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IL BISCOTTO
UNA STORIA VERA
ADELIO ALQUA’
Le finestre dell’Istituto per il quale lavoravo allora guardavano sul piccolo parco dove stava
la palazzina degli Infettivi. Vi erano pochi alberi, ma tutti molto belli. Uno, un magnifico faggio
rosso, era il mio preferito. In estate dispiegava una chioma maestosamente sferica, che pareva
aleggiare, a mezz’aria, leggera come un pallone aerostatico; le sue foglie color amaranto, la mattina,
quando il sole le colpiva di sbieco coi suoi raggi lucenti e affilati, sembrava ardessero in preda a
chissà quali passioni. Quella pianta era una vera gioia; ma anche un lenitivo per gli occhi, quando li
distoglievo indolenziti e stanchi dagli oculari del microscopio per ammirarla. Poi c’era il
biancospino: per tutto l’inverno quasi lo dimenticavo, tanto l’intrico dei suoi rametti esili si
confondeva con il pallore della terra dura e sterile. Ma già a marzo quei ramoscelli anemici
gettavano minute gemme brune, che presto rinverdivano suggellando una remota promessa. Ed un
bel mattino – tutti gli anni era la stessa storia – guardando dalla finestra prima di mettermi al lavoro,
trovavo il biancospino fiorito come d’incanto durante la notte. Era davvero bello così vestito di
bianco! Sempre, a quello spettacolo, mi rammentavo le ingenue rime che cantano: “O Valentino,
Valentino vestito di nuovo come le brocche del biancospino…” E una vaga nostalgia, quasi un
languore si impadroniva della mia anima. Ripetendole fra me a mezza voce, rievocavo un tempo di
già lontano e in qualche modo ripudiato, al quale tuttavia mi sentivo di appartenere
irrevocabilmente. Così me ne restavo per qualche momento trasognato ad ammirare quel piccolo
prodigio della natura, meditando con che poca sagacia e ponderatezza, sempre, fino a quel momento
avessi condotto la mia vita; mentre, a ogni passo, supponevo di conoscere quale fosse per me la via
migliore. Eppure, nonostante ciò, ero salvo. Per il momento, certo…Quando invece Zacinto era
perduto. E solo per caso lui e non io! Mi sarebbe piaciuto credere che in qualche modo ero stato più
accorto, più prudente; ma non era così. Forse, più fortunato! Ma cos’è la fortuna quando si vive
come avevamo vissuto noi? Solo una combinazione di incontri che un dato momento giudichiamo
favorevoli, ma non sappiamo dove ci condurranno. Le esperienze che ci avevano fatto incontrare
erano le stesse che ci avevano segnato.
A separarci, ora, era solo questo grazioso parco con le sue aiuole fiorite, i vialetti ben curati, gli
alberi sui quali saltellavano, cinguettando, i pettirossi. Io stavo di qua, al primo piano, in una
delle sale del laboratorio di analisi; e lui di là, anch’egli al primo piano, in una cameretta del
reparto di Malattie Infettive. Io ero in buona salute e lavoravo; i giorni di festa li passavo in
montagna; per il resto un gran numero di piccole seccature. Per lui era diverso: il male lo aveva
incontrato, era solo questione di tempo. Mi direte: “Ma per ognuno di noi è solo questione di
tempo.” Ve lo concedo; ma sapete bene, se avete intuito di cosa parlo, che non è la stessa cosa. E
lo sapevamo pure io e Zacinto. Ma nessuno dei due ne parlava e ne parlò mai fino alla fine.
Vigliacchi tutti e due? No, il vile fui io; io che ogni volta svicolavo, mentendo o tacendo;
mentendo tacendo. Scandalizzato di ciò che mi passava per la mente: “Sei spacciato, mi dispiace
ma è così e non c’è niente da fare. Per me è come se tu fossi già morto e temo la tua compagnia
come quella dei morti. La tua lontananza, come la loro, è irraggiungibile. Ogni parola è vana. Ma
non credere che non me ne importi nulla. La tua sorte è per me fonte di continua sofferenza.
Vorrei…ma non posso. Non posso niente più di quel nulla che faccio venendoti a trovare,
dicendoti le solite cose, e fingendo che tu non stai per morire.” Forse se avessi avuto il coraggio
di dirgli tutto ciò, dopo avrei saputo continuare…con altre parole…le più impudiche, quelle che
aprono gli usci serrati. Ma un malinteso pudore, il timore di far male e una falsa coscienza mi
consigliavano di lasciar stare e di fingere. Come fingiamo ogni giorno a noi stessi, in preda ad
una assurda speranza: questa longeva ingannatrice, che neppure il più audace, nei momenti fatali,
si rifiuta di ascoltare.
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Ogni mattina, fin dal suo primo ricovero nel reparto di Malattie Infettive, ci affacciavamo
ognuno alla propria finestra, per un colloquio silenzioso fatto solo di gesti. Lavorando, tenevo
d’occhio l’apertura; e quando finalmente lo vedevo comparire, mi alzavo dal posto di lavoro e
avvicinandomi alla luce, lo salutavo con un movimento della mano. Poteva essere che egli
sorridesse e mi facesse intendere che tutto andava bene e che aveva buone notizie da
comunicarmi; oppure, ed era ciò che più temevo, l’espressione preoccupata o sofferente del suo
volto mi anticipava una nuova angoscia, un repentino peggioramento, o semplicemente una
tristezza insostenibile che non avrei voluto condividere. Son fatto in tal modo che in faccia al
dolore e alla sofferenza io sento imperioso l’impulso a fuggire lontano. Non so compatire, non so
confortare; non mi riesce d’essere franco e non vorrei mentire. Ma solo scappare.
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Tra le aiuole correvano dei vialetti - poco più che sentieri - come arteriole che dipartendosi da
un centro si diramavano per il giardino, proliferando in un labirinto a cielo aperto nel quale era
impossibile smarrirsi. Ad una estremità, presso l’antico muro che separava il parco dal corpo
centrale della clinica, c’era una pergola in ferro battuto con due panchine ed un tavolino di pietra.
Era lì che nelle belle giornate, quando il male glielo concedeva, mi incontravo con Zacinto.
Nell’ora di pranzo; il momento in cui, pure d’inverno è piacevole godersi l’effimero tepore che
un sole gracile, color del latte, versa sulla terra intirizzita e fragile come un fiore di carta. Ero
solito raggiungerlo, dopo aver mangiato in fretta un boccone alla mensa, prima di riprendere le
mie occupazioni. Mentre mi accendevo una sigaretta, già da lontano lo scorgevo seduto col busto
curvo, i gomiti poggiati alla ruvida lastra di ardesia, il mento fra le mani che sostenevano il volto
scarno e teso, coronato da una chioma folta di riccioli neri e lucidi come le piume dei corvi. Stava
assorto, con lo sguardo smarrito sopra i tetti color amaranto, a fissare il profilo dei monti o chissà? - le mutevoli nuvole in cielo. Il cuore si faceva stretto, mentre mi avvicinavo a passi lenti
- quasi cercassi un indugio - aspirando lunghe boccate del miglior tabacco che ci sia. Vedendomi
arrivare si scioglieva da quella posa per accogliermi con il suo sorriso da furbetto malizioso:
Eccolo che arriva – mi diceva –, il Signore. Ben mangiato e ben fumato. Te la passi bene
tu eh? Mentre noi si sta a stecchetto. Dai fammi fare un tiro…E allungava la mano a togliermi il
mozzicone fumante. Lo rigirava per un attimo fra le dita come chi non è più avvezzo; e poi
portandosi la cicca alla bocca ne aspirava una corta boccata, ma senza gusto si vedeva. E facendo
una smorfia schifata aggiungeva in tono di scherno:
Fumi proprio male lo sai? Io quando fumavo, ‘ste cose qui ci avrei sputato sopra. Siediti
dai, che oggi va bene. Mi sento proprio bene; mi sento le forze che crescono…anche le gambe.
Questa mattina ho fatto le scale quasi di corsa. Un po’ di fiatone, ma per forza, manca
l’allenamento! Appena mi mollano torno in palestra e poi non ce n’è per nessuno. Eh sega, cosa
ne dici?
Quando lo trovavo così, quasi pimpante, tiravo un sospiro di sollievo e fingere mi costava
nessuna fatica. Allora gli dicevo:
Bene, prima o poi si riparte…il più presto possibile che mi manca il compagno ed
impigrisco anch’io.
Non dire balle! Lo so che ti alleni di brutto e che ieri, Domenica, mentre io languivo là
dentro, vi siete fatti una bella salita, tu e Eligio. Bravi, è così che si fa. Me l’ha detto sua moglie
che è venuta a trovarmi nel pomeriggio. Com’è andata?
Un gran freddo, c’erano le candeline di ghiaccio sulla parete.
Allora avete festeggiato, tu e quello stronzo. Però l’ultima volta non me l’hai detto che
avevate intenzione…Si fanno le cose di nascosto.
Ma no, lo sai com’è…scaramanzia. Te l’avrei detto, comunque fosse andata, oggi. E’
andata bene, tanto meglio. La prossima volta ci sarai anche tu.
Ma il timbro della mia voce tradiva la menzogna che avevo appena pronunciato. Lo guardavo
di sottecchi; lui faceva l’impassibile, fingendo di averla bevuta.
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C’erano delle volte che si riusciva a scherzare di tutto, come un tempo; oppure ci si
abbandonava ai molti ricordi comuni, addirittura ci si entusiasmava a qualche progetto. Ma le più
volte, quando si era di buon umore, spettegolavamo di questo e di quell’altro senza alcun ritegno:
‘ché Zacinto da un po’ di tempo di ritegni non ne aveva più; e come ebbe a confidarmi una volta,
non aveva intenzione di rinunciare alla libertà dalle convenienze che la sua condizione gli
garantiva.
Ma non sempre andava così. C’erano giorni che al mio sopraggiungere sembrava infastidito.
Rispondeva appena, con un cenno del capo, ai miei saluti e guardava il mezzo sorriso che mi
affettava il volto con un’occhiata sarcastica come a dire: “Sto morendo davvero, non per ridere e
tu lo sai bene; eppure ogni giorno mi vieni davanti con quel tuo risolino come se nulla fosse, a
scrutare il mio viso, il mio aspetto, alla ricerca dei segni, come fossero conchiglie, che la risacca
del male, giorno dopo giorno, abbandona sulla spiaggia desolata della mia carne”.
Quelle volte non mi sedevo neppure; accampando l’urgenza di un lavoro me ne andavo dopo
poco, balbettando qualche frase di saluto. Me ne andavo a capo chino e spalle strette come chi ha
appena ricevuto una lavata di testa per una cattiva azione della quale debba vergognarsi; e finché
non raggiungevo il riparo delle mura del laboratorio, sentivo fissi nella mia schiena, come due
chiodi, i suoi occhi a rimproverarmi la mia colpa. Ch’era quella di essere vivo e in salute!
Un bel giorno di primavera - era ormai Aprile – caldo più che tiepido, e colmo di quelle grazie
e di quelle fragranze che rendono ogni giardino, in quella stagione, un luogo unico e privilegiato,
ce ne stavamo nel nostro solito cantuccio a goderci il sole, gli effluvi, i colori… e la carne
giovane messa in vetrina, che transitava avanti e indietro dagli spogliatoi. Zacinto pareva godere
quanto me di tutto quel popò di vita; dimentico come me, un momento anche lui, che tutta quella
esuberante bellezza, un giorno, avremmo dovuto lasciare. Fu un buon momento che non si
presentò più nei nostri incontri sotto il pergolato.
All’improvviso, subito dopo l’ennesima sparata licenziosa, lo vidi farsi cupo e tacere. Il suo
volto di già aguzzo e smunto sbiancò ulteriormente e la pelle sugli zigomi parve tendersi fino a
divenire traslucida. Guardava nella direzione della palazzina degli “infettivi” lungo il vialetto
che da là dipartiva pel parco.
In quel punto, all’ombra di un abete dall’aspetto regale, era apparsa una bizzarra sembianza.
Di primo acchito non distinsi bene; ma poiché la misteriosa apparizione veniva verso di noi, ben
presto compresi cosa fosse, ed il perché del repentino mutamento d’umore del mio compagno. A
venire per il sentiero erano una bella infermiera di nome Giovanna ed un malato terminale, anche
egli di nome Giovanni, ch’ella accompagnava in una breve passeggiata. Giovanni, che con
Zacinto condivideva il male e la cura, era un giovane di circa trent’anni il cui aspetto macilento
non starò a descrivere; meglio di me lo possono fare quei ritratti indimenticabili di internati nei
campi della Germania nazista. In tal maniera lo aveva ridotto la malattia! E le sole due cose che
quelli gli potevano invidiare, erano il suo pigiama lindo e profumato – ancorché smisurato per la
sua magrezza – e la vicinanza di Giovanna, femmina dai riccioli neri e gli occhi sornioni, con una
bocca che pareva una rosa. Non ditemi che è poco! Eppure a Zacinto doveva parer niente se
aveva fatto una faccia come avesse scorto un morto.
Intanto i due, compiuto un quarto di giro del parco, erano giunti nelle vicinanze del nostro
pergolato. L’infermiera sorreggeva per la vita il malato, che, strascicando fiaccamente i piedi,
avanzava trascinandosi appresso uno di quegli aggeggi chiamati “piante”, che servono da
sostegno per le bocce di vetro delle fleboclisi.
La ragazza parlava con aria ispirata al suo cavaliere, indicandogli con la mano un fiore
particolarmente bello che ornava un’aiuola lì intorno. Non era possibile capire se Giovanni la
intendesse, perché sul suo volto smunto e scavato non traspariva alcun segno di emozione: gli
occhi vitrei e infossati guardavano fissi innanzi, e dall’angolo della bocca che teneva socchiusa,
colava un rigo di saliva biancastra e appiccicosa, ma nessun verbo.
Giovanna, passandoci accanto, ci salutò con un cenno della mano e un sorriso, che svelò per un
attimo lo sfavillio dei suoi denti candidi come le margheritine che punteggiavano la tenera erbetta
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delle aiuole. Lanciandoci una strizzatina d’occhi, l’infermiera si curvò a raccoglierne una, e dopo
averla baciata, ridendo, l’appuntò all’occhiello del pigiama di Giovanni. Questi, reagì a quel
gesto frivolo farfugliando qualcosa di incomprensibile con le labbra febbricitanti, che si
piegavano in una smorfia, come la parodia di un sorriso.
Continuai a seguirli con lo sguardo, eludendo quanto vi era di terribile nel quadro, con una
stupida battutina a fior di labbra:
Mi sa che quei due se la filano.
Zacinto mi guardò con un sogghigno amaro e non disse nulla. Restammo, così, muti per un
poco, ognuno a rimuginare per conto proprio.
Nel momento in cui mi accingevo a lasciarlo, Zacinto parve ridestarsi dalle sue meditazioni e
mi apostrofò con un tono di voce grave e fermo, come a voler sottolineare la serietà di ciò che
diceva:
Prima che io arrivi al punto di Giovanni, saliremo per un’ultima volta assieme la Granpala,
tu avanti e io dietro; e quando avrai toccato la croce di vetta e ti sarai assicurato mi griderai:
“Molla tutto Zacinto, sono arrivato.” Allora io mollerò tutto, ma proprio tutto…e volerò via per
sempre. Tu lo farai, vero?
Mi mancò il fiato in gola, e subito non potei parlare. Poi senza guardarlo negli occhi, ma certo
di non mentire, gli risposi:
Se tu lo vorrai lo farò. Certo che lo farò, ma fino allora non parliamone più. Le parole non
servono a niente. Ci vediamo domani Zacinto, in gamba, ciao.
Quel pomeriggio lavorai sodo senza pensare ad altro. Quando, ormai ben oltre l’orario, chiusi il
microscopio e riordinai i vetrini, fuori era buio. Tutti gli ambienti del laboratorio erano silenziosi
e deserti. Oltre l’oscurità del parco le finestre del reparto di Malattie Infettive, al contrario, erano
tutte illuminate. Smorzai in fretta la luce e me la filai di soppiatto come un fuggiasco. A casa
dissi a Violetta che non avevo fame, ma solo voglia di fare l’amore e poi dormire.
Zacinto non mi chiese mai di accompagnarlo sulla Granpala.
Durante l’estate le sue condizioni di salute peggiorarono precipitosamente. I nostri incontri
all’aperto, sotto il pergolato, diradarono fino a scomparire: egli si rifiutò sempre di scendere in
giardino accompagnato da una infermiera, come avevamo visto fare a Giovanni quel giorno.
D'altronde ben presto si ridusse a letto senza poterne più uscire. Mi toccava andarlo a trovare in
reparto.
Subito dopo aver pranzato, mi accendevo una sigaretta e attraversavo, nell’afa appiccicosa del
primo pomeriggio, il parco nel pieno del suo rigoglio estivo. All’ombra di quelle fronde il caldo
era meno opprimente e improvvisi sospiri d’aria regalavano attimi di sollievo. Raggiunta l’entrata
della palazzina, nel pieno riverbero del sole, aspiravo un’ultima boccata di fumo rovente, prima
di schiacciare il mozzicone sull’asfalto che pareva cedere sotto la pressione del mio piede. Dopo
varcavo la maledetta soglia.
In un primo momento avevo l’impressione che là dentro fosse più fresco; ma la penombra nel
minuscolo atrio era pervasa da un odore acre che pungeva le narici e scendeva a serrarmi la gola.
Sulla destra si apriva un antro che faceva da vestibolo dove si indossavano il camice, le
soprascarpe, e la mascherina, necessari per accedere alle camere dei ricoverati che stavano al
primo piano. Questo rito, che il visitatore doveva obbligatoriamente compiere, oltre che dettato
da una norma igienica, era anche un modo per prepararlo a ciò che di sopra lo attendeva. La
prima volta uno quasi ci scherzava con le soprascarpe e la maschera; ma quando poi ritornava
una seconda volta, e poi una terza,e poi…il visitatore, più che un giullare, si sentiva piuttosto il
sacerdote di una lugubre liturgia. Ma forse io sono un tipo che si impressiona per poco, e tutto ciò
che provavo in quei momenti era dovuto soltanto alla mia facile emotività.
Assolta quella procedura, bussavo alla porta dello studio del caposala per informarmi sulle
condizioni del mio amico, per mettermi al riparo da spiacevoli sorprese; perché, con l’andar del
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tempo, sempre più spesso Zacinto alternava momenti di lucidità a crisi di oscuramento della
coscienza.
Il caposala era un quarantino sardo, acido e zelante, che ogni volta mi guardava fosco, levando
gli occhi dal registro dei medicinali o da una cartella clinica. Prima ancora che aprissi bocca, mi
metteva al corrente, con poche parole, secche e appropriate, su come stavano le cose; poi mi
faceva segno con la testa di salire.
Il primo piano era diviso tra uno studio medico, la sala infermieri e le camere dei degenti.
Credo fossero quattro con due letti ciascuna. Ogni ambiente era perfettamente organizzato; e una
pulizia meticolosa garantiva ai malati l’unica difesa contro i nemici esterni sulla quale, ancora,
potessero contare.
Inoltre sussisteva il problema di non mettere in contatto malati portatori di infezioni diverse.
Per questo motivo, nessuno poteva lasciare senza permesso il proprio letto e tanto meno la
propria camera, che perciò era dotata di servizi igienici. Porte e finestre stavano quasi sempre
chiuse e, nonostante una rudimentale apparecchiatura per l’aria condizionata, negli ambienti
stagnava un’aria greve che sapeva di disinfettanti, medicine e corpi in disfacimento. Certamente,
infermieri e malati dovevano averci l’abitudine a quel tanfo; ma per chi veniva da fuori era un
duro colpo ogni volta.
Io cercavo di restarci il meno possibile e, confesso, non fosse stata l’amicizia che mi legava a
Zacinto, non ci avrei messo piede: tutto quanto il mio corpo, sulla soglia, si ritraeva per fuggire il
più lontano possibile. Ma, c’era Zacinto… Steso nel suo letto, ciò che restava di lui, quel poco di
ossa senza carne, tremanti, impudiche, sollevavano appena il leggero lenzuolo che le ricopriva
fino al mento aguzzo. Ne spuntava solo il volto cereo e scarno, e la testa che pareva anch’essa
rimpicciolita, come il resto. Soli, i riccioli neri e lucidi, ma come schiacciati da una carezza
troppo pesante, formavano una beffarda corona di spine in capo a quel povero-cristo sofferente.
Vedendomi, a volte sorrideva, e sollevata una mano dal lenzuolo, me la tendeva perché la
stringessi. Io la tenevo per un poco fra le mie, umida e fredda come cera.
Dei giorni lo trovavo meglio. Allora stava seduto nel letto contro i cuscini rialzati; un libro
aperto, che aveva sfogliato appena, poggiato sulla coperta. La voglia di parlare e di farsi servire,
anche se non gli occorreva nulla, solo per il gusto che c’era qualcuno a volergli bene. Quelle
volte negli occhi gli brillava quel suo sorrisetto malizioso che tanti aveva beffato. Ma eran lampi
in una notte scura!
Ad agosto, come sempre da noi, cominciarono i temporali, che in due giorni si portano via
l’estate. Il tempo sfuriando col vento e la pioggia raffredda ben presto l’aria, e quasi non basta già
più neppure il fiero sole, quando ritorna, a roventarla. Per l’anno solare è come domenica; e, fin
da fanciullo, io non ho mai potuto esimermi dal paventare l’incipiente lunedì.
Quell’anno ad una usata tristezza se ne aggiungeva un’altra; e mi pareva di sapere che l’estate,
andandosene, si sarebbe portata con sé il mio amico.
Tutto avvenne all’improvviso una bella giornata di metà settembre. Le condizioni di Zacinto
erano stazionarie; nulla era accaduto, nei giorni precedenti, a far precipitare la situazione.
Quel dopo pranzo, quando mi affacciai nello studio, il caposala era intento, come al solito, alle
sue carte. Al mio saluto rispose con un sorriso ambiguo:
Eccolo qua finalmente – disse insolitamente loquace – Il tuo amico questa mattina era
particolarmente agitato, voleva che ti mandassi a chiamare; sosteneva che oggi sarebbe morto e si
preoccupava di non potersi congedare da te, il suo fidato compagno – parole sue.
Disse tutto questo con il tono di chi la sa lunga, tanto lunga da essere certo se un suo paziente
sta per morire oppure soffre di ubbie. Stavo per dirgli il fatto suo, ma egli riprese a parlare:
Un po’ per ridere, conoscendolo, mi sono offerto di mandargli a chiamare il prete e lui sai
cosa mi ha risposto?...Che dei preti non sapeva cosa farsene, e non voleva portarsi con sé,
all’altro mondo, l’odore stantio che fuoriesce da quella loro triste tonaca nera. E’ proprio un bel
tipo, che gli va di scherzare su queste cose nelle condizioni in cui si trova.
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Non gli lasciai il tempo di dire altro. Feci gli scalini a due a due e ansante bussai alla porta di
Zacinto. Non rispose nessuno; allora aprii piano e mi feci avanti.
La camera era in penombra; Zacinto stava steso nel letto vicino alla finestra, le palpebre
abbassate come chi dorme. L’altro letto preparato per un nuovo paziente era vuoto. Mi avvicinai
all’amico, dando le spalle alla finestra. Respirava faticosamente, con inspiri frequenti e rotti e
l‘espirazione terminava con una specie di singulto rantoloso.
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Mi avvicinai fin quasi a sfiorargli la fronte; egli emise un lungo sospiro, le sue palpebre
fremettero, e il pomo di Adamo andò su e giù più volte. Cercò a fatica di liberare un braccio da
sotto le coperte, e allungò verso di me una mano ossuta, senza più vita.
Mamma vieni – lo sentii farfugliare – Mamma mia…vieni.
Nient’ altro; ma di colpo aprì gli occhi, sollevò il capo dal cuscino, e mi lanciò un’occhiata che
non scorderò, certo, finché vivo. Mi spaventai, e volevo chiamare l’infermiere di guardia; ma i
suoi lineamenti si distesero, ed si abbandonò quieto sul guanciale.
Trascorsero alcuni minuti. Zacinto pareva riposare tranquillo. Ero seduto su di una sedia
accanto al letto; dalla finestra, che aveva le tapparelle abbassate, filtrava attutita la luminosità del
pomeriggio, e nessun rumore giungeva a disturbare la calma che regnava nella camera. Non c’era
motivo perché io restassi oltre; sarei ripassato a salutarlo a fine giornata… Ma qualcosa mi
impediva di andarmene: “ Per quale motivo Zacinto mi aveva mandato a chiamare? Come poteva
sapere che sarebbe morto proprio oggi? Avrà voluto prendersi gioco del caposala che gli sta
antipatico – pensai – E’ tipico suo…” Ero assorto in questi pensieri, quando il mio compagno
aprì gli occhi e si guardò attorno con aria sperduta. Immediatamente allungai la mano a prendere
la sua, e lo chiamai perché sapesse che ero lì. Senza dar segno di avermi riconosciuto, cominciò a
puntarsi con gli avambracci sul letto, come se volesse sollevarsi. Indugiai un momento sul da
farsi; poi, agganciatolo con le braccia sotto le ascelle, lo sollevai quasi seduto, appoggiandolo con
la schiena contro i cuscini. Pesava meno di niente il mio amico! La testa gli ciondolò qua e là,
prima di ricadere col mento sullo sterno. Non doveva essere troppo comodo in quella posizione.
Feci per ridiscenderlo, ma si irrigidì, mostrando una forza che non avrei creduto. Mi sentivo
goffo ed impacciato nell’accudirlo. Lo lasciai così com’era, ne seduto ne disteso, in una
posizione molto innaturale. Ma pareva trovarsi bene; e sembrò addirittura che mi sorridesse
condiscendente. Mi risedetti; cercavo disperatamente qualcosa da dirgli. Santo cielo, cosa si può
dire ad uno messo così? Zacinto, incurante dei miei crucci, fissava di sbieco il ripiano del
comodino. Pensai avesse sete; le sue labbra erano aride e spaccate, come la terra che implora
acqua. Mi affrettai a versargliene un poco in un bicchiere e glielo accostai alla bocca. L’acqua
scivolò via dalle sue labbra sul mento, e sgocciolò sul risvolto del lenzuolo. Non era l’acqua che
voleva. Eppure fissava qualcosa che stava sul comodino! Oltre la brocca, v’era un cartoccio
marrone. Lo presi; conteneva dei biscotti. Erano biscotti tondi e dorati, con un buco nel mezzo, e
uno strato di zucchero a velo sulla superficie. Gliene misi uno fra le dita. Lo strinse con troppa
forza, come fanno i bambini. Il biscotto si sbriciolò, cadendo sulla coperta. Bel pasticcio! Gliene
diedi un altro; questa volta Zacinto fu più accorto, e lentamente, con un movimento incerto, se lo
portò alla bocca. Cominciò a masticare goffamente, di nuovo assomigliava ad un lattante appena
svezzato. Ne presi uno anch’io, per tenergli compagnia. Erano davvero una bontà quei biscotti!
Masticavamo con gusto entrambi, così credetti, godendoci quel piccolo piacere comune.
Improvvisamente il pomo di adamo di Zacinto andò su e giù, producendo il suono secco e
sgradevole di un catenaccio che si apre e chiude; la sua bocca sfiatò con un lieve fischio; sul
volto gli comparve un’espressione di stupore. Poi, più nulla. Non ebbi alcun dubbio: era spirato!
Lo fissai sbalordito: “Così poco - mormorai - ci si mette a morire.” Sapevo che avrei dovuto
alzarmi per andare a chiamare qualcuno. Ma non riuscivo a staccare gli occhi dal mio amico:
giaceva rigido, con le mani scheletrite strette al risvolto del lenzuolo, nell’ultimo vano e disperato
sforzo di tenersi aggrappato alla vita. Nello sguardo gli persisteva quello strano stupore, come se,
alla fine, la risposta tanto attesa non fosse stata quella che si aspettava. Sulla soglia delle sue
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labbra, dalle quali pochi attimi prima gli era sfuggita la vita, faceva capolino il grumo mucoso
del biscotto che non aveva avuto il tempo di inghiottire.
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