IL CIECO NATO (Gv 9,1-41) - Piccolo Eremo delle Querce

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IL CIECO NATO (Gv 9,1-41) - Piccolo Eremo delle Querce
LABORATORIO DI SPIRITUALITÀ E TECNICA DELL’ICONA “LA GLIKOPHILOUSA”
IL CIECO NATO (Gv 9,1-41)
«Cristo, luce sfavillante per quelli che sono nelle tenebre»
O Gesù, redentore del genere umano, restauratore eterno della luce: concedi a noi
tuoi servi che, come siamo stati lavati dal peccato originale per l`immersione del
Battesimo - e in ciò consiste il significato di quella piscina che restituì la vista agli
occhi dei ciechi – così pure siamo da te purificati dalle nostre colpe mediante il secondo battesimo delle lacrime; e possiamo meritare di essere divulgatori delle tue
lodi, come quel cieco divenne nunzio della grazia. E come quello fu riempito di fede
per confessare te vero Dio, così noi pure possiamo essere corroborati dalla testimonianza delle buone opere. Possa tu subito venire incontro pietoso, per la tua
smisurata pietà, a noi che t`invochiamo, affinché, per questo sacrificio che ti offriamo, se vivi otteniamo la medicina che salva, se defunti meritiamo di conseguire
l`eterno gaudio senza fine. Amen. (Sacramentario Mozarabico, 392 Post Nomina)
Nella paziente tessitura di un’Icona, che si scrive innanzi tutto nelle profondità del cuore e poi su una tavola-altare,
s’intrecciano il testo biblico e la tradizione della Chiesa.
L’iconografo, affinando lo sguardo interiore, lascia che lo Spirito guidi la sua opera: mani, mente e cuore, docili al Divino
Maestro, scrutano il Mistero e testimoniano fedelmente la sollecitudine di Dio per la salvezza.
Dunque la nostra esperienza, oggi, qui, nasce da una ‘visione’
e vuole condurci alla ‘visione’. Si tratta di ascoltare ciò che lo
Spirito suggerisce al cuore in ordine alla salvezza.
‘Ascoltare’ con gli occhi, ‘guardare’ la Parola, per dimorare
nella Luce.
E di luce-fede si fa annuncio l’icona del cieco nato, che
scaturisce dalla contemplazione del cap. 9 del Vangelo di Giovanni. Leggiamo il testo con la stessa consapevolezza di un
grande scrittore dei primi secoli, Origene, che ammette una
sorta di perenne sconfitta per i lettori di tutti i tempi: “il senso
profondo e riposto di questo Vangelo nessuno potrà mai pienamente cogliere”.
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Passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: "Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi ge3
nitori, perché sia nato cieco?". Rispose Gesù: "Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate
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le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte,
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quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo". Detto questo, sputò per terra, fece del
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fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: "Va' a lavarti nella piscina di Sìloe" - che significa
Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
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Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: "Non è lui quello che stava se9
duto a chiedere l'elemosina?". Alcuni dicevano: "È lui"; altri dicevano: "No, ma è uno che gli assomiglia". Ed egli dice10
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va: "Sono io!". Allora gli domandarono: "In che modo ti sono stati aperti gli occhi?". Egli rispose: "L'uomo che si
chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: "Va' a Sìloe e làvati!". Io sono andato, mi sono
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lavato e ho acquistato la vista". Gli dissero: "Dov'è costui?". Rispose: "Non lo so".
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Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli ave15
va aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: "Mi
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ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo". Allora alcuni dei farisei dicevano: "Quest'uomo non viene
da Dio, perché non osserva il sabato". Altri invece dicevano: "Come può un peccatore compiere segni di questo gene17
re?". E c'era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: "Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto
gli occhi?". Egli rispose: "È un profeta!".
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Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i geni19
tori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: "È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco?
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Come mai ora ci vede?". I genitori di lui risposero: "Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come
ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l'età, parlerà lui
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di sé". Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se
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uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: "Ha l'età:
chiedetelo a lui!".
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Allora chiamarono di nuovo l'uomo che era stato cieco e gli dissero: "Da' gloria a Dio! Noi sappiamo che quest'uomo
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è un peccatore". Quello rispose: "Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo". Allora gli
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dissero: "Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?". Rispose loro: "Ve l'ho già detto e non avete ascoltato;
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perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?". Lo insultarono e dissero: "Suo disce29
polo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove
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sia". Rispose loro quell'uomo: "Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi.
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Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mon33
do è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non
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avrebbe potuto far nulla". Gli replicarono: "Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?". E lo cacciarono fuori.
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Gesù seppe che l'avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: "Tu, credi nel Figlio dell'uomo?". Egli rispose: "E
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chi è, Signore, perché io creda in lui?". Gli disse Gesù: "Lo hai visto: è colui che parla con te". Ed egli disse: "Credo,
Signore!". E si prostrò dinanzi a lui.
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Gesù allora disse: "È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e
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quelli che vedono, diventino ciechi". Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: "Siamo
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ciechi anche noi?". Gesù rispose loro: "Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: "Noi vediamo", il
vostro peccato rimane".
Il brano presenta:
1. un segno-miracolo: la guarigione del cieco.
2. un discorso-dialogo tra Gesù e i suoi interlocutori: una sorta di processo, tra giudici, accusatori e accusati.
Con il suo stile tipico, Giovanni lancia un grande messaggio: “La Luce venuta nel mondo comporta
un giudizio che sta per attuarsi: chi crede di vedere rimane nel peccato, a differenza di chi si sente cieco, che
viene alla luce”1.
L’icona non riproduce semplicemente gli eventi trasmessi da Giovanni, non indugia solo sui fatti. Va
oltre, interpreta gli eventi e ci conduce progressivamente al cuore della Rivelazione.
Ciò appare evidente dal fondale paesaggistico della scena. Il testo non offre alcuna indicazione di luogo e di
tempo: “Passando, Gesù vide…” (v.1) e basta. Ma dove avviene il fatto? E quando? Leggendo il contesto,
possiamo intuire che il Maestro è a Gerusalemme, non lontano dal tempio. Del resto, i poveri, i ciechi, gli
zoppi solitamente stavano sotto il portico del tempio o lungo le viuzze vicine a mendicare. L’icona invece
pone i vari personaggi a ridosso di una montagna verde, lontano dalla città, su una sorta di collinetta che
sembra uscir fuori dalla scena venendoci incontro, facendosi prossima al nostro tempo e alla nostra storia, a
me e a te che guardiamo. Perché? Questa storia di conversione, un cieco rinato alla luce, è anche la nostra.
Così come nostra potrebbe essere la storia parallela di ‘perversione’, quella di coloro che rifiuteranno la luce,
registrata amaramente nell’epilogo della vicenda.
Al contempo, l’icona, pur superando ogni categoria temporale e spaziale, vuole metterci davanti, contemporaneamente, i due momenti forti dell’esperienza di quest’uomo risanato: il gesto taumaturgico del Signore in
primo piano e, in alto a destra, il bagno purificatore dell’uomo alla piscina di Siloe.
Questo è ciò che conta, sembra dirci l’icona: incontrare il Signore ed immergersi nelle acque della salvezza
per ritrovare la Luce.
Noi stavamo smarrendoci nel buio e lui ci ha dato la luce. Come un padre ci ha chiamato suoi figli.
Noi eravamo ciechi nella mente, ci eravamo venduti ad opere umane. Niente altro che morte era la
nostra vita. Lui si è accorto di noi e , mosso a pietà, ci ha salvati. Lui ha visto che non avevamo nessuna speranza. Ci ha chiamati quando noi non eravamo niente, e da niente ha voluto farci esistere.
(S.Clemente)
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G. ZEVINI, Vangelo secondo Giovanni, vol. 1, Roma 1994, p. 300.
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E’ importante, per noi che contempliamo l’icona, ricordare che questo evento ha una singolare cornice narrativa. Siamo nel contesto della più grande e della più santa festa della tradizione ebraica: la festa delle
Capanne. Originariamente questa festa era una celebrazione stagionale, settembrina, legata alla vendemmia e
alla fertilità delle campagne. Nel tempo, poi, si era trasformata in memoria dell’esperienza storica dell’esodo,
celebrazione gioiosa del pellegrinaggio. Durante la festa, che durava sette giorni, si celebrava una solenne
processione. Il sacerdote insieme con il popolo scendeva alla piscina di Siloe e con una bottiglia d’oro raccoglieva l’emblematica acqua di Siloe, “l’acqua che scorre leggera” (Isaia), in contrapposizione ai fiumi insidiosi dell’Oriente. Nello stesso giorno quest’acqua veniva versata sull’altare del tempio tra canti e preghiere,
certi che, scendendo lentamente dall’altare, raggiungesse le profondità della terra per fecondarla.
Accanto al simbolo dell’acqua si levava radioso il simbolo della luce. A sera, per tutti i giorni della
festa, si accendevano infatti degli enormi bracieri sulle mura del tempio, tanto che la notte sembrava chiara
come il giorno. Tutti cantavano e danzavano con le torce accese, accompagnati dal suono del flauto.
Acqua e luce annunciavano così per sette giorni il senso stesso della vita: siamo pellegrini che camminano
speditamente verso una meta gloriosa.
Alla luce di questa celebrazione liturgica che fa da cornice alla guarigione del cieco, comprendiamo meglio il senso profondo dell’evento che l’icona annuncia. Soprattutto capiamo perché l’iconografo abbia voluto incastonare la scena in uno scorcio montagnoso e collinare ridente, dal suggestivo effetto cromatico: il rimando è alla terra benedetta da Dio e al pellegrinaggio dell’uomo che pregusta nel tempo la giornata eterna.
Questo spazio agreste appare saturo di luce e di colore, quasi sovrabbondante: tra i vari colori, campeggia il
verde, sfumato nei suoi toni più vividi. Una scelta emblematica, se pensiamo che il verde nell’icona è simbolo della vita creata, della terra e dello Spirito Santo che dona la vita. Siamo dunque al culmine della celebrazione della vita stessa, e Colui che si erge per sanare e salvare ne è l’Autore: difficile per noi rimanere in disparte, estranei ed assenti dinanzi al Divino Taumaturgo che si rivela come Luce del mondo:
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“Io sono la luce del mondo. Chi segue me, non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”
(Gv 8,12).
Io sono la torcia e il braciere che squarcia le tenebre delle vostre notti di peccato, paura, sfiducia e
pianto.
Io sono l’acqua che scende lentamente dall’altare della croce per trasformare le vostre sterilità nascoste e manifeste in vita nuova. Finalmente vi è dato di far rotolare definitivamente le pietre sepolcrali
delle vostre morti quotidiane e vivere in pienezza il dono della vita.
“IO SONO”, evocazione forte, che rimanda all’ “IO SONO” scandito nell’Esodo:
 IO SONO il vostro cammino nella vita.
 IO SONO la vostra colonna di fuoco nella ricerca della verità.
 IO SONO la vostra luce nella tenda del tempo.
Tutto ciò avviene “passando”, dice Giovanni: “Passando, Gesù vide…” (v.1). Il passare di Dio è sempre tempo di grazia e di misericordia. Un tempo che risana, interpella, mette in discussione il nostro modo di
vivere ed esige risposte concrete.
E noi, come stiamo vivendo il passaggio di Dio in quest’anno giubilare?
Lo abbiamo ridotto, come diceva Giovanni Paolo II, “a definizione cronologica di una certa ricorrenza”2
oppure abbiamo veramente compreso che “Giubileo è…la caratteristica dell'attività di Gesù”? Abbiamo capito che, mentre percepiamo di essere stati sanati, dobbiamo già metterci in cammino per passare e risanare le
piaghe dei cuori spezzati? Giubileo è un perenne ricevere e dare, fino a consumarsi senza mai spegnersi.
“Gesù vide…” (v.1) – Il centro fisico dell’icona è lo sguardo di Gesù. Gesù ascolta, accoglie e ama con i
suoi occhi: “E’ lo sguardo a salvare” – affermava la filosofa ebrea Simone Weil.
E lo sguardo s’accompagna al gesto taumaturgico della mistura di fango e saliva spalmata sugli occhi del
cieco che nell’icona è tradotto con il tocco benedicente e sanante della destra salvifica di Dio. Una mistura di
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(Giovanni Paolo II, Tertio Millennio Adveniente, 11).
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terra e cielo. Fango, cioè terra, carne; saliva (a quel tempo si riteneva che la saliva trasmettesse la forza e
l’energia vitale della persona), ossia lo Spirito di Gesù.
Il Signore Gesù metta le mani sui nostri occhi affinché anche noi cominciamo a scorgere non tutte le
cose che si vedono, ma quelle che non si vedono; ci apra quegli occhi che scorgono non il presente
ma il futuro; tolga il velo dello sguardo del nostro cuore affinché esso veda Dio in spirito, per mezzo
del Signore stesso Gesù Cristo, al quale è la gloria e la potenza per i secoli dei secoli . ( Origene )
Il cieco nato è dinanzi al Cristo. Il suo corpo è proteso verso il Signore, come abbandonato, affidato,
consegnato alla potenza di Dio. Anche il corpo di Gesù è proteso verso di lui. Entrambi convergono verso un
centro ideale che chiamiamo alleanza, redenzione, vita nuova. Non a caso, già l’esegesi patristica vedeva nel
cieco il battezzato che emerge dalla sua notte di tenebre e si affaccia alla luce, nella quale splende il volto del
Kyrios.
Nell’icona tuttavia i suoi occhi sono ancora chiusi, segno doloroso del suo handicap: non ha mai visto la luce, non sa cosa sia la luce. Il suo male appare radicale e irreversibile. E per di più, agli occhi della gente, è un
uomo maledetto, un castigato da Dio. Non dimentichiamo che “alcuni rabbini infatti sostenevano che il bambino era nato cieco perché la madre, mentre lo aveva in gestazione, aveva peccato e il bambino era rimasto
inquinato. Oppure, con una fantasia abbastanza vivace, si immaginava che il feto, ancora nel grembo materno, già potesse peccare. Per cui, nascendo, era già siglato dal giudizio di Dio” (Ravasi).
A sostenere il cieco, nonostante l’incontro con il Kyrios, c’è ancora l’esile bastone del viandante,
quasi a voler sottolineare che l’aprirsi alla fede non è un fatto automatico, immediato. Al contrario, nasce,
cresce, matura e si sviluppa nel tempo, passo dopo passo: prima il gesto sanante del Signore, poi il ritorno
fiducioso e obbediente alla piscina di Siloe, ed infine la testimonianza verbale presso i farisei. Una testimonianza fatta di franchezza e di fedeltà a Colui che lo aveva guarito nel corpo e nello spirito.
Se nell’Icona il cieco è colto ancora nella sua disabilità - non vede! - , una disabilità che lo ritrae semivestito ed ancora incerto e bisognoso di sostegno, è pur vero che il volto lascia intuire un intimo appagamento che scaturisce dal sentire il tocco della mano di Gesù. Un gesto di ri-creazione, di estrema semplicità,
di autentica prossimità, ma anche un gesto provocatorio.
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Gesù fa un gesto semplice che esprime il pieno coinvolgimento di Dio tra le pieghe dei nostri dolori.
Primo fra tutti il desiderio di essere amati così come siamo e difesi nelle nostre fragilità. Un desiderio
negato a quest’uomo persino dai genitori, evasivi nelle risposte circa la guarigione del figlio, segno della
loro resa ad un’istituzione religiosa incrostata di apparenze ed inficiata dall’arroganza e dalla presunzione.
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Gesù fa un gesto di prossimità che esprime comunicazione, vicinanza, reciprocità, relazione. In questo
tocco di compassione amorevole non c’è timore di essere etichettato, emarginato, disprezzato
dall’ambiente ebraico: i genitori, senza tergiversare, per paura forse, hanno fatto un passo indietro; Lui,
prevenendo il bisogno dell’altro, per amore, ha subito fatto un passo avanti. La carità – scriverà più tardi
l’Apostolo Paolo - “non cerca il suo interesse, …tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1
Cor 13, 5-6).
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Gesù fa un gesto provocatorio che esprime libertà e grida una denuncia. Se per gli ebrei osservanti fare
del fango era un’azione proibita in giorno di sabato, per Lui ogni giorno è buono per amare e salvare, oltre ogni formalismo paralizzante, al di là di qualsiasi legge che ingessa e trattiene la carità. Anzi, il Sabato, la festa è tanto più festa se si fa festa per l’uomo guarito, per il peccatore perdonato, per il perduto ritrovato, per lo scartato riaccolto. La festa di Dio è il nostro ritorno nella sua casa, dove possiamo respirare la paternità di Dio e sentirci figli amati: “Facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc).
Nel gesto di Gesù un impegno per noi, dunque, consapevoli che:
“toccare l’altro è un movimento di compassione;
toccare l’altro è desiderare con lui;
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toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la propria mano;
toccare l’altro è dirgli: “Io sono qui per te”;
toccare l’altro è dirgli: “Ti voglio bene”;
toccare l’altro è comunicargli ciò che io sono e accettare ciò che lui è;
toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione” (Enzo Bianchi).
Accanto a Gesù e al cieco, due grappoli di persone. Posizione, postura e gesti li identificano.
Con Gesù, i discepoli. Sono coloro che s’affrettano a chiedere: "Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi
genitori, perché sia nato cieco?" (v.2). Sono uomini imbrigliati ancora al Dio del passato, tra peccato e maledizione, sotto il giogo di una mentalità distorta, nonostante la loro familiarità con il Maestro e l’ascolto ripetuto di parole “nuove”. L’icona, tuttavia, li ritrae già nel superamento di questa cecità spirituale: guardano
stupiti l’evento ed uno dei tre solleva il palmo della mano accennando l’Amen dell’assenso. Il discepolato
autentico – ecco l’annuncio dell’icona – è capacità di accogliere l’irruzione dello Spirito nella storia, con le
sue novità, accettando di rimanere spiazzati senza fuggire né aggrapparsi alla zavorra delle consuetudini: è
sempre stato così, si è sempre fatto così…perché cambiare? L’inedito di Dio smantella le rigidità degli uomini ed impone un’agilità costante, sostenuta dalla fede.
Scrive sant’Agostino: «Ora, o fratelli, i nostri occhi sono curati con il collirio della fede. Anche noi siamo nati
ciechi da Adamo e abbiamo bisogno di essere illuminati da lui. L’uomo, cieco dalla nascita, è dunque simbolo
di tutta l’umanità che ha bisogno di incontrare Gesù, che ha proclamato la propria identità come luce».
Accanto al cieco, i giudici, gli accusatori, i farisei di turno che gridano allo scandalo con quella “rigidità clericale” – direbbe Papa Francesco – “che toglie la speranza”, schiavizza e costringe gli altri alla
schiavitù. Soprattutto esclude e riduce la misericordia di Dio, incasellandola in schemi ristretti ed angusti dove si respira l’aria inquinata del giudizio e del pregiudizio. Nell’icona, la durezza di costoro è definita, da un
lato, dalla rigidità fisica che li connota – sono come impietriti! – e dall’altro, dal movimento concitato di colui che sta alle spalle del cieco: le sue mani esprimono contestazione, sconcerto: “Noi sappiamo che quest'uomo è un peccatore” (v.24); “Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio” (v.29); “Noi sappiamo che Dio
non ascolta i peccatori” (v. 31).
Noi sappiamo! Ma sapere non equivale a vedere. Possiamo essere bravi teologi, conoscitori del diritto, esperti di regole, ma il vedere è un’altra cosa.
Se pensiamo di sapere già tutto, di avere fatto già la scelta giusta, di non aver più nulla da cambiare, siamo
diventati impermeabili alla parola di Dio, alle sollecitazioni dello Spirito, “a quei doni che ci vengono dalle
situazioni in cui viviamo, dalle persone che incontriamo, e persino dagli insegnamenti della Chiesa: troviamo
sempre scuse per rifiutare quanto ci viene proposto, cerchiamo di scaricare su altri le nostre stesse colpe, e
così non cambia più nulla nella vita. La conversione di cui abbiamo bisogno è sentirci in stato di ricerca, desiderosi di un più e di un meglio, senza accontentarci di quello che già sappiamo: voler conoscere meglio la
parola di Dio per metterci in questione e adeguare il vivere al credere” (Giorgio Basadonna).
Tu sei la luce sfavillante
Come il cieco nato,
privo degli occhi dell’anima,
vengo a te, o Cristo.
O Salvatore, riversa su di me
il torrente della saggezza ineffabile
e della sublime conoscenza;
o luce di coloro che sono nella notte,
guida di chi è sbandato, perché io, misero,
abbia la forza di raccontare
le tue meraviglie,
come ci ha insegnato il libro divino,
il Vangelo della pace,
proponendoci il miracolo del cieco.
E cioè, come colui che era infermo
dalla nascita
ricevette occhi di carne,
e insieme anche gli occhi dell’anima,
per gridare con fede:
«Tu sei la luce sfavillante
per quelli che sono nelle tenebre».
(Romano il Melode, Inno del cieco nato)
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