1 Prato, 24 novembre INTERVENTO PRESIDENTE

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1 Prato, 24 novembre INTERVENTO PRESIDENTE
Prato, 24 novembre
INTERVENTO PRESIDENTE MONTEZEMOLO
Come prima cosa voglio ringraziare il Club dei 15 per aver sempre tenuto alta la bandiera
del manifatturiero anche nei momenti più difficili quando troppe Cassandre in Italia e
all’estero lo davano per scomparso e pronosticavano per noi un futuro da Disneyland.
Voglio dire a loro e a tutti quelli, e sono tanti, che nel nostro paese continuano a tifare
contro di noi: l’Italia è stata, è e sarà una potenza economica solo con un’industria forte e
vitale.
Sono, a mio avviso, quattro le indicazioni fondamentali che emergono da questi due giorni
di lavoro:
Primo. Il manifatturiero continuerà ad essere il pilastro dell’aumento del benessere,
soprattutto in termini di occupazione, e della produttività in tutte le maggiori nazioni
industriali.
L’industria produce e produrrà sviluppo direttamente, attraverso ritmi di incremento reale
del proprio valore aggiunto nettamente superiori a quelli medi dei sistemi economici
nazionali; e indirettamente, domandando servizi sempre più efficienti e attivando ricerca e
lavori più qualificati e meglio remunerati.
Secondo. La condizione essenziale perché questo avvenga è che ci sia un contesto
favorevole all’industria.
Un contesto che renda possibile per le imprese far leva sui nuovi driver della competitività:
gli investimenti in ricerca, l’innovazione a 360 gradi, l’internazionalizzazione, la
valorizzazione del capitale umano.
Un contesto che favorisca la localizzazione delle attività d’impresa attraverso investimenti
in infrastrutture materiali ed immateriali, una burocrazia efficiente, un fisco non punitivo.
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E da questo punto di vista risultano importanti le misure contenute nella finanziaria che
semplificano e alleggeriscono il carico fiscale soprattutto per le imprese piccole e medie.
Terzo. Nel mondo è in atto una grande gara tra paesi per attrarre i flussi di investimento.
Non si tratta più esclusivamente del costo dei fattori della produzione ma di una
competizione a 360°. Scuole, università, infrastrutture, tempi della giustizia etc. In questa
gara il nostro paese sta perdendo terreno.
Le singole aziende italiane possono salvarsi, internazionalizzandosi, il paese no.
Le classi politiche di altre nazioni lo hanno capito e hanno fatto riforme profonde. Noi no,
continuiamo a camminare lentamente mentre il resto del mondo corre.
Quarto. Come in tutte le competizioni le regole devono essere uguali per tutti e per tutti i
paesi. Dumping, contraffazione, violazione della proprietà intellettuale, sono malattie gravi
della globalizzazione che devono essere contrastate con intransigenza.
Per questo ci siamo opposti e ci opporremo con tutte le forze ad una riforma degli
strumenti di difesa commerciale che indebolirebbe ulteriormente le già fragili difese
europee.
Per questo continuiamo a chiedere con forza l’adozione del regolamento sulla marcatura
obbligatoria dei prodotti provenienti dai paesi extra-Ue.
L’Europa non può impostare una politica commerciale che non tenga conto del valore del
manifatturiero, del benessere che crea, dello sviluppo che garantisce. Sarebbe un suicidio!
Basta con questa politica di apertura unilaterale, senza reciprocità e senza la pretesa del
rispetto delle regole.
Noi imprenditori italiani stiamo affrontando una competizione globale sempre più dura. E’
una sfida che chiama in causa tutto il paese, è una sfida difficile ma che possiamo vincere.
Una comunità che condivide una visione del futuro è una forza inarrestabile, un paese che
si divide su tutto non può trovare la via della crescita e dello sviluppo.
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Vediamo con soddisfazione i tenui segnali di dialogo che si colgono nel paese. La politica
italiana sembra voler affrontare finalmente almeno la questione della legge elettorale. Era
ora.
Nel 2006 gli italiani sono stati chiamati a votare con una legge assurda, che ci ha privato
anche della possibilità di scegliere chi mandare in parlamento.
Una legge che non ho mai sentito difendere da nessuno e a giudicare dal coro unanime di
critiche che si è attirata avrebbe dovuto essere cambiata sin dal giorno dopo il voto.
Il cambiamento della legge elettorale è quindi un atto largamente dovuto, per il quale si è
perso anche troppo tempo.
Tremo alla prospettiva che la politica costringa il paese ad un anno di schermaglie sul
sistema tedesco, spagnolo, francese o scandinavo, per approdare poi ad un
compromesso all’italiana che accontenta tutti i partiti e non risolve alcun problema.
Evitiamo, tanto per fare un esempio, che si ripeta quanto appena avvenuto con la “Class
Action”. Dove il Senato ha approvato frettolosamente un mostro giuridico contro l’interesse
del paese, e per accondiscendere a ricatti politici inaccettabili dell’ultimo minuto.
Non vorrei poi, che a causa di questo dibattito, si perdano di vista le priorità fondamentali
per l’Italia, in primo luogo la riforma dello Stato che è sempre più la vera emergenza
nazionale.
Le soluzioni ci sono, Confindustria le ha proposte da tempo, a partire dal convegno di
Vicenza del marzo 2006, e trovano finalmente ampia condivisione nel paese: maggiori
poteri al capo del governo; superamento del bicameralismo; riduzione del numero dei
parlamentari; snellimento di regolamenti parlamentari arcaici; semplificazione di tutti i livelli
decisionali al centro come sul territorio.
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Perché vedete il rischio che corriamo è proprio questo: un’altra lunga stagione di
immobilismo nelle decisioni, una stagione dove tutto cambia in apparenza ma nulla
cambia nella sostanza.
Non è solo di nuove formule elettorali, nuovi partiti, nuovi slogan che può vivere l’Italia.
Non possiamo accettare questa sorta di oblio diffuso dove coloro che hanno o hanno
avuto responsabilità di governo nei diversi ambiti (locale e nazionale), evitano di rendere
conto su quello che non hanno fatto, ma sono sempre pronti a chiedere voti per quello che
dicono che faranno.
Penso a quei “Liberali” che hanno praticato l’occupazione sistematica di ogni spazio
pubblico a fini privati, ai sostenitori della concorrenza e del libero mercato che hanno
moltiplicato le società a controllo statale, ai propugnatori del rigore finanziario che non
tagliano la spesa improduttiva ma aumentato le tasse a chi produce e lavora, agli
intransigenti difensori dell’ordine che hanno sostenuto l’indulto e tollerato il degrado delle
nostre città, ai difensori dei ceti deboli che non esitano a boicottare ogni provvedimento o
trattativa che rechi ad essi concreti benefici.
Talvolta pare di assistere ad un film di fantascienza dove importanti protagonisti del
mondo politico degli ultimi dieci anni sembrano marziani appena arrivati in Italia da una
galassia lontana e si trovano a commentare fatti di un mondo distante e sconosciuto.
La colpa è sempre di qualcun’altro o di qualcos’altro, di quello che c’era prima o di quello
che è accaduto altrove.
Ho detto in più di una occasione che l’Italia non è governata da troppi anni. Alcuni
esponenti del mondo politico l’hanno presa come una critica al loro operato non capendo
che il problema è molto più profondo.
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Qui non si tratta di discutere l’ordinaria amministrazione. Confindustria non si è mai
sottratta ad un confronto costruttivo ed oggettivo, sui singoli provvedimenti di questo o del
precedente governo. Il punto è un’altro: dall’euro in poi non sono state più fatte scelte
fondamentali per il paese.
Abbiamo varato alcune buone norme, prima fra tutte quelle sul mercato del lavoro, peraltro
con il rischio costante di vederle cancellate, ma il gap tra il nostro e gli altri paesi europei si
è continuamente allargato nonostante lo sforzo delle imprese.
Lo dicono le cifre, lo dicono i fatti, qui non si tratta di essere di questa o di quella parte
politica. Sono dieci anni che siamo agli ultimi posti in Europa per crescita economica.
Ma quale oscura calamità ci condanna a questa situazione?
Ricordiamoci poi che mentre in Italia ci appassioniamo su coalizioni, nuovi partiti, facili
populismi da campagna elettorale permanente, nomi di leader, premi di maggioranza, lo
scenario mondiale è attraversato da forti tensioni: squilibri finanziari e commerciali sempre
più minacciosi, costo delle materie prime alle stelle, tensioni politiche.
Dobbiamo essere consapevoli che se oggi il mal funzionamento dello Stato rappresenta
un fardello che ci fa rallentare, domani, se le tensioni internazionali sfociassero in una
nuova crisi, rischierebbe di farci affondare.
Anche per questo abbiamo bisogno di uno shock di modernizzazione. Concorrenza,
infrastrutture, scuola, fisco, politiche energetiche, burocrazia, politiche condivise per il sud.
Temi su cui le divisioni tra destra e sinistra sono sempre più incomprensibili in particolar
modo per noi imprenditori che ci confrontiamo, appesantiti da tutti i deficit di sistema, con
concorrenti sempre più agguerriti.
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Prendiamo la sicurezza, su cui negli ultimi anni (di governo di centrodestra e di governo di
centrosinistra) le statistiche hanno fatto registrare un peggioramento di tutti i principali
indici.
Una criminalità che è bene ricordarlo colpisce tutti, in primo luogo i più deboli. Abbiamo
visto come è andata a finire con il decreto sulla sicurezza annunciato dopo il tragico
omicidio di Giovanna Reggiani: alla fine i risultati significativi sono stati quasi nulli proprio a
causa dell’effetto di svuotamento perseguito da una parte della sinistra più massimalista e
consentito dalla debolezza di questo esecutivo.
Su un tema così delicato non possiamo permetterci di mettere in atto una politica degli
annunci a cui non corrispondono quasi mai iniziative efficaci. Autorità dello stato e
certezza della pena sono le basi su cui si costruisce la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Noi imprenditori non ne possiamo più di questo modo di affrontare questioni fondamentali
per il paese. Penso al protocollo sul Welfare dove ancora una volta forze politiche che
fanno parte del governo che ha promosso questo importante accordo cercano dal giorno
dopo di metterlo in discussione.
Abbiamo il massimo rispetto delle prerogative del parlamento, ma sappiamo che non è
questo il problema. Non prendiamoci in giro.
Approvare una norma che non rispetti fedelmente il protocollo vuol dire uccidere per
sempre consapevolmente la concertazione .
Questo vuole essere un messaggio chiaro per tutte le forze che sostengono il governo: su
questa vicenda è in gioco la vostra credibilità.
Mi riferisco in primo luogo al partito democratico che deve ora confermare nei fatti le tante
professioni sulla sua vocazione di partito moderno e riformista.
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Se non si riuscirà a tenere la rotta, se saranno le forze estreme o marginali a decidere su
provvedimenti così importanti come welfare e class action; si daranno forti ragioni a chi
chiede di cambiare musica e orchestra.
In questi anni abbiamo parlato spesso di concorrenza, che vuol dire dare spazio al merito
e a servizi più efficienti e meno costosi; di risorse per un welfare dinamico invece che per
giovani pensionati; di un ritorno al nucleare, che vuol dire diminuire la dipendenza
energetica e le bollette.
Tutte queste cose sono di destra o di sinistra? Chi se ne avvantaggia, il benestante che ha
sempre la possibilità di scegliere e pagare o il meno abbiente?
Il paese che produce e lavora, il paese che rema, non ne può più di discussioni
interminabili, vecchi riti, decisioni rimandate, divisioni incomprensibili. Lo stesso vale per il
tema dei contratti e delle relazioni sindacali.
L’interesse dei lavoratori e quello degli imprenditori è di avere retribuzioni più alte a fronte
di maggiore produttività. Premiare chi merita è un fondamentale principio di giustizia. Non
fa bene al paese chi cerca di dividere le imprese dai propri dipendenti e noi non lasceremo
che questo accada.
Abbiamo letto in questi giorni cifre fantasiose sulle retribuzioni. Vediamo i dati reali.
Nel periodo 2001-2006 le buste paga lorde reali sono salite del 3,8% nell’intera economia
e del 3,9% nel manifatturiero. E’ quanto si ricava dai dati ufficiali della contabilità
nazionale. Dal 1993 al 2006 le retribuzioni sono cresciute del 7,8% nel settore
manifatturiero: +1795 euro di retribuzione annua.
Si può discutere se è poco o tanto. Ma la questione è che le retribuzioni reali sono
cresciute molto più della produttività: dal 2000 al 2006 nel settore manifatturiero +0,7 le
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retribuzioni, -0,6% la produttività. Questa è la chiave del problema. Le retribuzioni
aumentano poco rispetto al passato perché l’economia non cresce abbastanza e abbiamo
nella produttività una vera emergenza.
E’ questo l’obiettivo che ci stiamo ponendo nella concertazione, nei rinnovi contrattuali e
nel confronto con il sindacato che avvieremo martedì per rendere più moderne le relazioni
industriali.
Vogliamo e possiamo essere un paese normale, in cui ciascuno fa il suo lavoro. Nessuna
maledizione incombe su di noi. Dobbiamo tornare a parlare di diritti e doveri, di premi per i
migliori, di responsabilità, e soprattutto di giovani e di futuro! Le forze e le qualità ci sono,
ne vedo tante oggi in questa sala, ma sono presenti ovunque nel paese.
Consentitemi per concludere una nota personale. In questi giorni il mio nome è stato usato
diverse volte in relazione alla creazione di una nuova forza politica.
Voglio dirvi chiaramente, con il massimo rispetto verso le persone che hanno fatto il mio
nome, che il mestiere di imprenditore e manager, che mi ha regalato grandi soddisfazioni,
continua ad essere il punto di riferimento della mia vita professionale.
E poi i partiti non sono l’unico mezzo per fare politica.
Modernizzare i rapporti tra lavoratori ed aziende con l’obiettivo di migliorare benessere e
competitività; assistere migliaia di piccole imprese quando si spingono su mercati difficili e
lontani; spingere con forza perchè merito e concorrenza siano sempre più presenti nella
società, portare il dibattito pubblico sui problemi concreti del paese, ribadire l’importanza di
giustizia e sicurezza anche per chi svolge attività economiche, promuovere nella cultura
dell’Italia concetti come rischio, innovazione e spirito imprenditoriale; anche questa è
iniziativa politica, una politica che si confronta con le sfide del mondo reale.
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Questa è la politica che mi piace ed è la sola che continuerò a fare.
Se guardiamo oggi l’Italia dalla prospettiva di chi affronta tutti i giorni minacce e
opportunità globali, non possiamo non vedere che il paese ha bisogno di un colpo di reni
che può nascere solo da uno straordinario sforzo condiviso.
E’ un compito a cui sono chiamate tutte le forze migliori del paese, nella politica e nella
società civile, per riscrivere le regole di uno Stato che non è più attrezzato per affrontare le
sfide di un mondo complesso e fortemente competitivo.
E’ un percorso che va al di là dell’ordinaria amministrazione, delle barriere ideologiche,
delle legittime ambizioni personali, del normale confronto politico.
Possiamo recuperare il tempo perduto solo ritrovando il coraggio di scelte indispensabili
per rafforzare l’autorità dello Stato e ricostruire la fiducia dei cittadini verso le nostre
istituzioni, verso la nostra comunità, verso il nostro futuro.
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