La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale
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La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale
Cass. pen., Sez. III, 23 settembre 2015 (dep. 29 settembre 2016), n. 40650 – Pres. Fiale – rel. Grillo Particolare tenuità del fatto – Reato continuato Dalle La esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione e giudicati nel medesimo procedimento, configurando anche il reato continuato una ipotesi di comportamento abituale, ostativa al riconoscimento del beneficio. corti Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista. La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale, abitualità nel reato e “medesima indole” 1. La vicenda oggetto di giudizio. La sentenza in commento offre un’interpretazione assai lata di uno degli “indici di particolare tenuità” del fatto, rilevanti ai sensi della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., ossia la “non – abitualità del comportamento” del reo. Nella fattispecie sub iudice, era venuta in questione l’applicabilità della nuova causa di non punibilità al reato di “omesso versamento di ritenute previdenziali”, disciplinato dall’art. 2, comma 1-bis, del d. l. 12 settembre 1983, n. 463, recentemente oggetto di (parziale) depenalizzazione di cui al d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8 (art. 3, comma 6). In sede processuale, venivano contestati due episodi di omesso versamento, di modesta entità economica, avvinti dal vincolo della continuazione. Benché i fatti non sembrassero rientrare ratione temporis nell’ambito applicativo della causa di non punibilità, la questione giungeva all’attenzione del Supremo Consesso sulla base di due fondamentali assunti: a. il primo (di ordine sostanziale), concernente la natura sostanziale della fattispecie ex art. 131-bis c.p., come tale soggetta alla retroattività in mitius ex art. 2, comma 4 c.p., secondo l’insegnamento oramai pacifico della giurisprudenza di legittimità; b.il secondo (di ordine processuale), riguardante la (consequenziale) applicabilità dell’istituto dei “motivi nuovi” ex art. 609, comma 2 c.p. p. alla questione, non sollevata in grado d’appello in quanto la data di proposizione del gravame era anteriore rispetto a quella di entrata in vigore della nuova causa di non punibilità. In sintesi, nella decisione in esame, la Suprema Corte, ponendosi in una linea di assoluta continuità con due altri propri precedenti (Cass. Pen., sez. III, 28 maggio 2015, n. 29897, in Cass. Pen., 2015, 12, 4432; Cass. Pen., sez. III, 1 luglio 2015, n. 43816, in banca dati www.dejure.it), accoglie una nozione assai lata di “non – abitualità”, argomentando Gabriele Aronica soprattutto sulla base dei lavori preparatori del d. lgs. 16 marzo 2015, n. 28, introduttivo nel codice della causa di non punibilità. Nella nozione di “reato abituale” rilevante ai fini della causa di non punibilità, viene fatta rientrare anche l’ipotesi del reato continuato, ancorché l’esecuzione del “medesimo disegno criminoso” sia caratterizzata da due singoli episodi, ciascuno dei quali di particolare tenuità. 2. L’iter logico della sentenza. 300 Il perno delle argomentazioni della Corte è rappresentato dalla lettura del concetto di “non – abitualità del comportamento” alla luce della Relazione Illustrativa al d.lgs. 28 del 2015: viene ricostruita la presunta voluntas legis, in base ad un’interpretazione storico – soggettiva. Dalla lettura della Relazione emergerebbe la netta differenza del requisito rispetto alla nozione di “occasionalità” del comportamento, quale presupposto per l’attivazione di istituti dell’ordinamento penale apparentemente simili a quello della particolare tenuità, ma ispirati a logiche e finalità diverse: la non rilevanza del fatto di cui all’ordinamento minorile (art. 27 DPR 22 settembre 1988, n. 448); l’istituto affine attivabile nei procedimenti dinanzi al Giudice di Pace (art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274). Indice di una netta differenziazione delle due nozioni sarebbe anzitutto la “scrupolosa osservanza”, da parte del legislatore delegato, del criterio direttivo – guida di cui alla legge delega, laddove in effetti si menzionava testualmente la “non abitualità del comportamento” quale requisito cui subordinare la fruibilità del beneficio (v. art. 1, comma 1, lett. m) legge 28 aprile 2014, n. 67). L’aderenza testuale al testo della legge delega sarebbe, secondo gli Ermellini, segno tangibile che il legislatore delegato abbia voluto differenziare il nuovo istituto rispetto a quelli già esistenti nell’ordinamento; altrimenti, ne avrebbe certamente mutuato la descrizione dei requisiti di fattispecie. Ad ulteriore comprova della diversa latitudine della nuova nozione, vi sarebbe il carattere “non - tassativo” dell’elenco delle situazioni di non – abitualità di cui al comma 3 dell’art. 131-bis c.p. Pure tale argomento potrebbe essere suffragato dalla lettura della Relazione: come afferma la Corte, “il comma in parola, aggiunto su sollecitazione espressa nel parere della Commissione giustizia della Camera dei deputati, descriverebbe soltanto alcune ipotesi in cui il comportamento non può essere considerato non abituale, ampliando quindi il concetto di abitualità, entro il quale potranno collocarsi altre condotte ostative alla declaratoria di non punibilità”. In particolare, proprio l’ultima parte della norma definitoria di cui al comma 3 consentirebbe un’interpretazione massimamente estensiva della nozione: ivi, in alternativa alla dichiarazione di abitualità, professionalità o tendenzialità nel delinquere, viene inclusa nella “abitualità” la duplice ipotesi dei reati: a) della medesima indole; b) aventi ad oggetto “condotte plurime, abituali e reiterate”. Poiché, peraltro, la norma non prevede la necessità di un previo accertamento giudiziale di tali qualificazioni, esse ben potrebbero riferirsi a reati accertati nel procedimento penale ove si discute della “tenuità del fatto”. La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale, abitualità nel reato e “medesima indole” Di qui, la massima della Suprema Corte: non può predicarsi l’esistenza di un “fatto tenue”, in presenza (anche solo di) due reati avvinti dal vincolo della continuazione e giudicati nel medesimo procedimento. Senonché, al di là della generica affermazione secondo cui il carattere esemplificativo, non esaustivo, dell’elencazione di cui al predetto comma 3, amplierebbe notevolmente “il concetto di abitualità, entro il quale potranno collocarsi altre condotte ostative alla declaratoria di non punibilità”, non è dato comprendere all’interprete né se la Suprema Corte ritenga che taluna ricorra nel caso di specie, né tantomeno quale sarebbe il criterio generale, desunto dall’esemplificazione, che consenta di ritenere le condotte sub iudice “abituali”. Non soccorre neppure l’esame della motivazione del precedente cui la Suprema Corte fa riferimento, quasi per relationem (vale a dire Cass. Pen., sez. III, 28.5.2015, n. 29897, cit.): ivi infatti, accanto ad identico rilievo circa il possibile ampliamento del concetto di “abitualità”, se ne aggiunge uno ulteriore in ordine alla «ridondanza dell’ulteriore richiamo alle “condotte plurime, abituali e reiterate”» (v. testualmente Cass. Pen., sez. III, 28.5.2015, n. 29897, cit.). 3. Gli orientamenti espressi in alcune “linee guida” delle Procure. La decisione in commento si rivela densa di problematicità per l’interprete, giacché afferma, ad un tempo: a. che, norma alla mano, non v’è necessità che le condotte inserite nel complessivo “comportamento abituale” formino oggetto di un preventivo accertamento giudiziale, giacché, per escludere la causa di non punibilità, recte per ritenere sussistente un “comportamento non abituale”, potrebbero prendersi in considerazione sia i comportamenti oggetto di accertamento, sia, a quanto è dato comprendere, altre condotte pregresse, in corso di accertamento in altre sedi processuali penali; Circa il profilo sub a), l’opzione interpretativa adottata dalla Suprema Corte era già stata fatta propria dalle “linee guida” emanate da alcune Procure della Repubblica all’indomani della riforma (v. linee guida della Procura di Palermo, pp. 9-10; linee guida della Procura di Trento, pp. 6-7). Il dato non può dirsi tranquillizzante per gli operatori: poiché la disposizione non consente di comprendere quali condotte debbano effettivamente essere considerate per predicare la non abitualità di un comportamento, ritenendo così “cristallizzata” una serie di fatti – reati, per l’operatore del diritto si aprono scenari nebulosi ed incerti. Si pensi, dicasi, all’orientamento espresso da alcuni Uffici della Procura della Repubblica, secondo cui la “commissione di più reati della stessa indole, possa farsi discendere, non Dalle corti b.la non tassatività (e dunque evanescenza) dell’elencazione contenuta nell’art. 131-bis c.p., che consentirebbe di ravvisare la non abitualità anche in (non meglio precisate) “ulteriori ipotesi”, non espressamente individuate, con la conseguente, notevole riduzione dell’efficacia descrittiva del relativo requisito di fattispecie. 301 Gabriele Aronica 302 soltanto dalla sussistenza di procedimenti per i quali sia già stata già esercitata l’azione penale, ma anche di quelli oggetto di indagine”, per individuare i quali al magistrato del Pubblico Ministero sarebbe sufficiente la consultazione del SICP ovvero la richiesta al Collega del medesimo Ufficio di semplici informazioni o della trasmissione del relativo fascicolo (v. linee guida della Procura di Palermo, p. 10). In altri termini, non è dato comprendere a priori al Difensore quali fatti, in concreto, potranno essere considerati dalla Procura prima, dal GIP poi, ai fini di quel giudizio di non-abitualità, che potrebbe condurre al diniego dell’archiviazione per particolare tenuità ex artt. 409-411 c.p. p. Dall’alveo dei fatti astrattamente considerabili a tal fine resterebbero eccettuati, plausibilmente, solo i fatti in corso di accertamento dinanzi ad Uffici giudiziari differenti (e per ragioni pratico – operative, non certo per effetto del dettato normativo). Altre Procure hanno mostrato di non condividere tale orientamento interpretativo, ritenendo per contro necessario un previo accertamento del fatto (v. linee guida della Procura di Lanciano, pag. 27, ove è dato leggere: “il riferimento alla commissione di reati impone che si tratti di reati accertati con sentenza definitiva”). Andrà, in ogni caso, vagliata la persistente, effettiva tenuta di tali interpretazioni “restrittive” proprio alla luce delle indicazioni offerte dalla Corte di Cassazione. Circa il profilo sub b), esso mette in gioco questioni teoriche di fondo legate alla struttura complessiva della causa di non punibilità ed è quello che più interessa in questa sede. Difatti, la previsione di cui all’art. 131-bis c.p., risultando articolata sui due perni della “tenuità dell’offesa” e della “non abitualità” (così come definita nel comma 3), è sembrata prima facie possedere un’anima divisa a metà tra fatto oggettivo e personalità dell’autore: da una parte, la tenuità dell’offesa pare attingere ai caratteri del fatto oggettivo; dall’altra, gli indici di non-abitualità sembrano riferiti a nozioni, quali “l’identità dell’indole” e la “abitualità”, “professionalità”, “tendenza a delinquere”, afferenti al differente capitolo del reo. Gli indici di “tenuità”, riferiti a modalità della condotta e gravità del danno / pericolo, presentano una loro intrinseca coerenza ed omogeneità (salve talune circostanze soggettive di cui al comma 2). Altrettanto, invece, non può dirsi per gli indici di “abitualità”, oggetto della norma definitoria di cui al comma 3, giacché ivi, alle nozioni di delinquente abituale, professionale o per tendenza, ovvero di medesimezza dell’indole, effettivamente postulanti un’indagine giudiziale sulla personalità del reo (con tutti i problemi operativi che ciò implica, specie qualora tale indagine debba avvenire in fase pre-dibattimentale) sono giustapposte quelle di abitualità/reiterazione/pluralità delle condotte, nuovamente ascrivibili al capitolo della teoria generale del reato. A ciò aggiungasi che la stessa, triplice nozione posta a chiusura dell’elenco pare di per sé foriera di ulteriori equivoci, nella misura in cui – come vedremo infra sub 4 – non sempre attinge a definizioni dottrinali o codicistiche dotate di un’incisiva portata classificatoria o descrittiva. Non poteva quindi non insorgere, nella definizione dell’ambito applicativo della disposizione, una certa confusione, determinata dall’eterogeneità dei termini della predetta elencazione, unita ad una loro intrinseca carenza di tassatività – precisione. A fronte di tali rilievi, l’opzione ermeneutica seguita dalla Suprema Corte circa il carattere esemplificativo dell’elen- La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale, abitualità nel reato e “medesima indole” cazione pare foriera di ulteriori incertezze: la mancanza di una ratio unitaria ed omogenea comune ai termini dell’elenco, dovuta alle predette ragioni, rende davvero difficile astrarne un parametro interpretativo univoco, idoneo a contenere la discrezionalità del giudice. Muovendo da tali premesse, l’orientamento adottato dalla Suprema Corte deve essere vagliato: I. sotto il profilo della corretta applicazione degli ordinari canoni ermeneutici, a partire proprio da quello “storico – soggettivo”, fatto proprio dagli Ermellini; II. sotto il profilo della coerenza sistematica, nonché della coerenza con i princìpi generali del diritto penale. Principiando dal primo profilo, devono rilevarsi alcune criticità nella lettura dei lavori preparatori prospettata dalla Suprema Corte. La prima versione dell’art. 131-bis non conteneva l’elencazione di cui al comma 3, relativa alle fattispecie di “non abitualità”. Per soddisfare la necessità di una più compiuta esplicazione della nozione, la prima “Relazione Preliminare” allo schema di decreto delegato n. 28/2015 premetteva che: a) la “non abitualità” avrebbe dovuto essere tenuta distinta dalla “occasionalità”, di cui al DPR 448/1988 e d.lgs. 274/2000 (v. supra); b) una più compiuta definizione era rimessa all’opera dell’interprete; c) comunque, la non abitualità non sarebbe stata esclusa, di per sé, dalla ricorrenza di un unico precedente giudiziario (v. par. 4 Relazione Preliminare originaria). La Relazione proseguiva: 1).precisando che l’abitualità “sembrerebbe piuttosto quella che venga accertata in relazione al reato oggetto di giudizio; nel senso cioè che quest’ultimo s’inserisca in un rapporto di seriazione con uno o più altri episodi criminosi”, citandosi al riguardo l’esempio del furto costituente “l’anello di una sorta di catena comportamentale” (v. sempre par. 4 Relazione Preliminare originaria); 2).aggiungendo che “parlando lo schema di decreto di non abitualità del “comportamento” … rimane aperta la possibilità di applicazione dell’istituto anche al reato abituale, purché ovviamente esso presenti tutti i caratteri della particolare tenuità e, in particolare, la reiterazione della condotta non possa in concreto integrare una “modalità” della condotta particolarmente indicativa di gravità del reato” (v. sempre par. 4 Relazione Preliminare originaria). Dunque, la Relazione preliminare all’originario schema di decreto legislativo introduceva una nozione di “non abitualità” del tutto autonoma rispetto a quella di “reato abituale” (su cui v. infra sub 5), ed anzi maggiormente comprensiva rispetto alla seconda, nonché di indole “naturalistica”, ossia riferita alla fenomenologia della condotta criminosa nel caso concreto: essa, per essere considerata “particolarmente tenue”, non avrebbe dovuto integrare una “seriazione di episodi criminosi”. Dalle corti 4. “Lavori preparatori” e interpretazione “storico soggettiva” del concetto di abitualità. 303 Gabriele Aronica 304 Nessun cenno, invece, era dedicato alle figure del “delinquente abituale, professionale o per tendenza”, né alla nozione di medesimezza dell’indole. Il successivo dibattito parlamentare (cui allude testualmente la Corte di Cassazione nella pronuncia in commento) avrebbe condotto all’introduzione dell’elenco del comma 3, avvenuta in particolare per effetto del parere reso dalla Commissione Giustizia il 3.2.2015. Tale parere, favorevole a condizione che fosse introdotta la predetta elencazione, era così motivato circa la non abitualità del comportamento: “si ritiene che la particolare tenuità come causa di non punibilità postuli intrinsecamente l’occasionalità del comportamento. Secondo l’effettiva ratio del principio di delega appare evidente che debbano restare estranee all’istituto della non punibilità per particolare tenuità [si esamini bene quest’ultimo passaggio; n. d. r.] tutte le fattispecie che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate (v., ad esempio, gli articoli 572 e 612-bis del codice penale)” (v. pag. 14 parere Commissione). La norma giungeva quindi all’attuale formulazione, ma nell’elencazione aggiuntavi su suggestione della Commissione Giustizia non figurava soltanto la nozione di “reato abituale”, bensì: 1).veniva riprodotto testualmente l’inciso che figurava nel parere, alludendosi espressamente a reati aventi ad oggetto “condotte plurime, abituali e reiterate”, ovviamente senza che fosse accompagnato dall’esemplificazione relativa ai reati ex artt. 572 e 612bis c.p.; 2).veniva aggiunto il riferimento alla dichiarazione di abitualità, professionalità, tendenza a delinquere ed alla medesimezza dell’indole dei reati. La successiva “Relazione illustrativa” al decreto delegato manteneva ferme le precisazioni indicate sopra sub a) – c); eliminava invece quelle indicate sub d) ed e), sostituite dalla mera specificazione per cui, “accogliendo specifica sollecitazione … della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati”, era stato aggiunto nell’art. 131-bis “uno specifico comma … che descrive talune ipotesi in cui il comportamento non può considerarsi non abituale” (v. par. 4 Relazione illustrativa). Già a questo stadio dell’analisi, leggendo in sequenza l’iter dei lavori parlamentari, la “interpretazione storico – soggettiva” fatta propria dalla Suprema Corte sembra addirittura sconfessata. La Suprema Corte ha preteso di de-tassativizzare l’elencazione di cui al comma 3 alludendo all’inciso della Relazione Illustrativa secondo cui essa descriverebbe solo “talune ipotesi” di comportamento non abituale. Sennonché, avuto riguardo all’eziologia dell’elencazione ed alla sua posizione nella sistematica della norma, la sua funzione avrebbe dovuto, recte, dovrebbe essere quella opposta: l’intentio legislatoris era di meglio definire l’ambito applicativo (del limite negativo) della causa di non punibilità, chiarendo una volta per tutte che i reati “abituali” (si noti, alludendo la Commissione Giustizia espressamente alle fattispecie di cui agli artt. 572 e 612bis c.p.) avrebbero dovuto esserne espunti. Difatti, la ratio della norma di favore avrebbe postulato di necessità l’occasionalità, sotto un profilo naturalistico, della condotta illecita. Detto altrimenti: nella sua prima versione, la formulazione della fattispecie di favore “apriva” al reato abituale; la seconda formulazione era invece escogitata proprio per espungerlo definitivamente. Diversamente, d’altro canto, non si spiegherebbe la scom- La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale, abitualità nel reato e “medesima indole” parsa, nella “Relazione illustrativa”, dell’inciso che originariamente argomentava in favore dell’applicabilità del 131-bis al “reato abituale”. Sembra quindi emergere, dal complesso delle suddette osservazioni, un certo qual equivoco caratterizzante l’argomentazione prospettata dalla Cassazione, la quale adduce lo svolgimento dei lavori parlamentari al fine di estendere la portata del limite negativo dell’art. 131-bis, ancorché l’intenzione del legislatore, lavori preparatori alla mano, fosse quella opposta. Resta il fatto che, comunque, l’elencazione aggiunta all’esito del dibattito parlamentare, oltre ad un impreciso riferimento al reato avente ad oggetto “condotte abituali, plurime e [si noti la congiunzione; n. d. r.] reiterate”, contempla anche le nozioni di “delinquente abituale, professionale, per tendenza” e di “medesimezza dell’indole” che – come vedremo infra – nulla hanno a che vedere con l’occasionalità della condotta naturalisticamente intesa. E ciò rende comunque problematico prospettarne un’interpretazione che voglia essere intrinsecamente coerente e conforme ai princìpi penalistici, per le ragioni che andiamo ad illustrare. 5. Reato abituale e “abitualità nel reato”. Conclusioni. Sul piano sistematico e dei princìpi penalistici, sembra anzitutto che, nel redigere la versione definitiva della disposizione, il legislatore delegato abbia confuso due nozioni del tutto eterogenee, ossia quelle di “reato abituale” e di “abitualità nel reato”. Quella di “reato abituale” è categoria dottrinale riferita alle fattispecie incriminatrici caratterizzate dalla reiterazione intervallata nel tempo di più condotte identiche od omogenee. Una parte degli autori, seguita dalla giurisprudenza, distingue: a. reato necessariamente abituale, in cui la reiterazione delle condotte è necessaria per il perfezionarsi del reato; a tale categoria appartengono, esemplificativamente, le fattispecie ex artt. 572 e 612bis c.p. (citate dalla Commissione Giustizia); Dunque, l’efficacia classificatoria della categoria attinge alla struttura oggettiva della fattispecie incriminatrice, dalla quale discendono rilevanti conseguenze in punto di disciplina (ad esempio per ciò che concerne il momento perfezionativo, il decorso della prescrizione, la successione delle leggi penali nel tempo). Diversamente, l’abitualità nel reato è nozione normativa, espressiva di una particolare “condizione dell’autore”, descritta dagli artt. 102-103 c.p. e scissa nelle due figure della “abitualità presunta” e della abitualità “ritenuta dal giudice”, quest’ultima riassuntivamente sintetizzabile come “dedizione al delitto”. L’abitualità è inoltre presupposto per la “professionalità nel reato” (art. 105 c.p.). Il codice, peraltro, non esclude che i diversi episodi criminosi rilevanti ex artt. 102-105 c.p. possano formare oggetto di unitario e contestuale accertamento giudiziale (art. 107 c.p.). L’affinità tra le descritte nozioni è però soltanto semantica: “abituale” nel linguaggio comune significa “non occasionale”; ma altra cosa è la non occasionalità della condotta, Dalle corti b.reato eventualmente abituale, in cui tale reiterazione può non esservi o meno, e tuttavia si versa pur sempre in presenza di un unico reato. 305 Gabriele Aronica 306 caratterizzante il “reato abituale”, in cui le condotte identiche od omogenee sono “intervallate”; altra la non occasionalità nel reato, presupposto per la dichiarazione di abitualità nel delinquere, implicante, in sintesi, una reiterazione nel tempo di episodi criminosi di per sé separati ed “autosufficienti” (nei casi previsti dall’art. 102 c.p., con le caratteristiche e le tempistiche presunte dalla legge). Le nozioni attengono quindi a due capitoli separati del diritto penale. Stessa considerazione vale, a fortiori, per l’ulteriore nozione di “tendenza a delinquere”, del tutto autonoma e distinta dalle precedenti (art. 108 c.p.). L’inclusione delle tre, suddette nozioni all’interno dell’elencazione del comma 3 pare quindi frutto di una confusione concettuale, che, vista la ragione originaria dell’introduzione dell’elenco, desunta dai lavori preparatori ed in particolare dalla lettura del parere della Commissione Giustizia, può aver trovato origine nella predetta affinità semantica, ma risulta priva di alcun fondamento tecnico – giuridico. L’unico possibile trait d’union tra le diverse figure potrebbe essere la lettura delle fattispecie di reato abituale in ottica “soggettivistica”, quali espressione dell’intento del legislatore di punire la tendenza a delinquere del reo, espressa dall’abitualità della condotta incriminata. V’è oramai concordia di vedute sul carattere recessivo di tale lettura, del tutto ingiustificata alla luce della struttura obiettiva delle fattispecie astratte esistenti nel nostro ordinamento penale. Ciò posto, alla luce della reale intentio legis, l’elencazione del comma 3 non può che intendersi come tassativa. Tale soluzione ermeneutica, invero, sembra la più coerente ai principi fondamentali della materia penalistica, ed in particolare al principio di tassatività – determinatezza ex art. 25 Cost., giacché la relativa previsione normativa – sia che la si intenda come limite negativo di tipicità della causa di non punibilità, sia che la si intenda come mero limite esegetico della medesima – opera in senso sfavorevole al reo. A maggior ragione, una volta preso atto della mancanza di una ratio unitaria comune alle diverse ipotesi riportate, l’elencazione deve intendersi come casistico-analitica, anziché come esemplificativa non esaustiva: se i termini dell’elenco non rispondono ad una logica comune, non è neppure possibile, logicamente, individuare un’univoca regula iuris di cui l’elencazione possa considerarsi esemplificazione. Tale rilievo, a ben vedere, mostra un primo profilo di lacunosità dell’argomentazione impiegata dalla Suprema Corte. Difatti, per corroborare il principio di diritto, la Suprema Corte afferma bensì la non esaustività dell’elenco di cui al comma 3, ma, in positivo, non individua né l’unitario criterio informatore della esemplificazione, né tantomeno la specifica ragione giuridica per cui il reato continuato è considerabile “non abituale” ex art. 131-bis. Dice, in pratica, ciò che la predetta norma “non è”, anziché individuarne un nucleo precettivo unitario, da riferire alla figura del reato continuato. Intendendo l’elencazione come tassativa, non pare possibile condividere le conclusioni della Corte. Il reato continuato nulla ha a che vedere con la “dedizione al delitto” caratterizzante l’abitualità nel delinquere: anzi, secondo insegnamento pressoché costante, e teoricamente fondato, della giurisprudenza di legittimità, le due nozioni si pongono in La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale, abitualità nel reato e “medesima indole” • il riferimento alla reiterazione può ben intendersi come duplicato sovrabbondante dell’abitualità, magari volto a scongiurare letture equivoche di tale qualificazione del reato, riferite all’indole del reo, come insegna anche certa autorevole dottrina tradizionale; • il riferimento al carattere “plurimo” della condotta andrebbe invece considerato un’inutile superfetazione normativa, da ritenere assorbita nelle prime due qualificazioni, a meno di non volere partorire una inedita categoria classificatoria, la cui efficacia descrittiva è però revocabile in dubbio, essendo riferibile tanto a diverse tecniche di tipizzazione Dalle corti perfetta antinomìa e risultano concretamente inconciliabili (ex multis, Cass. pen., sez. III, 12 gennaio 2016, n. 4364, ne Ilpenalista.it, 2016, 6 maggio). Inoltre, sul piano teorico, ai fini di un’eventuale dichiarazione di abitualità, il reato continuato non può che essere considerato “reato unico”. Sull’eterogeneità delle figure di reato continuato, il cui tratto distintivo è rappresentato dal coefficiente psicologico dell’ ”identico disegno criminoso”, e reato abituale, caratterizzato sul piano oggettivo, nei termini sopra descritti, non è necessario spendere soverchie considerazioni. Ci si deve chiedere, allora, se, per chiarire il percorso argomentativo della sentenza in commento, possa soccorrere il riferimento alla «ridondanza dell’ulteriore richiamo alle “condotte plurime, abituali e reiterate”», contenuto nel precedente evocato dagli Ermellini a supporto della propria decisione (ossia Cass. Pen., sez. III, 28.5.2015, n. 29897 cit.). Potrebbe infatti ipotizzarsi che la vis espansiva dell’elencazione di cui al comma 3, in quanto “de-tassativizzata”, si fondi sulla ulteriore imprecisione in cui è incorso il legislatore delegato adagiandosi sul dictum del parere della Commissione Giustizia, parlando di condotte ad un tempo “abituali”, “reiterate”, “plurime”. Nei primi, autorevoli commenti alla causa di non punibilità, dei singoli aggettivi è stata offerta un’interpretazione tesa ad attribuire a ciascuno di essi un significato autonomo. In particolare, l’inciso “plurime” è stato riferito anche ai reati complessi, oltre che ai reati aventi ad oggetto due o più “condotte” naturalisticamente intese, o ancora ai reati concretamente realizzati con più atti tipici nel medesimo contesto temporale, o che tipizzano “condotte progressive”. Una rapida lettura dei lavori preparatori, in specie del parere della Commissione, mostra che in realtà l’espressione era ivi utilizzata in senso atecnico e si riferiva plausibilmente ai reati “abituali” stricto sensu intesi, come testimoniato dall’esemplificazione immediata con le fattispecie astratte dei “maltrattamenti in famiglia” o degli “atti persecutori”. Errore tecnico del legislatore delegato è stato quello di trasporre tale espressione nella definitiva formulazione del requisito di fattispecie, così confondendo gli interpreti, indotti ad attribuire un significato univoco a ciascuno degli aggettivi della “triadica” qualificazione, in ossequio ad un (astrattamente corretto) canone di interpretazione letterale. A fronte di ciò, chi scrive ritiene che l’unica qualificazione dell’elenco dotata di una reale, autonoma portata concettuale, descrittiva e dunque normativa debba considerarsi quella di “condotte abituali”; mentre: 307 Gabriele Aronica delle fattispecie quanto a differenti fenomenologie concrete delle condotte criminose (come testimoniato dall’incertezza e dalla varietà delle interpretazioni riscontrabili nella prassi e nella dottrina). Una plausibile alternativa, al fine di attribuire al termine autonoma portata concettuale e normativa, potrebbe essere quella di riferirlo alle ipotesi di reato eventualmente abituale realizzato, in concreto, con la reiterazione di più condotte. 308 Piuttosto, è da chiedersi, in ultima istanza, se la paventata vis espansiva dell’elencazione, con riferimento al reato continuato, non possa derivare dalla previsione circa la possibile identità dell’indole dei reati componenti il “comportamento abituale”. La “medesimezza dell’indole” é nozione di tipo normativo, definita all’art. 101 c.p., che la collega, in prima battuta, all’omogeneità delle norme incriminatrici violate, ed in seconda battuta ed alternativamente, alla presenza di “caratteri fondamentali comuni” tra i due o più fatti di reato commessi. Considerando il reato continuato come “pluralità di reati”, una volta accettato che, ai fini dell’art. 131-bis, i diversi episodi criminosi possano essere accertati anche nella medesima sede processuale – id est quella in cui si discute dell’applicabilità della causa di non punibilità – si potrebbe avere un argomento forte a favore dell’opzione interpretativa fatta propria dalla Suprema Corte. Difatti, se si presumono “della stessa indole” condotte violatrici della medesima disposizione di legge penale, giusta il disposto dell’art. 101 c.p., tutte le volte che ci si trovasse di fronte ad un reato continuato “omogeneo”, dovrebbe ritenersi integrata un’ipotesi di “comportamento abituale” (così come certa dottrina sembra ritenere). All’evidenza, l’esito di tale percorso interpretativo finisce per condurre ad una radicale restrizione dell’ambito di operatività dell’art. 131-bis, per ragioni che paiono del tutto estranee all’originaria intentio legis e non senza esiti contraddittori. Ad esempio, mentre nel caso di reato continuato omogeneo, la discrezionalità dell’organo giudicante circa il giudizio di non abitualità sarebbe del tutto annullata, addirittura dalla littera legis, tale discrezionalità rivivrebbe nell’eventualità di reato continuato eterogeneo, che in siffatto modo verrebbe ritenuto, paradossalmente a priori, juris et de jure, “comportamento” dotato di maggiore tenuità. L’esito interpretativo sembra ancor più paradossale, considerando il fatto che, tradizionalmente, la figura della continuazione svolge una funzione di favor per l’imputato, a mitigazione degli eccessi sanzionatori cui frequentemente può dar luogo la rigida applicazione dei severi compassi edittali del codice. Oltre a ciò, non può sottacersi l’ulteriore rilievo per cui, data l’ampiezza che nella prassi caratterizza l’impiego della figura del reato continuato, la diffusione di un simile criterio ermeneutico relegherebbe in spazi davvero ristretti la concreta operatività dell’art. 131-bis. Nondimeno, le uniche vie percorribili per evitare di confinare l’art. 131-bis a lettera morta paiono essere: I..quella di considerare il reato continuato un “reato unico”, anche ai fini della definizione dell’ambito applicativo dell’art. 131-bis, come sempre si è fatto ogniqualvolta si è trattato di ricostruire la struttura della continuazione in relazione a norme di favore; La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale, abitualità nel reato e “medesima indole” II..alternativamente, quella di offrire, della nozione di “medesimezza dell’indole”, un’interpretazione correttiva, che la riferisca soltanto alla identità concreta e sostanziale dei fatti di reato, di cui alla seconda parte della definizione di cui all’art. 101 c.p., così rimediando alla “rigidità” della disposizione, nei suoi riflessi sull’operatività della causa di non punibilità. Resta evidente, in ogni caso, l’inadeguatezza – già autorevolmente denunciata - di una previsione che àncora la “medesima indole” alla mera omogeneità delle previsioni violate, senza consentire una diagnosi circa la personalità del reo fondata sull’effettiva fenomenologìa dei fatti commessi. Gabriele Aronica Bibliografia Amarelli, La particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. si applica ai reati con soglie di punibilità, in Giur. it., 2016, 709 ss. Id., L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Inquadramento dommatico, profili politico-criminali e problemi applicativi del nuovo art. 131 bis c.p. (seconda parte), in St. iuris, 2015, 1102 ss. Id., L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Inquadramento dogmatico, profili politico-criminali e problemi applicativi del nuovo art. 131 bis c.p. (prima parte), in St. iuris, 2015, 968 ss. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003. 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