Eugenio Lo Sardo

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Eugenio Lo Sardo
Introduzione del catalogo Electa
Di Eugenio Lo Sardo
Quale città oltre Roma ha un rapporto così intenso e secolare con l’Egitto? In quale altro
luogo troviamo così tanti obelischi?
Sul Campidoglio il Tevere e il Nilo uniscono nel mito le due lontane sponde, come neiversi di un
poeta dell’Arcadia, e due leoni egizi accolgono i visitatori alla base della lunga scalinata. Nel rione
di Campo Marzio, dove ora sorgono i palazzi del Governo, il sottosuolo è disseminato di reperti del
tempio di Iside e poco più in là, verso le pendici del Quirinale, si trova il Serapeo. A piazza Vittorio
due statue del dio Bes si innalzano minacciose e solenni ai lati della “Porta magica”. Tutta la
cultura romana porta il segno di questa indelebile influenza. Nel tempio della Fortuna a Palestrina
risplende il grande mosaico del Nilo, realizzato da artigiani alessandrini.
A Tivoli, nella Villa di Adriano, l’imperatore ricostruì un braccio del Delta del Nilo, il famoso
Canopo, luogo di svaghi e delizie della corte ellenistica. E la piramide Cestia divenne nel Medioevo
uno dei simboli della città della Lupa.
Ma se Roma è segnata dai monumenti egizi, e questo catalogo offre numerosi indizi per una visita
intelligente alle antiche memorie, in Egitto, viceversa, restano poche e rare tracce del rapporto
con il mondo latino. Escludendo Alessandria e Antinopoli – la città dedicata al giovinetto amato da
Adriano – i pochi monumenti notevoli scompaiono a confronto con la civiltà faraonica. Quasi che
l’Egitto, travolte le sue difese naturali, i mari e i deserti,fosse sempre riuscito a convertire i
conquistatori con la sua indiscussa maestà e con una sapienza apparentemente comunicata dagli
dei stessi fin dall’inizio dei tempi.
Già Erodoto, lo storico greco, sottolineava l’esotica differenza degli egiziani. Lì le donne andavano
al mercato e gli uomini tessevano, i sacerdoti si rasavano accuratamente e si vestivano di lino. In
quello strano paese la personificazione divina del cielo era una splendida divinità femminile, Nut, e
della terra un maschio, Geb. In Grecia era tutto il contrario: il cosmo era nato da un atto violento,
dalla castrazione di Urano, che ogni notte opprimente giaceva su Gaia “dall’ampio petto”. Inoltre,
quando d’estate la siccità imperava ovunque, il Nilo miracolosamente straripava, fertilizzando con
la terra degli altopiani africani i campi e le colture.
Ma l’Egitto a cui giunsero i romani non era quello descritto dal grande storico di Turi, era un paese
profondamente trasformato da un punto di vista economico e commerciale. Le strabilianti imprese
di Alessandro avevano ampliato fino ai confini dell’India e oltre ai passi del Pamir la zona
d’influenza della cultura greca. Nearco, come scrive Arriano negli Indikà, per riportare in Persia la
grande flotta macedone, aveva sfruttato i monsoni, facendo proprie delle tecniche di navigazione
certamente più antiche, ora impiegate in una dimensione diversa, “universale”. Per quanto
orientale fosse il mondo di Alessandro, con la capitale posta a Babilonia, il Mediterraneo rimaneva
la culla della civiltà greca: una splendida civiltà di mercanti. L’Egitto divenne così il fulcro
dell’economia del mondo antico. Le navi e le merci potevano giungere alle sue rive orientali dalle
Indie grazie ai monsoni e di qui ripartire. Discendevano il mar Rosso da nord verso sud sfruttando
i venti prevalenti di tramontana e compivano il percorso inverso, da sud verso nord, dopo un
trasporto carovaniero per terra, descritto da Strabone (XVII, 1,45), discendendo lungo il Nilo, fino
ad Alessandria. Qui i mercati mediterranei, asiatici e africani si incontravano: il Mediterraneo
sempre affamato di grano e di spezie, di perle e di tessuti, l’Oriente di oro e di metalli preziosi.
Non a caso in età tolemaica si riprese il progetto persiano di un canale che unisse il Nilo e il mar
Rosso, passando per i laghi Amari (Strabone, XVII, 1,25) e si costruì, a sud del tropico, la città
portuale di Berenice.
Alessandro, fondando la città omonima sul Delta del Nilo, aveva quindi mostrato una straordinaria
preveggenza. Il terreno era stato preparato da secoli, dai mercanti della città greca di Naucrati,
dalle splendide etére amanti di faraoni, come Rhadopis, dai mercenari, tutti stranieri, incuranti del
supremo equilibrio su cui si basava la società egizia.
L’economia del paese venne così “estrovertita”, e le merci furono immesse nel grande circuito
internazionale. I Tolemei, che dominarono per quasi tre secoli (l’ultima fu Cleopatra VII) colsero a
pieno questa opportunità e nei primi decenni agirono, è il caso di dirlo, con un tocco di genio,
finché nel generale declino del mondo ellenico, si scontrarono con la crescente potenza di Roma.
Cesare nel 48 a.C. entrò nel porto di Alessandria per vendicare l’assassinio del suo acerrimo
nemico, Pompeo. Gettò le ancore di fronte ai palazzi reali, che si intravedono nel mosaico di
Palestrina, e ormeggiò all’ombra del Faro. Quindi incontrò Cleopatra dinanzi a cui la natura stessa
tratteneva il respiro. Fu un incantesimo che dopo Cesare stregò Marco Antonio e rischiava di
invertire le ruote della storia. Per esorcizzare il fascino di quel paese gli scrittori latini lanciarono
strali contro il bestiario divino lì venerato, contro Anubi dalla testa di “cane selvaggio”. Ne
denigrarono la regina. Ma si trattava di una attrazione fatale. Non fu forse Teocrito, il poeta
siracusano cantore dei Tolemei, un modello per Virgilio? E Vitruvio, ingegnere di Cesare, non
dichiarò nel libro decimo del De Architectura la sua ammirazione per tanti geni originari del mondo
greco-egiziano?
Alessandria, metropoli cosmopolita, amata da scienziati, filosofi e poeti, era nata da una costola
della Grecia classica, vi vivevano gli allievi di Aristotele e di Platone, si conservavano i libri
originari delle quattro parti del mondo e le poesie e i drammi dei grandi cantori, ma i venti del
sud, le aure provenienti dall’immenso fiume africano portavano con sé il fascino di un’ignota
natura e di una antichissima civiltà.
Del resto in quale altro regno, più che in Egitto, il sovrano era considerato a tutti gli effetti un dio?
E dove ancora si era raggiunto un equilibrio altrettanto perfetto tra sacro e profano, tra
immanente e trascendente, tra il mondo dei mortali e l’aldilà? Come il cristianesimo riconoscerà,
molti secoli dopo, in Egitto già si ravvisava in nuce il concetto di trinità.
L’idea del diritto divino a governare affascinò oltre ogni dire gli aristocratici romani (non da ultimo
Cicerone nel Somnium Scipionis) che interpretavano la strabiliante espansione della Repubblica
come una testimonianza del favore divino per l’audace virtù da essi mostrata e videro in
Alessandro-faraone il canone da imitare. Così, tutte le volte che l’idea di monarchia assoluta
risorge – è tanto il caso dei pontefici romani in età barocca quanto del re Sole che balla sulle note
della Naissance de Osiris di Rameau – i suoi cultori guardano indietro alla granitica compostezza
dei faraoni.
Forse, tra le radici dell’Europa moderna, che ad altri modelli politici si ispira, si è troppo
frettolosamente dimenticato uno dei pilastri del mondo antico a cui tante volte i monarchi
del continente hanno rivolto ammirati lo sguardo.
L’Egitto e il suo doppio
Due diverse immagini dell’Egitto si sovrappongono nel mondo classico: quella di Alessandria e
quella della civiltà faraonica. Perché la capitale e il suo regno restarono sempre due realtà distinte.
Il baricentro del Nilo, del grande bacino agricolo che si sviluppa lungo le sponde del fiume, grava
infatti più a sud, come capirono gli arabi, nel punto in cui il fiume si avvia a formare l’ampio e
fertile delta. Del resto, l’antica capitale dei Tolemei, così come era stata disegnata, a forma di
clamide, con la palude che la chiudeva a meridione, si presentava come una cittadella facilmente
difendibile da mare e da terra, come un’isola simile alle tante dell’arcipelago greco.
Alessandria produsse una sua specifica civiltà che, a distanza di secoli, ancora vibra, con il suo
porto sepolto, nelle poesie di Ungaretti e di Kavafis. Alla sua fondazione, in una città interamente
nuova, visse e lavorò Euclide, studiò Archimede, si svilupparono le arti e le scienze e tra queste
emerse una disciplina simbolo della modernità: la geografia.
Fu Eratostene, nel III secolo a.C., a calcolare con estrema precisione le dimensioni della Terra, a
elaborare le prime proiezioni cartografiche, a perfezionare i metodi per stabilire le coordinate.
Sarebbe troppo lungo esplorare i successi della cultura e della scienza alessandrina, ma vanno
almeno ricordati il famosissimo Museo e l’altrettanto nota Biblioteca. Il Faro, poi, una delle sette
meraviglie del mondo, non era solo una torre di straordinaria misura bensì una macchina
complessa, un gigantesco automa, come il Talos di Apollonio Rodio posto a difesa di Creta. In
un’epoca affascinata dalla mekané il Faro era un simbolo attrezzato con i più moderni ritrovati
della tecnica antica: specchi per magnificare la luce della lanterna, vapore per emettere suoni dai
quattro tritoni e terribili armi, capaci di sparare a ripetizione proiettili di ogni tipo.
Da Alessandria si irraggiarono studi e ricerche fondamentali, prima trasmessi agli Arabi e poi
all’Occidente latino e al Rinascimento italiano. Allo stesso tempo, per il suo cosmopolitismo, fu un
laboratorio straordinario di religioni e di scienze occulte e tra queste l’alchimia. I dotti alessandrini,
rubando la scena ai maghi caldei, diedero all’astrologia lo statuto di scienza. Tra questi ci fu il
sommo Claudio Tolomeo che, nel Tetrabiblos, spiegò i motivi degli influssi astrali sui singoli e sulle
regioni del mondo, adducendo una spiegazione basata sull’attrazione della Luna e i moti delle
maree.
Ora è difficile se non impossibile distinguere il contributo della cultura faraonica, del sapere dei
sacerdoti maestri di Talete, di Pitagora e di Platone, da quello della filosofia e della scienza greche,
il popolo delle matematiké. Certo è che con lo scorrere dei secoli le due parti, Alessandria e
l’Egitto, cominciarono a confondersi e Cleopatra, che non aveva una goccia di sangue egizio e fu la
prima a parlare la lingua dei suoi sudditi, venne assimilata per discendenza a una delle grandi
regine delle dinastie precedenti. Nel corso della storia questo astigmatismo produsse risultati
ancor più singolari, basti pensare che il gesuita tedesco Athanasius Kircher, protagonista della vita
culturale romana per ben tre pontificati – Barberini, Pamphilj e Chigi – attribuiva al genio egizio le
invenzioni di Ctesibio e le scoperte di Eratostene, concludendo che i greci non erano che pallidi
imitatori, simiae aegyptiorum. Alcune delle sue conclusioni, con argomenti diversi, hanno trovato
eco, tre secoli dopo, in Black Athena di Martin Bernal.
Sotto il nome di Egitto si confonderanno quindi due mondi diversi, due diverse tradizioni e questa
ambiguità si protrasse per molti secoli.
Il miraggio egizio, la doppia immagine, ebbe quindi radici profonde, fu effetto di scelte e risultato
del caso. Già Alessandro si mostrava in effige ai popoli dominati con le vesti e i simboli della
regalità faraonica. Si fece immortalare sulle monete con gli attributi del dio Amon. Lo imitarono i
Tolemei, che introdussero una nuova divinità, Serapide, presto diffusa in tutto il bacino
mediterraneo, e quindi gli imperatori romani. Nel solco di questa tradizione Adriano propose alla
morte di Antinoo la celebrazione di un culto, in cui “l’efebo dal bel viso” veniva associato a Osiride.
La sua immagine venne scolpita con il nemes (copricapo) e lo shendit (gonnellino), simboli dei
faraoni. Le trasformazioni iconografiche furono influenzate e registrate da una straordinaria
produzione letteraria, punteggiata da classici immortali. Iside e Osiride, di Plutarco, l’Asino d’oro di
Apuleio, in cui si svelano i riti segreti di Iside, Ovidio che narra il mito di Giove e della ninfa Io,
Diodoro Siculo che racconta di Osiride e di Anubi che indossa “la pelle di cane” (I, 18). Con questi
autori e con altri, come Giamblico, si compì nel mondo greco-romano una lunga e duratura
metamorfosi in cui le divinità egizie, le prime a entrare sulla scena ai primordi della storia, come
in una complessa rappresentazione teatrale, indossarono di volta in volta le maschere degli dei
altrui. Gli horrida monstra, vituperati al tempo di Ottaviano per le loro forme animali, assursero
man mano al ruolo di divinità primigenie. Iside, la dea che allatta il figlio Horo e la patrona dei
naviganti, si mostrò come Demetra, Artemide e Cibele.
Questa immagine crepuscolare e confusa divenne ancor più impenetrabile in epoca umanistica, un
po’ perché si rilegge sempre il passato a partire dagli interessi del presente, un po’ e soprattutto
perché si era incapaci di risalire all’Egitto storico, e alla sua scrittura.
Il paese delle sfingi divenne un mito insondabile. I letterati, affascinati dalla figura dell’egiziano
Plotino, dovettero, per forza di cose, affidarsi a testi fortunosamente salvati, privi di ogni
commento e di ogni esegesi. I geroglifici opposero poi una granitica resistenza ai tentativi di
interpretazione, sebbene Platone nel Fedro (274-275) e nel Flebo (17-18) avesse suggerito la via
giusta, attribuendo a Toth (Ermete o Mercurio) l’invenzione della scrittura e aggiungendo che quel
dio per primo aveva esplorato il campo infinito della voce e dei suoni, individuando perfino le
vocali mute e attribuendo ad ogni suono una singola lettera. Le sue indicazioni avrebbero
permesso, forse, di capire anzitempo il carattere fonetico della scrittura egiziana.
Con occhi simili a quelli dei letterati lavorarono gli artisti nel Rinascimento, sebbene nel loro genio
interpretativo si colga una immediatezza che non ha bisogno di commenti.
La bellezza dell’Antinoo vaticano fu ripresa senza esitazioni da Raffaello, così come la perturbante
enigmaticità di Artemide Efesia (che allora si pensava Iside Multimammia).
Lo seguirono in molti su questa strada, suoi allievi e imitatori, Giulio Romano, Perin del Vaga e poi
Pirro Logorio e Primaticcio. Mentre Michelangelo, se non per Cleopatra, sembrò immune, e non a
caso, alle storie e alla rivisitazione dell’Egitto.
Il fulcro di tutta questa vicenda rimase comunque Roma perché, oltre che dai numerosi
monumenti conservati, le ricerche erano animate da un motivo ideologico: nell’immagine
dell’antico regno, si coglievano dei punti di contatto tra i pontefici e i faraoni, sovrani che univano
in sé il potere temporale e quello spirituale. Solo nell’età dei Lumi si spezzò di fatto questa facile
assimilazione e l’Egitto rientrò nel gioco dell’esotico, perché antico e non perché lontano, e
divenne da un lato pretesto di raffinata decorazione e, dall’altro, di ispirazione per i fondatori di
nuovi culti, come alcuni notissimi massoni.
L’itinerario espositivo
Nicolas Poussin in uno splendido quadro conservato all’Ashmolean di Oxford getta un ponte ideale
tra Castel Sant’Angelo e l’Egitto. Il soggetto è Mosè salvato dalle acque e il Tevere e il Nilo, nella
fervida fantasia del pittore francese, divengono due momenti di una sola vicenda religiosa, che
trova il suo compimento nella Roma pontificia. Ma la mole che domina il Tevere era in origine il
mausoleo di un imperatore immortale, Adriano.
Colui che volle raccogliere nella villa di Tivoli i maggiori monumenti del mondo antico e tra questi
innumerevoli testimonianze dell’Egitto. Come leggerete in questo catalogo, ma gli studiosi sul
punto non sono tutti d’accordo, proprio lì egli volle seppellire e commemorare l’amato Antinoo,
costruendo per lui un edificio lungo la via di accesso e dedicandogli un obelisco ora sul Pincio.
Come una piramide, l’imponente mole adriana era destinata a conservare le ceneri di un
imperatore, legittimo sovrano d’Egitto. La mostra, il cui itinerario si rispecchia in linea di massima
nella disposizione del catalogo, comincia pertanto dalla base del Castello, dall’atrio romano, con
un omaggio alla splendida figura di Antinoo, che per la sua bellezza divenne un’immagine
ricorrente più volte riprodotta nel corso dei secoli, da artisti di diversa levatura.
La mole è una immensa struttura di pietra e pietrosa e monumentale è l’immagine dell’Egitto. I
marmi, i graniti, i basalti, gli alabastri trasmettono la forza e la staticità di una civiltà millenaria. E
tra le produzioni del mondo antico, realizzate con questi materiali, si confrontarono e dialogarono
a Roma gli artisti di molte generazioni. Questo dialogo è riproposto nelle diverse sezioni da cui
emergono come costanti quattro icone di particolare potenza: la sfinge e l’obelisco, Iside e
Antinoo. Sono queste le figure che dominano la scena, si trasformano e ritornano.
Per raccontare un percorso storicamente lunghissimo, quasi bimillenario, si è dovuto
necessariamente ricorrere alla sintesi. I tagli sono stati dolorosi ma necessari per tenere unita una
vicenda piena di ambiguità e di affascinanti equivoci. Perché solo partendo dal mondo antico non
si corre il rischio di ricadere negli errori più volte commessi, che dopo Champollion sarebbero
assolutamente inaccettabili.
Da Castel Sant’Angelo tutta Roma si offre al nostro sguardo ed è quello lo straordinario contesto
che invitiamo a visitare con qualche vago suggerimento e un piccolo bagaglio di suggestioni.