L`Apollo di Piombino, di Giandomenico De Tommaso, p. 219

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L`Apollo di Piombino, di Giandomenico De Tommaso, p. 219
L’APOLLO DI PIOMBINO
Negli studi sulla statuaria antica ipotesi, dubbi e perplessità sopravanzano
di gran lunga ogni certezza. Così, se oggi lo studio delle copie romane ci ha
consentito di riconoscere, almeno nella conformazione generale, un numero
cospicuo delle molte statue di cui le fonti ci hanno tramandato il soggetto e il
nome dell’autore, la maggioranza degli originali, soprattutto in bronzo, resta
tuttora avvolto da uno sconcertante anonimato, anche nel caso di opere che
rappresentano per noi immagini imprescindibili per la comprensione della
storia della scultura greca: pensiamo all’Auriga di Delfi, al Poseidon di Capo
Artemisio, all’Efebo di Maratona, o agli stessi Bronzi di Riace, per i quali i pur
numerosi tentativi di attribuzione a questo o quell’artista famoso hanno provocato, e provocano tuttora, più discussioni che adesioni o taciti consensi.
A tale condizione sembra sottrarsi, invece, la statua bronzea nota come
Apollo di Piombino (Fig. 1), a patto di rinunciare all’idea che si tratti di un’opera greca della prima età classica. La sua vicenda critica rappresenta comunque
un caso significativo: riferito ad ambienti artistici diversi, considerato originale
greco, magno-greco od etrusco e attribuito al V o al IV o addirittura originale del V secolo profondamente restaurato nel corso del I secolo a.C., solo
in anni relativamente recenti è stato definitivamente riconosciuto creazione
arcaistica della tarda età ellenistica. Nemmeno la presenza di due iscrizioni,
una apposta sul piede destro, l’altra, oggi perduta, incisa su una laminetta di
piombo che sarebbe stata rinvenuta all’interno della statua stessa (ma sulle
circostanze del rinvenimento fin dal momento della divulgazione della notizia
sono stati sollevati diversi dubbi) è valsa a sciogliere le incertezze in cui la
critica si è dibattuta, essendo stata addotta la loro evidenza ora a confermare
ora smentire le ipotesi più diverse.
La statua, ripescata in mare nel 18321, è menzionata per prima volta
in una comunicazione inviata da Bonn nel 1832 da E. Gerhard2, che evidentemente doveva aver visto il manufatto di persona a Firenze: «Rimasi ammi-
1
Anche sulla data del rinvenimento le opinioni sono discordanti: al 1812 data il rinvenimento LOEWY 1885, p. 344, ma si tratta probabilmente di un refuso.
2
GERHARD 1833.
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Fig. 1 – L’Apollo di Piombino, Parigi Louvre.
rato vedendo presso il signor Ruschi la statua in bronzo di un atleta nudo in
grandezza naturale, proveniente dalla Grecia a Livorno, ove fu acquistata dal
possessore; la qual per l’artifizio usatovi ne rimembra i più bei tempi dell’arte,
sebbene non sia spoglia dell’usata rigidezza; è conservata quasi interamente,
tranne parte del piede destro che è perduta, e qualche altro luogo danneggiato
per negligenza di chi la statua ripulì. Il merito di siffatta statua s’innalza per
i caratteri incavati ed intarsiati d’argento sulla sinistra gamba che và innanzi,
fatta a Minerva: ATHANAIDEKATAN».
Il passo di Gerhard, a parte alcune imprecisioni sulle dimensioni (nella
realtà minori del naturale) e sullo stato di conservazione (il piede destro è
integro) della statua, ha dato adito ad alcuni fraintendimenti, al punto che essa
viene considerata rinvenuta in Grecia – e non opera greca, come sembrano
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le intenzioni di Gerhard – nella menzione immediatamente successiva, cioè
una lettera del 1833 di Raul Rochette, il primo a descrivere accuratamente la
statua e che comunque in un post scriptum riporta, per primo, la testimonianza
del barone Beugout che avrebbe assistito al suo ritrovamento nelle acque di
Piombino3: testimonianza che, tra l’altro, fuga ogni sospetto di non antichità,
ma che purtroppo, nella sua genericità, non dà indicazioni sull’esatto tratto
di mare in cui la statua sarebbe stata recuperata4. A quest’epoca il bronzo era
ancora in mano di privati5 e venne acquisito nel marzo dell’anno successivo dal
Museo del Louvre per 16.000 franchi. Solo nel 1842 la statua venne sottoposta ad un accurato restauro, che portò al recupero di una laminetta plumbea
iscritta contenuta all’interno della statua stessa, recupero che diede inizio alle
prime polemiche sulla cronologia del manufatto – già datato da Rochette al V
sec. a.C. e ora, sulla base dell’iscrizione, riportato al I sec. a.C. – polemiche
che portarono a considerare non autentica l’iscrizione stessa.
La cronologia alla tarda età arcaica viene comunque adottata, con alcune
varianti6, nei maggiori studi sulla statuaria greca, apparentemente comprovata dal confronto con i kouroi marmorei che si andavano via via scoprendo
e sulla base dell’intuizione di Rochette di un possibile rapporto con l’Apollo
Philseios di Kanachos di Sicione, descritto da Plinio il Vecchio e riprodotto
su monete e su un rilievo dal teatro di Mileto7. Più varie sono, invece, le opinioni sull’attribuzione ad un preciso ambiente culturale: egineta, sicionio o
peloponnesiaco8, magno-greco9 o addirittura etrusco10.
Di fatto, le difficoltà di trovare una patria all’Apollo di Piombino derivano dalle evidenti aporie stilistiche che la statua presenta. Vi è raffigurato un
giovane stante in posizione frontale (Fig. 1), con le braccia piegate al gomito
e portate in avanti, a reggere attributi (forse un arco e le frecce o una faretra)
oggi perduti, il piede sinistro avanzato, il destro leggermente divergente (e
non parallelo come di consueto nelle statue tardo arcaiche) in un atteggiamento che ricorda quello del bronzetto di Saltatore dell’Acropoli di Atene11,
3
4
narelle.
ROCHETTE 1933.
Risulta infondata l’indicazione di FEDELI 1983 sul rinvenimento alla Punta delle Ton-
5
James Millingen secondo Rochette, un certo Messier Rullin nella didascalia della prima
riproduzione su «MonIns» dello stesso anno.
6
Un’eccezione è la datazione alla seconda metà del V sec. di PFEIFF 1943, p. 18.
7
Sull’Apollo di Kanachos v. ora STROCKA 2002, che non cita l’Apollo di Piombino.
8
Ad esempio ROCHETTE 1833, DEONNA 1909 n. 102, LANGLOTZ 1927, p. 39; SCHEFOLD
1960, p. 55; CONGDON 1981, p. 61.
9
BUSCHOR 1950, BIEBER 1970, p. 85; POULSEN 1937 e, ancora in anni recenti, ZAGDOUN
1989, pp. 147, 213, 247, n. 347; KREIKENBON 1990.
10
BRENDEL 1978, p. 306 e anche LANGLOTZ 1962, p. 119, nota 28, che riferisce la statua
a artigiani peloponnesiaci emigrati in Etruria.
11
NIEMEIER 1963.
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dove tuttavia l’idea di un movimento in potenza è risolta con una maggiore
coerenza. L’immagine vive di accenti antitetici: le lunghe gambe nitide e
nervose, dalle ginocchia appena segnate, contrastano con la struttura ampia
e inerte del torso, reso in sommarie masse ampie e poderose nel torace, più
naturalisticamente descritto nella schiena, dove la colonna vertebrale disegna
volumi muscolari più consapevolmente definiti. Su un corto collo leggermente
incassato si imposta la piccola testa dai contorni netti e lucidi (Fig. 2), dall’ovale
arrotondato, animato da tratti quasi femminei (il mento piccolo e delicato, la
bocca piccola e carnosa, il naso sottile, gli occhi larghi incorniciati dalla linea
netta e spigolosa delle sopracciglia) e inquadrato dalla ricaduta sulla fronte
di una doppia fila di riccioli ad anello, che scendono da una piccola tenia che
cinge la capigliatura sulla calotta cranica leggermente bombata, dove i capelli
si dispongono in compatte ciocche ondulate, appena distinte a leggera incisione. Se la struttura dei boccoli sulla fronte ricorda la capigliatura delle teste
del frontone di Egina12, del tutto inedita e incongrua è la conclusione in una
lunga coda che scende sulla nuca, fermata in un piccolo chignon (Fig. 3).
L’inusuale mancanza di proporzioni, la discrepanza tra il modellato del
torso e della schiena, la graziosità femminea del volto che contrasta con la severità dell’impianto generale, l’elaborata struttura simmetrica della capigliatura,
l’inorganica fusione del torso con le braccia, l’assenza di enfasi nell’indicazione
delle ginocchia sono tutti elementi che di fatto, soprattutto se considerati nel
loro insieme, rendono difficile una collocazione della statua nell’ambito del
tardo arcaismo o del primo stile severo, a meno che non si voglia ammettere
la possibilità di modifiche vistose o restauri già in età antica.
Tale soluzione sembra adottata da chi, pur non rinunciando all’attribuzione
della statua allo stile severo, sebbene di ambito provinciale, considera comunque
autentica l’iscrizione in piombo che sarebbe stata trovata all’interno della statua
durante il restauro del 184213. Su questa iscrizione resta unica testimonianza il
disegno pubblicato da Letronne nel 1842 che consente la lettura:
…
…

per la quale il nome Menodotos di Tiro, noto anche su una base recuperata sull’acropoli di Lindos, apparve (e appare tuttora) la lettura più plausibile.
L’iscrizione è databile per motivi epigrafici (lettere con apici e sigma quadrato)
al I sec. a.C. e menziona uno scultore effettivamente vissuto nel I sec. a.C. Secondo Letronne, che diede notizia dell’iscrizione, l’uso dell’imperfetto εποουν
12
13
Ad esempio OHLY 1976, tav. 27.
BIEBER 1970; BIANCHI BANDINELLI, PARIBENI 1976.
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Fig. 2 – L’Apollo di Piombino, Parigi,
Louvre, particolare.
Fig. 3 – L’Apollo di Piombino, Parigi, Louvre,
particolare.
invece dell’aoristo  sarebbe un’ulteriore conferma della cronologia
tarda, poiché l’uso dell’aoristo sarebbe meno frequente in età ellenistica;
secondo Dow14 sarebbe invece indizio del significato ‘ripararono’, a sostegno
dell’ipotesi di un restauro antico dell’opera a cui l’iscrizione si riferirebbe,
senza perciò dubitare della sua arcaicità: su tale lettura si fonda l’opinione di
quanti ritengono la statua non creata, ma restaurata alla fine del II sec. a.C.
Anche l’iscrizione apposta sul piede sinistro della statua presenta caratteristiche problematiche. Constava di tre linee, la prima assai danneggiata,
per cui oggi restano solo tracce di un omicron e di un sigma. Attualmente si
leggerebbe:

Θ

14
DOW 1941.
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oppure:

Θ

con il nome del dedicante (Charidamos secondo la lettura di Longpérier)
nella prima linea. Le lettere presentano un aspetto apparentemente arcaico
e l’iscrizione è stata effettivamente datata al V secolo a.C. dalla Guarducci15.
Tuttavia alcune caratteristiche sembrerebbero consone ad una cronologia più
bassa: la dimensione del tratto mediano della epsilon, la forma del sigma e del
kappa rimanderebbero ad una cronologia posteriore al V secolo, così come non
appaiono coerenti con il dialetto dorico in cui l’iscrizione è redatta la forma
del delta, dell’alpha e del theta, più consone all’epoca ellenistica16. Peraltro,
del tutto insolite per una statua del V secolo sono la posizione e la ‘discrezione’
dell’iscrizione, come pure la tecnica a incrostazione in argento.
In realtà solo rinunciando ad una cronologia dell’Apollo di Piombino
al V secolo le sue (apparenti) aporie tecniche, stilistiche, linguistiche ed epigrafiche si compongono in un insieme coerente. L’ipotesi di una cronologia
del manufatto al I sec. a.C., sostenuta senza seguito da Letronne già nel 1842,
convincentemente argomentata nel 1967 dalla Ridgway17, confermata dal
rinvenimento di un perfetto pendant nella Casa di Polibio a Pompei18, appare
oggi la più plausibile per la statua. Si spiegherebbero così l’apparente incoerenza nella ponderazione, le proporzioni allungate delle gambe, la complicata
e incongrua struttura della capigliatura, che trovano confronti in opere di
ambito arcaistico databili tra la tarda età ellenistica e la prima età imperiale,
come l’Atleta di Stephanos19 o la Corridrice spartana20, dove compaiono analoghe proporzioni allungate, o la testa in marmo della Diana Nemorensis21 o
quelle in bronzo dalla Villa dei Pisoni22, da cui proviene anche un bronzetto
che presenta un’analoga resa della capigliatura23. I caratteri dell’iscrizione
dedicatoria non costituiscono un problema a tale ipotesi, poiché è attestato a
quest’epoca, almeno ad Atene, l’uso di caratteri volutamente arcaistici in alcune
GUARDUCCI 1970.
L’uso del dorico viene considerata prova dell’origine magno greca della statua da
BIEBER 1970.
17
RIDGWAY 1977.
18
V. ora STROCKA 2002, figg. 38-39.
19
RIDGWAY 1977, figg. 18-19.
20
Ibidem, figg. 20-21.
21
Ibidem, fig, 28.
22
Ibidem, figg. 22-24.
23
Ibidem, figg. 25-27.
15
16
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basi di statue, forse copia di originali già perduti all’epoca: si spiegherebbero
così l’inusuale posizione e la particolarità tecnica dell’esecuzione in argento,
rendendo così accettabile l’attribuzione della statua al Menodotos di Tiro,
testimoniata dall’iscrizione in piombo, un artista la cui attività a Rodi tra II e
I sec. a.C. è stata convincentemente ricostruita da Goodlett nell’ambito delle
botteghe di scultori rodi24.
Anche le indagini diagnostiche compiute sull’originale da Edilberto Formigli, nella stessa occasione in cui, grazie alla disponibilità del Dipartimento
di Antichità Etrusche del museo parigino, fu effettuato il calco necessario a
fondere la copia in bronzo ora esposta al Museo di Piombino, confermano
la datazione alla tarda età ellenistica. Le percentuali dei metalli della lega e
alcuni dettagli tecnici, come la resa delle sopracciglia e delle labbra, appaiono
più congruenti con la produzione bronzistica della tarda età ellenistica e del
primo impero, assai vicini a quelli dell’Apollo della Casa di Polibio25.
Lo stretto rapporto dell’Apollo di Piombino con il bronzo pompeiano,
ritenuto da Fausto Zevi opera urbana di età claudia26, potrebbe suggerire,
anche per le caratteristiche dimensionali, un’analoga funzione di porta lampada, all’interno della serie dei Lychnouchoi dei quali l’esemplare più noto
è l’Idolino di Pesaro, ora al Museo di Firenze27. Nell’Apollo di Piombino
la particolarità dell’iscrizione dedicatoria ne indica il carattere votivo, più
consono ad un ambito santuariale che a quello dei banchetti notturni cui
tale statue erano destinate28. Se la circostanza del naufragio nelle acque del
promontorio ci impedisce di verificare la primitiva destinazione della statua,
per il suo commitente-dedicante Charidamos, purtroppo per noi altrimenti
ignoto, era forse non senza significato l’esplicito riferimento ad un’immagine
di culto assai venerata e famosa come l’Apollo di Kanachos, la cui fortuna
dovette mantenersi costante nel corso della prima età imperiale, se ad essa si
ispira l’Apollo della Fonte Giuturna.
GIANDOMENICO DE TOMMASO
V. anche FUCHS 1999, pp. 23-69.
I dati delle indagini diagnostiche, tuttora inediti, sono stati oggetto di una comunicazione dello stesso Formigli in occasione di uno dei seminari populoniesi, tenuto nel
gennaio 2004.
26
ZEVI 1996.
27
RUMPF 1939; ZANKER 1974, p; 30; BESCHI 1983.
28
Sulla serie v. anche HILLER 1994, pp. 200-210.
24
25
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