Israeliane L`universo femminile raccontato da tredici scrittrici

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Israeliane L`universo femminile raccontato da tredici scrittrici
Israeliane
L’universo femminile raccontato da tredici scrittrici contemporanee
E’ stata recentemente pubblicata un’interessante antologia di racconti scritti da
autrici israeliane contemporanee, preziosa soprattutto perché espressione di un modo
reale, quotidiano e vitalissimo di essere donne, ebree e israeliane. Leggendo il
volume – intitolato proprio Israeliane 1 - il primo dato che emerge con chiarezza è la
forte dissonanza dei registri linguistici, delle tematiche e delle psicologie femminili
proposte, dissonanza che, ben lungi dall’essere stonata, risulta affascinante e, a suo
modo, armonica. Nei racconti si stagliano, insieme, donne forti e donne deboli,
intraprendenti e apatiche, ironiche e tremendamente seriose, nevrotiche e risolte,
mitiche – quasi bibliche – e comuni, nostalgiche e in carriera, pie e agnostiche:
insomma, un coacervo di immagini, di volti, di modi di raccontare, di punti di vista,
capaci di produrre una vivacissima accumulazione di intenti, visioni del mondo e
desideri. Ma, meditando su questa ridda di temi, al lettore non riuscirà difficile
accorgersi della presenza di fili invisibili che legano le storie del passato a quelle del
presente, le dinamiche donne postmoderne alle nonne appoggiate su nugoli di ricordi,
dolci e, nel contempo, dolorosi. Sì, qua e là si annodano in maniera inestricabile dei
motivi che uniscono fra di loro le esistenze di persone apparentemente inconciliabili,
esattamente come, in ogni cultura e in ogni società, ciascun modo di essere è legato
ad un altro o ai precedenti in linea cronologica, in quanto frutto di reazioni chimiche
profondissime e inesplicabili. Proprio per questi motivi, vorrei mettere l’accento su
due racconti estremamente distanti tra loro, per dimostrare quanto sia stata
intelligente, da parte dei curatori, la scelta di proporre una riflessione così satura di
contrasti sulla donna israeliana contemporanea. Da un lato, infatti, mi ha conquistato
l’ironia dissacratoria e, in fondo, disarmante di Sarah, la protagonista del racconto
d’apertura, affidato a Gafi Amir 2 e intitolato Dio 90210, tutto giocato sulle frenesie di
una single precipitata nel gorgo della rincorsa professionale. Dall’altro, invece, mi ha
toccato la prosa intonata e venata di lirismo di Nava Semel 3 , che, nel racconto Una
piccola rosa nel Mediterraneo, offre in poche pagine uno spaccato insieme personale
e antropologico della donna ebrea novecentesca. Due modi di intendere la letteratura,
due modelli diversi di ritrarre la psicologia femminile, sicuramente espressione anche
del divario generazionale che intercorre tra la giovane Amir e la più matura Semel,
eppure, testimonianza anche di un denominatore comune: la capacità di mettere in
evidenza l’ostinata caparbietà delle protagoniste, che non si arrendono davanti ai
significati troppo pragmatici, troppo scontati e condivisi, usando, là, l’autoironia,
comica e malinconica, qua, la forza di una sorvegliatissima prosa lirica.
Puntando il microscopio sul racconto della Amir, Dio 90210, poi, non può
sfuggire la particolarità dell’esordio, nel quale la protagonista si lamenta del fatto che
1
AA. VV., Israeliane. L’universo femminile raccontato da 13 scrittrici contemporanee, con una prefazione di E.
Loewenthal, Stampa alternativa, Viterbo 2005
2
Gafi Amir, nata in Israele nel 1966, è giornalista della carta stampata e televisiva, autrice di programmi tv e di
spettacoli teatrali.
3
Nava Semel, nata in Israele nel 1954, è critica d’arte, giornalista, autrice di libri per l’infanzia, spettacoli teatrali,
raccolte poetiche e numerosi romanzi, tra cui La Casa Usher, tradotto anche in italiano per Mondadori.
il suo capoufficio, Shirhaz, di cui è segretamente innamorata, le ha sottoposto del
lavoro da sbrigare in fretta, senza pensare che quello è il giorno della memoria
dell’Olocausto. Dietro l’apparente tono leggero della recriminazione, Sarah denuncia
un’indifferenza culturale che la fa sentire estranea al suo ambiente di lavoro e, più in
generale, alla nuova cultura del suo paese. La logica economica e produttiva, infatti,
ha talmente assorbito i suoi colleghi - tutti rinchiusi e isolati in minuscoli cubicoli di
vetro - che non vi è più posto per onorare il giorno della memoria. Essere simpatici,
efficienti e anche “ebrei” risulta si presenta, per palese ammissione di Sarah, come un
compito estremamente complesso. Non deve sfuggire anche un ulteriore e implicito
atto d’accusa nei confronti della forza mistificante della modernità capitalistica:
l’ordine che Shirhaz le impartisce non è pronunciato in modo perentorio, ma con un
finto andamento interrogativo (Sarah, mi fai un favore? Dai un’occhiata al
backup… 4 ). Si tratta quindi di una falsa domanda che nasconde una richiesta netta,
del tutto diversa, quindi, dalla domanda filosofica che caratterizza la speculazione
ebraica tradizionale. Una domanda vuota di senso a cui si contrappone, quasi
distrattamente, ma in modo molto efficace, l’annotazione della protagonista che, poco
più avanti afferma: “E’ da un anno ormai che sto cercando un qualche Dio” 5 . E non
importa neanche che, subito dopo, Sarah sembri quasi mescolare le carte e
confondere il lettore, facendogli credere che il Dio di cui è alla ricerca non è affatto
quello biblico e trascendente, ma una divinità minuscola, in carne ed ossa, ossia un
uomo con cui potersi sposare e condurre una vita beatamente borghese. Non importa
perché, leggendo ancora, si comprende che queste affermazioni sono spostamenti di
un desiderio di verità decisamente più perentorio, di una domanda di senso che
assomiglia molto, senza mai chiamarle in causa direttamente, alle grandi questioni
che aspettano una risposta attendibile da Dio proposte da tutta la teologia nata dopo
Auschwitz. Nel mondo di Sarah, infatti, tutti sono divorati dall’ambizione, sono
trasformati in piccoli personaggi negativi, incapaci di rivestire anche il ruolo solenne
e definito del malvagio, tipico della letteratura epica o romantica. Tutti corrono,
schiacciati da un inconscio desiderio irrefrenabile di conquistare prestigio e visibilità,
risultando, alla fine, solamente piccoli e massificati, ridotti a nulla da un’operatività
inconcludente, in cui ci si dimentica anche del desiderio stesso di arrivare a qualcosa.
Così a Sarah, che ha perso la nonna nei campi di sterminio, il nuovo Israele, moderno
e industrializzato, scosso dai fremiti della rivoluzione informatica, non concede
nemmeno un secondo per riflettere al momento in cui suona la sirena e tutti
dovrebbero alzarsi in piedi. Sarah si deve rifugiare nella toilette, imbarazzata dal fatto
di trovarsi tra il w.c. e il lavandino, per assolvere a quello che dentro di sé sente
essere un dovere e una necessità, ma viene raggiunta anche là da un incredulo
capoufficio, troppo alla moda, nei suoi vestiti firmati, per ritenere che questi gesti
simbolici abbiano una qualche validità. Il tono autoironico lascia trasparire la
malinconia quasi in maniera distratta, grazie al magistero della Amir che vuole
chiaramente porre in evidenza quanto, al di là delle ipocrisie, sia davvero difficile
lasciare spazio al ricordo in società complesse come le nostre; come sia quasi
4
5
G. AMIR, Dio 90210, in Israeliane, cit., p. 11.
Ib., p. 12
impossibile far sì che la tremenda lezione della storia rimanga vivida anche nelle
generazioni che quegli eventi non li hanno vissuti. Sarah vuole pervicacemente
salvare qualcosa del suo essere osservante; è per Sarah indispensabile, per non
dichiarare la resa di fronte ai nuovi templi della postmodernità, quali “i centri
commerciali immersi nell’aria condizionata e le palestre (…)” 6 dove, parafrasando in
terza persona il racconto, Sarah stessa a volte si sforza di diminuire le sue
circonferenze senza reperire nemmeno un po’ di pathos. Davanti a tutto ciò, Sarah ha
bisogno di un Dio, umano, da amare nel volto di un uomo, e, forse, trascendente, da
onorare con la tradizione dell’osservanza dei precetti. Così, quando ad un rinfresco
per la nascita della figlia di una collega, si rifiuta di mangiare una tartina al fegato di
struzzo, Sarah, fedele all’alimentazione kasher, si trova a disagio, osservata da tutti e
incalzata dalla neomamma, preoccupata del fatto che la sua amica stia diventando
“religiosa”, sotto gli occhi silenti del capoufficio Shirhaz. Non le rimane che
approfittare di un momento di distrazione per defilarsi e andarsene. Ma, mentre
aspetta il taxi sotto una pioggia torrenziale, ripetendosi che in fondo lei sta solo
cercando un Dio e un po’ di saggezza, viene raggiunta da Shirhaz che la invita a bere
un caffè. Sarah accetta e qui si conclude il racconto, lasciando al lettore la doppia
chiave di lettura: forse Sarah è veramente riuscita a cambiare di un millimetro il
mondo rimanendo in qualche modo fedele a se stessa e Shirhaz, redento, è la
materializzazione di quel dio disperatamente cercato; o forse Sarah è ancora vittima
di un inganno, di un abbaglio, che la porta ad aggrapparsi disperatamente ad una
illusione dal volto umano. E’, quindi, una donna contemporanea, con i suoi dubbi
interiori, con la volontà di non rinunciare senza lottare ad un mondo un poco più
complesso e più profondo di quello che ci siamo costruiti intorno, ma anche con le
fragilità di una persona che non si stima e cerca in un dio troppo umano delle risposte
forti.
Nella prosa lirica della Semel, invece, la narrazione è affidata alla voce della
stessa autrice adulta che rievoca un pomeriggio estivo passato al mare con sua nonna
Rayziel, la quale cerca di insegnare alla nipote a nuotare. A questa rievocazione si
contrappuntano stralci di giovinezza della nonna, presentata come una donna forte,
intraprendente e dolce insieme, fino ad assumere i caratteri mitici della narrazione
biblica. Apprendere la difficile arte del nuoto è sicuramente un’allegoria di
un’iniziazione all’età adulta, con le sue complessità e con le sue problematiche,
mentre il nuoto in sé simboleggia la ricerca di una libertà esistenziale incapace di
scendere a compromessi e che coincide con il desiderio di contrapporre leggerezza e
semplicità alle pesantezze che la vita spesso propone. La profondità dell’acqua e la
zavorra degli abiti bagnati sono gli impedimenti che portano la Semel bambina a
ritenere che sia impossibile poter vincere le difficoltà e lasciarsi andare, ma la nonna,
amorevolmente insisterà che l’acqua “è stata la prima a cantare gloria al Creatore”,
quando venne separata dal cielo. Nuotare, quindi, rappresenta per Rayziel un mettersi
6
Ib., p. 18. In queste pagine, l’Amir sembra risolvere in chiave letteraria l’analisi sociologica sulla “religione del
consumo” proposta da: G. RITZER, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumismo, Il
Mulino, Bologna 1999.
in sintonia con il lamento delle onde, con la poesia che il mare eleva per lodare il
Signore, sottolineando implicitamente che anche la più prosaica o la più drammatica
delle esistenze nutre in sé un’eco poetica che occorre sempre ascoltare. Questa poesia
dell’esistente sembra coincidere, dunque, con il coraggio di non rifiutare la vita stessa
e, insieme, con la determinazione di non accettare mai il mondo così com’è,
impegnandosi nel cercare di rovesciare le logiche superficiali della storia fino ad
acciuffarne il senso profondo e autentico 7 . Questo insegna la nonna alla nipote: la
vita è poesia, ma per potersi trasformare in poeti occorre non adeguarsi alle
apparenze, alle logiche dominanti, fidandosi di Dio. E la nipote, adulta, dimostra di
aver compreso la lezione che, attraverso il nuoto, la nonna ha cercato di impartirle,
proprio impastando il racconto di quel pomeriggio con il controcanto delle peripezie
occorse alla nonna da giovane: la decisione di sposare lo spiantato Zelig Chayim
contro il parere della sua famiglia benestante, la decisone di lasciare il villaggio nei
Carpazi e di trasferirsi col marito in Palestina, a coltivare una terra promessa fatta di
sabbia, contro il consiglio di tutti i suoi compaesani convinti che la nuova terra
promessa fosse l’America; la decisione di amare quella terra improduttiva solo per il
fatto che si affaccia sul mare. La Selim adulta ha capito, dunque, che la nonna crede
nella poesia della vita, ma senza derive romantiche o superficiali, perché per Rayziel
poesia significa soprattutto avere uno scopo nella vita e lottare per realizzarlo,
nonostante - o grazie a - tutto e tutti. E, senza dichiararlo, la Semel rende omaggio al
pensiero di Victor Frankl, padre della logoterapia 8 , il quale sosteneva proprio che la
realizzazione di sé è intrinsecamente legata all’individuazione di uno scopo per cui
vivere, uno scopo che ci aiuti ad uscire dal narcisismo dell’essere prigionieri di sé e a
cogliere il mistero dell’alterità. La Semel e l’Amir, dunque, da vie differenti arrivano
ad indicare la medesima soluzione per superare le contraddizioni di un mondo che si
contorce negli ideali malati del consumismo e dell’autoreferenzialità: semplicemente
vivere sfidando il consueto, alla ricerca di significati, insieme, antichi e nuovi.
7
8
N. SEMEL, Una Piccola rosa nel Mediterraneo, in Israeliane, cit., p. 265.
Cfr. V. FRANKL, Alla ricerca di un significato nella vita, Mursia, Milano 1974