbe potuto traguardare i puntatori della stella polare, con un profondo sospiro, si mise in attesa. Il cielo passò da nuvoloso a sereno, dal nero di un velluto con diamanti incastonati al blu di una notte ancora acerba. Cornelis schioccò un bacio al disco d’argento del notturlabio e abbandonò il suo nascondiglio. Giunto alle porte di Nurn si rese conto di non aver progettato un piano preciso: aveva ancora un’ora per intercettare Mikolai ma non aveva un’arma e non aveva pensato alla successiva fuga. “In questo tempo io sono felice, mia figlia è felice. Entrambi non siamo in pericolo” pensò “salverò Samara, a costo di ucciderlo a morsi!” Cornelis si incamminò a testa alta, varcò la porta di Nurn e prese per il Viale dei Comandanti. Non fece caso alla Luna che, lambendo i merli e le torri delle mura della città, era affiancata da due gemelle più piccole e ammantate da un albedo sfocato. Salutò i pochi conoscenti che incontrò in strada, osservò la perplessità su un paio di visi ma non gli importò nulla, avrebbero trovato una scusa per accordare il tutto. Lasciò la strada principale per svoltare nel vicolo che lo portò nella Piazza dello Spirito della Vita. Raggiunse la statua che si innalzava nel centro dello slargo e chiese al suo dio – Hai mandato tu Sebald per diffondere l’Arbitrio della Vita, hai davvero fatto questo? Se è così, perdonami. Mi sacrifico per mia figlia e per mostrarti che questo arbitrio deve rimanere segreto. Raggiunta casa sua, Cornelis guardò in alto, verso le finestre illuminate, e la luce trasse luccicori puntiformi dalle sue guance. Le ombre che si intravedevano passare dietro le finestre sarebbero state felici e avrebbero potuto vivere un futuro degno di questo nome. Bagliori di fuoco si rifransero attraverso i vetri, generati dalle doti innate di sua figlia; perché quella figura era sua figlia, non la Samara che aveva visto ghermita come un animale. Si chiese se facesse male ritornare a essere il Giocattolaio che si muoveva lassù, nel laboratorio. Scrollò le spalle, non c’era più tempo. Scivolò nel buio sotto i portici e soppesò il notturlabio: fantasie di pelle spaccata e ossa fratturate presero vita nella sua mente. Cornelis vide Mikolai comparire a un estremo della strada, stringendo sotto il braccio il fascio di disegni del suo meccanismo. Soffocò una risata, l’Osservatore non avrebbe avuto altre possibilità, per lui finiva quella notte. Mikolai era ormai a pochi passi, Cornelis aspettò che il giovane gli desse le spalle e, appena prima che l’eretico facesse risuonare il battente sul portone, lo colpì alla testa, più e più volte. Il Giocattolaio in disgrazia si inginocchiò sul corpo schiantato a terra del suo nemico. Una pozza di sangue si allargava sotto il cranio maciullato di Mikolai e pezzi di cervello colavano come lumache senza guscio lungo il portone; Cornelis sentì una finestra aprirsi in alto, cercò di trattenersi ma non ci riuscì: sollevò lo sguardo. Samara soffocò quando vide l’uomo riverso a terra con la testa spaccata. Solo dopo essere stata tranquillizata dal padre ed aver sorbito una camomilla bollente, ricordò della polvere che aleggiava sospesa sopra il morto, come un fiotto di nero di seppia. Cornelis la fissò con la fronte corrugata ma con occhi pieni di dolcezza e lei gli sorrise, specchiandosi nello sguardo di lui. Lo abbracciò tremando, perché poteva giurare che gli occhi del padre, anche se solo per un istante, l’avevano fissata dall’interno denso e profondo di quella nuvola di polvere.