antologia poetica

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antologia poetica
ANTOLOGIA POETICA
UOMINI NERI
Non guarderò più gli uomini solitari in riva
all’acqua di un canale.
Neri, neri e vecchi sotto l’ombrello
i piedi lunghi vicini alla morte
la lenza immobile
e il silenzio delle reti distese.
Come ragni.
Il sole è grigio, la terra è grigia, gli argini
di un verde marcio senza speranza.
E tuttavia
essi ascoltano fluire la vita,
questa cosa che morde, che scava, che dilania,
la lenza immobile,
le reti grandi divorate dai granchi.
Le formiche sono salite sopra il mio letto
le formiche afferrano il mio cervello
le formiche salgono sulla mia mano.
Prendete nota, uomini neri, neri, neri
in riva al canale.
Con gli ombrelli piegati di lato e l’ombra stanca
sul ronzio dei vostri pensieri
sui piccoli, smisurati mostri delle vostre vanità.
Soltanto
quell’andare e venire delle formiche
quell’andare e venire
e i buchi delle reti
immortalate dai granchi.
SASSI
Quanto della mia umana fatica
ha inteso il selciato delle strade,
lo esprimono i sassi
che si ascoltano logorati nel silenzio.
Sassi grigi, affratellati
nella schiavitù d’un disegno
rigoroso, assurdo, di un’ansia
soggiogata dal bitume;
se la pesante sferza delle ruote
d’un carro trascinato da buoi
vi prema, o sassi, il dolore
è su di voi, fermo implacabile sole.
Se a sera passi di bimbi
vi tentano e l’innocenza dei loro gridi
avvertite, quasi inteneriti
mutate colore e morbidi vi fate
e per voi premio è una lacrima sgorgata
da occhi cui è consueto il cielo.
Sassi che la mia ingorda fatica
misurate nell’infinita profondità
delle strade, sassi grigi, corrugati
volti perennemente afflitti,
sassi, al vostro muto invito,
a parole un cuore di granito.
L’ULTIMO CHIARORE DELLA SERA
Come una chiazza di sangue abbandonato
l’orizzonte è rosso
nell’ultimo chiarore della sera.
Eppure ancora nascono le stelle,
ma nell’aere un odore di morte stagna.
Anche gli alati guardiani, forse uccidono
e gli innocenti piangono,
forse sono i morti dell’aspro e ferrigno scontro
che vogliono sorridere,
ma le madri non alzano la testa
per guardare il cielo
e la rinuncia al canto
è delicata comprensione all’ombre
per non farle svanire.
Non ricordate le bianche croci
sparse sul suolo terreo
che riempirono l’Europa?
Tutti quei morti l’avevano sul volto.
Ricordate la candela
che si bruciò nell’agonizzante attesa
e il silenzio greve di quegli occhi materni?
Sì, forse la fiamma dà luce anche di giorno,
Forse anche i ciechi sanno che nel mare
Le onde si fanno bianche.
Ma come si può credere che il male
abbia seme nel cuore?
L’amico che disse vigliacco
lo gridava per gioco,
l’uomo che uccise
ebbe strette le mani
e la guerra voluta da quei pazzi
si disfece nel sangue.
Perché dunque vagliare quest’inferno?
No, non si chiede ai morti di tornare
ma di restare dove sono,
è soltanto un rimorso perduto
che non sappiamo afferrare.
E si piangono i vivi,
e i vivi piangono i morti
e scompare la gioia di una casa
per un soldato che non è tornato.
Ma perché si rompe la pietra
che non sa fare i fiori,
perché cadono sempre le foglie secche
quando dentro il cielo
è tanto ingombro di nuvole
e perché tutti gli uomini muoiono
se credono tanto alla vita?
Non siamo stati fatti per morire
quando non siamo morti!
Signore, proteggi la formica
che il sole ha abbandonato sopra il ciglio
di profondi precipizi,
solleva la rondine ch’è caduta…
Io t’ho ucciso ogni giorno
e abbandonami quaggiù,
ma questi sono figli tuoi, o Cristo,
che hanno perduto forza ed innocenza
e credono che l’alba li risvegli.
Se vuoi posso donarti le mie mani,
sono così avide d’amore.
Di tutto l’autunno, una foglia,
di tante parole, un lamento,
del fuoco gettato, ora freddo, è questo che rimane
a chi ha saputo aspettare
senza chiedere niente.
E si riposi il viandante
venuto da molto lontano
e si calpesti il dolore
che toglie il cammino ai fanciulli
e si ripetano i sogni
per farci tornare innocenti,
abbiamo perduto la voce
nei canti crudeli dei morti
e ci resta soltanto il desiderio
della canzone dei vivi.
La pietà ci colmò di silenzio
nel paradiso devastato
e fabbrichiamo castelli senza pietre
per non velare un angolo di cielo
dove siamo stati trafitti.
Almeno qualcuno vedrà
che siamo stati venduti
al coraggio dei forti.
Ma quale volto lasceremo ai figli,
se tutti siamo vuoti d’allegria,
forse, rubando ai pagliacci
potremmo ancora sorridere.
Eppure a tarda sera
rimane una lancia prolungata e rossa
che trafigge l’orizzonte.
Questo è il tuo sguardo, o Cristo,
ma anch’esso è rosso di sangue.
da “L’ultimo chiarore della sera”, prefazione di Carlo Betocchi, Casa Editrice Nuova Accademia, Roma, 1965
RACCOLSI SOLO MANCIATE DI SABBIA
Raccolsi solo manciate di sabbia
gettando al cielo
in quel pomeriggio di sole
raccolsi manciate di sabbia
perché facessero velo
sul nostro amore.
Una pezzuola verde, ed un abito a fiori
nella piazza deserta
nel pomeriggio di sole
ed un sorriso, un cenno di capo
uno stridore di freni
una carrozza col cavallo che dorme.
I miei capelli scomposti sugli occhi
e nel petto qualcosa
qualcosa di pigro, di dolce
qualcosa di vivo
in quel pomeriggio di sole
che la raccolsi pezzuola verde
ed abito a fiori
nella piazza deserta, alle tre.
Sabbia, cespugli
lontana baracca
cadente, con “Coca Cola” iscrizione
e gru gigantesche
e chiome di alberi.
Lontano dal porto mi sdraio
zitto, gli occhi socchiudo
zitta gli occhi socchiude
sentendo qualcosa nel petto
di dolce, di pigro.
La solitudine immensa
di quel pomeriggio
con la ragazza
dall’abito a fiori.
Raccolsi solo manciate di sabbia
gettandola al cielo
non sapendo che lì si bruciava
la mia giovinezza.
Ancora vado cercando qualcosa
in una piazza deserta alle tre.
E solo un cavallo che dorme.
Uno stridore di freni.
LEI, SIGNORA, AMICA MIA
Lei signora, amica mia
che fu in Spagna prima della guerra civile
che possedeva in Spagna prima della guerra civile
che amava la Spagna
quando la repubblica profumava d’arancia
era fresca conquista
e i giovani disdegnavano la morte e la guerra civile
lei signora, amica mia
mi dica cos’è che fa della Spagna, oggi
una vergogna europea.
Lei signora, amica mia
mi dica che senso hanno gli sciopero
che senso ha passare manifestini di protesta
da una mano tremante ad una decisa
quando i mercenari di sempre
hanno sbalzato di sella l’uomo
per colpirlo nella forza; annientato
lei signora, amica mia
conosce quelle pianure popolate di fantasmi
mi parla di Goya
della tragedia di Goya
della pennellata di Goya.
Io conosco i poeti spagnoli
gente stupendamente reale
magici nel percepire
crudeli nel cantare
candidi nei sogni
e lei signora, amica mia
dice che essi sono l’anima di Spagna
la forza della Spagna; il fuoco di Spagna.
Di questo enorme vulcano spento
dove la rivoluzione profumava d’arancia
e sulle colline verdi d’aranci e di ulivi
fu disfatta e sperduta.
E lei torna a ripetere
che i pittori sono il sangue di Spagna
ma quando io vedo ribollire il valore
e smaltirsi nelle pieghe di una mantilla
dico “operaio perché non ami più la repubblica
e fai della Spagna una vergogna europea”.
ARDEATINE ‘63
Eroe senza senso
preso chissà perché tra la gente
preso mentre uscivi di casa
e avevi in bocca la bava della prima colazione
e dentro il cuore l’ansia di fare qualcosa;
preso e portato ombra nel muro
senza scopo, finito;
Eroe senza significato
senza gesta, senza lucidità
non una fronte alta da mostrare
o qualcosa da rinnegare
ma uomo di fronte al muro segnato
nell’argilla limacciosa della casa, eroe.
Eroe senza ideologia
ma con una luce interiore che tutta rischiara
l’umanità: un sacrificio per essa.
Ti sei sacrificato per essa
come si è mai sacrificato nessuno
il tuo morire è grande
perché non dovevi morire
la tua tomba raccoglie preghiera
perché eri solo nella preghiera quotidiana.
Piccolo impiegato, imprenditore, funzionario
chissà chi eri, studente, professore
uomo, donna
non ha importanza nell’anagrafe del martirio.
Simbolo d’amore prima ancora di essere simbolo
immagine di sofferenza prima ancora di essere immagine
faccia senza rotocalco
parole senza prima pagine
vittima semplice
nel crepitare dei luoghi comuni.
da “23 liriques contemporaines”, traduzione Jeanne Legnani prefazione di André Maurois, Editions Librairie ‘73, Paris
1968 (Collection « Poétes d’aujourd’hui »)
LA VERITA’
La verità
è il mio paese che colgo addormentato;
il vecchio randagio che accusa malattie
per trovare un letto in ospedale;
le famiglie che affollano i treni di notte
e corrono a cercare un salario;
l’inespressivo panico dei giovani
di fronte alle responsabilità del passato;
l’affannosa ricerca di una prospettiva
l’ansia di non sbagliare
le preoccupazioni dell’uomo
che contribuisce;
l’abiezione di chi sta da una parte
e per mestiere si rifiuta;
l’affaccendarsi dei preti
per dare una religione ai convertiti;
la gavetta del muratore
con il sego nella minestra.
Le difficoltà del mondano
per essere in linea coi tempi;
le previsioni del giocatore ;
la fretta dei fidanzati
di trovare un’intesa reciproca
la bovaraggine dei professionisti arrivati
senza missione, e il posto e il nome;
l’ultimo tram deserto che rientra;
il manifesto dell’uomo politico
con la faccia di gomma;
la furberia del piccolo commerciante;
l’ipertensione dell’impiegato in banca;
Il gracchiare come disco rotto
sulle stesse parole
della vedova mutilata nelle idee;
la febbrile ricerca della cultura
delle signore che hanno quattro soldi;
la fila delle macchine
sulle autostrade che portano al mare
per sfuggire una settimana;
le comitive dei turisti,
che fuggono una settimana;
gli accoppiamenti misti triplici e oltre.
è la verità che colpisce
in questi modi impensati.
CIMITERO DI MONTAGNA
Cimitero di montagna
dove i morti si conoscono per nome
dove le croci sono fatte di steli di rose
dove si recita un requiem
come un’allegra chiacchierata in famiglia;
dove la terra ha imbandito
macchie di papaveri e fiori di lupino;
dove hai seppellito tuo padre e tua madre
dove hai seppellito chi partì con essi
o prima o dopo;
dove si fa la cronaca del paese
sulle inutili lacrime degli angeli ridenti;
dove il tuo cuore non è mai abbandonato
perché lì, ti conoscono tutti.
STAGIONE DELLE MALINCONIE
Stagione delle malinconie
silenzioso precipitare dei giorni
breve apparizione di foglie
e in queste pietre scavate
infiniti richiami.
Tu delicata ragazza bionda
fatta di ingenui movimenti,
di rara bellezza
cammini su queste pietre
dove cammina vecchiezza,
dove ancora c’è dato sostare.
Negli indimenticati santuari
di scolpite storie
di scolpiti rimorsi
di scolpiti dolori
io t’incontro figlia del mondo
sui sepolcri senza immagine
sui desideri senz’ombra
e vaghi
come io vago sotto queste colonne
in queste chiese buie, spente,
cercando felicità scritte
e una certezza di fede.
T’incontro ragazza bionda
simile a mille altre, curiosa
in queste piazze romane, primaverili.
Ricerchi nei ciottoli su, lungo gli affreschi, i mosaici
le iscrizioni di gloria
richiami di passato
sospiri di passato
stagioni di malinconie.
Diversamente io non cerco, guardo
ciottoli, sepolcri, pietre, iscrizioni
avendo solo un domani,
poco o niente dietro di me
da “Stagione delle malinconie”, prefazione di Lorena Silvestri, Editrice dei Quattro, Modena, 1966
TU SOLA DI NOTTE
(a Sylva)
Naviga in alto sopra la città un corno di luna
e chiacchiera tra i rami con le nuvole, sbuffi di pipa.
Hai spento la lampada al soffitto:
rimani sola con pensieri tristi di te e di me
nella tua casa di Monteverde.
Tu giaci nel biancore del letto e non hai sonno.
E’ amara la sorgente e sono salse le lacrime proprio come il mare.
Non affacciarti alla finestra;
sul balcone se ne stanno due ballerini stanchi.
Per noi l’amore è cosa sconosciuta ormai da tempo.
Senz’essere marinai abbiamo già naufragato.
Questi amanti, beati loro, non gli importa nulla
nell’amplesso di un corpo solo.
Sono due uccelli pigolanti. Guarda!
Stanno sopra la luna!
No, non temere, non preoccupartene.
Non siamo caduti tante volte dalle altezze, noi pure?
Ignoriamo gli manti come loro ignorano ogni cosa a sé d’intorno;
Il giradischi e la camera nera con la luna dentro lo specchio.
Chiudi in pace le palpebre sugli occhi tuoi dipinti d’arancione.
In questo buoi di circo è consolante dormire.
ANCHE IN QUEL VELO IO SARO’
(a Grazia)
Quando tu starai assopita sotto la quercia,
uccelli canteranno basso. Nella sordina
degli uccelli dirò l’addio inconsolabile.
Acque che passano presso, inumidendo la terra
andranno più lente per serbare la tua immagine.
Acque ed uccelli, rami e carezzevoli erbe,
nuvole, tutto sarà consolo e dondolio.
L’ombra velerà di tenerezza il tuo corpo.
Anche in quel velo io sarò.
Le mani dell’ombra saranno le mie,
sopra i tuoi occhi ancora bagnati di lacrime.
A MIA MADRE
Ora hai chiuso quegli occhi
che hanno troppo e poco veduto.
Chiusi per sempre. In te la pena
s’e spenta e quel mondo conosciuto
appena. Rivedo il sorriso dolente e i tocchi
sento della mano trasudata
avanti di morire.
Cosa volevi dire che non hai detto,
cosa volevi dire?
Non ti ho forse ascoltata
chino davanti al letto?
Ma le parole tue non uscite
son qui che fan ressa. Ad una, ad una
s’accendono di fuoco e di dolore.
Parlano esse della nostra vita,
del peccato del pianto dell’amore…
Parole d’odio non ce n’è nessuna.
E allora chino la testa e penso: perché mai
si può amare e mentire? Perché mai
quest’umana natura sembra fusa
nella fragile argilla? Perché mai
si uccide il tempo che trascorre?
Ormai tu più rispondere non sai,
né io saprò. Tu sei partita
prima che io ti facessi una domanda.
Meglio così. Che vale porre
domande a questa nostra vita?
Io ricordo di te soltanto il bene
che io ti ho voluto. Il resto si cancella.
Anche la vita, al di sopra delle pene,
eri buona per me e tanto bella.
VENTO D’AUTUNNO
Il vento dell’autunno
sollevò le foglie gialle
aveva fatto un lungo viaggio
mi portava profumi di roseti
di conchiglie, di fieno, di frutta mature.
Dalla coppa delle sue mani
coglievo il respiro
della lieta vendemmia,
buon odore di foglie e di mare dentro il vento d’autunno!
Aveva attraversato tutto il mondo;
aveva accarezzato, fiori rossi, mani rozze,
fronte curve. Aveva visto
roghi di rami secchi
e margherite nei prati
e canestri che salivano
sulle scale dei granai.
Ogni profumo aveva in sé rinchiuso.
E il vento d’autunno non dice
se nel suo pellegrinare si è imbattuto in Dio
ma il suo passo si udiva in ogni casa
e per ognuna aveva un suo messaggio.
da “L’ultime carté du soir”, traduzione Solange de Bressieux, collana Poétes Etrangers (collezione numerata), Jean
Grassin Editeur, Paris, 1976
E QUI NESSUNO MUORE
(ricordo di mio padre)
Non li scrive i versi sul quaderno
della spesa a debito
il salterio dei poveri
li dice terragni
con inventiva anarchica, non fregi
crudi che puzzano di letame nell’orto, di sigaro
monco, di corrosione…
niente chiesa
ti avvelena quanto la scodella
la cioccolata dopo la prima
comunione. Il prete mangia carne carne cotta
… nell’acqua –
commenta sardonico e alla domenica con l’afa
mi carica sulla bicicletta
da corsa. In camicia senza colletto
e le mollette per la biancheria ai calzoni
dice la città: Milano San Remo …
e pedala
(steso sulla mia schiena, il berretto
mi fa ombra alla rapa oltre
il manubrio)
i piedi rattrappiti
il riparo tra fette di bambagia
nelle scarpe di pezza sforbiciate. Lo vedi
da ogni direzione il campanile
carnivoro come il prete; ha le poiane nei buchi, dice.
Atre chilometri Quinzano,
un campanile, due file di case,
la pula; alle bocce
i braccianti in bretelle e l’elastico sulle maniche
della camicia che odora di lavanda
e cotogna d’armadio –
ecco il paese. Le inventa
le città. Non viaggia che per immaginazione
tra casa orto officina ferroviaria
e osteria.
Carreghe di paglia attorno
i tavoli con i mezzi litri
le carte, festoni moschicida ronzanti
perpendicolari dalle travi, la concimaia bollente
sotto la finestra, al biroccio
i cavalli si ammusano in un cesto di fieno.
I vecchi succhiano la gota gonfia
di tabacco, sputano, devono
sulla briscola e biascicano bestemmie.
Le ripeto quando mio padre sul perdere
molla pugni e schiaffi
all’aria o picchia il tavolo scotendo un suono
di bicchieri.
A sera i ginocchi
non rotano, sente il diabete nelle gambe;
la bicicletta scansa i fossi
della provinciale ed io curvo
metà oltre il manubrio, annuso il fanale
a dinamo; lui mi sbuffa
e mi canta con raucedine sulla nuca la puzza
di vino e il Barbiere
di Siviglia. Questo mi ricorda l’osteria,
il tempo in cui dalla damigiana
travasava nei fiaschi succhiando prima a sgorgate
il tubo di gomma.
Chi è stato – dice, quando in mezzo ai pomidoro
e alla lattuga s’apre il crisantemo;
rovina l’orto, non è cimitero e qui nessuno
muore.
Ma nello stesso letto, inventando
versi che nessuno scrive
e mi dice, mi protegge
all’ascella che sa di pelo, e mi chiude
e chiude gli occhi.
Il cancro al culo e al pene lo mangia
vivo nelle mie braccia smilze,
smerdate, e in pena schifosa
si sfiata e ha il tagliente
sorriso d’un gatto
morto.
POSITANO
La carta per scriverci
portata al mare e insabbiata
non è rimasta bianca
la ombreggiano linee di sporco
come creste di rena sul fondo.
Non sai esimerti dalla cartolina
scrivi a volo
io ho un solo ricordo, il tuo
tu ne hai una folla.
Una storia non scritta
e intatta la capacità di vedere
la pensione Murena sulla piazzetta
la boutique Florence con monokini in mostra
le barche rovesciate sulla rena
il caffè riparato con lampade colorate
la banda guida la processione
e a sera si sfogherà sulla piazza
i carabinieri sono tranquilli
vigilano sul buon costume.
E’ la solita storia italiana
senza la dimensione virile della libertà
altrove non val la pena raccontarla
e questo è il signor Praturlon
che per essere il più poltron
è fatto signor del paese
e allora si addormentarono come amanti
paghi della presenza uno dell’altro.
Postano non l’ho mai visto.
Paura del mal di mare e la macchina non ci arriva
Bisogna sostare prima chi va a piedi.
Eppur sotto lo sprone di Maria Grazia
e la riverberata costa
e il tempio di Amalfi
non più una tradizione
a Hemingway
né la magica solitudine di Montale di Pound
e Joyce e Robert Pen Warren e Thomas
che mi trasmisero le loro notti.
Metafisica dei giovani scrittori
magari non li potevi soffrire
William Carlos Williams
mi piace lo spazio limitato a un certo punto
non lo spazio, lo spazio e poi dietro ancora
nel mio cervello
si davano convegno ricercatori
tre generazioni di alcolizzati.
Per questo vidi l’onde
rompersi sulle geologiche scalinate
rotolare fra le colonne dei templi
e le piramidi
angoscia per la misura dell’era
mi segnalò l’età adulta
e ci smarrisce il senso
della moltitudine infinita di vite
in cui simili a navi timorose
penetriamo già e sempre vivendo
senza tregua alla stanchezza
e consistenza al ricordo.
Ho tessuto un sogno contro gli ostacoli
sembrava il paziente lavoro del ragno
ora non so che cosa che cosa mi aspetta l’indomani
là oltre il tunnel dell’autostrada
del ritorno
dove sostano stranieri sorridenti
per loro l’Italia, il paese di cuccagna
e quivi, a tavola,piovono pernici e fagiani
e ogni sorta di selvatichine.
E si guardarono con l’angoscia
degli amanti
che non altro soccorso
se non la presenza di se stessi.
Ad altri la cena del sabato sera
la sbronza e annoiati i salti nel letto.
da “Schiavo 1933”, prefazione di Paolo Ruffilli, FORUM/Quinta Generazione, Forlì, 1979
VOGLIO CHE TU MI VEDA COME UNA TORRE
Il filo di sangue che mi esce dalla bocca
il filo di lana che mi esce dall’occhio
il filo di tabacco che mi esce dall’orecchio
il filo di fiamme che mi esce dalle narici.
Tu puoi credere che le mie orecchie fumino
ma gli uomini sono rimasti impietriti in mezzo alla strada
perché questa notte si verniceranno di nero tutte le statue
e sarà la mia insonnia quella che tu conoscerai
un’insonnia qualsiasi di creta e di argilla
un’insonnia come una stufa e come una porta
o meglio come il vuoto di una porta
e dietro questa porta voglio che parliamo della memoria
voglio che tu mi annusi come una finestra
voglio che tu mi ascolti come un albero
voglio che tu mi palpi come una scala
voglio che tu mi veda come una torre.
PARTENZA
Non aveva niente con cui battersi
gli erano stati rubati gli affetti.
A mezzanotte a ridosso di un muro
nella camera d’albergo
si sradicò il cuore e scrisse.
Pietà
Il sole all’alba lo trovò inginocchiato
come una statua greca
con due fili di sangue che colavano dalla bocca.
IL BISTURI APRE UN BUCO COME TORO
Il mio ventre scoppia come muggito nel deserto.
Il bisturi apre un buco come toro. Diviene nero fiore
facendo fiorire flotti di sangue.
Il professore è conciliante
ha una scriminatura e un sorriso di nylon.
Talvolta scaglia una vita tra le nuvole.
Tiene nelle sue mani la vita dell’uomo.
Mentre sul letto operatorio cercavo di penetrare,
oltre i fari accecanti,
vedevo il suo volto che sovrastava
la mia impotenza
e vedevo corpi idealizzati di magnati che gli svolazzavano
dentro.
L’ho visto cadere dall’alto dalla torre di Castelvecchio
andando trionfalmente con la testa immersa nel giardino museo.
Il popolo ondeggiava come spiga matura
il nero scialle del diavolo volteggiava
alle raffiche del vento coprendo il ponte scaligero.
Lungo la strada allargò le braccia, aprì la bocca
e iniziarono a scendere gli angeli, corvi
come dai sotterranei della luna
e discese Berto (1), dal movimento di una cascata
e tentò un abbraccio… poi scomparve.
In cima ad un forno di Auschwitz
vampiri tengono seduta
prendono slancio e diventano graduati nel villaggio di My lay.
(1) Berto, scrittore italiano.
da “Et Après... ”, traduzione Solange de Bressieux, introduzione di Solange De Bressieux, Barre-Dayez Editeurs, Paris
1980
NELLO ZODIACO DEI TUOI OCCHI
Nello zodiaco dei tuoi occhi
Amore
segni d’inquietudine appaiono
Le braccia e il tuo corpo soave
arcueranno lillà
in gerarchie vegetali
sole coperto da eclisse
E quanto è vicino alla fine
la morbida distesa dei nervi
ma nessuna cartuccia può avere due piombi
ne assumiamo la conseguenza dell’assenza
La corda è più dura dell’erba
e l’anima più interiore che il pensiero nascosto
niente né testa né croce non esiste niente
La scelta è un’astrazione Amore
guarda la nostra carne decomporsi
Hai ancora la forza di mantenere
questo sorriso sereno di partecipazione?
Le grosse blatte si spengono nel buio
i ragni organizzano gli angoli
ed anche noi
i cigni non mentono.
AIUTAMI DUNQUE A LEVARMI E MORIRE COLPEVOLE SULA CROCE DI SINISTRA
Grido colpevole
alla porta di questo cantiere
costruttori di croci
ascoltate il mio comando
Ho rubato a sinistra ed a destra
voglio essere levato accanto alla croce
di questo cliente onesto
Non di te ho paura Barbuto
tu sei quanto meno annoiato
il ladrone alla destra mi fa paura
secondo il Libro non ha alcun giorno
Aiutami dunque a levarmi e morire colpevole
sulla croce di sinistra
Non di te ho paura Barbuto
e questo non è tutto quello che ho potuto apprendere
So ancora che non è dato
a tutti
di finire in questo dolce modo
Son un buon pagatore ai banchetti
che cantino i galli all’alba di questa orgia
non posso arrampicarmi due volte sulla croce
Che silenzio non vedo cogli occhi
qui lassù a sinistra dove mi trovo
la pena è abbastanza dolce
e i chiodi sono delicati a battere
Non mi scendete dalla croce falegnami
perché pago.
FRUTTO PROIBITO
Leonessa accanita levigata
nell’arco degli occhi una lacrima di sale
Profondamente l’erosione dell’attesa
Levigata dalle rondini alla finestra
multiplo ritmico dell’accostamento
I fianchi e il nostro sangue
come pesci fiammeggianti nel palpito
Profondamente l’eresia della luce
Levigate le mani d’acqua fresca
Amore
la cerimonia dell’assoluzione del peccato è semplice
Profondamente la stigmatizzazione delle persone
Levigata dai capelli nimbo di madreperla
e di conchiglie risonanti
Che la luce chiami l’uomo
quando le cosce bruciano a metà
Profondamente la trasparenza della medusa
Levigate caviglie
ginocchi
dalle linee di pioggia tra i pomi
e che le piante raccolgano freschezze
Levigato sorriso alla ricerca
al passo arrotolato nel serpente
alla parola
all’amore
la libertà
E levigato d’oro il grembo Amore
la nascita
è il primo atto politico
Quanto alla morte
tuo
frutto
proibito.
da “Poesie D’Amore”, prefazione di Roberto Sanesi, Severgnini-Stamperia d’Arte, Collana di Poesie Cloruri, Milano
1983
LA CHIAVE
C’era la chiave e all’improvviso non c’è.
Come entreremo in casa?
Forse qualcuno troverà la chiave perduta,
la guarderà e a che serve?
cammina e la fa ballare nella mano
come un pezzo di ferro vecchio.
E se accadesse lo stesso,
non solo a noi,
all’amore che ho per te: a tutto il mondo
mancherebbe proprio quest’amore.
Raccolto da mano estranea
Non aprirà nessuna casa
e rimarrà solo forma e niente più
e che la ruggine lo intacchi.
Tale oroscopo non si sfila,
né dalle carte da gioco, né dalle stelle,
né dal grido del pavone.
DECISIONE
Ho deciso di essere lirico come lo spazio
fra i braccioli della sedia elettrica.
Ho deciso di essere bello come un dialogo a
quattro labbra, il coscetto e il pasticcio a forma di timpano.
Ho deciso di essere prodigo come i capelli dell’uomo
passata la quarantina.
Ho deciso di essere brutale come il teatro con uno
spettatore alla prima di Fedra.
Ho deciso di essere divertente come il pettine che
sporge dalla tasca del morto.
Ho deciso di essere originale come il mio conoscente
poeta che scrive 35.674 poesie all’anno con
l’apparecchio per riparare le calze.
Ho deciso di essere musicale come un prigioniero che
dallo stridio delle chiavi riconosce i meccanismi
delle serrature.
Ho deciso di essere tenero come l’interno della
stanza che abbraccia la dormiente.
Ho deciso di non darmi, sarà meglio.
IL LICOPODIO
Erano tempi in cui il verde
aveva la forza di arrampicarsi verso la gloria,
erano tempi in cui era permesso frusciare
come cima d’albero
all’erba più misera,
dove cammina il cervo.
Come la mano del grande falegname
il vento scolpisce le cime degli alberi,
e sopra i rami nell’ombra
arrivano già le oche selvatiche,
annunciando sotto le nuvole
la nascita del bosco alto
da erbe capaci di arrampicarsi verso le nubi.
Gridano le oche sopra le melme:
la selva vuole volare
dietro il nostro coro,
non accadrà per caso,
che le ali crescano agli alberi
il bosco si semina nel suolo
e deve rimanere sulla terra
come il gregge imprigionato,
solo a noi, oche
è dato il grido nel volo
Volta per volta nella tebaide
l’erba in albero si trasforma.
Dice il muschio: giacciono le pietre,
uniscono le mie ali alla loro forma,
desidero alzarmi insieme nel volo,
sono debole, mi manca la fede
nella potenza del mio verde.
Giace il sasso accoppiato
con la cima verde scura.
Il muschio attende sempre nell’alba color sorbo
e quando il cielo bruno porporino dà frutti nella notte.
Ma i fiori si rifiutavano
di cambiare nel bosco.
Noi siamo raggi colorati
espulsi nel fondo della terra,
perché nascondere lo splendore sotto la scorza,
ondeggiamo come il prato, ondeggiamo come il bosco
arrampicandoci nella danza sulle rocce.
Il licopodio si accresce, si accresce,
striscia una volta nel sole, una volta nell’ombra
e si avviticchia come serpente verde.
Oh, erba stupida boriosa,
spicchi in volo per la scala aerea,
illuditi e aspira
a una aperta contrada.
Finirà la tua gloria!
Lontano da qui vivono gli uomini,
il boscaiolo cammina, abbatte la selva,
sopra gli alberi tagliati grida il corvo:
l’erba voleva volare,
ecco il ritorno dei boriosi
stesi i tronchi uccisi
le braccia spiegate,
perché l’albero anche sussurrando in alto
serve gli uomini sulla terra
e un giorno il ramo troverà riposo sull’erba.
Portano il tronco nel portale,
i cani fiutano le cime degli alberi,
e trovano solo la penna del corvo
che sa volare sotto le nubi.
Io, licopodio non voglio la scorza,
che si fa preda della mannaia,
non voglio spigare le ali
per cadere sotto l’ascia
perché estraggano tavole dal tronco,
perché io da morto diventi
letto d’amore
per giovani e belli.
Preferisco strisciare sulla terra
e non servire a nessuno
da asse per la bara e da trave per la casa.
Dove c’è la selva cammina il lupo.
Il muso fiuta, le zampe saltano.
Il cervo fugge nei campi,
via foreste! Via boschetti!
Oh! vivere qualche istante di più!
E’ già caduto e la terra con lui disteso
diventa un vassoio sanguigno.
I rapaci tornano nella selva.
Il licopodio si trascina sul sentiero
e si avviticchia all’arbusto,
si profila il letto di lupo,
dove il licopodio protegge l’arbusto
contro la pioggia.
E gli alberi in alto sussurrano:
è arrivata l’ora della notte
e l’erba non si arrampica più
in cima,
d’ora in poi la quercia diventa aquila
verde,
l’arbusto un uccellino di foglie,
il muschio diventa muschio
e il licopodio diventa lupo mannaro
delle terre selvatiche.
I rami sussurrano di continuo:
tutto si arrampica in alto
per servire qualcosa sulla terra,
chi si priva di questa potenza
e stacca le ali verdi
diverrà letto di lupo
come il licopodio.
Si è alzata la luna, brillano le foglie,
in basso annerisce il licopodio
come le lunghe spine della selva.
da “Colloquio con la Pietra”, prefazione di Roberto Sanesi, Guanda Editore, la collana i Poeti della Fenice, Milano,
1985
DALLA MIA PAROLA EREDE CRESCERA’ L’ALBERO DEL SILENZIO
Non cerco me nella poesia mi nascondo in fondo
mi nascondo infondo
Non cammino nella metafora
come nel cappello decorato di piume
Invito al tavolo gli amici
e i nemici ancora più fedeli
Morirò tutto ma dalla mia parola erede
crescerà l’albero del silenzio
E sopra la baraonda del mondo
sporgerà il ramo stupito
ALLA RICERCA DELLA MIA IDENTITA’
Un giorno ha deciso
di sapere chi sono
ho letto le mie lettere
e ho ascoltato la mai voce
Mi sono spogliato di tutte le onorificenze
ho rinunciato a tutti i privilegi
Ho perduto la carta d’identità
ed il libretto militare
nei quali c’erano le mie foto
con l’obolo della lingua nella bocca
Tale è il prezzo per attraversare
il fiume della lealtà
Alla fine mi è caduta
la rete dei nervi
ero sicuro fino al midollo delle ossa
lontano dalla maestria degli imbroglioni
che si sono impossessati dell’arte del parlare
con le mani strette sulla gola
Sono l’aria malata
Con ciò il poeta ha voluto dire
che si sente ottimamente nel soprabito
POETA TRISTE
Hanno sputato sul poeta
per secoli asciugheranno
la terra e le stelle
per secoli i propri volti
il poeta sepolto vivo
è come il fiume sotterraneo
conserva in sé
volti nomi
speranza
patria
il poeta ingannato
sente le voci
sente la propria voce
si guarda intorno
come l’uomo svegliato
di notte
ma la menzogna del poeta
è multilingue
ed enorme
come la torre di Babele
è mostruosa e
non muore mai.
da “L’albero del silenzio”, Edizioni del Leone, Treviso, 1988
MI FARO’ PER VOI POETA PUBBLICO
(a Camì)
Quando avrò perso tutto,
la mia debolezza, la mia lingua, il mio gusto di lottare,
mi girerò ancora una volta di fronte a voi,
uomini miei,
carrettieri, braccianti, pastori, garzoni di drogheria,
facce dimenticate smarrite rinnegate,
uomini dei paesi nascosti
in un tempo che non vuole
che non può sbocciare
e troverò nelle vostre occhiate,
nella stretta delle vostre mani,
nei vostri gridi lanciati senza sosta
dal fondo alla cima della terra
e che nessuno riesce a far tacere
una ragione per credere ancora.
Tornerò ad essere per voi,
abitanti goffi e maldestri
di un paese dalla voce d’infanzia e di terra,
il ragazzo che non ha smesso d’essere
un bimbo di città in cerca d’amore,
del pioppo flessibile come il canto dello straccivendolo
che ossessiona le alte praterie della vostra memoria,
di uomini che sanno tutto senza avere mai letto nulla,
tranne il libro del tempo che fa.
Io alzerò una tavola
di fronte allo slancio delle colline
e mi farò per voi
poeta pubblico.
TUTTO RITORNA MADRE
Tutto ritorna, il leone, il mago: il Sole,
Venere, la Luna, le Pleiadi,
ma l’uomo, l’uomo, la donna, la bella
non tornano più.
Madre devi tornare.
Ma il solo dogma in cui credo
l’ho detto: è la libertà,
e il giorno che non sapessi di non essere
libero mi ucciderei per mostrare
che sono libero, ma lo so, ma lo so
che sono libero, perciò ho le catene
dell’impero, di tutto ciò che ritorna.
Mangia ancora i frutti dei lampi
nella notte dei falò di Quinzano sotto la luna cinta d’alone
tutta la regione per monti e per valli
sarà un lampo d’anime armate, di sangue di libertà;
ascolta le ossa degli antenati, solo ciò ti può ridestare;
quanto hai dormito, Madre, fata regina dei boschi?
chi ti ha dato, Madre, il veleno dei sogni e della morte?
chi ti ha fatto credere, Madre, quel veleno una bevanda divina?
il nostro piangere, Madre, e le nostre lacrime ardenti
ti giungeranno alle orecchie, ma quando, e nel cuore, mai più?
Ahi noi non siamo api che per difendersi muore.
Siamo tutti appiccicati dietro all’oca d’oro.
Ahi l’animale ha tutto il genio della carne
ma è puro, amoroso, con i non-amici ed i vecchi,
è limpido selvaggio.
Ma l’uomo è talmente cattivo che quasi vedi
in questo lo spirito, la libertà dell’anima:
se la natura è buona, è cattivo lo spirito.
Oppure l’animale ha più, più spirito dell’uomo?
Viva l’arte tra la vigna della Valpolicella
e la roccia di San Rocchetto.
PASSAMI LA TUA BATTAGLIA FIDAIYIN
Nel ventre del tuo paese
dove sabbia e corpi germogliano
alla stagione del grano,
nella kasba dove la luce prorompe in un urlo interminabile,
nelle accecanti montagne del Golan dove la vita precipita
nel tempo fermo della tua storia,
tra i volteggi indifferenti dei giorni,
nella sconvolta geologia della tua latitudine,
incontriamoci Fidaiyin.
Dammi la tua battaglia e il martirio
e il sangue che ti scorre dal viso
le tenebre contorte del tuo ventre
e la fronte gelata dalla purezza,
dammi il culto e la fame
e l’hallagiah impregnato di morte
la terra aperta e la funebre luna
la distruzione dei neri grappoli
- non è diverso a lanciarli
che i noccioli di prugne da ragazzo.
Dammi il credo Fidaiyin,
la verità trafitta dagli spari,
le spiagge dissanguate della Palestina
che i tuoi piedi risvegliano
scesi a fondare la vostra libertà.
Dammi la mano Fidaiyin,
posala sul cavallo del mio orrore,
la vita mi ha tagliato il sogno dalla gola,
la mia piccola sorte individuale
mi tormenta come una catastrofe.
Abbiamo ascoltato crollare i templi dei padri
e il ghibli disperdere i troni,
affondare le pietre nella sabbia degli anni.
Ma del tempo che sale
la stessa onda ci ha raggiunto
e non abbiamo scampo.
Noi moriremo a viso aperto
conoscendo ogni male fino alla morte
e come le cellule combattono la loro battaglia
e come l’amore sparge l’inesorabile sperma
- ancorata a un amplesso la lunga sorte del mondo –
con quali sogni le cicatrici del dolore
scrivono la storia di un popolo.
Sono caduti attorno a Rameb
i petali bianchi del giorno,
il sole si tira da parte a morire,
semina la notte rumori di stragi e fiamme,
imposta presenza infuria
la morte danzatrice del buio.
dammi la tua mano Fidaiyin,
nei campi arati della distruzione,
mostrami il fiore della verità
accovacciata ai muri,
apparire improvvisa la tua rivelazione,
esploderò la luce dagli occhi di fiamma
travolgere tutta la terra.
Dammi la tua mano Fidaiyin,
e la speranza e la vita.
Qui nel lattice chiaro dell’incerto
da sopraffatti terremoti, brancolando
salgono ai muri le piccole mani dell’edera,
la terra di Palestina si lecca le piaghe
fa giorno e caldo.
da “Viaggio nello specchio della vita”, prefazione di Giancarlo Vigorelli, Edizioni ILTE, Torino, 1994
MUTA PIETRA
Muta la pietra della coscienza
legò la mia lingua, sostenne
il labbro
il dente, le palpebre
e l’orditura delle dita,
pulsare dell’uomo che si muove
sia pure trascinandosi
sulla pietra.
Muta pietra, sta tessendogli
l’inquietudine della miseria.
Muta la pietra si inchiodò
nell’inferriata della mia esistenza.
Spietata al timore acuto
la denuncia carceraria.
Muraglie e fame, vittoria
degli sciocchi
e stanco ansito
di guerrieri perdenti.
Muta la pietra… ma
a dispetto del tempo.
giungo, a te, secchio
bere di orbita ignorata,
figlio della verità
con resistenza.
ELEGIA
Il tempo mi va via – sognando ho visto nella terra il mio cranio.
Le parole – cimiteri rilucenti di nomi dei morti,
passo le loro porte – e il destino mi raggiunge.
Il leone della mia giovinezza non scuote più la chioma.
I caprioli sono scappati – l’orizzonte si è irrigidito
nel profilo delle montagne.
Vedo scurire il verde – il sole entra nel mare.
LA BARCA VA ALLA DERIVA
E dopo:
sempre più a valle lungo il fiume,
giorni più grigi anni più grigi
(una nera corrente caduta a disuso,
sotto alte tremule cataratte, spirali di dighe
ricoperte di alghe battenti
dove l’acqua scorre attraverso larghe falle;
la corrente è più impetuosa,
sulle rive si scorgono edifici cadenti,
scheletri di barche in secca,
io stesso in cammino, alla deriva
su di una qualche chiatta, bianca e azzurra un tempo,
ormai praticamente incatramata
e con foglie marce, cicche di sigaretta
ami rugginosi che non avevano pescato
sul fondo, parzialmente alla deriva
di chiusa, in chiusa sotto gli alberi).
C’è “una educazione del cuore”
che ci rende più savi col passare degli anni,
e crei calore, fiducia vita
dove un tempo c’era solo anelito,
che insomma converta il gelo in calore,
la brina in vegetazione e tramuti
la sconfitta, non in vittoria,
ma in un’aria più pura, più fresca
che si può respirare senza inquietudine?
Lo credo, e non lo credo,
volevo crederlo e dovevo crederlo.
C’è un veleno che si diffonde
una sostanza segreta dall’effetto calmante,
e che aguzza lo sguardo: l’orizzonte perde importanza
e qualche pietra insignificante una foglia putrefatta,
la capocchia di un chiodo in qualche vecchia parete
diviene invece chiara, tu la osservi,
essa ti osserva, e per un attimo
ti comprende meglio di quanto tu non comprenda la foglia, la pietra, il chiodo,
ma ecco ch’essa tace nuovamente, come se si
fosse pentita all’ultimo istante e rinunciasse a confidarsi.
E questo veleno fa sembrare piccoli gli anni,
rende piccola addirittura la storia:
come ci appaiono vicine le utopie dell’ottocento,
il fresco bianco legno che Jan Racine lavorava
per farne un’immagine dell’uomo
ha appena qualcosa di più del color grigio causato
dalla pioggia.
E soltanto io, tra tutti gli esseri, son troppo vecchio.
E’ il veleno lo stesso veleno che troppo presto
spegne le rivolte? Lo stesso veleno che penetra
invisibilmente nel linguaggio e lo avvelena
con concessioni, inerenti menzogne, cinismi,
risoluzioni unanimi, lo stesso veleno il quale fa in
modo che l’Italia, questo mediterraneo e soleggiato paese,
si trasformi in una ceca impenetrabile
macchina di potere dove neppure il migliore
evita di essere intrappolato dal linguaggio di potere
travestito di tecnologia dell’ultimo congresso pianificatore,
lo stesso veleno che nelle cellule delle Brigate Rosse
crea un manicomio da epurazioni e controversie
ideologiche e rende il borghese tavolo da pranzo vittoriano
un esempio per il futuro, per
il sognato mondo più pacificato del futuro,
lo stesso veleno che crea in me l’acqua senza fondo del dubbio?
Non lo so. Non so nulla.
So che l’estate è finita, che l’autunno è senza pioggia,
che inquieto batte un martello, inquieta la barca va alla deriva,
che nel mezzo della nera corrente un gorgo sta immoto
in attesa di inghiottirmi.
da “Muro di pietra”, Libroitaliano Editore, Ragusa, 1998
CONFESSIONI DELL’ARTISTA DI VITA
“Tutto quello che è qui,
è materiale per la mia arte.
Sull’estremo lembo di terra
di fronte ai disordinati
ritmi del mare
assaporo un richiamo nell’aria.
Io derivo da queste rocce che arrestano
l’impulso del mare.
Ma tale condizione, se l’accetti,
è come aria: aria
impregnata dal gusto di salsedine.
Penso, quindi non posso
evitare il pensiero del domani.
Fuori dalla finestra, gli uccelli
dell’aria e del giglio
si sono smarriti nell’azione.
Penso agli uccelli che dormono
in volo, al pallido
cereo splendore del giglio, a me stesso,
e al domani che incombe.
L’unica cosa chiara è che non debbo
smarrirmi nel pensiero.
Controlli quel che puoi,
e usi quel che non puoi.
Inebriante librarsi sopra i venti,
leggero, con un senso di scelta.
ruotare sopra una città,
scartare le migliaia, e scegliere l’uno.
Osservare la brava gente laggiù, sapere
che il loro sangue circola,
che si avventa come il tuo
vivo tra estremi.
E i non eletti,
sono, Come morti. La loro morte,
adesso, conferma gli eletti.
Certo, essere dati per morti
può portare dritto ad esserlo.
Leggo di loro: e che altro mai
di più corroborante
per la propria identità
del suicidio degli altri?
Se esistono arti proibite,
la mia dev’essere proprio una queste.
Lei è in preda alla disperazione,
ma sono qui io, per fortuna.
Divenuta indefinita,
si appoggia a me che a ogni momento
sono robustamente ridefinito,
conscio del suo bisogno, ed allenato
ad avere pochi bisogni per me stesso.
Mentre così la sostengo
col mio splendido controllo,
mi chiedo a un tratto: “e se fosse lei
ad avere il sopravvento?”
E levo non quello che ho,
ma quello che vorrei avere,
e mi vedo negli altri.
C’è una ragazza in treno
che emula l’alveare
delle fotomodelle
di quattro anni fa.
Avvampo
agli scherni che mi crescono in cuore,
per paura che qualcosa li esprima.
Perché mai s’è formato qualcosa
di così tenero, così esposto al dolore?
Ecco un’immagine famosa
E’ di un piccolo ebreo,
a Varsavia, qualche anno fa,
trascinato non si sa dove.
Sua madre quel mattino lo ha vestito
pesante, con berretto e cappotto.
Lui fissa la macchina fotografica
mentre passa. Qualsiasi cosa
quei grandi occhi scuri e splendenti
abbiano appena accolto,
ora non riescono più a vedere
alcun richiamo nel vasto mondo.
Invecchio nel disegno.
Le profezie si avverano,
mai però come si prevedeva,
quasi per caso,
anzi, quasi osservando
qualche ordine estraneo.
Ma a me interessa
il mio rendermi conto che il disegno
è in ogni parte etico
e armonioso: circoli
cominciano a chiudersi, linee a equilibrarsi.
L’arte di disegnare la vita
non scusa quella vita.
La gente dimenticherà Shakespeare.
Lui giacerà con me e con Ungaretti
qui dove grufola il porco.
Più tardi, con un lampo
esploderà il sistema solare
e cadrà nello spazio, perso per sempre.
Per quello che si perde
come per la vita
non vi sarà scusa
non v’è giustificazione.
IMMORTALITA’ ONESTA
La poesia non mi è necessaria per respirare
né per amare, né per mordermi le labbra o svanire
in città, né per soffrire, gridare o uccidere. La poesia
non mi è affatto necessaria, mi afferra
alla gola con un pugno di carta, cola il secco
sangue degli aforismi, i grigi occhietti dei postulati
si socchiudono e si aprono, il sordo richiamo d’un corteo
da dietro una barricata che s’innalza
vi scava piccoli alloggi per immigrati.
Oh no, la poesia mi guarda come un’animale
spaventato; modesto atelier di un lirico
schietto che alleva polemica
per tempi migliori. La poesia, sporco asciugamano
d’albergo che passa da una mano all’altra
e ha sempre lo stesso odore di grigio sapone. Che bello
mantenersi con la morte, che si allena
su grandi distanze al Madison Square Garden
e credere che sia una metafora
con cui si avrà immortalità onesta.
VECCHIO POETA
Questo poeta vive ancora benché non gridi slogan
ha le labbra rosse di marmellata di ciliegie
accarezza il cane sotto il muso, guarda rose indolenti.
Oh tempi andati foste forse sognati?
L’anima è appassita come un piccolo nontiscordardimé
l’eco si è installata in lui
a volte apre la bocca per inspirare aria
ma ha bisogno di forze?
lui pugno di terra portato dal vento
il vecchio poeta profuma come un’ostia
non sa se la vita a cui volle dare un nome
si fermerà al momento giusto
l’eco ironicamente ride.
da “Il muro del tempo”, prefazione di Ninnj Di Stefano Busà, Lineacultura, Milano, 1998
L’IMMORTALITA’
(a nonna Creta)
Ricordo mia nonna,
quando stava morendo,
s’era tutta rimpicciolita
e ingrigita.
Le chiesi se aveva paura,
scosse la testa.
Avevo paura di toccare
la morte che avevo visto in lei,
non trovavo niente di bello
di consolante
nel suo ritorno a Dio.
Ho sentito tanto parlare
dell’immortalità,
ma io non l’ho mai vista.
Mi chiedevo
come sarebbe stata la mia morte,
come avrei reagito sapere
che quel respiro sarebbe stato l’ultimo
per sempre.
Spero solo di saperla
accogliere, come ha fatto lei,
con la stessa calma,
perché è lì che si nasconde
l’immortalità
che non avevo mai visto.
NESSUNA OPPRESSIONE È ETERNA
Dove ci sono case di pietra e calcestruzzo
devono esisterne altre di effimere strutture di materia,
il paese si estende in ogni direzione, in alto
e in profondità.
Sotto strati di terra il figlio
calpesta il padre, la figlia partorisce sulla tomba della
madre.
Spiriti fluttuano sui tetti,
con una grande tenda di silenzio e sangue riparano i vivi
dall’alta marea dell’elemento.
I vivi,
che sono solo una parte della loro cupa storia,
corpo coperto di mito che s’alza in cielo con l’arcuato
chiarore della fiamma,
mentre l’altra è la polvere
dove ci sono paesi
devono esistere anche paesi di morti,
la loro presenza
conforta i vivi evidenziano che il presente
non è illusione
bensì una particella del grande tutto.
Si insedia nella storia
mostrando che ogni giogo ha la sua fine,
che nessuna oppressione è eterna, che anche il tiranno
un giorno morirà, il filosofo
lo ha intuito, il drammaturgo
lo ha mostrato. accanto, la testa intelligente di Orazio.
TELA DELLA MIA VITA
(a Claudia)
Fino ieri
avevo dipinto la mia vita
in bianco e nero,
poi ho incontrato i tuoi baci
e ho colorato questo quadro
di rosa tua pelle,
di marrone i tuoi occhi,
di celeste quando mi guardi,
di musica quando mi ascolti,
in parole d’amore
mentre mano carezza capelli
neri e folti.
Piano luce di sole
ha preso forza
nel cielo di questo momento
immobile su tela della mia vita.
E poi ancora un attimo in più
di calore,
quando bacio sfiora mie labbra.
MI ASSOLVO DA SOLO
Non mi riguarda più, quel penetrante
gelo della canna accostata alla mia bocca
il 12 dicembre ’44,
non mi riguarda più, anche se appartiene
a me quella testa, né la mano con la pistola, né
sapere chi ha ragione e dalla parte di chi.
Lasciatemi in pace
con quella testa rapata, è meglio per me non pensare
né a quel polso in un manica di divisa,
non mi riguarda più (eppure sento, tuttavia,
che mi oltraggia);
ripeto non mi riguarda, non mi tocca
il dito puntato del manganello, non è mia quella testa
coperta dalle mani, non ha niente a che vedere
con quell’uomo picchiato, tranne il fatto inconfutabile
che anch’io sono un uomo che in fin dei conti
significa poco, tanto più comunque che senza
motivo non picchiano; a dire il vero non ho preconcetti,
ma so che quando picchiano qualcuno di sorpresa
se lo è voluto lui, a me non riguarda
(eppure sento, che benché sia così insignificante,
tuttavia
mi toglie la libertà);
ripeto ancora: non mi riguarda, non mi sento toccato,
quando sono costretto a sussurrare la mia confessione
attraverso la grata d’un questionario che con sollievo
compilo a chiare lettere non mi riguarda, quando
mi chiedono delle idee passate, presenti, future, e
mi assolvo da solo, giurandomi che mai
mi lascerò immischiare, che non dirò niente
più del necessario, perché tanto l’ultima parola
ce l’hanno sempre loro, i più forti.
da “Mi assolvo da solo”, prefazione di Giovanni Giudici, Gabrieli Editore, Roma, 2003
L’ULTIMO UOMO
Egli evita il solenne ritmo del mare
basta una sola collina
per chi ha a disposizione il mondo intero.
Si unisce il silenzio verdebruno,
ispeziona le trappole, si perde
nel folto, tra grandi massi riappare.
Torri di guardia non innalza. Vive
come gli uccelli, bastanti a se stessi
saltellano e beccano. Potrebbe
stare alla macchia per una settimana;
mantiene l’abbrivio come loro
sull’ala librata del presente.
Ma a volte, allo svegliarsi, con il segno
d’una pietra sul fianco più pungente
del discorso dei sensi e della memoria
di mostruosa battaglia. Schiude allora
un canale in disuso all’irruzione
dell’odio, finché l’estremo uomo
sale l’estrema collina, senza avere
pensiero sentimento, come prima.
Preserva se stesso come natura
ma quale vissuta caricatura
della razza cui gli accade di sopravvivere.
E’ vestito di fango.
Interamente rappresentativo.
USAVA CAMMINARE SCALZO
Già prima usava camminare scalzo
precorrendo le strade dove l’erba
cresceva lungo i bordi per il nido
dell’uccello palustre, già a pezzi
l’uniforme cadeva dalla schiena.
E a questo colle oltre la pianura
era giunto del tutto rispogliato. Ora che, solo,
non può portare messaggi a se medesimo,
né trasmettere annunci da olmo a quercia,
è un goffo saio che comincia a farsi
con pelli di talpa e di coniglio; osserva
che chi lo indossa è privo di mansioni.
Ma il rubacuori scampato alla guerra
ha solo perso chi ammirava i suoi riccioli
che al collo prodigavano tepore;
ma nessuno lo vede mentre il vento
sillaba dalla piana ambigui ordini
e le sole ragazze che egli abbia
sono le digitali che s’inchinano,
pure si è fatto quasi uniforme
della sua povertà. Se stesso insegue
con un ago di osso mentre cuce
le toppe stese in grembo, messaggero
che corre in cerca d’identità, e vede
prender forma un disegno in mezzo al caos.
LA BOCCA LOTTA DI PAROLE
“Che cos’è? Che cosa?”
La bocca lotta con le parole che la mente ha dimenticato.
Mentre lui guarda la macchia dall’altura bruna
la vede aumentare, in atto
di avanzare strisciando, di strisciare involtabile,
imprevista laggiù sulla pianura.
“Devono essere uomini”.
E’ invaso dal sapere, ma si ritrae di nuovo
con la nausea di essere ancora vivo
sui pendii verdi del suo isolamento, lui
“l’ultimo uomo sull’ultima collina”,
per una sorta quasi di espiazione.
Ed ora il sogno
d’un vicino stagno, fresco d’ombra, di acque di due rivi:
se si tuffasse lì, per poi riemergere
la pelle irrigidita dal gelo,
freddo bianco inumano come astro
d’ogni polvere immune. Ma non si muove.
Potrebbe mai dichiarare
ad uomini che s’inerpicano nel fango del loro viaggio
che pulito era separato?
Il fango si seccherebbe ancora, indurirebbe al caldo:
è sempre quel fastidio, quel mondo di granelli
inspirato, ammassato sulle mani e sui piedi.
Non si accorge
del cambiamento che già si verifica allorché là
nella prima luce chiara e fredda
esitando sull’erba ingiallita umida di rugiada
ancora ingobbito, eppure già un po’ più eretto
nel figurarsi l’uomo quasi uomo diventa.
da “The Last Man”, Preface by Krishna Srinivas and Syed Ameeruddin, traslated Brian Patten, Editing International
Poetry, Madras, India, 2002
da “L’ultimo uomo”, ILTE, Torino, 2004