sei coordinatori scientifici dei progetti vincitori dell`ultima Call di AriSLA
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sei coordinatori scientifici dei progetti vincitori dell`ultima Call di AriSLA
1 – FABRIZIO D’ADDA DI FAGAGNA, coordinatore scientifico del progetto ‘DDRNA&ALS’. Lavora presso l’IFOM – The FIRC Institute of Molecular Oncology, Milano. Sono nato a Udine, cinquant’anni, sono sposato e ho un bimbo di 7 anni. Tra le esperienze formative, la specializzazione alla SISSA di Trieste e all’Università di Cambridge, oggi lavoro all’IFOM di Milano. Non credo nei momenti ‘Eureka’, la mia scelta di diventare ricercatore è maturata nel tempo. La sensazione che provavo in laboratorio era quella di stare al Luna Park senza pagare il biglietto! Cerco la diversità e non l’omologazione in ogni aspetto: più una scoperta è inaspettata, più per me è stimolante. Hanno certamente avuto un’influenza sul mio percorso l’incontro, durante il mio dottorato, con Mauro Giacca e poi quello a Cambridge con Steve Jackson, due persone particolarmente brillanti e capaci da cui ho imparato molto. Tra gli incontri che mi hanno segnato la vita, c’è quello con il professore di Botanica all’Università di Trieste. Lui era riuscito a farci interessare a cose apparentemente noiose, come i licheni, dimostrando come anch’essi potessero portare a qualcosa di utile. Perché studiare la SLA? Sono in una fase della mia vita e della mia carriera in cui mi interessano studi che abbiano un impatto non solo sulla conoscenza, ma più direttamente sulle persone. Da sempre mi sono interessato di studiare cosa succede quando il DNA in una cellula si rompe. Di recente abbiamo riscontrato che esiste un legame tra il danneggiamento ed il suo riparo e la SLA: il nostro obiettivo adesso è comprendere meglio questo legame e perché una cellula in un malato di SLA non risponde correttamente ad una rottura del DNA. La SLA è una malattia davvero devastante. A colpirmi è il dramma che i pazienti vivono, il fatto di essere lucidi mentalmente e allo stesso tempo imprigionati in un corpo che non controllano e limita il loro essere. Mi piace andare in montagna, camminare e soprattutto arrampicarmi. Tra i miei interessi c’è anche l’arte. Nel mio ufficio ho una grande stampa di un quadro di Jackson Pollock: mi piace pensare che apprezzare la complessità da lui proposta sulla tela sia affine alla mia passione per la scienza. Il mio sogno nel cassetto è riuscire a portare qualcuna delle mie scoperte a fruizione dei pazienti SLA: questo sarebbe certamente un grosso motivo di soddisfazione. 2 – RAFFAELLA MARIOTTI, coordinatore scientifico del progetto ‘ExoALS’. Lavora presso l’Università degli Studi di Verona Sono nata a Genova, ho 48 anni, sono sposata e ho due figli di 12 e 5 anni. Tra le esperienze formative e professionali più interessanti, quella negli Stati Uniti, presso National Institutes of Health (NIH) e al Karolinska Istituite di Stoccolma. In Italia ho avuto l’opportunità di lavorare al Besta di Milano e poi all’Università di Verona, dove lavoro tutt’oggi. Pensando al perché sono diventata ricercatrice, credo che mi abbia molto influenzato avere un papà medico: ricordo le conversazioni con lui, anche banalmente su come curare una ferita, o le letture delle riviste scientifiche che circolavano in casa. Tra gli incontri che mi hanno particolarmente segnata, c’è quello con la professoressa Marina Bentivoglio dell’Università di Verona: anche lei mi ha trasmesso la passione per questo lavoro. Per me la passione per la ricerca è fondamentale, è il motore che mi spinge tutti i giorni. Perché sono più gli insuccessi che i successi che si accumulano quando fai gli esperimenti e se non hai la passione che ti sostiene è più difficile andare avanti. Perché studiare la SLA? Me ne occupo dal ’96 perché mi sono appassionata e perché vedo quanta sofferenza c’è da parte della persona ammalata, di cui mi colpisce il desiderio di vivere, nonostante ci sia la certezza che al momento non esista una via di uscita. Ogni tanto mi chiedo cosa farei io se capitasse a me. Poi penso ad un’associazione locale di un gruppo di pazienti che è testimonianza di come una forte disperazione possa diventare una fonte di speranza incredibile. Io sento su di me, quotidianamente, la responsabilità verso queste persone. Penso che il nostro lavoro sia una piccola missione, una sfida che non finisce, ma anzi inizia quando si vince un grant. Tra gli hobby che coltivo c’è la preparazione delle recite scolastiche di mia figlia. Quest’anno metteremo in scena Frozen e io interpreterò la principessa Anna. Il mio sogno nel cassetto è di dare un futuro, in termini accademici e lavorativi, alle persone che lavorano con me, dandomi sostegno e forza per proseguire. 3 – ANTONIA RATTI, coordinatore scientifico del progetto ‘SumALS’. Lavora presso l’IRCCS Istituto Auxologico Italiano, Milano Sono nata a Lecco, ho 48 anni, sono sposata e ho due figlie di 13 e 7 anni. Tra le esperienze formative e professionali, la specializzazione presso l’Università di Milano, un periodo al Children’s Hospital a Philadelphia e poi all’Ospedale Policlinico di Milano, fino ad arrivare all’IRCCS Istituto Auxologico Italiano come ricercatrice universitaria. Se sono oggi una ricercatrice è grazie alla mia professoressa di scienze al liceo che mi ha fatto appassionare alla biologia. Un altro incontro che mi ha segnato la vita è quello che ebbi con Rita Levi Montalcini in visita all’Istituto in cui lavoravo da poco. Vedere questa donna minuta ed elegantissima nel suo vestito grigio-argento (aveva già 84 anni) aggirarsi nei laboratori con l’entusiasmo di una ragazzina mi colpì molto. Mi hanno sempre colpito coloro che mettono tanta passione in quello che fanno: come il pianista Ezio Bosso che ho avuto modo di apprezzare recentemente in un magnifico concerto, a conferma che in ogni campo l’impegno nonché l’amore sono necessari per raggiungere grandi traguardi. Perché studiare la SLA? Mi sono ritrovata quasi per caso a lavorare sulla SLA nel laboratorio del Prof. Silani, neurologo che si occupava già da anni di questa malattia. La studio ormai da 12 anni e ad oggi non farei cambio con altri argomenti di ricerca. E’ una malattia molto complessa che pone molte sfide ai ricercatori. Purtroppo i tempi della ricerca non vanno di pari passo coi tempi della malattia, ma in questi ultimi anni ho visto straordinari e inimmaginabili avanzamenti. Ho visto persone di ogni età la cui vita viene stravolta da una diagnosi di SLA, che devono accettare di convivere con questa terribile malattia, e ho conosciuto anche i loro familiari, tutte persone molto belle, forti e stoiche nella drammaticità della loro condizione. Ciò che mi motiva nel mio lavoro è cercare di contribuire a riempire i tasselli ancora mancanti di questo enorme puzzle che è la SLA. Per ricaricarmi di energie, nei weekend mi dedico alle escursioni in montagna con mio marito e le mie figlie, vere appassionate di arrampicata! Un desiderio è fare un viaggio lunghissimo in giro per il mondo con la mia famiglia per conoscere culture diverse, per apprezzare la storia dell’uomo e per abbattere molti muri e molte paure. 4 - TANIA ZAGLIA, coordinatore scientifico con il progetto ‘Snop’. Lavora pressoil VIMM (Venetian Institute of Molecular Medicine) di Padova. Sono nata a Megliadino San Vitale, in provincia di Padova, ho 39 anni e sono sposata. Tra le esperienze formative e professionali più interessanti, c’è il post-doc sotto la supervisione del Prof. Stefano Schiaffino, uno dei più grandi esperti della fisiologia del muscolo. L’idea di diventare una ricercatrice è nata quando ero ancora al liceo. Ad influire sulla mia scelta è stato anche aver vissuto in prima persona esperienze con familiari ammalati: a mio papà, a mio zio e a una cugina è stata diagnosticata la ‘sindrome di Alport’, una malattia genetica che porta ad insufficienza renale. Il mio modello di riferimento, se pur non conosciuto personalmente, è Rita Levi Montalcini. Lei con il suo esempio ha dimostrato il senso del lavoro del ricercatore, che non è fare ricerca fine a se stessa ma pensare all’essere umano. La mia vita è stata segnata da due incontri significativi. Il primo è quello con la professoressa di italiano e latino del Liceo, Fausta Beretta che mi ha insegnato ad avere il coraggio di difendere le proprie idee. L’altro è quello con il Prof. Mongillo al VIMM di Padova, persona generosa nel supportare la crescita professionale del suo gruppo di lavoro. Oggi studio la SLA per capire quali relazioni ha con quanto oggi ho appreso sulle malattie cardiovascolari, ambito su cui mi sono focalizzata prevalentemente nel mio percorso di ricerca, adottando l’optogenetica, una nuova biotecnologia. La motivazione costante è che ogni cosa che si fa è finalizzata a contribuire ad aggiungere un nuovo tassellino al puzzle della conoscenza e a sviluppare terapie che diano benefici concreti alle persone ammalate. Quello che mi colpisce delle persone con SLA è il contrasto netto tra lo sguardo, che ha tanta voglia di vivere, e il loro corpo, che non risponde più. Tra gli hobby c’è quello di fare lunghe passeggiate, spesso rivelatesi utili, visto che mi è successo di risolvere ‘enigmi’, irrisolti qualche minuto prima in laboratorio. Uno dei sogni nel cassetto si è realizzato grazie al grant vinto da AriSLA: diventare ‘group leader’. Il massimo sogno rimane quello di poter vedere il volto di una persona alla quale le mie ricerche abbiano contribuito a migliore la qualità e l’aspettativa di vita. 5 – MARTA FUMAGALLI, coordinatore scientifico del progetto ‘GPR17ALS’. Lavora pressoil Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari, Università degli Studi di Milano. Sono nata a Monza, ho 40 anni, sono sposata e ho due figli di 12 e 9 anni. Tra le esperienza formative più interessanti, il Dottorato di Ricerca presso l’Università degli Studi di Milano. Ho avuto infatti l’opportunità, fin da subito, di collaborare con diversi ricercatori sia italiani che stranieri e questi scambi hanno rafforzato molto la mia formazione. Sono diventata ricercatrice perché sono stata stregata dal fascino di fare ricerca durante il periodo di tirocinio in laboratorio per la mia tesi di laurea. Ho iniziato degli studi che non ho più abbandonato: riflettevo in qualsiasi momento della giornata sui risultati ottenuti, su nuove possibili idee ed esperimenti, anche al di fuori delle mura del laboratorio. Non ho un unico modello di riferimento, ma tanti. Sono donne, ricercatrici come me, che mi hanno dimostrato che è possibile conciliare la vita familiare di mamma con questo tipo di lavoro. Studio la SLA perché spero che le mie ricerche sul recettore GPR17 possano dare un contributo all’identificazione di nuovi possibili approcci per il trattamento di questa malattia. A motivarmi nel mio lavoro è pensare che le mie scoperte potranno un giorno essere di aiuto ad altri. Soprattutto penso alle persone malate di SLA, di cui ammiro il coraggio e la forza di convivere con la malattia. Nel tempo libero, adoro fare sport, anche se incastrarlo fra tutto non mi risulta facilissimo. La pallavolo mi ha accompagnata fino alla laurea. Il gioco di squadra per raggiungere un obiettivo comune vale anche per il mio lavoro da ricercatrice. Impegno, determinazione, tenacia, ma anche condivisione e aiuto reciproco sono elementi che ho fatto miei anche grazie a questo sport. Mi piace inoltre leggere e cucinare con mio marito, soprattutto in occasione dei ritrovi familiari (siamo più di 20!), ma in questo caso è lui il vero sperimentatore della famiglia. Il mio sogno nel cassetto, per scaramanzia, non lo svelo! 6 – ALESSANDRO ROSA, coordinatore scientifico del progetto ‘StressFus’. Lavora presso il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin, Università “La Sapienza” di Roma. Sono nato a Rieti, ho 36 anni, sono sposato e papà di due bimbe di 6 e 3 anni. Tra le esperienze formative e professionali più interessanti, il dottorato di ricerca all’Università “La Sapienza” di Roma e il periodo di ricerca all’estero come post-doc presso la Rockefeller University di New York (USA). Sono diventato ricercatore perché probabilmente era nel mio DNA: mio padre è un fisico e mia madre è medico. Tra le figure che mi affascinano c’è quella di Shinya Yamanaka, il ricercatore giapponese che ha vinto il premio Nobel nel 2012 per le iPSC. All’inizio la sua scoperta era stata accolta con scetticismo dalla comunità internazionale, ma lui è andato fino in fondo ed ora è una delle figure di riferimento a livello mondiale nel campo delle cellule staminali. Due gli incontri che hanno segnato la mia vita. Quello con la prof.ssa Irene Bozzoni, che ho incontrato da studente quando mi ha offerto un posto nel suo laboratorio per la tesi di laurea. Da lì è partito il mio interesse per la biologia molecolare e in particolare per l’RNA, una molecola di cui ora viene riconosciuto un ruolo importantissimo anche in relazione a malattie come la SLA. L’altro punto di svolta è stato l’incontro con il prof. Ali Brivanlou, a New York da cui ho imparato tutto quello che so sulle cellule staminali. Ali è una personalità unica. Concepisce la scienza come un’opera d’arte e mi ha insegnato a cercare la bellezza nel nostro lavoro. Nel 2008-2009 ero ancora a New York e due scoperte chiave, in quegli anni, mi hanno portato quasi per caso a studiare la SLA. La prima è l’identificazione di mutazioni legate alla SLA in proteine che hanno un ruolo nel metabolismo dell’RNA. La seconda, quasi contemporanea, è la derivazione delle prime cellule iPSC da pazienti SLA. A motivarmi nel mio lavoro è la curiosità di capire i meccanismi fondamentali che fanno funzionare una cellula e di comprendere come le malattie genetiche alterino questi meccanismi. E facendo ricerca biomedica, ho la speranza che in un futuro il nostro lavoro porti dei benefici ai pazienti. Non mi è mai capitato di incontrare un malato di SLA, ma mi piacerebbe spiegare cosa facciamo in laboratorio a chi con la malattia convive tutti i giorni. Il mio sogno nel cassetto? Che un giorno una mia scoperta finisca su un libro di testo del primo anno di biologia, senza il mio nome vicino.