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Alte Terre: riflessioni sui lupi nelle Alpi
Premessa
LʼAssociazione Alte Terre ha come scopo statutario fondante quello di promuovere la vita
dellʼuomo sul Monte in tutti i suoi aspetti economici, sociali e culturali. Nasce nellʼestate 2012,
dopo un lungo periodo di incontri e confronti tra pastori e montanari delle Alpi cuneesi, preoccupati
dalla presenza ormai stabile del lupo nei propri pascoli, allʼinterno delle superfici aziendali o nei
pressi dei paesi ancora abitati, soprattutto nel periodo invernale. LʼAssociazione è ben
consapevole che il lupo non è lʼunico, né il più grave problema che affligge la pastorizia, tantʼè che
si propone ambiziosamente, con uno sguardo a 360 gradi, di denunciare e rimuovere le difficoltà e
gli impedimenti che le aziende agricole e le famiglie devono affrontare per continuare a vivere sul
Monte; ciononostante, ritiene che lʼattuale politica di difesa incondizionata del lupo, promossa (e
forse anche subita) dalla Regione Piemonte, abbia superato il limite sopportabile per chi vive in
montagna, minando alla base la condizione minima di sopravvivenza per le realtà zootecniche:
lʼincolumità dei propri animali.
Alte Terre si è assunta il compito di far sentire in tutte le circostanze che lo richiedano lʼaltra
voce, la voce di chi vive e lavora sul Monte, una voce mai gridata e forse perciò mai ascoltata, e
che pur meriterebbe tenere in considerazione quando si prendono decisioni le cui conseguenze
ricadono direttamente sulla vita quotidiana della comunità locale. Soprattutto oggi, alla vigilia della
definitiva soppressione, con pretestuose esigenze di bilancio, delle Comunità Montane (in realtà
già da anni impossibilitate a operare per mancanza di fondi), occorre costruire un dialogo tra le
Alte Terre e la Pianura, con lʼobiettivo di istituire nuove forme di collaborazione e di gestione della
montagna, che non escludano dai processi decisionali le comunità locali, ma al contrario
promuovano il sorgere di un rinnovato quadro legislativo favorevole alla permanenza ed al rifiorire
della vita umana sul Monte.
La gestione del problema lupo è a questo riguardo paradigmatica ed è vissuta dalla gente
di montagna, non solo dalle famiglie direttamente collegate alla pastorizia, come una imposizione
inaccettabile da parte di persone e movimenti che non vivendo in montagna vogliono imporre a chi
invece ci vive unʼideologia ambientalista tipicamente urbana completamente inadeguata a
comprendere e affrontare la realtà del Monte di tutti i giorni. Visto da quassù, il cosiddetto
ambientalismo conservazionista appare come una nuova e più subdola forma di colonialismo che,
strumentalizzando concetti come natura, ambiente, biodiversità, non tiene in alcun conto
esigenze, diritti, opinioni e sentimenti della comunità locale, la quale nella “natura” ci vive
quotidianamente e lungo i secoli ha creato quel paesaggio così caratteristico (e apprezzato
proprio dal turista della città), fatto di prati, boschi e pascoli, di architettura in pietra e legno, che
pur se oggi è parzialmente abbandonato, ci pare certo preferibile da un punto di vista ambientale
del paesaggio che troviamo appena scendiamo in pianura!
LʼAssociazione Alte Terre intende quindi far conoscere lʼaltra voce sulla questione della
presenza dei lupi nelle Alpi occidentali sia, per come potremo, al grande pubblico che per lo più
neppure immagina lʼesistenza del problema, sia presso le istituzioni provinciali e regionali
competenti. Certo arriviamo tardi, a giochi ormai fatti, e con rammarico notiamo che se la
comunità locale, tramite i suoi legittimi rappresentanti eletti democraticamente, fosse stata a
tempo debito consultata o per lo meno informata dell’arrivo del predatore, si sarebbe certo evitato
la situazione di crisi attuale. Ma è appunto ciò che chi conosceva e gestiva il problema non ha
voluto fare, con il celato ma ora chiaro proposito di creare una situazione irreversibile a tutto
vantaggio dei Grandi carnivori e “chissenefrega” dei pochi montanari rimasti!
Analisi della situazione
Sul ritorno spontaneo
La vulgata ambientalista racconta che il lupo appenninico, scomparso definitivamente al di
fuori degli Abruzzi (dove rimasero poche decine di individui) a partire dagli anni Settanta del
secolo scorso, sia riuscito grazie a un concorso favorevole di cause (abbandono della montagna,
abbondanza di fauna selvatica reintrodotta a scopo venatorio e nuovo quadro legislativo
protezionistico) a ripopolare progressivamente e naturalmente gli spazi dai quali era stato
scacciato con “crudeli persecuzioni”. In pratica, in tre decenni, la popolazione di lupi è passata da
un centinaio scarso a rischio di estinzione, limitata allʼareale del Parco nazionale degli Abruzzi, ad
un numero imprecisato, oggetto di avvelenate polemiche, comunque superiore al migliaio, e,
diffusa in numerose aree appenniniche, sarebbe riuscita a risalire la penisola arrivando, malgrado
il non facile attraversamento dellʼautostrada Genova-Alessandria, sino alle Alpi occidentali,
versante anche francese.
La presenza del lupo sulle Alpi Marittime, pur ancora sporadica e numericamente limitata,
risale alla metà degli anni Novanta. Del tutto sconosciuta da autorità ufficiali preposte al controllo
della sicurezza pubblica umana e animale (Carabinieri e Asl), tale iniziale presenza era invece
negata o poi minimizzata da chi aveva gli elementi per conoscere (i Parchi e la Guardia
Forestale). In quegli anni si assistette a un proliferare di attacchi al bestiame da parte di “cani
randagi” comparsi improvvisamente. Chi subiva lʼattacco si rendeva conto che cʼera qualcosa che
non rientrava nellʼesperienza conosciuta, ma se provava a parlare di lupi non era creduto neppure
dagli altri pastori (dʼaltra parte, le ultime testimonianze di lupi sono degli inizi del ʻ900 e non vi era
più nessuno che ne avesse memoria o esperienza diretta!). Sono occorsi molti anni (con
lʼaumento del numero degli attacchi e delle zone colpite) perché si ammettesse “che sì in effetti
qualche lupo è tornato, ma che ovviamente andava rigorosamente protetto (ce lo impongono
accordi internazionali), e che non ci sarebbero stati problemi, bastava custodire bene il bestiame”.
A guardare oggi dopo quasi un ventennio stupisce un dato sul quale la vulgata
ambientalista sorvola. A partire dalla fine degli anni Ottanta presenze di lupi (con predazioni anche
sui domestici) sono attestate nellʼAppennino tosco-emiliano, con sconfinamenti nella Liguria di
levante sino allʼAppennino tortonese; nessuna presenza invece nel ponente ligure. Le Alpi
Marittime, sorprendentemente, sono anchʼesse interessate a questo fenomeno di “ritorno”,
soprattutto in Valle Pesio e tra Val Gesso, alta Val Stura e Mercantour: questo vasto areale,
inserito in gran parte nel territorio del Parco delle Alpi Marittime e del Parco del Mercantour, negli
anni a venire sembra costituire più un centro di diffusione che un punto di arrivo o di passaggio.
Analogamente, negli stessi anni (primi anni Novanta) anche nel Gran Bosco di Salbertrand si
segnala la presenza di lupi (alcuni trovati morti sullʼautostrada del Frejus), quasi provvidenziale
per ridurre i danni da cervi alle conifere del Parco!
In effetti, se risulta plausibile che popolazioni di lupi sopravvissute negli Abruzzi abbiano
colonizzato nuovi territori appenninici approfittando del progressivo abbandono della montagna,
appare invece inverosimile che in soli trentʼanni, senza aiuti estranei alle dinamiche naturali, siano
riuscite a occupare improvvisamente vaste aree delle Alpi occidentali, espandendosi al di là delle
Alpi per gran parte della Provenza (significativi i danni ai pastori della Drome negli ultimi anni) e
ora vi siano già segnalazioni sulle montagne lombarde, trentine e venete, di norma allʼinterno di
aree protette (Parchi, SIC, ZPS), quasi conoscessero la via per ricongiungersi con le popolazioni
slovene...
Sul Progetto Lupo della Regione Piemonte
A metà degli anni Novanta la Regione Piemonte comincia sorprendentemente a finanziare
studi e iniziative sul lupo nellʼambito dellʼINTERREG II Italia-Francia (1994-1999) e con la legge
regionale del 9 aprile 1995 n. 47 dove si finanzia lʼallestimento del centro visite sul lupo di
Entracque. Negli anni precedenti vi erano state solo alcune segnalazioni e pochi attacchi ai
domestici sempre attribuiti a cani rinselvatichiti, ma la Regione quasi provvidenzialmente inizia già
a occuparsene. Attori protagonisti di questa nuova politica pro-lupi della Regione saranno il
Settore Pianificazione e Gestione Aree Naturali Protette e il Parco Regionale delle Alpi Marittime
(braccio operativo). Terminato lʼINTERREG, nel 1999 la Regione dà vita al Progetto Lupo,
finanziato per più di un decennio sino al 2010.
Scopo dichiarato del Progetto è la gestione del problema lupo sulle Alpi occidentali in
chiave protezionistica: conoscere, monitorare, favorire il suo rinsediamento, mitigare i conflitti,
convincendo la popolazione del valore ecologico della sua presenza. Tutti i Parchi sono coinvolti,
così come il Corpo Forestale e i Servizi Tutela Flora e Fauna delle Province. Nessun
coinvolgimento invece dei Comuni montani e delle Comunità Montane potenzialmente interessate,
tanto meno degli allevatori che non saranno informati sino a quando ormai sarà evidente la reale
portata del problema. Per la parte scientifica del programma viene coinvolto addirittura un
Laboratorio del Montana (USA), responsabile delle analisi genetiche degli escrementi dei lupi.
In effetti, nei primi anni i responsabili del Progetto adottarono una strategia alquanto
discutibile per unʼiniziativa pubblica: tenere allʼoscuro la popolazione e le autorità locali di quanto
stavano facendo sulle montagne del cuneese per facilitare la colonizzazione da parte dei lupi di
vaste porzioni di territorio alpino. Si trattava di non diffondere i dati in loro possesso, minimizzare il
problema in caso di segnalazioni fortuite, e per molti anni negare la responsabilità dei lupi per le
uccisioni del bestiame che venivano sempre attribuite a cani vaganti (anche i veterinari dellʼAsl
non erano informati e a quel tempo non poteva neppur venir in mente che vi fossero dei lupi!).
Solo dopo anni, con il crescere delle proteste dei pastori, scioccati di cosa stava accadendo nei
propri pascoli nellʼindifferenza generale e di fronte allʼincapacità di trovare risposte e soluzioni al
dramma che si andava compiendo, si cominciò a riconoscere che il lupo era “tornato”
naturalmente, che vi erano alcuni, pochi, branchi in quasi tutte le valli cuneesi, che il problema
andava gestito e che era possibile conviverci.
Certamente conviverci in qualche ufficio torinese, con i poster dei lupacchiotti sui muri, belle
foto, e qualche domenica invernale di snow-tracking, sembra anche a noi possibile. Diverso vivere
in montagna in piccoli paesi, dʼinverno, con un branco in zona che periodicamente si avvicina, o,
ancor più, vivere in montagna allevando bestie che devono pascolare...
Sui Parchi e le Aree protette
Ormai data da più di un secolo lʼistituzione dei Parchi Naturali sul territorio nazionale. Qui
da noi sulle Alpi sono di solito gli eredi delle Riserve di Caccia Reale, a disposizione delle passioni
venatorie della corte sabauda, abolite con la fine della monarchia. Prima erano proprietà personali
del Re dove i guardiacaccia proteggevano la selvaggina, ora sono porzioni di territorio in cui i
guardiaparco proteggono la Natura. In entrambi i casi spazi sottratti al controllo della comunità
locale... Visti da quassù i Parchi moderni (istituiti dalle Regioni) appaiono come nuove forme
coloniali della società urbana che impongono concezioni ambientali irreali completamente
estranee al sentire e alle tradizioni delle Alte Terre. Se negli anni Sessanta-Settanta si
realizzavano parchi di divertimento ad uso cittadino (i comprensori sciistici per lo meno creavano
un poʼ di economia stagionale dʼinverno, quando i lavori della campagna erano fermi!), nellʼultimo
ventennio si è preferito istituire, in ossequio alla moda dei tempi, parchi naturalistici che
proteggessero la Natura, concepita ideologicamente come qualcosa di separato dallʼuomo.
Nascono così a ogni piè sospinto le Zone Speciali di Conservazione (ZSC), le Zone a
Protezione Speciale (ZPS), i Siti di Interesse Comunitario (SIC), organizzate allʼinterno della Rete
Natura 2000, che aggiungendosi ai Parchi e alle Riserve Naturali, coprono oltre il 15% della
superficie del Piemonte, di cui la maggior parte in montagna. Non capiamo perché questa volontà
di tutela della natura non si rivolga alle aree di pianura gravemente compromesse da attività
umane speculative, sia industriali che edilizie, mentre assistiamo ancor oggi al proliferare di zone
edificabili, di nuove aree artigianali, con continua e ingiustificata cementificazione di territorio! Si
vuole invece calare dallʼalto, da qualche commissione del Palazzo, vincoli di protezione su aree
marginali, sostanzialmente in buona salute ambientale, che espropriano la comunità locale
(Amministrazioni comunali e singoli proprietari dei terreni) dellʼeffettivo potere di gestione. Senza
esserne informata, né, tanto meno, essere coinvolta nei processi decisionali, la gente di montagna
si troverà a vivere in un Parco nel quale il ruolo assegnatole è quello di spettatore o di comparsa
(del tipo “indiano con le piume”)!
Nella politica di sostegno e difesa dei lupi tali Aree Protette svolgono un ruolo strategico. Si
tratta di porzioni di territorio, comprese o meno in Parchi Naturali, sparse a macchia di leopardo,
dove grazie al divieto di caccia (Legge 394/1991) il lupo e le sue prede (ungulati) sono
particolarmente tutelati, in modo da costituire zone privilegiate di home range, per lʼaccoppiamento
e lʼallevamento della prole. Queste aree diventano “aree sorgente” per ogni particolare specie
protetta, veri centri di diffusione per il ripopolamento.
I danni alla zootecnia
I danni al patrimonio zootecnico montano che pascola in luoghi frequentati da lupi sono
evidenti e noti. I danni economici si possono riassumere innanzi tutto in capi uccisi, in capi feriti, in
capi dispersi: il numero dei casi denunciati è noto, anche se sovente singole predazioni presso
allevamenti di solito piccoli e stanziali non vengono dichiarate per varie cause (generale sfiducia e
di solito mancanza del capo predato nei giorni successivi la scomparsa, ritrovato magari tempo
dopo solo più scheletro). Si noti, fatto in genere ignorato, che la bestia subito uccisa dal lupo è il
danno “meno grave” per il pastore. Lʼanimale ferito (eufemismo per dire rovinato e destinato ad
essere abbattuto) infatti andrebbe macellato subito per recuperare il più possibile di un capo che
andrà nei giorni successivi deperendo sino a probabile e lenta morte: ma le autorità sanitarie, a
causa delle ferite da lupo, devono fare analisi antirabbia, per cui il capo è isolato, va curato (spese
veterinarie) e quando arrivano le analisi (dopo un paio di settimane) che consentirebbero la
macellazione, lʼanimale è di solito già morto e solo più un costo di smaltimento. Analogamente, i
capi dispersi se ritrovati morti senza segni di predazioni (precipitati in dirupi) o feriti con gambe
rotte difficilmente vengono risarciti.
Oltre ai danni diretti occorre prendere in considerazione i danni indiretti, che solo per chi
non è del mestiere sono meno gravi. In breve, se il danno diretto è rappresentato dalla perdita
degli animali, i danni indiretti potremmo definirli i “danni collaterali” che lʼattacco dei lupi ad un
gregge inevitabilmente porta con sé: scompiglio e stress degli animali con calo del latte in
mungitura, aborti, ritardo o assenza prolungata dei calori, aggravio di fatica per il pastore e
perenne stato di ansia. Magari si potesse sacrificare una bestia allʼanno, a scelta dellʼallevatore tra
quelle anziane, meno produttive o meno forti, o di scarsa genetica, sullʼaltare del progetto Lupo,
evitando così lʼattacco a sorpresa con i suoi danni collaterali!
A questi danni indiretti immediati si aggiungono altre conseguenze negative di tipo
gestionale e organizzativo che complicano nel lungo periodo condizioni di lavoro già di per sé
fragili. Dopo un primo attacco (o anche solo con la minaccia di subirne uno), niente è più come
prima: le bestie vanno costantemente custodite, i ricoveri notturni non sono mai sicuri senza la
presenza del pastore, alcuni pascoli non sono recintabili e vanno abbandonati, occorre percorrere
lunghe distanze tra i ricoveri e le aree di pascolo, i cani da difesa minacciano i turisti e in
particolare i loro cani...
Infine non va sottaciuto il dramma psicologico, emozionale, che mina lʼidentità stessa del
pastore e il senso del suo lavoro. Se unʼaggressione da parte di un predatore al proprio bestiame
potrebbe essere considerata un fatto in qualche modo “naturale” (anche se per lungo tempo sulle
Alpi non è stato più così e nessun pastore era preparato a simili evenienze), quello che non è
affatto naturale e che risulta davvero incomprensibile è il nuovo quadro giuridico, voluto da una
minoranza urbana ideologizzata, molto attiva a livello europeo, che vieta il diritto allʼautodifesa
contro una minaccia mortale nei confronti dei propri animali. Se i lupi hanno per natura la capacità
di attaccare e uccidere altri animali, anche il pastore ha un diritto naturale (precedente ogni norma
giuridica e come tale inalienabile) alla difesa attiva del proprio gregge dalle predazioni, che nel
caso dei lupi può significare lʼutilizzo mirato di armi da fuoco. Il fatto che questa semplice e
concreta verità, evidente a chiunque sia dotato di buon senso, sia negata dalla legislazione attuale
non può essere accettato da chi vive in frontiera direttamente sulla sua pelle il dramma delle
proprie bestie uccise e ingenera un senso di sconforto e rabbia che deve trovare sfogo. “Qua ci
vogliono far chiudere” si ripete, “a rischio di estinzione sono i pastori e gli animali al pascolo...”!
La sicurezza per la comunità locale oggi e in prospettiva
Vi sono aspetti della vita sul Monte che non sono noti a livello collettivo, né tanto meno
presso le istituzioni. Parte della popolazione non risiede in centri abitati da alcune centinaia di
persone, ma vive dispersa in borgate dove per lo più non si arriva alla decina di abitanti, magari
una sola famiglia, o qualche anziano, distante spesso chilometri da un altro focolare acceso. Eʼ la
situazione tipica delle Alpi piemontesi dopo il grande esodo del secolo scorso: qui, soprattutto
dʼinverno, la dimensione di solitudine, a volte cercata e amata, altre volte maledetta, è parte
integrante e ineliminabile della propria vita quotidiana. Eʼ una vita ancora sovente ritmata da una
attività agricola tra campi, boschi e pascoli. Lʼarrivo del lupo in questi contesti, già fragili dal punto
di vista sociale e economico, è devastante, viene vissuto come il colpo definitivo per la
sopravvivenza della vita umana sul Monte. Ormai da alcuni anni, a cominciare dal mese di ottobre,
con lʼarrivo delle prime nebbie, del freddo e della neve sino almeno a marzo, può capitare per chi
rimane a vivere in borgate o piccoli paesi, imbattersi a volte anche in pieno giorno, nella presenza
inquietante di uno o più lupi sotto casa, presso la stalla (magari con anche solo qualche coniglio o
gallina), tra la casa e la macchina. Si ha paura, si cambiano comportamenti, si perdono libertà
primarie, non si vedono soluzioni legali, anche il proprio sindaco si dichiara impotente...
“Niente paura” ci rassicurano i lupologi “dallʼinizio del Novecento ad oggi non si sono più
registrati casi di aggressione di lupo allʼuomo... lʼaggressione ad un essere umano è unʼipotesi
molto remota: secoli di persecuzione hanno infatti portato la specie a temere lʼuomo e a sfuggirlo
in ogni modo” (in Sulle tracce del lupo in liguria, Regione Liguria 2009). Tali ripetute rassicurazioni
appaiono ridicole. Che nellʼultimo secolo non ci siano stati attacchi sembrerebbe ovvio, visto che i
lupi erano pressoché estinti! Gli ultimi casi di cui abbiamo testimonianza sulle Alpi sono tra fine
Ottocento e primi anni del Novecento. In Valle Maira (Cn) ad esempio abbiamo ancora raccolto
una testimonianza orale che ricorda di un bambino delle elementari al pascolo ucciso da un lupo
ad Albaretto Macra (zona di Curbia) verso il 1908. Basta poi guardare altrove (Turchia, India, ma
anche in Spagna, dove si è cercato di attribuire la responsabilità a un generico canide) per trovare
testimonianze recenti e comprendere che lʼantropofagia non è fantasia letteraria, ma una realtà
concreta, attestata dovunque nella storia, che solo la follia ideologica vuole ignorare ad ogni costo.
Secondo i dati disponibili, le vittime erano principalmente bambini pastori di età non superiore ai
12 anni, che risultavano preda più facile delle bestie che custodivano. Eʼ ben vero che i lupi un
tempo tendenzialmente evitavano gli esseri umani per timore atavico, ma negli archivi storici si
trovano testimonianze (anche in Piemonte o in Liguria) che attestano casi di attacchi ripetuti
contro persone da parte di uno stesso branco ormai avvezzo allʼantropofagia, con conseguente
mobilitazione dellʼintero villaggio minacciato sino allʼeliminazione dei lupi coinvolti.
In effetti, le rassicurazioni sopra ricordate, oltre che ridicole, si confutano da sole: se “secoli
di persecuzione hanno portato la specie a temere lʼuomo e a sfuggirlo in ogni modo”, oggi che non
è più perseguibile si arriverà in fretta a una popolazione di lupi priva di timore nei confronti
dellʼuomo... e allora lʼaggressione ad un essere umano non sarà più “unʼipotesi molto remota”!
I costi sociali ed economici
Dopo quasi due decenni di disinvolti finanziamenti pubblici verso iniziative a difesa dei lupi,
occorrerebbe ora tentare un bilancio dei costi e dei benefici di tale politica regionale. Infatti, un
conto è limitarsi a recepire direttive protezionistiche stabilite a livello europeo, un altro conto è
impegnarsi finanziariamente in iniziative rivolte a sostenere attivamente il ripopolamento dei lupi
sulle Alpi, come ha fatto la Regione Piemonte a partire dal 1994-5, diventando addirittura capofila
in Europa della politica di salvaguardia del lupo. I molti soldi spesi sono del contribuente e
andrebbero giustificati con lʼevidenza dei benefici ottenuti per la comunità. La lista delle spese
sostenute è lunga e lʼammontare delle cifre andrebbe reso pubblico con un bel gesto di
trasparenza amministrativa: dallʼINTERREG II al Progetto Lupo, dal Centro visite di Entracque al
Centro Gestione e Conservazione Grandi Carnivori nel Parco Alpi Marittime, dal lavoro svolto per
il monitoraggio del lupo da Guardie Forestali e da veterinari formati ad hoc e pagati a progetto per
numerosi anni, dal Premio di pascolo gestito al risarcimento danni pagati agli allevatori. Ne è valsa
la pena? Sono stati soldi ben spesi? Quali i benefici ottenuti?
Certamente per gli operatori del cosiddetto “Network Lupo Piemonte” è stata una vera
manna. Ma di fronte allʼintera comunità come giustificare lʼoperazione? Basta parlare di
biodiversità o appellarsi ad esigenze scientifiche? E come spiegare tali giustificazioni alle persone
colpite direttamente nelle loro condizioni di vita e di lavoro, oltre che nel loro patrimonio, da tali
politiche? Qui, sul Monte, è impossibile comprendere il senso di una tale politica, ma crediamo
che anche a valle la maggioranza della popolazione, se informata correttamente sui costi sociali e
economici della tutela attiva dei lupi, potrebbe dubitare della sua opportunità.
Che fare ?
Lʼimpossibile convivenza
In questi ultimi anni chi fa pascolare bestie in montagna deve tener in conto la possibilità di
subire attacchi da parte dei lupi. Il solo fatto che esista una tale eventualità pone rilevanti problemi
gestionali allʼallevatore, da oltre un secolo non più abituato a confrontarsi con la predazione.
Quando poi dal rischio teorico si passa ad un attacco concreto i problemi diventano anche
economici e psicologici, si perde il senso di quello che si sta facendo. Dʼaltra parte, quale
imprenditore potrebbe capire e accettare che il suo negozio, la sua attività, possano venir
improvvisamente attaccati da un branco di predatori che gli rapisce beni di sua proprietà,
essenziali al suo lavoro e alla sua vita, senza che sia possibile difendersi o chiamare una qualche
polizia in soccorso?
A questo proposito il mantra della propaganda ambientalista, che la Regione
Piemonte
sembra aver incautamente accolto promuovendo il Progetto Lupo, recita che la convivenza tra
lupo e pastorizia è possibile, solo che lo si voglia, custodendo “per benino” il proprio gregge e
adottando come misure di difesa le recinzioni e i cani da guardiania. Qui si manifesta tutta
lʼarroganza e lʼignoranza di chi vuole insegnare il mestiere a coloro che lo praticano da una vita,
senza avere la minima idea di cosa tali misure indicate significhino nella realtà quotidiana!
Circa le recinzioni basta andare a vedere come è stato recintato il Centro Lupi ad
Entracque in località Casermette, dove si alleva qualche lupo, per rendersi conto come debba
esser fatta una recinzione fissa antilupo: assomiglia ad una base militare con un notevole impatto
ambientale! La Regione Toscana, ad esempio, ha fissato dei parametri per le modalità di
costruzione delle recinzioni metalliche, non rispettando i quali lʼallevatore che ha subito danni non
viene risarcito... a causa della propria negligenza! La recinzione deve essere costituita “da filo
metallico non inferiore a 2,6 mm di diametro e con maglie di luce non superiore a 36 cmq. La rete
deve avere altezza minima di 2 m e una parte aggettante verso lʼesterno per almeno 35 cm”.
Come se non bastasse, “la rete deve essere interrata verso il basso per almeno 15 cm e verso
lʼesterno per almeno 50 cm”. Ogni commento a noi appare superfluo... Dʼaltra parte, in Abruzzo,
dove hanno esperienza, è abbastanza usuale incontrare costruzioni in blocchetti di cemento alte
oltre 2 m senza tetto, con una sola apertura, per il ricovero notturno delle greggi: si vuole forse che
anche qui da noi ogni alpeggio si doti di strutture fortificate del genere?
Per quel che riguarda le recinzioni mobili con reti elettrificate che dovrebbero servire per far
pascolare gli animali in sicurezza di giorno, il loro utilizzo può essere solo parziale e occasionale.
In primo luogo, le reti (che devono essere alte almeno 1,50 m) non sono utilizzabili per bovini e
equini, per i quali si usa un unico filo, per ovvi motivi pratici. In effetti, le reti erano indicate solo per
gli ovicaprini perché il credo “ambientalista” recitava sino a qualche anno or sono che le vacche
non erano a rischio di attacchi (si veda a titolo dʼesempio il caso emblematico a Limone di Tiziano
Aiassa il quale nelle stagioni dʼalpeggio 2011 e 2012 ha perso in ripetuti attacchi da parte di uno
stesso branco numerosi bovini di razza piemontese, compreso il toro da riproduzione!). In
secondo luogo, le condizioni orografiche dei pascoli alpini molto spesso non permettono recinzioni
con reti (dirupi, suolo roccioso...), mentre le foto dimostrative di recinzioni ben eseguite sono
sempre su terreni erbosi pianeggianti! In terzo luogo, la recinzione con una sola rete, pur ben
elettrificata, non è sufficiente. I lupi hanno imparato a spaventare a tal punto le pecore finché
queste ammassate ad un lato, spingendosi una con lʼaltra, sfondano dallʼinterno la recinzione,
allora il gioco è fatto ed è strage (che i lupologi per turbare meno le loro anime gentili chiamano
con eufemismo anglicizzante surplus killing ). Occorrerebbe, ci dicono, fare una seconda
recinzione esterna ad almeno due metri dalla prima, in modo che i lupi non si possano avvicinare
al gregge e, in ogni caso, per allontanare i predatori va lasciato allʼinterno uno o più cani da difesa.
In Francia, alcuni sinceri ambientalisti hanno aderito ad un appello di sostegno ai pastori per
sostenere il maggior carico di lavoro che la difesa comportava, accollandosi lʼonere delle
recinzioni indipendentemente dallʼasperità del terreno e dalle condizioni meteorologiche (che sono
sempre buone solo nellʼimmaginario del naturalista cittadino), ma dopo un paio di settimane estive
hanno dovuto, sconsolati, concludere che in effetti tutto ciò è insostenibile..., lasciando di nuovo
soli i pastori ad affrontare i lupi!
Il secondo pilastro della strategia di difesa indicata dai lupologi è, come noto, utilizzare cani
da guardiania (pastori maremmani-abruzzesi o cani dei Pirenei). Certamente tali cani possono
rappresentare un valido aiuto, ma hanno una grande controindicazione. Chiaramente i costi di
gestione aumentano, dovendo tali grossi cani alimentarsi con numerosi chili di carne, ben
diversamente dai normali cani da conduzione. In teoria per una difesa efficace occorre prevederne
uno ogni cinquanta-settanta bestie (a secondo della morfologia degli alpeggi) e quindi il loro
numero può essere molto elevato. Con la presenza di tali cani vi sono poi problemi di gestione
specifici. Sovente anche per lʼallevatore non è facile introdursi tra le bestie per effettuare interventi
su singoli capi o operazioni di divisione in gruppi, separazioni di animali etc. Ma il grande
inconveniente, che spesso lo rende inutilizzabile, è lʼaggressività del cane verso qualunque
estraneo si avvicini al gregge. Certo è necessario stipulare unʼassicurazione specifica che copra
eventuali danni a persone o ad altri cani: molti pastori e margari hanno ricevuto denunce, molte
sono le lamentele pubbliche di escursionisti, soci CAI, gestori di rifugio che ritengono, dal loro
punto di vista a ragione, di non essere più liberi come prima di girare per i sentieri che
attraversano gli alpeggi. Per il pastore sono altre grane, che si aggiungono alle difficoltà di ogni
giorno. In ogni caso, per richiamare i cani deve essere costantemente presente e dunque gran
parte dei vantaggi si perdono, non ci si può fidare ad allontanarsi dagli animali neanche unʼora. Se
poi lʼescursionista arriva incautamente con un suo cane da passeggio non è detto che il richiamo
basti... Questi cani non sono macchine e malgrado lʼaddestramento non sempre in ogni
circostanza reagiscono nello stesso modo: sono loro che al momento della minaccia percepita
valutano in frazioni di secondo, a volte prima ancora che il padrone se ne renda conto, le variabili
in gioco e dunque il grado di pericolo. Infine, i cani da difesa sono davvero inutilizzabili quando
lʼazienda produca formaggio e abbia tutto lʼinteresse a facilitare lʼarrivo nei propri pascoli di clienti
e amici interessati a comprare e condividere qualche momento di ospitalità con il pastore. La
normale paura per tali cani allontanerebbe via via la gente dallʼazienda, si spezzerebbe un
rapporto di fidelizzazione costruito negli anni tra produttore e consumatore appassionato di
formaggi dʼalpeggio e, evidentemente, il danno sarebbe maggiore dellʼutilità.
Abbattimenti mirati: dove e quando
A volte sentiamo proporre come possibile soluzione quella di ottenere una deroga dalle
normative di protezione assoluta per qualche abbattimento mirato, pratica già adottata oltralpe
(Francia e Svizzera). La stessa Regione Piemonte negli anni passati ha richiesto formalmente al
Ministero dellʼAmbiente la possibilità di effettuare degli abbattimenti selettivi per venire incontro
alle preoccupazioni di pastori e margari, non ottenendo una risposta positiva. A noi sembra che
simili misure, pur auspicabili, avrebbero più che altro un valore psicologico: superare il tabù
dellʼuccisione del lupo, il quale non è più un animale in carne ed ossa, un carnivoro predatore
inevitabilmente pericoloso per gli armenti, come qualsiasi civiltà contadina ha sempre saputo, ma
è diventato nella attuale civiltà urbanizzata, grazie alla propaganda ambientalista, un simbolo della
vita selvaggia, libera, incontaminata, della rivincita della natura e perciò quasi sacro, intoccabile.
In effetti, perché una tale misura sia realmente efficace occorrerebbe che non fosse
praticata una tantum col generico proposito di contenere il numero dei lupi in un determinato
territorio (del resto, per varie ragioni, non facilmente stimabile) e placare così le proteste dei
pastori. Piuttosto sarebbe preferibile, una volta ottenuto il permesso agli abbattimenti, istituire
squadre provinciali (guardie forestali e cacciatori) che possano intervenire prontamente laddove si
verifichino predazioni sul bestiame domestico. Deve passare il principio che in nessun caso è
concesso ai lupi attaccare gli allevamenti. Il lupo (così come il cane che conosciamo direttamente)
è animale altamente culturale, sa far frutto dellʼesperienza e impara dal gruppo: non deve poter
apprendere che i domestici sono prede possibili e addirittura a volte più facili e più disponibili di
quelle selvatiche. I lupi cosiddetti “problematici” vanno eliminati, tanti o pochi che siano!
La dissuasione armata
Se si vogliono risolvere problemi concreti, occorre guardare in faccia la realtà, non
nascondendosi dietro false rappresentazioni ideali. Il lupo è un carnivoro predatore, che
evidentemente ha un diritto naturale ad uccidere altri animali per nutrirsi. Sceglierà in base alla
sua convenienza, alla disponibilità della preda, alle possibilità di successo, allʼesperienza già
acquisita dal branco, indipendentemente dal fatto che siano animali selvatici o domestici. Anzi,
sovente, malgrado alcuni accorgimenti già adottati dai pastori, lʼattacco ai domestici risulta più
facile e premiante e, una volta appreso, sarà ripetuto.
Eʼ chiaro che difendere la pastorizia dalle predazioni significa difendere il lavoro del pastore
ma in primo luogo significa proteggere lʼincolumità fisica degli animali allevati. Esiste un diritto,
anchʼesso naturale, del pastore alla difesa attiva di fronte a predatori specializzati che si muovono
in branco. Non sarebbe davvero il caso di ricordarlo se lʼattuale civiltà urbana, pur in profonda crisi
ma ancora dominante, non avesse perso il senso delle cose. Ora, da quando sono disponibili armi
da fuoco (nelle Alpi a partire dal XVII secolo), lʼuomo ha contrastato la predazione del lupo
sparando. Così, dʼaltra parte, nelle regioni dove la popolazione dei lupi non si è mai estinta (ad
esempio, in Russia o in alcuni stati americani), nessun pastore pascolerebbe senza fucile.
Lʼintento deve essere quello di non far scordare alle nuove generazioni di lupi lʼantico
fondamentale imprinting: tenersi lontano dagli esseri umani perché possono rappresentare un
pericolo per la loro sopravvivenza. Non si tratta di sterminare, ma di far comprendere al lupo
nellʼunico modo tecnicamente possibile che il bestiame domestico non è mai una preda
conveniente!
Sullʼesempio di quanto accade in altre aree geografiche dove si convive tradizionalmente
con i lupi ed anche di quanto si sta già sperimentando in alcune zone delle Alpi francesi dove il
Prefetto ha concesso di pascolare armati (con primo sparo in aria), sarà anche da noi necessario
superare il tabù e concedere ai pastori che lo reputino necessario per la vicinanza di lupi ai propri
animali di portare unʼarma durante il pascolamento. Basterà dotarsi di un regolare porto dʼarmi e
limitarsi ad agire allʼinterno dei propri terreni di pascolo.
Pericolo di estinzione?
Gli esperti lupologi ritengono che non si possano concedere deroghe alla protezione
assoluta dei lupi e quindi permessi di abbattimenti, perché i lupi italiani sono ancora a rischio di
estinzione, al di sotto del numero minimo vitale (in questi ultimi mesi in verità comincia a vedersi
qualche crepa nel fronte monolitico pro-lupo da parte di chi inizia a rendersi conto dei guasti
prodotti in alcune specifiche situazioni). Costoro son convinti che i danni che alcuni branchi di lupi
causano alla già fragile zootecnia montana, essendo “risarciti”, non possano diventare un pretesto
per invocare abbattimenti di qualsivoglia tipo. Sospinti da motivazioni ideologiche non vogliono
prendere in considerazione alcuna politica di contenimento della specie, che a parer loro
rischierebbe ancora lʼestinzione.
In effetti, lasciando da parte assolutismi ideologici, non si tratta tanto di sapere se i lupi in
Italia o sulle Alpi siano già troppi, come credono i pastori, o ancora pochi come pensano gli
ambientalisti, ma valutare ogni volta localmente la situazione concreta. Sentirsi dire che il numero
complessivo in Italia è poco superiore al migliaio, anche fosse un dato vero, non consola quando
nei tuoi pascoli cʼè la presenza di un branco di alcuni individui, che andrebbe comunque respinto e
allontanato. Ma per i lupofili la sopravvivenza di un pastore e del suo gregge vale molto meno di
quella di qualche lupo!
A ben guardare il progetto pro-lupo, così come espresso dal Piano dʼAzione Nazionale per
la conservazione del Lupo, approvato dal Ministero dellʼAmbiente che recepisce il Piano dʼAzione
Europeo e il Manifesto sul Lupo elaborato dallʼUnione Internazionale per la Conservazione della
Natura (IUCN), o anche dal progetto LIFE Grandi Carnivori, sponsorizzato a livello internazionale
dal WWF, ha obiettivi molto più ambiziosi della semplice sopravvivenza della specie, ormai
indiscussa, che non gli permettono in questa fase di ripopolamento di conciliarsi con misure reali
di protezione della pastorizia. Non si tratta infatti di salvaguardare la specie in alcune aree per
scongiurare il rischio dʼestinzione, ma di garantire il collegamento, senza soluzione di continuità,
della popolazione appenninica, attraverso tutte le Alpi, a quella slovena e est europea. E pazienza
se ad estinguersi saranno le aziende che ancora pascolano sulle Alpi!
Sulla biodiversità e la conservazione dei pascoli
Il credo ambientalista, che proclama di fondarsi su basi scientifiche, mette al primo posto tra
i supposti benefici apportati dal lupo nelle nostre montagne lʼaumentata biodiversità dei territori in
cui è presente: “un ecosistema che ospita stabilmente dei lupi si trova in buone condizioni ed è
caratterizzato da un buon grado di biodiversità” è la tesi sempre ripetuta a moʼ di slogan senza
mai preoccuparsi di dimostrarla. Dʼaltra parte come si potrebbe dimostrare se non nel senso
banale e tautologico che ogni specie vivente in più aumenta la biodiversità di un determinato
ambiente! Ma è davvero un valore in senso assoluto? Ne consegue forse che in nome della
biodiversità dobbiamo introdurre a piacere specie vegetali e animali?
Il concetto di biodiversità, introdotto nel 1992 al summit di Rio de Janeiro, manca ancora di
una definizione rigorosa generalmente accettata e sembra rientrare nel novero di quelle parole
political correct sempre pronte allʼuso per separare i buoni dai cattivi. Forse lʼunico uso sensato
del termine è quello proposto da Vandana Shiva nella sua difesa dellʼagricoltura contadina indiana
in opposizione alle monocolture agricole dellʼagribussiness industriale. Viceversa, il richiamo alla
biodiversità per sostenere la necessità ecologica del lupo sulle Alpi sembra alquanto fuorviante e
strumentale. Non solo. Insigni studiosi dei sistemi botanici dei pascoli alpini (qui da noi il prof.
Cavallero dellʼUniversità di Torino) hanno già osservato il ruolo negativo svolto dai lupi sulla
conservazione della biodiversità vegetale. Per due ordini di ragioni. Alcuni pascoli più difficilmente
difendibili dagli attacchi sono già stati abbandonati e lʼimpoverimento delle essenze vegetali è
evidente dopo pochi anni (prevalgono arbusti dʼinvasione); dʼaltro canto, il sistema di gestione del
pascolamento con lʼarrivo dei lupi è per forza di cose mutato: rendendosi necessario il ricovero
notturno degli animali in zone adeguatamente recintate, questi terreni inevitabilmente
sovrasfruttati, così come i camminamenti tra aree di pascolo e ricoveri, diventano in breve tempo
improduttivi.
Modificare le normative di protezione
In questi anni di polemiche tra ambientalisti di città e professionisti del lupo da un lato e
comunità locali e allevatori dallʼaltro, di fronte alla costante sottolineatura da parte di questi ultimi
dellʼevidente sproporzione tra i presunti benefici per lʼecosistema alpino della presenza dei lupi e i
sicuri danni per la pastorizia montana, il discorso giustificazionista terminava sempre appellandosi
alle normative protezionistiche europee: in ogni caso nulla si può fare perché ce lo impone
lʼEuropa! In effetti anche in campo ambientale è evidente la perdita di sovranità delle comunità e
delle istituzioni locali, e persino delle Regioni e degli Stati, a vantaggio di organismi internazionali
sui quali il controllo democratico è assente: è il triste destino di questi anni i cui effetti tragici
cominciano a farsi sentire su ogni sfera politica e economica delle nostre società! Ma vediamo
nello specifico.
Alla fine degli anni Settanta, grazie alle pressioni del neonato movimento ambientalista
organizzato in associazioni sovranazionali, si inizia a livello internazionale a definire un quadro
normativo che prevede la protezione assoluta di tutti i grandi predatori. Ciò avviene con la stipula
di Convenzioni europee vincolanti per gli Stati aderenti (in particolare, la Convenzione di Berna del
1979 e la Direttiva “Habitat” del 1992), senza dibattito pubblico, né discussioni parlamentari e
soprattutto senza alcuna previsione delle conseguenze concrete che tali politiche avrebbero
potuto causare nel medio e lungo periodo. Le successive leggi nazionali non fanno che
riconoscere acriticamente i principi generali della politica di conservazione già stabiliti altrove.
Tali norme prevedono la protezione rigorosa e prioritaria di tutti i grandi predatori e
lʼadozione di Piani dʼAzione nazionali conseguenti. In linea teorica non escludono, se non esistono
altre soluzioni, la cattura e lʼuccisione di lupi per prevenire gravi danni alla zootecnia, ma di fatto in
Italia il Ministero dellʼAmbiente non ha sinora mai concesso deroghe. Occorre dunque in primo
luogo che la politica regionale, presa coscienza della minaccia concreta rappresentata dai lupi, si
adoperi per attuare, quando necessario per la sopravvivenza di singole realtà zootecniche di
montagna, quelle deroghe che le normative europee, pur restrittive, concedono ai singoli Paesi.
Parallelamente, ma con tempi più lunghi e risultati non immediati, occorrerà che le istituzioni locali,
facendo proprio il grido dʼallarme della gente di montagna, coordinate a livello regionale, nazionale
e comunitario, si adoperino per effettuare unʼadeguata pressione politica in Europa affinché si
riduca il grado di protezione assicurato ai lupi (considerata specie prioritaria particolarmente
protetta), riconoscendo che non sussiste più il rischio dʼestinzione della specie temuto trentʼanni
fa.
La convivenza possibile
Come detto, è impossibile una convivenza pacifica e duratura tra lupi e animali domestici
allʼinterno di uno stesso areale: i territori di caccia degli uni non possono coincidere con le zone di
pascolamento degli altri. La compresenza genera inevitabilmente conflitti, come lʼesperienza di
questi anni mostra in modo inequivocabile. I pastori e la gente del Monte sono consapevoli che le
mutate condizioni antropiche e sociali della montagna, così come i cambiamenti della mentalità
collettiva giù in pianura, renderanno per lungo tempo (misurabile in secoli) necessaria la
convivenza forzata con i lupi (anche si volesse e fosse lecito, non si riuscirebbe più a eliminarne
del tutto la presenza).
Occorre dunque creare le condizioni migliori affinché tale convivenza non si attui a tutto
svantaggio della gente e dei pastori di montagna, ai quali bisogna garantire la possibilità di
difendersi quando si sentono minacciati nelle persone e nei propri animali. Negare il diritto
naturale allʼautodifesa, oltre che espressione di intollerabile arroganza e disprezzo per chi si trova
nella condizione di vittima, significa abbandonare a se stessa unʼintera categoria sociale, non
riconoscere dignità allʼantico mestiere praticato, non accettare che lʼinevitabile scontro tra pastori e
lupi sia giocato ad armi pari!
Solo riconoscendo il ruolo sociale del pastore con i suoi diritti di pascolo e di protezione
attiva delle sue bestie potrà diminuire la conflittualità tra uomini del Monte e lupi, non certo con la
politica sin qui adottata di compensare in qualche modo i danni con
denaro: non alleviamo per nutrire dei predatori!