- Rudy De Cadaval

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- Rudy De Cadaval
AIUTAMI DUNQUE A LEVARMI E MORIRE COLPEVOLE SULA CROCE DI SINISTRA
Grido colpevole
alla porta di questo cantiere
costruttori di croci
ascoltate il mio comando
Ho rubato a sinistra ed a destra
voglio essere levato accanto alla croce
di questo cliente onesto
Non di te ho paura Barbuto
tu sei quanto meno annoiato
il ladrone alla destra mi fa paura
secondo il Libro non ha alcun giorno
Aiutami dunque a levarmi e morire colpevole
sulla croce di sinistra
Non di te ho paura Barbuto
e questo non è tutto quello che ho potuto apprendere
So ancora che non è dato
a tutti
di finire in questo dolce modo
Son un buon pagatore ai banchetti
che cantino i galli all’alba di questa orgia
non posso arrampicarmi due volte sulla croce
Che silenzio non vedo cogli occhi
qui lassù a sinistra dove mi trovo
la pena è abbastanza dolce
e i chiodi sono delicati a battere
Non mi scendete dalla croce falegnami
perché pago.
FRUTTO PROIBITO
Leonessa accanita levigata
nell’arco degli occhi una lacrima di sale
Profondamente l’erosione dell’attesa
Levigata dalle rondini alla finestra
multiplo ritmico dell’accostamento
I fianchi e il nostro sangue
come pesci fiammeggianti nel palpito
Profondamente l’eresia della luce
Levigate le mani d’acqua fresca
Amore
la cerimonia dell’assoluzione del peccato è semplice
Profondamente la stigmatizzazione delle persone
Levigata dai capelli nimbo di madreperla
e di conchiglie risonanti
Che la luce chiami l’uomo
quando le cosce bruciano a metà
Profondamente la trasparenza della medusa
Levigate caviglie
ginocchi
dalle linee di pioggia tra i pomi
e che le piante raccolgano freschezze
Levigato sorriso alla ricerca
al passo arrotolato nel serpente
alla parola
all’amore
la libertà
E levigato d’oro il grembo Amore
la nascita
è il primo atto politico
Quanto alla morte
tuo
frutto
proibito.
da “Poesie D’Amore”, prefazione di Roberto Sanesi, Severgnini-Stamperia d’Arte, Collana di Poesie Cloruri,
Milano
1983
LA CHIAVE
C’era la chiave e all’improvviso non c’è.
Come entreremo in casa?
Forse qualcuno troverà la chiave perduta,
la guarderà e a che serve?
cammina e la fa ballare nella mano
come un pezzo di ferro vecchio.
E se accadesse lo stesso,
non solo a noi,
all’amore che ho per te: a tutto il mondo
mancherebbe proprio quest’amore.
Raccolto da mano estranea
Non aprirà nessuna casa
e rimarrà solo forma e niente più
e che la ruggine lo intacchi.
Tale oroscopo non si sfila,
né dalle carte da gioco, né dalle stelle,
né dal grido del pavone.
DECISIONE
Ho deciso di essere lirico come lo spazio
fra i braccioli della sedia elettrica.
Ho deciso di essere bello come un dialogo a
quattro labbra, il coscetto e il pasticcio a forma di timpano.
Ho deciso di essere prodigo come i capelli dell’uomo
passata la quarantina.
Ho deciso di essere brutale come il teatro con uno
spettatore alla prima di Fedra.
Ho deciso di essere divertente come il pettine che
sporge dalla tasca del morto.
Ho deciso di essere originale come il mio conoscente
poeta che scrive 35.674 poesie all’anno con
l’apparecchio per riparare le calze.
Ho deciso di essere musicale come un prigioniero che
dallo stridio delle chiavi riconosce i meccanismi
delle serrature.
Ho deciso di essere tenero come l’interno della
stanza che abbraccia la dormiente.
Ho deciso di non darmi, sarà meglio.
IL LICOPODIO
Erano tempi in cui il verde
aveva la forza di arrampicarsi verso la gloria,
erano tempi in cui era permesso frusciare
come cima d’albero
all’erba più misera,
dove cammina il cervo.
Come la mano del grande falegname
il vento scolpisce le cime degli alberi,
e sopra i rami nell’ombra
arrivano già le oche selvatiche,
annunciando sotto le nuvole
la nascita del bosco alto
da erbe capaci di arrampicarsi verso le nubi.
Gridano le oche sopra le melme:
la selva vuole volare
dietro il nostro coro,
non accadrà per caso,
che le ali crescano agli alberi
il bosco si semina nel suolo
e deve rimanere sulla terra
come il gregge imprigionato,
solo a noi, oche
è dato il grido nel volo
Volta per volta nella tebaide
l’erba in albero si trasforma.
Dice il muschio: giacciono le pietre,
uniscono le mie ali alla loro forma,
desidero alzarmi insieme nel volo,
sono debole, mi manca la fede
nella potenza del mio verde.
Giace il sasso accoppiato
con la cima verde scura.
Il muschio attende sempre nell’alba color sorbo
e quando il cielo bruno porporino dà frutti nella notte.
Ma i fiori si rifiutavano
di cambiare nel bosco.
Noi siamo raggi colorati
espulsi nel fondo della terra,
perché nascondere lo splendore sotto la scorza,
ondeggiamo come il prato, ondeggiamo come il bosco
arrampicandoci nella danza sulle rocce.
Il licopodio si accresce, si accresce,
striscia una volta nel sole, una volta nell’ombra
e si avviticchia come serpente verde.
Oh, erba stupida boriosa,
spicchi in volo per la scala aerea,
illuditi e aspira
a una aperta contrada.
Finirà la tua gloria!
Lontano da qui vivono gli uomini,
il boscaiolo cammina, abbatte la selva,
sopra gli alberi tagliati grida il corvo:
l’erba voleva volare,
ecco il ritorno dei boriosi
stesi i tronchi uccisi
le braccia spiegate,
perché l’albero anche sussurrando in alto
serve gli uomini sulla terra
e un giorno il ramo troverà riposo sull’erba.
Portano il tronco nel portale,
i cani fiutano le cime degli alberi,
e trovano solo la penna del corvo
che sa volare sotto le nubi.
Io, licopodio non voglio la scorza,
che si fa preda della mannaia,
non voglio spigare le ali
per cadere sotto l’ascia
perché estraggano tavole dal tronco,
perché io da morto diventi
letto d’amore
per giovani e belli.
Preferisco strisciare sulla terra
e non servire a nessuno
da asse per la bara e da trave per la casa.
Dove c’è la selva cammina il lupo.
Il muso fiuta, le zampe saltano.
Il cervo fugge nei campi,
via foreste! Via boschetti!
Oh! vivere qualche istante di più!
E’ già caduto e la terra con lui disteso
diventa un vassoio sanguigno.
I rapaci tornano nella selva.
Il licopodio si trascina sul sentiero
e si avviticchia all’arbusto,
si profila il letto di lupo,
dove il licopodio protegge l’arbusto
contro la pioggia.
E gli alberi in alto sussurrano:
è arrivata l’ora della notte
e l’erba non si arrampica più
in cima,
d’ora in poi la quercia diventa aquila
verde,
l’arbusto un uccellino di foglie,
il muschio diventa muschio
e il licopodio diventa lupo mannaro
delle terre selvatiche.
I rami sussurrano di continuo:
tutto si arrampica in alto
per servire qualcosa sulla terra,
chi si priva di questa potenza
e stacca le ali verdi
diverrà letto di lupo
come il licopodio.
Si è alzata la luna, brillano le foglie,
in basso annerisce il licopodio
come le lunghe spine della selva.
da “Colloquio con la Pietra”, prefazione di Roberto Sanesi, Guanda Editore, la collana i Poeti della Fenice,
Milano,
1985
DALLA MIA PAROLA EREDE CRESCERA’ L’ALBERO DEL SILENZIO
Non cerco me nella poesia mi nascondo in fondo
mi nascondo infondo
Non cammino nella metafora
come nel cappello decorato di piume
Invito al tavolo gli amici
e i nemici ancora più fedeli
Morirò tutto ma dalla mia parola erede
crescerà l’albero del silenzio
E sopra la baraonda del mondo
sporgerà il ramo stupito
ALLA RICERCA DELLA MIA IDENTITA’
Un giorno ha deciso
di sapere chi sono
ho letto le mie lettere
e ho ascoltato la mai voce
Mi sono spogliato di tutte le onorificenze
ho rinunciato a tutti i privilegi
Ho perduto la carta d’identità
ed il libretto militare
nei quali c’erano le mie foto
con l’obolo della lingua nella bocca
Tale è il prezzo per attraversare
il fiume della lealtà
Alla fine mi è caduta
la rete dei nervi
ero sicuro fino al midollo delle ossa
lontano dalla maestria degli imbroglioni
che si sono impossessati dell’arte del parlare
con le mani strette sulla gola
Sono l’aria malata
Con ciò il poeta ha voluto dire
che si sente ottimamente nel soprabito
POETA TRISTE
Hanno sputato sul poeta
per secoli asciugheranno
la terra e le stelle
per secoli i propri volti
il poeta sepolto vivo
è come il fiume sotterraneo
conserva in sé
volti nomi
speranza
patria
il poeta ingannato
sente le voci
sente la propria voce
si guarda intorno
come l’uomo svegliato
di notte
ma la menzogna del poeta
è multilingue
ed enorme
come la torre di Babele
è mostruosa e
non muore mai.
da “L’albero del silenzio”, Edizioni del Leone, Treviso, 1988
MI FARO’ PER VOI POETA PUBBLICO
(a Camì)
Quando avrò perso tutto,
la mia debolezza, la mia lingua, il mio gusto di lottare,
mi girerò ancora una volta di fronte a voi,
uomini miei,
carrettieri, braccianti, pastori, garzoni di drogheria,
facce dimenticate smarrite rinnegate,
uomini dei paesi nascosti
in un tempo che non vuole
che non può sbocciare
e troverò nelle vostre occhiate,
nella stretta delle vostre mani,
nei vostri gridi lanciati senza sosta
dal fondo alla cima della terra
e che nessuno riesce a far tacere
una ragione per credere ancora.
Tornerò ad essere per voi,
abitanti goffi e maldestri
di un paese dalla voce d’infanzia e di terra,
il ragazzo che non ha smesso d’essere
un bimbo di città in cerca d’amore,
del pioppo flessibile come il canto dello straccivendolo
che ossessiona le alte praterie della vostra memoria,
di uomini che sanno tutto senza avere mai letto nulla,
tranne il libro del tempo che fa.
Io alzerò una tavola
di fronte allo slancio delle colline
e mi farò per voi
poeta pubblico.
TUTTO RITORNA MADRE
Tutto ritorna, il leone, il mago: il Sole,
Venere, la Luna, le Pleiadi,
ma l’uomo, l’uomo, la donna, la bella
non tornano più.
Madre devi tornare.
Ma il solo dogma in cui credo
l’ho detto: è la libertà,
e il giorno che non sapessi di non essere
libero mi ucciderei per mostrare
che sono libero, ma lo so, ma lo so
che sono libero, perciò ho le catene
dell’impero, di tutto ciò che ritorna.
Mangia ancora i frutti dei lampi
nella notte dei falò di Quinzano sotto la luna cinta d’alone
tutta la regione per monti e per valli
sarà un lampo d’anime armate, di sangue di libertà;
ascolta le ossa degli antenati, solo ciò ti può ridestare;
quanto hai dormito, Madre, fata regina dei boschi?
chi ti ha dato, Madre, il veleno dei sogni e della morte?
chi ti ha fatto credere, Madre, quel veleno una bevanda divina?
il nostro piangere, Madre, e le nostre lacrime ardenti
ti giungeranno alle orecchie, ma quando, e nel cuore, mai più?
Ahi noi non siamo api che per difendersi muore.
Siamo tutti appiccicati dietro all’oca d’oro.
Ahi l’animale ha tutto il genio della carne
ma è puro, amoroso, con i non-amici ed i vecchi,
è limpido selvaggio.
Ma l’uomo è talmente cattivo che quasi vedi
in questo lo spirito, la libertà dell’anima:
se la natura è buona, è cattivo lo spirito.
Oppure l’animale ha più, più spirito dell’uomo?
Viva l’arte tra la vigna della Valpolicella
e la roccia di San Rocchetto.
PASSAMI LA TUA BATTAGLIA FIDAIYIN
Nel ventre del tuo paese
dove sabbia e corpi germogliano
alla stagione del grano,
nella kasba dove la luce prorompe in un urlo interminabile,
nelle accecanti montagne del Golan dove la vita precipita
nel tempo fermo della tua storia,
tra i volteggi indifferenti dei giorni,
nella sconvolta geologia della tua latitudine,
incontriamoci Fidaiyin.
Dammi la tua battaglia e il martirio
e il sangue che ti scorre dal viso
le tenebre contorte del tuo ventre
e la fronte gelata dalla purezza,
dammi il culto e la fame
e l’hallagiah impregnato di morte
la terra aperta e la funebre luna
la distruzione dei neri grappoli
- non è diverso a lanciarli
che i noccioli di prugne da ragazzo.
Dammi il credo Fidaiyin,
la verità trafitta dagli spari,
le spiagge dissanguate della Palestina
che i tuoi piedi risvegliano
scesi a fondare la vostra libertà.
Dammi la mano Fidaiyin,
posala sul cavallo del mio orrore,
la vita mi ha tagliato il sogno dalla gola,
la mia piccola sorte individuale
mi tormenta come una catastrofe.
Abbiamo ascoltato crollare i templi dei padri
e il ghibli disperdere i troni,
affondare le pietre nella sabbia degli anni.
Ma del tempo che sale
la stessa onda ci ha raggiunto
e non abbiamo scampo.
Noi moriremo a viso aperto
conoscendo ogni male fino alla morte
e come le cellule combattono la loro battaglia
e come l’amore sparge l’inesorabile sperma
- ancorata a un amplesso la lunga sorte del mondo –
con quali sogni le cicatrici del dolore
scrivono la storia di un popolo.
Sono caduti attorno a Rameb
i petali bianchi del giorno,
il sole si tira da parte a morire,
semina la notte rumori di stragi e fiamme,
imposta presenza infuria
la morte danzatrice del buio.
dammi la tua mano Fidaiyin,
nei campi arati della distruzione,
mostrami il fiore della verità
accovacciata ai muri,
apparire improvvisa la tua rivelazione,
esploderò la luce dagli occhi di fiamma
travolgere tutta la terra.
Dammi la tua mano Fidaiyin,
e la speranza e la vita.
Qui nel lattice chiaro dell’incerto
da sopraffatti terremoti, brancolando
salgono ai muri le piccole mani dell’edera,
la terra di Palestina si lecca le piaghe
fa giorno e caldo.
da “Viaggio nello specchio della vita”, prefazione di Giancarlo Vigorelli, Edizioni ILTE, Torino, 1994
MUTA PIETRA
Muta la pietra della coscienza
legò la mia lingua, sostenne
il labbro
il dente, le palpebre
e l’orditura delle dita,
pulsare dell’uomo che si muove
sia pure trascinandosi
sulla pietra.
Muta pietra, sta tessendogli
l’inquietudine della miseria.
Muta la pietra si inchiodò
nell’inferriata della mia esistenza.
Spietata al timore acuto
la denuncia carceraria.
Muraglie e fame, vittoria
degli sciocchi
e stanco ansito
di guerrieri perdenti.
Muta la pietra… ma
a dispetto del tempo.
giungo, a te, secchio
bere di orbita ignorata,
figlio della verità
con resistenza.
ELEGIA
Il tempo mi va via – sognando ho visto nella terra il mio cranio.
Le parole – cimiteri rilucenti di nomi dei morti,
passo le loro porte – e il destino mi raggiunge.
Il leone della mia giovinezza non scuote più la chioma.
I caprioli sono scappati – l’orizzonte si è irrigidito
nel profilo delle montagne.
Vedo scurire il verde – il sole entra nel mare.
LA BARCA VA ALLA DERIVA
E dopo:
sempre più a valle lungo il fiume,
giorni più grigi anni più grigi
(una nera corrente caduta a disuso,
sotto alte tremule cataratte, spirali di dighe
ricoperte di alghe battenti
dove l’acqua scorre attraverso larghe falle;
la corrente è più impetuosa,
sulle rive si scorgono edifici cadenti,
scheletri di barche in secca,
io stesso in cammino, alla deriva
su di una qualche chiatta, bianca e azzurra un tempo,
ormai praticamente incatramata
e con foglie marce, cicche di sigaretta
ami rugginosi che non avevano pescato
sul fondo, parzialmente alla deriva
di chiusa, in chiusa sotto gli alberi).
C’è “una educazione del cuore”
che ci rende più savi col passare degli anni,
e crei calore, fiducia vita
dove un tempo c’era solo anelito,
che insomma converta il gelo in calore,
la brina in vegetazione e tramuti
la sconfitta, non in vittoria,
ma in un’aria più pura, più fresca
che si può respirare senza inquietudine?
Lo credo, e non lo credo,
volevo crederlo e dovevo crederlo.
C’è un veleno che si diffonde
una sostanza segreta dall’effetto calmante,
e che aguzza lo sguardo: l’orizzonte perde importanza
e qualche pietra insignificante una foglia putrefatta,
la capocchia di un chiodo in qualche vecchia parete
diviene invece chiara, tu la osservi,
essa ti osserva, e per un attimo
ti comprende meglio di quanto tu non comprenda la foglia, la pietra, il chiodo,
ma ecco ch’essa tace nuovamente, come se si
fosse pentita all’ultimo istante e rinunciasse a confidarsi.
E questo veleno fa sembrare piccoli gli anni,
rende piccola addirittura la storia:
come ci appaiono vicine le utopie dell’ottocento,
il fresco bianco legno che Jan Racine lavorava
per farne un’immagine dell’uomo
ha appena qualcosa di più del color grigio causato
dalla pioggia.
E soltanto io, tra tutti gli esseri, son troppo vecchio.
E’ il veleno lo stesso veleno che troppo presto
spegne le rivolte? Lo stesso veleno che penetra
invisibilmente nel linguaggio e lo avvelena
con concessioni, inerenti menzogne, cinismi,
risoluzioni unanimi, lo stesso veleno il quale fa in
modo che l’Italia, questo mediterraneo e soleggiato paese,
si trasformi in una ceca impenetrabile
macchina di potere dove neppure il migliore
evita di essere intrappolato dal linguaggio di potere
travestito di tecnologia dell’ultimo congresso pianificatore,
lo stesso veleno che nelle cellule delle Brigate Rosse
crea un manicomio da epurazioni e controversie
ideologiche e rende il borghese tavolo da pranzo vittoriano
un esempio per il futuro, per
il sognato mondo più pacificato del futuro,
lo stesso veleno che crea in me l’acqua senza fondo del dubbio?
Non lo so. Non so nulla.
So che l’estate è finita, che l’autunno è senza pioggia,
che inquieto batte un martello, inquieta la barca va alla deriva,
che nel mezzo della nera corrente un gorgo sta immoto
in attesa di inghiottirmi.
da “Muro di pietra”, Libroitaliano Editore, Ragusa, 1998
CONFESSIONI DELL’ARTISTA DI VITA
“Tutto quello che è qui,
è materiale per la mia arte.
Sull’estremo lembo di terra
di fronte ai disordinati
ritmi del mare
assaporo un richiamo nell’aria.
Io derivo da queste rocce che arrestano
l’impulso del mare.
Ma tale condizione, se l’accetti,
è come aria: aria
impregnata dal gusto di salsedine.
Penso, quindi non posso
evitare il pensiero del domani.
Fuori dalla finestra, gli uccelli
dell’aria e del giglio
si sono smarriti nell’azione.
Penso agli uccelli che dormono
in volo, al pallido
cereo splendore del giglio, a me stesso,
e al domani che incombe.
L’unica cosa chiara è che non debbo
smarrirmi nel pensiero.
Controlli quel che puoi,
e usi quel che non puoi.
Inebriante librarsi sopra i venti,
leggero, con un senso di scelta.
ruotare sopra una città,
scartare le migliaia, e scegliere l’uno.
Osservare la brava gente laggiù, sapere
che il loro sangue circola,
che si avventa come il tuo
vivo tra estremi.
E i non eletti,
sono, Come morti. La loro morte,
adesso, conferma gli eletti.
Certo, essere dati per morti
può portare dritto ad esserlo.
Leggo di loro: e che altro mai
di più corroborante
per la propria identità
del suicidio degli altri?
Se esistono arti proibite,
la mia dev’essere proprio una queste.
Lei è in preda alla disperazione,
ma sono qui io, per fortuna.
Divenuta indefinita,
si appoggia a me che a ogni momento
sono robustamente ridefinito,
conscio del suo bisogno, ed allenato
ad avere pochi bisogni per me stesso.
Mentre così la sostengo
col mio splendido controllo,
mi chiedo a un tratto: “e se fosse lei
ad avere il sopravvento?”
E levo non quello che ho,
ma quello che vorrei avere,
e mi vedo negli altri.
C’è una ragazza in treno
che emula l’alveare
delle fotomodelle
di quattro anni fa.
Avvampo
agli scherni che mi crescono in cuore,
per paura che qualcosa li esprima.
Perché mai s’è formato qualcosa
di così tenero, così esposto al dolore?
Ecco un’immagine famosa
E’ di un piccolo ebreo,
a Varsavia, qualche anno fa,
trascinato non si sa dove.
Sua madre quel mattino lo ha vestito
pesante, con berretto e cappotto.
Lui fissa la macchina fotografica
mentre passa. Qualsiasi cosa
quei grandi occhi scuri e splendenti
abbiano appena accolto,
ora non riescono più a vedere
alcun richiamo nel vasto mondo.
Invecchio nel disegno.
Le profezie si avverano,
mai però come si prevedeva,
quasi per caso,
anzi, quasi osservando
qualche ordine estraneo.
Ma a me interessa
il mio rendermi conto che il disegno
è in ogni parte etico
e armonioso: circoli
cominciano a chiudersi, linee a equilibrarsi.
L’arte di disegnare la vita
non scusa quella vita.
La gente dimenticherà Shakespeare.
Lui giacerà con me e con Ungaretti
qui dove grufola il porco.
Più tardi, con un lampo
esploderà il sistema solare
e cadrà nello spazio, perso per sempre.
Per quello che si perde
come per la vita
non vi sarà scusa
non v’è giustificazione.
IMMORTALITA’ ONESTA
La poesia non mi è necessaria per respirare
né per amare, né per mordermi le labbra o svanire
in città, né per soffrire, gridare o uccidere. La poesia
non mi è affatto necessaria, mi afferra
alla gola con un pugno di carta, cola il secco
sangue degli aforismi, i grigi occhietti dei postulati
si socchiudono e si aprono, il sordo richiamo d’un corteo
da dietro una barricata che s’innalza
vi scava piccoli alloggi per immigrati.
Oh no, la poesia mi guarda come un’animale
spaventato; modesto atelier di un lirico
schietto che alleva polemica
per tempi migliori. La poesia, sporco asciugamano
d’albergo che passa da una mano all’altra
e ha sempre lo stesso odore di grigio sapone. Che bello
mantenersi con la morte, che si allena
su grandi distanze al Madison Square Garden
e credere che sia una metafora
con cui si avrà immortalità onesta.
VECCHIO POETA
Questo poeta vive ancora benché non gridi slogan
ha le labbra rosse di marmellata di ciliegie
accarezza il cane sotto il muso, guarda rose indolenti.
Oh tempi andati foste forse sognati?
L’anima è appassita come un piccolo nontiscordardimé
l’eco si è installata in lui
a volte apre la bocca per inspirare aria
ma ha bisogno di forze?
lui pugno di terra portato dal vento
il vecchio poeta profuma come un’ostia
non sa se la vita a cui volle dare un nome
si fermerà al momento giusto
l’eco ironicamente ride.
da “Il muro del tempo”, prefazione di Ninnj Di Stefano Busà, Lineacultura, Milano, 1998
L’IMMORTALITA’
(a nonna Creta)
Ricordo mia nonna,
quando stava morendo,
s’era tutta rimpicciolita
e ingrigita.
Le chiesi se aveva paura,
scosse la testa.
Avevo paura di toccare
la morte che avevo visto in lei,
non trovavo niente di bello
di consolante
nel suo ritorno a Dio.
Ho sentito tanto parlare
dell’immortalità,
ma io non l’ho mai vista.
Mi chiedevo
come sarebbe stata la mia morte,
come avrei reagito sapere
che quel respiro sarebbe stato l’ultimo
per sempre.
Spero solo di saperla
accogliere, come ha fatto lei,
con la stessa calma,
perché è lì che si nasconde
l’immortalità
che non avevo mai visto.
NESSUNA OPPRESSIONE È ETERNA
Dove ci sono case di pietra e calcestruzzo
devono esisterne altre di effimere strutture di materia,
il paese si estende in ogni direzione, in alto
e in profondità.
Sotto strati di terra il figlio
calpesta il padre, la figlia partorisce sulla tomba della
madre.
Spiriti fluttuano sui tetti,
con una grande tenda di silenzio e sangue riparano i vivi
dall’alta marea dell’elemento.
I vivi,
che sono solo una parte della loro cupa storia,
corpo coperto di mito che s’alza in cielo con l’arcuato
chiarore della fiamma,
mentre l’altra è la polvere
dove ci sono paesi
devono esistere anche paesi di morti,
la loro presenza
conforta i vivi evidenziano che il presente
non è illusione
bensì una particella del grande tutto.
Si insedia nella storia
mostrando che ogni giogo ha la sua fine,
che nessuna oppressione è eterna, che anche il tiranno
un giorno morirà, il filosofo
lo ha intuito, il drammaturgo
lo ha mostrato. accanto, la testa intelligente di Orazio.
TELA DELLA MIA VITA
(a Claudia)
Fino ieri
avevo dipinto la mia vita
in bianco e nero,
poi ho incontrato i tuoi baci
e ho colorato questo quadro
di rosa tua pelle,
di marrone i tuoi occhi,
di celeste quando mi guardi,
di musica quando mi ascolti,
in parole d’amore
mentre mano carezza capelli
neri e folti.
Piano luce di sole
ha preso forza
nel cielo di questo momento
immobile su tela della mia vita.
E poi ancora un attimo in più
di calore,
quando bacio sfiora mie labbra.
MI ASSOLVO DA SOLO
Non mi riguarda più, quel penetrante
gelo della canna accostata alla mia bocca
il 12 dicembre ’44,
non mi riguarda più, anche se appartiene
a me quella testa, né la mano con la pistola, né
sapere chi ha ragione e dalla parte di chi.
Lasciatemi in pace
con quella testa rapata, è meglio per me non pensare
né a quel polso in un manica di divisa,
non mi riguarda più (eppure sento, tuttavia,
che mi oltraggia);
ripeto non mi riguarda, non mi tocca
il dito puntato del manganello, non è mia quella testa
coperta dalle mani, non ha niente a che vedere
con quell’uomo picchiato, tranne il fatto inconfutabile
che anch’io sono un uomo che in fin dei conti
significa poco, tanto più comunque che senza
motivo non picchiano; a dire il vero non ho preconcetti,
ma so che quando picchiano qualcuno di sorpresa
se lo è voluto lui, a me non riguarda
(eppure sento, che benché sia così insignificante,
tuttavia
mi toglie la libertà);
ripeto ancora: non mi riguarda, non mi sento toccato,
quando sono costretto a sussurrare la mia confessione
attraverso la grata d’un questionario che con sollievo
compilo a chiare lettere non mi riguarda, quando
mi chiedono delle idee passate, presenti, future, e
mi assolvo da solo, giurandomi che mai
mi lascerò immischiare, che non dirò niente
più del necessario, perché tanto l’ultima parola
ce l’hanno sempre loro, i più forti.
da “Mi assolvo da solo”, prefazione di Giovanni Giudici, Gabrieli Editore, Roma, 2003
L’ULTIMO UOMO
Egli evita il solenne ritmo del mare
basta una sola collina
per chi ha a disposizione il mondo intero.
Si unisce il silenzio verdebruno,
ispeziona le trappole, si perde
nel folto, tra grandi massi riappare.
Torri di guardia non innalza. Vive
come gli uccelli, bastanti a se stessi
saltellano e beccano. Potrebbe
stare alla macchia per una settimana;
mantiene l’abbrivio come loro
sull’ala librata del presente.
Ma a volte, allo svegliarsi, con il segno
d’una pietra sul fianco più pungente
del discorso dei sensi e della memoria
di mostruosa battaglia. Schiude allora
un canale in disuso all’irruzione
dell’odio, finché l’estremo uomo
sale l’estrema collina, senza avere
pensiero sentimento, come prima.
Preserva se stesso come natura
ma quale vissuta caricatura
della razza cui gli accade di sopravvivere.
E’ vestito di fango.
Interamente rappresentativo.
USAVA CAMMINARE SCALZO
Già prima usava camminare scalzo
precorrendo le strade dove l’erba
cresceva lungo i bordi per il nido
dell’uccello palustre, già a pezzi
l’uniforme cadeva dalla schiena.
E a questo colle oltre la pianura
era giunto del tutto rispogliato. Ora che, solo,
non può portare messaggi a se medesimo,
né trasmettere annunci da olmo a quercia,
è un goffo saio che comincia a farsi
con pelli di talpa e di coniglio; osserva
che chi lo indossa è privo di mansioni.
Ma il rubacuori scampato alla guerra
ha solo perso chi ammirava i suoi riccioli
che al collo prodigavano tepore;
ma nessuno lo vede mentre il vento
sillaba dalla piana ambigui ordini
e le sole ragazze che egli abbia
sono le digitali che s’inchinano,
pure si è fatto quasi uniforme
della sua povertà. Se stesso insegue
con un ago di osso mentre cuce
le toppe stese in grembo, messaggero
che corre in cerca d’identità, e vede
prender forma un disegno in mezzo al caos.
LA BOCCA LOTTA DI PAROLE
“Che cos’è? Che cosa?”
La bocca lotta con le parole che la mente ha dimenticato.
Mentre lui guarda la macchia dall’altura bruna
la vede aumentare, in atto
di avanzare strisciando, di strisciare involtabile,
imprevista laggiù sulla pianura.
“Devono essere uomini”.
E’ invaso dal sapere, ma si ritrae di nuovo
con la nausea di essere ancora vivo
sui pendii verdi del suo isolamento, lui
“l’ultimo uomo sull’ultima collina”,
per una sorta quasi di espiazione.
Ed ora il sogno
d’un vicino stagno, fresco d’ombra, di acque di due rivi:
se si tuffasse lì, per poi riemergere
la pelle irrigidita dal gelo,
freddo bianco inumano come astro
d’ogni polvere immune. Ma non si muove.
Potrebbe mai dichiarare
ad uomini che s’inerpicano nel fango del loro viaggio
che pulito era separato?
Il fango si seccherebbe ancora, indurirebbe al caldo:
è sempre quel fastidio, quel mondo di granelli
inspirato, ammassato sulle mani e sui piedi.
Non si accorge
del cambiamento che già si verifica allorché là
nella prima luce chiara e fredda
esitando sull’erba ingiallita umida di rugiada
ancora ingobbito, eppure già un po’ più eretto
nel figurarsi l’uomo quasi uomo diventa.
da “The Last Man”, Preface by Krishna Srinivas and Syed Ameeruddin, traslated Brian Patten, Editing
International
Poetry, Madras, India, 2002
da “L’ultimo uomo”, ILTE, Torino, 2004
CHIEDO SCUSA
Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.
Chiedo scusa alla necessità se mi sbaglio.
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
Mi perdonino i morti che appena ardono
[senza fiamma nella mia memoria.
Chiedo scusa al tempo per la moltitudine del mondo
[che mi sfugge a ogni secondo.
Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza
[a quello nuovo
Perdonatemi guerre lontane se porto i fiori a casa
Perdonatemi ferite aperte se mi pungo il dito
Chiedo scusa a quelli che chiamano dell’abisso
[per il disco col minuetto
Chiedo scusa alla gente alle stazioni per il sonno
[alle cinque del mattino.
Perdonatemi speranza aizzata, se talvolta rido.
Perdonatemi deserti se non corro con l’acqua nel cucchiaio
E tu Loreto, da anni lo stesso,
immobile, gli occhi fissi sempre sullo stesso
[trespolo, stesso punto
rimetti le mie colpe anche se sei un uccello ammaestrato;
Chiedo scusa all’albero tagliato per le quattro
[gambe dei tavoli
Chiedo scusa alle grandi domande per le risposte mediocri
Verità! Non dedicarmi troppa attenzione.
Serietà! Mostrami di essere generosa.
Segreto dell’essere! Sopporta che io strappi
[i fili del tuo strascico.
Non mi accusare, anima, se ti possiedo di rado
Chiedo scusa a tutto se non posso essere dappertutto
Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.
So che finché vivo niente mi giustifica
poiché io stesso sono il mio ostacolo.
O parlare, non devi avercela con me se presto parole patetiche
e poi ci metto tanta fatica a farle sembrare semplici.
SOLO
Solo, continuamente solo,
liberato dal temuto inferno settecentesco,
solo continuamente solo
e poi gettato nei lager come per beffa.
Solo, continuamente solo,
circondato giustamente di fili spinati della legge,
solo, continuamente solo
il cantico del profitto risuona nel mio petto nave laica.
Solo, continuamente solo,
malgrado le luci della città folta ai miei piedi
pronto a cambiare la famiglia con piccoli amori
bar e bicchieri di whisky sono i miei amici.
Solo, continuamente solo,
mi sdegno se qualcuno mi mette la divisa,
perché ogni divisa
allontana il tavolo del piacere.
Solo, continuamente solo,
oggi tradisco, perché tradito ieri,
chi infine mi libererà da me stesso
ancora criminale, o profeta?
LA MIA POESIA
non spiga niente
non chiarisce niente
non rinuncia a niente
non abbraccia tutto
non adempie alla speranza
non crea nuove regole di gioco
non partecipa al divertimento
ha uno spazio delineato
che deve riempire
se non è un dettato esoterico
se non usa una lingua originale
se non desta meraviglia
si vede che dev’essere così
obbedisce alla propria necessità
alle proprie possibilità
e delimitazioni
perde con se stessa
invade altri spazi
e non si fa sostituire
aperta a tutti
senza segreti
ha molti compiti
non basterà
Da “Colloquio con la pietra”, prefazione di Roberto Sanesi, Guanda Editore ‘I Poeti della Fenice’, Milano,
1985
DALLA MIA PAROLA EREDE CRESCRA’ L’ALBERO DEL SILENZIO
Non cerco me nella poesia
mi nascondo in fondo
Non cammino nella metafora
come nel cappello decorato di piume
Invito al tavolo gli amici
e i nemici ancora più fedeli
Morirò tutto ma nella mia parola erede
crescerà l’albero del silenzio
E sopra la baraonda del mondo
sporgerà il ramo stupito
L’ULTIMO ANIMALE LA LINGUA
Chiusa nella gabbia bianca
cerca di fuggire
con il minimo movimento dell’aria
Dopo qualche lettera viene fermata
In modo più soave vengono trattate
le fughe del suono
Ma la crudeltà delle labbra
è indescrivibile
la lingua è l’ultimo animale
nella riserva del volto umano
PROFILO DELL’ETERNITA’
Non è angelo
è poeta
non ha le ali
ha solo la mano
destra piumata
batte con questa mano l’aria
vola tre pollici in alto
e subito ricade
quando scende tutto in basso
rimbalza con le gambe
e per un attimo resta sospeso in alto
agitando la mano piumata
oh se si potesse staccare dalla gravitazione dell’argilla
potrebbe alloggiare nel nido delle stelle
potrebbe saltare di raggio in raggio
potrebbe…
ma le stelle
al pensiero stesso
di diventare la sua terra
cadono spaventate
Il poeta vela gli occhi
con la mano piumata
non sogna più del volo
ma della caduta
che disegna come baleno
il profilo dell’eternità
Da “L’albero del silenzio”, Edizioni Del Leone, Treviso, 1988
SERA SULL’ADIGE
Grigio incalza l’Adige.
Come stele commemorativa si stringono le torri
[scure del gasometro.
Nell’ammasso di nuvole guizzano minacciosi bagliori.
Grigio incalza il fiume.
E’ come un duomo se vero il paesaggio di Galtarossa
Da cui fuoco e fumo perenni,
si levano verso l’esterno.
Si specchia nell’acqua scura l’immagine,
a scongiuro, e tutto confluisce.
Sopra le arcate del ponte, trasognano,
passa un treno, verso altri mondi.
Strano linguaggio parlano i cespugli lungo le rive,
e sopra l’acqua freme il fanalino di coda.
Come un’anima che se ne va, attraverso
Le arcate, sopra prati addormentati
E case acque buie, verso un lontano paese di sole.
Un grande uccello notturno si leva,
lento, sbattendo le ali.
Attenti, noi lo guardiamo.
Camminano i bambini alla sua mano.
Pensa alle piccole anime, il loro sgomento.
Più minaccioso, più fondo, sotto di noi il fiume grigio.
Dove sfocia nel mare? Dove sfocerò io un giorno?
E’ tardi.
Rincasiamo
MORTE A VENEZIA
Venezia per un momento rivela
La sua agonia silenziosa.
E inquieto sento
Tutta al sconsolatezza
Di quelle forme che affondano nell’ombra dei canali,
di quelle gondole che dondolano agonizzanti,
di quelle onde increspate
che raccolgono una luce
già fredda
VOI LEGGERETE
La corda in mancanza d’amore, la corda per impiccarmi.
Ma voi leggerete uno di questi giorni o qualche giorno dopo
Senza più braccia né gambe, o forse in un’epoca in cui il giorno
Che avrà perso le braccia e le gambe sul cammino
[di una vita sempre uguale,
sì, leggerete nei giornali di sangue stampati in un solo
esemplare per ciascun abitante della guerra, leggerete tutti
con i vostri occhi di Cristo schiodato dalla croce m mai
resuscitato, nei giornali
del prato e del mare che parleranno più forte della gioia
dei grandi incontri del sesso, nei giornali sfogliati,
non ancora alla fine delle disperazioni, non ancora alla fine
dl veleno, alla fine dei baci-trappola, non ancora
alla fine finale delle cronache locali, ma anche nella
colonna dei selvaggi – e a posto della vostra coda
penzolerà il ramo morto della vergogna – voi leggerete
il rendiconto della mia morte pagato un tanto a riga
Da “Viaggio nello specchio della vita”, prefazione di Giancarlo Vigorelli, ILTE, Torino, 1994