Interazione nella psicologia dello sviluppo

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Interazione nella psicologia dello sviluppo
Interazione nella psicologia dello sviluppo
A cura di Marina Parisi
Si definisce interazione, nell’ambito della ricerca di psicologia dello sviluppo, la modalità
attraverso cui si costruiscono i primi rapporti sociali, rappresentata da quei tentativi della
madre di entrare in un insieme di scambi provvisti di significato con il proprio bambino.
Gli studi sull’interazione madre-bambino nacquero circa quaranta anni fa dall’incontro fra tre
diverse discipline: la psicoanalisi, l’etologia e la teoria dell’apprendimento.
La psicoanalisi in particolare ha influenzato e modificato radicalmente la ricerca infantile. Da
un lato ponendo l’accento sulla natura cruciale di ciò che accade tra madre e bambino,
evidenziando così l’importanza dell’esperienza di reciprocità nell’incoraggiare lo sviluppo
(Winnicott). Dall’altro proponendo per prima l’utilità di modelli osservazionali ed etologici per
studiare le modalità di base attraverso cui il bambino prende parte all’interazione.
Proponendo cioè di considerare la suzione, l’aggrapparsi, il piangere, il sorridere come
meccanismi innati che lo rendono preadattato a giocare un ruolo con coloro che si prendono
cura di lui (Bowlby).
Il termine interazione venne usato per la prima volta da Bowlby nel famoso saggio La natura
del legame del bambino con sua madre del 1958, destinato ad avere un’enorme influenza su
tutti coloro che in seguito hanno studiato il legame madre-bambino. In esso, contrariamente
a quanto si era ritenuto sino ad allora, veniva messo in luce come lo scambio tra madre e
bambino non fosse semplicemente dovuto alla gratificazione orale ed alla concomitante
riduzione della tensione, quanto piuttosto ai reciproci scambi da cui derivava il legame di
attaccamento .
Il punto di vista interattivo si basa su due specifiche ipotesi di lavoro: una prima desunta
dalla teoria dei sistemi, che vede madre e bambino come un sistema aperto autoregolantesi,
un sistema cioè capace di autocorreggersi rispetto agli scopi, di scambiare informazioni sia al
proprio interno che all’esterno, ed in cui entrambi i partner si influenzano reciprocamente; ed
una seconda che considera le prime interazioni sociali come la vera radice dello sviluppo
mentale, poiché funzione specifica del legame madre-bambino è l’acquisizione di quegli
schemi che consentono al bambino di entrare in un rapporto cooperativo con coloro che si
prendono cura di lui e gli sono necessari per lo sviluppo affettivo, del linguaggio e delle
capacità cognitive.
Queste ipotesi sottintendono dunque una concezione più generale, anch’essa diversa da
quella psicoanalitica classica, secondo la quale i processi mentali non sono interamente
racchiusi entro limiti individuali ma piuttosto sono derivati dal sistema entro cui si
sviluppano.
La ricerca, che ha soprattutto riguardato lo sviluppo infantile normale nei primi due anni di
vita, è stata indirizzata da un criterio guida di tipo naturalistico simile a quanto proposto da
Stern allorché sostenne che: « ...madre e bambino intuitivamente conoscono molto di più di
quanto comunemente si crede sulle proprie interazioni sociali ed al ricercatore è richiesto
soltanto di scoprire quale è il modo migliore per imparare cose che non sempre è possibile
raccontare o spiegare a parole».
Il metodo di lavoro usato, a metà strada tra l’approccio clinico e quello etologico, consiste
pertanto nell’osservazione partecipante e nell’analisi segmentale del comportamento. Gli
evidenti vantaggi di questo metodo stanno principalmente nell’aver permesso di eliminare
dalla ricerca evolutiva l’artificiosità dell’indagine sperimentale senza per questo rinunciare al
rigore scientifico, che viene recuperato attraverso una minuziosa analisi delle sequenze
comportamentali filmate.
In questi anni è stata raccolta una grande quantità di dati che hanno il merito di fornire
numerose esemplificazioni sulla natura del processo interattivo che coinvolge adulto e
bambino; situazione in cui entrambi i partner, pur presentando livelli quanto mai diversi di
competenza, si influenzano reciprocamente.
Ad esempio la ricerca sull’allattamento di Kaye permette di avere una straordinaria immagine
sia della spiccata predisposizione del bambino a stabilire rapporti umani, sia del suo essere
preadattato ad occupare una «nicchia naturale» con una madre che tende a realizzare con lui
un continuo equilibrio. Osservando l’allattamento infatti si assiste all’avvio del modello di
interazione dell’alternanza dei turni, dal cui sviluppo avrà poi origine il dialogo linguistico.
Ma per comprendere quanto sofisticato sia l’involucro emotivo-comportamentale che una
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madre deve mettere in atto con il suo bambino nel mantenere gli stati di allerta o stimolare i
necessari ritmi di attenzione o di ritiro, bisogna a questo punto mettere in luce alcune
caratteristiche del tutto specifiche della sua influenza.
Le madri infatti si comportano con i bambini piccoli in modo diverso che con gli adulti o con i
bambini più grandi. Tendono ad usare i loro strumenti espressivi in modo del tutto
particolare. Le «facce» che la madre presenta, il modo con cui fa uso del linguaggio, i
movimenti della testa, del corpo, delle mani, il ritmo delle sue azioni, tutto è tipico quando
viene rivolto al bambino. Ad esempio, per coinvolgere il bambino nell’interazione le sue
espressioni facciali sono sempre eccessivamente marcate sia nella loro entità spaziale che
temporale. Il suo sguardo, quando è rivolto al bambino, non segue la regola culturale che
caratterizza il modo col quale le persone adulte si fissano brevemente negli occhi. Al
contrario la madre fissa a lungo il bambino mentre gli parla e ciò costituisce un’efficace invito
al gioco sociale.
Ma il successo dell’interazione nei primi mesi di vita non è dovuto soltanto agli stimoli
materni o alla capacità che essa ha di adattarsi ai ritmi del bambino e di attribuire significato
comunicativo alle sue modalità espressive. Esso dipende anche da specifiche competenze del
bambino, tali da renderlo preadattato ad essere un partner attivo. Anche il bambino infatti ha
a disposizione tutta una serie di comportamenti espressivi quali il sorriso, le prime
vocalizzazioni, gli stati di eccitazione, il pianto, lo sguardo, i movimenti del viso e della bocca
che funzionano da organizzatori di una reciproca attivazione.
Un esempio di quanto il bambino possa attivamente condizionare il sistema è costituito dalle
interazioni di sguardo. Studi sul suo apparato visivo mostrano che egli è preadattato a
mettere a fuoco solo oggetti che si trovano a venti centimetri ed è questa la distanza a cui si
trova mediamente il viso della madre quando si prende cura di lui. Le caratteristiche
anatomiche del volto, la posizione del bambino e la competenza visiva stabilite da disposizioni naturali fanno pensare che il viso della madre sia il primo e più importante punto focale
che gli consente di costruirsi la prima immagine del mondo. Per quella che Stern chiama
«una stravaganza dell’orario evolutivo dell’uomo» che privilegia l’apparato visivo, si viene a
creare verso la fine del secondo mese, una sorprendente situazione di parità degli strumenti.
Il bambino infatti diventa capace di un controllo su tutto ciò che può vedere. Così il suo
«input» percettivo dipende anche da scelte che lui stesso può fare, e come la madre potrà
egli stesso avviare o evitare e concludere scambi.
In breve tempo, attraverso le interazioni faccia a faccia, madre e bambino costruiranno una
serie molto sofisticata di scambi comunicativi. Apprenderanno a mantenere e modulare il
corso delle interazioni sociali, a conoscere i reciproci segnali per evitare lo scontro
interpersonale, riuscendo ad impadronirsi della maggior parte dei segnali e delle convenzioni
che consentiranno loro di produrre in seguito delle sequenze di interazione sempre più
complesse.
L’interazione dunque non sembra avere nessun altro scopo se non quello di creare un
reciproco scambio emotivo. È una sorta di happening condotto solo da mosse
«interpersonali» senza altro fine che quello di stare e gioire insieme. Così senza apparente
sforzo il bambino impara ad «essere con qualcun altro», a creare e dividere con un altro
diverso da se stesso esperienze che sono conseguenza e frutto di questa stessa relazione.
Ma gli enormi progressi compiuti nella ricerca in questi anni non hanno solo prodotto un
nuovo corpo di conoscenze sulla prima infanzia o nuovi metodi sperimentali per indagare la
complessità della vita mentale del neonato. Da qualche tempo infatti la ricerca, ampliando il
suo ambito, ha cominciato ad organizzare i suoi dati anche per costruire ipotesi teoriche sulla
natura dell’esperienza psichica del bambino e sul suo sviluppo.
Se fino ad ora il costruire teorie sulla natura dell’esperienza soggettiva del bambino era stata
una modalità di ricerca esclusiva della psicoanalisi le cui teorie sull’infanzia erano state
dedotte prevalentemente dalla pratica clinica, diversamente negli anni ottanta dagli studi
sull’interazione nascono nuovi modelli teorici che ridefiniscono l’esperienza psichica normale
e patologica e le tappe del suo sviluppo .
Di grande interesse per il suo contributo innovativo alla teoria dello sviluppo dell’esperienza
del sé è il più recente lavoro di Stern sul «mondo interpersonale del bambino». Al centro
dell’indagine è il senso del sé «preverbale» o quelle forme di coscienza del sé diverse dal
pensiero che funzionano come schemi stabili organizzanti l’esperienza soggettiva molto
tempo prima della comparsa del linguaggio e dell’autoriflessione.
Interessato prevalentemente a quelle esperienze soggettive che sono essenziali nelle
interazioni sociali quotidiane Stern descrive quattro sensi del sé, ognuno dei quali definisce
un diverso campo di esperienza e di relazioni sociali. Di questi il sé «emergente», comincia a
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formarsi alla nascita, mentre altri come il senso del sé «nucleare», il senso del sé
«soggettivo» o il senso del sé «verbale» compaiono nei mesi successivi con la maturazione di
capacità che il bambino acquisisce più tardi.
Nasce in tal modo un diverso punto di vista sull’esperienza intrapsichica del neonato.
Il cosiddetto «bambino osservato» che, pur mettendo in discussione alcuni capisaldi del
modello di sviluppo psicoanalitico, comincia ad attirare l’attenzione degli psicoanalisti ed a
coinvolgerli nella ricerca. Gli studi sull’interazione vengono così utilizzati come punto di
riferimento per sviluppare o consolidare anche modelli teorici della psicoanalisi anche se è
tuttora aperto il dibattito che fa ritenere la versione del bambino della ricerca non riguardare
la medesima realtà del «bambino clinico» della psicoanalisi.
Trai lavori prodotti dall’incontro tra la psicoanalisi e gli studi sull’interazione i più noti sono
quelli di Emde e di Lichtenberg. Il primo sviluppa la teoria degli affetti pensati come segnali
non più intimamente connessi con gli istinti, che sin dall’inizio del ciclo vitale formano la base
del sistema di comunicazione adulto-bambino diventando i fattori organizzanti il funzionamento mentale ed il comportamento. Il secondo confronta il bambino competente della
ricerca con la psicologia dell’io, la teoria delle relazioni oggettuali e la teoria degli affetti,
partendo da una critica a quei postulati della teoria delle pulsioni che considerano le
necessità di soddisfare bisogni orali e la riduzione della tensione, come principi primari
organizzanti la vita infantile.
Bibliografia
Brazelton T.B., Cramer B.G., Il primo legame, Frassinelli, Milano, 1991.
Emde R., Toward a Psychoanalytic Theory of Affect (I-II), in The Course of Life, vol. 1, p. 63, Mental
Healt Study Center, Washington D.C., 1980.
Lichtenberg J., La psicoanalisi e l’osservazione del bambino, Astrolabio, 1988.
Schaffer H.R., L’interazione madre bambino: oltre la teoria dell’attaccamento, Angeli, Milano, 1984.
Stern D., Le prime relazioni sociali: il bambino e la madre, Armando, Roma, 1979.
Stern D., Il mondo interpersonale del bambino, Bollati, Boringhieri, Torino, 1987.
Interazioni, n. 2, 1993, pp. 143-147