antologia poetica
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ANTOLOGIA POETICA UOMINI NERI Non guarderò più gli uomini solitari in riva all’acqua di un canale. Neri, neri e vecchi sotto l’ombrello i piedi lunghi vicini alla morte la lenza immobile e il silenzio delle reti distese. Come ragni. Il sole è grigio, la terra è grigia, gli argini di un verde marcio senza speranza. E tuttavia essi ascoltano fluire la vita, questa cosa che morde, che scava, che dilania, la lenza immobile, le reti grandi divorate dai granchi. Le formiche sono salite sopra il mio letto le formiche afferrano il mio cervello le formiche salgono sulla mia mano. Prendete nota, uomini neri, neri, neri in riva al canale. Con gli ombrelli piegati di lato e l’ombra stanca sul ronzio dei vostri pensieri sui piccoli, smisurati mostri delle vostre vanità. Soltanto quell’andare e venire delle formiche quell’andare e venire e i buchi delle reti immortalate dai granchi. SASSI Quanto della mia umana fatica ha inteso il selciato delle strade, lo esprimono i sassi che si ascoltano logorati nel silenzio. Sassi grigi, affratellati nella schiavitù d’un disegno rigoroso, assurdo, di un’ansia soggiogata dal bitume; se la pesante sferza delle ruote d’un carro trascinato da buoi vi prema, o sassi, il dolore è su di voi, fermo implacabile sole. Se a sera passi di bimbi vi tentano e l’innocenza dei loro gridi avvertite, quasi inteneriti mutate colore e morbidi vi fate e per voi premio è una lacrima sgorgata da occhi cui è consueto il cielo. Sassi che la mia ingorda fatica misurate nell’infinita profondità delle strade, sassi grigi, corrugati volti perennemente afflitti, sassi, al vostro muto invito, a parole un cuore di granito. L’ULTIMO CHIARORE DELLA SERA Come una chiazza di sangue abbandonato l’orizzonte è rosso nell’ultimo chiarore della sera. Eppure ancora nascono le stelle, ma nell’aere un odore di morte stagna. Anche gli alati guardiani, forse uccidono e gli innocenti piangono, forse sono i morti dell’aspro e ferrigno scontro che vogliono sorridere, ma le madri non alzano la testa per guardare il cielo e la rinuncia al canto è delicata comprensione all’ombre per non farle svanire. Non ricordate le bianche croci sparse sul suolo terreo che riempirono l’Europa? Tutti quei morti l’avevano sul volto. Ricordate la candela che si bruciò nell’agonizzante attesa e il silenzio greve di quegli occhi materni? Sì, forse la fiamma dà luce anche di giorno, Forse anche i ciechi sanno che nel mare Le onde si fanno bianche. Ma come si può credere che il male abbia seme nel cuore? L’amico che disse vigliacco lo gridava per gioco, l’uomo che uccise ebbe strette le mani e la guerra voluta da quei pazzi si disfece nel sangue. Perché dunque vagliare quest’inferno? No, non si chiede ai morti di tornare ma di restare dove sono, è soltanto un rimorso perduto che non sappiamo afferrare. E si piangono i vivi, e i vivi piangono i morti e scompare la gioia di una casa per un soldato che non è tornato. Ma perché si rompe la pietra che non sa fare i fiori, perché cadono sempre le foglie secche quando dentro il cielo è tanto ingombro di nuvole e perché tutti gli uomini muoiono se credono tanto alla vita? Non siamo stati fatti per morire quando non siamo morti! Signore, proteggi la formica che il sole ha abbandonato sopra il ciglio di profondi precipizi, solleva la rondine ch’è caduta… Io t’ho ucciso ogni giorno e abbandonami quaggiù, ma questi sono figli tuoi, o Cristo, che hanno perduto forza ed innocenza e credono che l’alba li risvegli. Se vuoi posso donarti le mie mani, sono così avide d’amore. Di tutto l’autunno, una foglia, di tante parole, un lamento, del fuoco gettato, ora freddo, è questo che rimane a chi ha saputo aspettare senza chiedere niente. E si riposi il viandante venuto da molto lontano e si calpesti il dolore che toglie il cammino ai fanciulli e si ripetano i sogni per farci tornare innocenti, abbiamo perduto la voce nei canti crudeli dei morti e ci resta soltanto il desiderio della canzone dei vivi. La pietà ci colmò di silenzio nel paradiso devastato e fabbrichiamo castelli senza pietre per non velare un angolo di cielo dove siamo stati trafitti. Almeno qualcuno vedrà che siamo stati venduti al coraggio dei forti. Ma quale volto lasceremo ai figli, se tutti siamo vuoti d’allegria, forse, rubando ai pagliacci potremmo ancora sorridere. Eppure a tarda sera rimane una lancia prolungata e rossa che trafigge l’orizzonte. Questo è il tuo sguardo, o Cristo, ma anch’esso è rosso di sangue. da “L’ultimo chiarore della sera”, prefazione di Carlo Betocchi, Casa Editrice Nuova Accademia, Roma, 1965 RACCOLSI SOLO MANCIATE DI SABBIA Raccolsi solo manciate di sabbia gettando al cielo in quel pomeriggio di sole raccolsi manciate di sabbia perché facessero velo sul nostro amore. Una pezzuola verde, ed un abito a fiori nella piazza deserta nel pomeriggio di sole ed un sorriso, un cenno di capo uno stridore di freni una carrozza col cavallo che dorme. I miei capelli scomposti sugli occhi e nel petto qualcosa qualcosa di pigro, di dolce qualcosa di vivo in quel pomeriggio di sole che la raccolsi pezzuola verde ed abito a fiori nella piazza deserta, alle tre. Sabbia, cespugli lontana baracca cadente, con “Coca Cola” iscrizione e gru gigantesche e chiome di alberi. Lontano dal porto mi sdraio zitto, gli occhi socchiudo zitta gli occhi socchiude sentendo qualcosa nel petto di dolce, di pigro. La solitudine immensa di quel pomeriggio con la ragazza dall’abito a fiori. Raccolsi solo manciate di sabbia gettandola al cielo non sapendo che lì si bruciava la mia giovinezza. Ancora vado cercando qualcosa in una piazza deserta alle tre. E solo un cavallo che dorme. Uno stridore di freni. LEI, SIGNORA, AMICA MIA Lei signora, amica mia che fu in Spagna prima della guerra civile che possedeva in Spagna prima della guerra civile che amava la Spagna quando la repubblica profumava d’arancia era fresca conquista e i giovani disdegnavano la morte e la guerra civile lei signora, amica mia mi dica cos’è che fa della Spagna, oggi una vergogna europea. Lei signora, amica mia mi dica che senso hanno gli sciopero che senso ha passare manifestini di protesta da una mano tremante ad una decisa quando i mercenari di sempre hanno sbalzato di sella l’uomo per colpirlo nella forza; annientato lei signora, amica mia conosce quelle pianure popolate di fantasmi mi parla di Goya della tragedia di Goya della pennellata di Goya. Io conosco i poeti spagnoli gente stupendamente reale magici nel percepire crudeli nel cantare candidi nei sogni e lei signora, amica mia dice che essi sono l’anima di Spagna la forza della Spagna; il fuoco di Spagna. Di questo enorme vulcano spento dove la rivoluzione profumava d’arancia e sulle colline verdi d’aranci e di ulivi fu disfatta e sperduta. E lei torna a ripetere che i pittori sono il sangue di Spagna ma quando io vedo ribollire il valore e smaltirsi nelle pieghe di una mantilla dico “operaio perché non ami più la repubblica e fai della Spagna una vergogna europea”. ARDEATINE ‘63 Eroe senza senso preso chissà perché tra la gente preso mentre uscivi di casa e avevi in bocca la bava della prima colazione e dentro il cuore l’ansia di fare qualcosa; preso e portato ombra nel muro senza scopo, finito; Eroe senza significato senza gesta, senza lucidità non una fronte alta da mostrare o qualcosa da rinnegare ma uomo di fronte al muro segnato nell’argilla limacciosa della casa, eroe. Eroe senza ideologia ma con una luce interiore che tutta rischiara l’umanità: un sacrificio per essa. Ti sei sacrificato per essa come si è mai sacrificato nessuno il tuo morire è grande perché non dovevi morire la tua tomba raccoglie preghiera perché eri solo nella preghiera quotidiana. Piccolo impiegato, imprenditore, funzionario chissà chi eri, studente, professore uomo, donna non ha importanza nell’anagrafe del martirio. Simbolo d’amore prima ancora di essere simbolo immagine di sofferenza prima ancora di essere immagine faccia senza rotocalco parole senza prima pagine vittima semplice nel crepitare dei luoghi comuni. da “23 liriques contemporaines”, traduzione Jeanne Legnani prefazione di André Maurois, Editions Librairie ‘73, Paris 1968 (Collection « Poétes d’aujourd’hui ») LA VERITA’ La verità è il mio paese che colgo addormentato; il vecchio randagio che accusa malattie per trovare un letto in ospedale; le famiglie che affollano i treni di notte e corrono a cercare un salario; l’inespressivo panico dei giovani di fronte alle responsabilità del passato; l’affannosa ricerca di una prospettiva l’ansia di non sbagliare le preoccupazioni dell’uomo che contribuisce; l’abiezione di chi sta da una parte e per mestiere si rifiuta; l’affaccendarsi dei preti per dare una religione ai convertiti; la gavetta del muratore con il sego nella minestra. Le difficoltà del mondano per essere in linea coi tempi; le previsioni del giocatore ; la fretta dei fidanzati di trovare un’intesa reciproca la bovaraggine dei professionisti arrivati senza missione, e il posto e il nome; l’ultimo tram deserto che rientra; il manifesto dell’uomo politico con la faccia di gomma; la furberia del piccolo commerciante; l’ipertensione dell’impiegato in banca; Il gracchiare come disco rotto sulle stesse parole della vedova mutilata nelle idee; la febbrile ricerca della cultura delle signore che hanno quattro soldi; la fila delle macchine sulle autostrade che portano al mare per sfuggire una settimana; le comitive dei turisti, che fuggono una settimana; gli accoppiamenti misti triplici e oltre. è la verità che colpisce in questi modi impensati. CIMITERO DI MONTAGNA Cimitero di montagna dove i morti si conoscono per nome dove le croci sono fatte di steli di rose dove si recita un requiem come un’allegra chiacchierata in famiglia; dove la terra ha imbandito macchie di papaveri e fiori di lupino; dove hai seppellito tuo padre e tua madre dove hai seppellito chi partì con essi o prima o dopo; dove si fa la cronaca del paese sulle inutili lacrime degli angeli ridenti; dove il tuo cuore non è mai abbandonato perché lì, ti conoscono tutti. STAGIONE DELLE MALINCONIE Stagione delle malinconie silenzioso precipitare dei giorni breve apparizione di foglie e in queste pietre scavate infiniti richiami. Tu delicata ragazza bionda fatta di ingenui movimenti, di rara bellezza cammini su queste pietre dove cammina vecchiezza, dove ancora c’è dato sostare. Negli indimenticati santuari di scolpite storie di scolpiti rimorsi di scolpiti dolori io t’incontro figlia del mondo sui sepolcri senza immagine sui desideri senz’ombra e vaghi come io vago sotto queste colonne in queste chiese buie, spente, cercando felicità scritte e una certezza di fede. T’incontro ragazza bionda simile a mille altre, curiosa in queste piazze romane, primaverili. Ricerchi nei ciottoli su, lungo gli affreschi, i mosaici le iscrizioni di gloria richiami di passato sospiri di passato stagioni di malinconie. Diversamente io non cerco, guardo ciottoli, sepolcri, pietre, iscrizioni avendo solo un domani, poco o niente dietro di me da “Stagione delle malinconie”, prefazione di Lorena Silvestri, Editrice dei Quattro, Modena, 1966 TU SOLA DI NOTTE (a Sylva) Naviga in alto sopra la città un corno di luna e chiacchiera tra i rami con le nuvole, sbuffi di pipa. Hai spento la lampada al soffitto: rimani sola con pensieri tristi di te e di me nella tua casa di Monteverde. Tu giaci nel biancore del letto e non hai sonno. E’ amara la sorgente e sono salse le lacrime proprio come il mare. Non affacciarti alla finestra; sul balcone se ne stanno due ballerini stanchi. Per noi l’amore è cosa sconosciuta ormai da tempo. Senz’essere marinai abbiamo già naufragato. Questi amanti, beati loro, non gli importa nulla nell’amplesso di un corpo solo. Sono due uccelli pigolanti. Guarda! Stanno sopra la luna! No, non temere, non preoccupartene. Non siamo caduti tante volte dalle altezze, noi pure? Ignoriamo gli manti come loro ignorano ogni cosa a sé d’intorno; Il giradischi e la camera nera con la luna dentro lo specchio. Chiudi in pace le palpebre sugli occhi tuoi dipinti d’arancione. In questo buoi di circo è consolante dormire. ANCHE IN QUEL VELO IO SARO’ (a Grazia) Quando tu starai assopita sotto la quercia, uccelli canteranno basso. Nella sordina degli uccelli dirò l’addio inconsolabile. Acque che passano presso, inumidendo la terra andranno più lente per serbare la tua immagine. Acque ed uccelli, rami e carezzevoli erbe, nuvole, tutto sarà consolo e dondolio. L’ombra velerà di tenerezza il tuo corpo. Anche in quel velo io sarò. Le mani dell’ombra saranno le mie, sopra i tuoi occhi ancora bagnati di lacrime. A MIA MADRE Ora hai chiuso quegli occhi che hanno troppo e poco veduto. Chiusi per sempre. In te la pena s’e spenta e quel mondo conosciuto appena. Rivedo il sorriso dolente e i tocchi sento della mano trasudata avanti di morire. Cosa volevi dire che non hai detto, cosa volevi dire? Non ti ho forse ascoltata chino davanti al letto? Ma le parole tue non uscite son qui che fan ressa. Ad una, ad una s’accendono di fuoco e di dolore. Parlano esse della nostra vita, del peccato del pianto dell’amore… Parole d’odio non ce n’è nessuna. E allora chino la testa e penso: perché mai si può amare e mentire? Perché mai quest’umana natura sembra fusa nella fragile argilla? Perché mai si uccide il tempo che trascorre? Ormai tu più rispondere non sai, né io saprò. Tu sei partita prima che io ti facessi una domanda. Meglio così. Che vale porre domande a questa nostra vita? Io ricordo di te soltanto il bene che io ti ho voluto. Il resto si cancella. Anche la vita, al di sopra delle pene, eri buona per me e tanto bella. VENTO D’AUTUNNO Il vento dell’autunno sollevò le foglie gialle aveva fatto un lungo viaggio mi portava profumi di roseti di conchiglie, di fieno, di frutta mature. Dalla coppa delle sue mani coglievo il respiro della lieta vendemmia, buon odore di foglie e di mare dentro il vento d’autunno! Aveva attraversato tutto il mondo; aveva accarezzato, fiori rossi, mani rozze, fronte curve. Aveva visto roghi di rami secchi e margherite nei prati e canestri che salivano sulle scale dei granai. Ogni profumo aveva in sé rinchiuso. E il vento d’autunno non dice se nel suo pellegrinare si è imbattuto in Dio ma il suo passo si udiva in ogni casa e per ognuna aveva un suo messaggio. da “L’ultime carté du soir”, traduzione Solange de Bressieux, collana Poétes Etrangers (collezione numerata), Jean Grassin Editeur, Paris, 1976 E QUI NESSUNO MUORE (ricordo di mio padre) Non li scrive i versi sul quaderno della spesa a debito il salterio dei poveri li dice terragni con inventiva anarchica, non fregi crudi che puzzano di letame nell’orto, di sigaro monco, di corrosione… niente chiesa ti avvelena quanto la scodella la cioccolata dopo la prima comunione. Il prete mangia carne carne cotta … nell’acqua – commenta sardonico e alla domenica con l’afa mi carica sulla bicicletta da corsa. In camicia senza colletto e le mollette per la biancheria ai calzoni dice la città: Milano San Remo … e pedala (steso sulla mia schiena, il berretto mi fa ombra alla rapa oltre il manubrio) i piedi rattrappiti il riparo tra fette di bambagia nelle scarpe di pezza sforbiciate. Lo vedi da ogni direzione il campanile carnivoro come il prete; ha le poiane nei buchi, dice. Atre chilometri Quinzano, un campanile, due file di case, la pula; alle bocce i braccianti in bretelle e l’elastico sulle maniche della camicia che odora di lavanda e cotogna d’armadio – ecco il paese. Le inventa le città. Non viaggia che per immaginazione tra casa orto officina ferroviaria e osteria. Carreghe di paglia attorno i tavoli con i mezzi litri le carte, festoni moschicida ronzanti perpendicolari dalle travi, la concimaia bollente sotto la finestra, al biroccio i cavalli si ammusano in un cesto di fieno. I vecchi succhiano la gota gonfia di tabacco, sputano, devono sulla briscola e biascicano bestemmie. Le ripeto quando mio padre sul perdere molla pugni e schiaffi all’aria o picchia il tavolo scotendo un suono di bicchieri. A sera i ginocchi non rotano, sente il diabete nelle gambe; la bicicletta scansa i fossi della provinciale ed io curvo metà oltre il manubrio, annuso il fanale a dinamo; lui mi sbuffa e mi canta con raucedine sulla nuca la puzza di vino e il Barbiere di Siviglia. Questo mi ricorda l’osteria, il tempo in cui dalla damigiana travasava nei fiaschi succhiando prima a sgorgate il tubo di gomma. Chi è stato – dice, quando in mezzo ai pomidoro e alla lattuga s’apre il crisantemo; rovina l’orto, non è cimitero e qui nessuno muore. Ma nello stesso letto, inventando versi che nessuno scrive e mi dice, mi protegge all’ascella che sa di pelo, e mi chiude e chiude gli occhi. Il cancro al culo e al pene lo mangia vivo nelle mie braccia smilze, smerdate, e in pena schifosa si sfiata e ha il tagliente sorriso d’un gatto morto. POSITANO La carta per scriverci portata al mare e insabbiata non è rimasta bianca la ombreggiano linee di sporco come creste di rena sul fondo. Non sai esimerti dalla cartolina scrivi a volo io ho un solo ricordo, il tuo tu ne hai una folla. Una storia non scritta e intatta la capacità di vedere la pensione Murena sulla piazzetta la boutique Florence con monokini in mostra le barche rovesciate sulla rena il caffè riparato con lampade colorate la banda guida la processione e a sera si sfogherà sulla piazza i carabinieri sono tranquilli vigilano sul buon costume. E’ la solita storia italiana senza la dimensione virile della libertà altrove non val la pena raccontarla e questo è il signor Praturlon che per essere il più poltron è fatto signor del paese e allora si addormentarono come amanti paghi della presenza uno dell’altro. Postano non l’ho mai visto. Paura del mal di mare e la macchina non ci arriva Bisogna sostare prima chi va a piedi. Eppur sotto lo sprone di Maria Grazia e la riverberata costa e il tempio di Amalfi non più una tradizione a Hemingway né la magica solitudine di Montale di Pound e Joyce e Robert Pen Warren e Thomas che mi trasmisero le loro notti. Metafisica dei giovani scrittori magari non li potevi soffrire William Carlos Williams mi piace lo spazio limitato a un certo punto non lo spazio, lo spazio e poi dietro ancora nel mio cervello si davano convegno ricercatori tre generazioni di alcolizzati. Per questo vidi l’onde rompersi sulle geologiche scalinate rotolare fra le colonne dei templi e le piramidi angoscia per la misura dell’era mi segnalò l’età adulta e ci smarrisce il senso della moltitudine infinita di vite in cui simili a navi timorose penetriamo già e sempre vivendo senza tregua alla stanchezza e consistenza al ricordo. Ho tessuto un sogno contro gli ostacoli sembrava il paziente lavoro del ragno ora non so che cosa che cosa mi aspetta l’indomani là oltre il tunnel dell’autostrada del ritorno dove sostano stranieri sorridenti per loro l’Italia, il paese di cuccagna e quivi, a tavola,piovono pernici e fagiani e ogni sorta di selvatichine. E si guardarono con l’angoscia degli amanti che non altro soccorso se non la presenza di se stessi. Ad altri la cena del sabato sera la sbronza e annoiati i salti nel letto. da “Schiavo 1933”, prefazione di Paolo Ruffilli, FORUM/Quinta Generazione, Forlì, 1979 VOGLIO CHE TU MI VEDA COME UNA TORRE Il filo di sangue che mi esce dalla bocca il filo di lana che mi esce dall’occhio il filo di tabacco che mi esce dall’orecchio il filo di fiamme che mi esce dalle narici. Tu puoi credere che le mie orecchie fumino ma gli uomini sono rimasti impietriti in mezzo alla strada perché questa notte si verniceranno di nero tutte le statue e sarà la mia insonnia quella che tu conoscerai un’insonnia qualsiasi di creta e di argilla un’insonnia come una stufa e come una porta o meglio come il vuoto di una porta e dietro questa porta voglio che parliamo della memoria voglio che tu mi annusi come una finestra voglio che tu mi ascolti come un albero voglio che tu mi palpi come una scala voglio che tu mi veda come una torre. PARTENZA Non aveva niente con cui battersi gli erano stati rubati gli affetti. A mezzanotte a ridosso di un muro nella camera d’albergo si sradicò il cuore e scrisse. Pietà Il sole all’alba lo trovò inginocchiato come una statua greca con due fili di sangue che colavano dalla bocca. IL BISTURI APRE UN BUCO COME TORO Il mio ventre scoppia come muggito nel deserto. Il bisturi apre un buco come toro. Diviene nero fiore facendo fiorire flotti di sangue. Il professore è conciliante ha una scriminatura e un sorriso di nylon. Talvolta scaglia una vita tra le nuvole. Tiene nelle sue mani la vita dell’uomo. Mentre sul letto operatorio cercavo di penetrare, oltre i fari accecanti, vedevo il suo volto che sovrastava la mia impotenza e vedevo corpi idealizzati di magnati che gli svolazzavano dentro. L’ho visto cadere dall’alto dalla torre di Castelvecchio andando trionfalmente con la testa immersa nel giardino museo. Il popolo ondeggiava come spiga matura il nero scialle del diavolo volteggiava alle raffiche del vento coprendo il ponte scaligero. Lungo la strada allargò le braccia, aprì la bocca e iniziarono a scendere gli angeli, corvi come dai sotterranei della luna e discese Berto (1), dal movimento di una cascata e tentò un abbraccio… poi scomparve. In cima ad un forno di Auschwitz vampiri tengono seduta prendono slancio e diventano graduati nel villaggio di My lay. (1) Berto, scrittore italiano. da “Et Après... ”, traduzione Solange de Bressieux, introduzione di Solange De Bressieux, Barre-Dayez Editeurs, Paris 1980 NELLO ZODIACO DEI TUOI OCCHI Nello zodiaco dei tuoi occhi Amore segni d’inquietudine appaiono Le braccia e il tuo corpo soave arcueranno lillà in gerarchie vegetali sole coperto da eclisse E quanto è vicino alla fine la morbida distesa dei nervi ma nessuna cartuccia può avere due piombi ne assumiamo la conseguenza dell’assenza La corda è più dura dell’erba e l’anima più interiore che il pensiero nascosto niente né testa né croce non esiste niente La scelta è un’astrazione Amore guarda la nostra carne decomporsi Hai ancora la forza di mantenere questo sorriso sereno di partecipazione? Le grosse blatte si spengono nel buio i ragni organizzano gli angoli ed anche noi i cigni non mentono. AIUTAMI DUNQUE A LEVARMI E MORIRE COLPEVOLE SULA CROCE DI SINISTRA Grido colpevole alla porta di questo cantiere costruttori di croci ascoltate il mio comando Ho rubato a sinistra ed a destra voglio essere levato accanto alla croce di questo cliente onesto Non di te ho paura Barbuto tu sei quanto meno annoiato il ladrone alla destra mi fa paura secondo il Libro non ha alcun giorno Aiutami dunque a levarmi e morire colpevole sulla croce di sinistra Non di te ho paura Barbuto e questo non è tutto quello che ho potuto apprendere So ancora che non è dato a tutti di finire in questo dolce modo Son un buon pagatore ai banchetti che cantino i galli all’alba di questa orgia non posso arrampicarmi due volte sulla croce Che silenzio non vedo cogli occhi qui lassù a sinistra dove mi trovo la pena è abbastanza dolce e i chiodi sono delicati a battere Non mi scendete dalla croce falegnami perché pago. FRUTTO PROIBITO Leonessa accanita levigata nell’arco degli occhi una lacrima di sale Profondamente l’erosione dell’attesa Levigata dalle rondini alla finestra multiplo ritmico dell’accostamento I fianchi e il nostro sangue come pesci fiammeggianti nel palpito Profondamente l’eresia della luce Levigate le mani d’acqua fresca Amore la cerimonia dell’assoluzione del peccato è semplice Profondamente la stigmatizzazione delle persone Levigata dai capelli nimbo di madreperla e di conchiglie risonanti Che la luce chiami l’uomo quando le cosce bruciano a metà Profondamente la trasparenza della medusa Levigate caviglie ginocchi dalle linee di pioggia tra i pomi e che le piante raccolgano freschezze Levigato sorriso alla ricerca al passo arrotolato nel serpente alla parola all’amore la libertà E levigato d’oro il grembo Amore la nascita è il primo atto politico Quanto alla morte tuo frutto proibito. da “Poesie D’Amore”, prefazione di Roberto Sanesi, Severgnini-Stamperia d’Arte, Collana di Poesie Cloruri, Milano 1983 LA CHIAVE C’era la chiave e all’improvviso non c’è. Come entreremo in casa? Forse qualcuno troverà la chiave perduta, la guarderà e a che serve? cammina e la fa ballare nella mano come un pezzo di ferro vecchio. E se accadesse lo stesso, non solo a noi, all’amore che ho per te: a tutto il mondo mancherebbe proprio quest’amore. Raccolto da mano estranea Non aprirà nessuna casa e rimarrà solo forma e niente più e che la ruggine lo intacchi. Tale oroscopo non si sfila, né dalle carte da gioco, né dalle stelle, né dal grido del pavone. DECISIONE Ho deciso di essere lirico come lo spazio fra i braccioli della sedia elettrica. Ho deciso di essere bello come un dialogo a quattro labbra, il coscetto e il pasticcio a forma di timpano. Ho deciso di essere prodigo come i capelli dell’uomo passata la quarantina. Ho deciso di essere brutale come il teatro con uno spettatore alla prima di Fedra. Ho deciso di essere divertente come il pettine che sporge dalla tasca del morto. Ho deciso di essere originale come il mio conoscente poeta che scrive 35.674 poesie all’anno con l’apparecchio per riparare le calze. Ho deciso di essere musicale come un prigioniero che dallo stridio delle chiavi riconosce i meccanismi delle serrature. Ho deciso di essere tenero come l’interno della stanza che abbraccia la dormiente. Ho deciso di non darmi, sarà meglio. IL LICOPODIO Erano tempi in cui il verde aveva la forza di arrampicarsi verso la gloria, erano tempi in cui era permesso frusciare come cima d’albero all’erba più misera, dove cammina il cervo. Come la mano del grande falegname il vento scolpisce le cime degli alberi, e sopra i rami nell’ombra arrivano già le oche selvatiche, annunciando sotto le nuvole la nascita del bosco alto da erbe capaci di arrampicarsi verso le nubi. Gridano le oche sopra le melme: la selva vuole volare dietro il nostro coro, non accadrà per caso, che le ali crescano agli alberi il bosco si semina nel suolo e deve rimanere sulla terra come il gregge imprigionato, solo a noi, oche è dato il grido nel volo Volta per volta nella tebaide l’erba in albero si trasforma. Dice il muschio: giacciono le pietre, uniscono le mie ali alla loro forma, desidero alzarmi insieme nel volo, sono debole, mi manca la fede nella potenza del mio verde. Giace il sasso accoppiato con la cima verde scura. Il muschio attende sempre nell’alba color sorbo e quando il cielo bruno porporino dà frutti nella notte. Ma i fiori si rifiutavano di cambiare nel bosco. Noi siamo raggi colorati espulsi nel fondo della terra, perché nascondere lo splendore sotto la scorza, ondeggiamo come il prato, ondeggiamo come il bosco arrampicandoci nella danza sulle rocce. Il licopodio si accresce, si accresce, striscia una volta nel sole, una volta nell’ombra e si avviticchia come serpente verde. Oh, erba stupida boriosa, spicchi in volo per la scala aerea, illuditi e aspira a una aperta contrada. Finirà la tua gloria! Lontano da qui vivono gli uomini, il boscaiolo cammina, abbatte la selva, sopra gli alberi tagliati grida il corvo: l’erba voleva volare, ecco il ritorno dei boriosi stesi i tronchi uccisi le braccia spiegate, perché l’albero anche sussurrando in alto serve gli uomini sulla terra e un giorno il ramo troverà riposo sull’erba. Portano il tronco nel portale, i cani fiutano le cime degli alberi, e trovano solo la penna del corvo che sa volare sotto le nubi. Io, licopodio non voglio la scorza, che si fa preda della mannaia, non voglio spigare le ali per cadere sotto l’ascia perché estraggano tavole dal tronco, perché io da morto diventi letto d’amore per giovani e belli. Preferisco strisciare sulla terra e non servire a nessuno da asse per la bara e da trave per la casa. Dove c’è la selva cammina il lupo. Il muso fiuta, le zampe saltano. Il cervo fugge nei campi, via foreste! Via boschetti! Oh! vivere qualche istante di più! E’ già caduto e la terra con lui disteso diventa un vassoio sanguigno. I rapaci tornano nella selva. Il licopodio si trascina sul sentiero e si avviticchia all’arbusto, si profila il letto di lupo, dove il licopodio protegge l’arbusto contro la pioggia. E gli alberi in alto sussurrano: è arrivata l’ora della notte e l’erba non si arrampica più in cima, d’ora in poi la quercia diventa aquila verde, l’arbusto un uccellino di foglie, il muschio diventa muschio e il licopodio diventa lupo mannaro delle terre selvatiche. I rami sussurrano di continuo: tutto si arrampica in alto per servire qualcosa sulla terra, chi si priva di questa potenza e stacca le ali verdi diverrà letto di lupo come il licopodio. Si è alzata la luna, brillano le foglie, in basso annerisce il licopodio come le lunghe spine della selva. da “Colloquio con la Pietra”, prefazione di Roberto Sanesi, Guanda Editore, la collana i Poeti della Fenice, Milano, 1985 DALLA MIA PAROLA EREDE CRESCERA’ L’ALBERO DEL SILENZIO Non cerco me nella poesia mi nascondo in fondo mi nascondo infondo Non cammino nella metafora come nel cappello decorato di piume Invito al tavolo gli amici e i nemici ancora più fedeli Morirò tutto ma dalla mia parola erede crescerà l’albero del silenzio E sopra la baraonda del mondo sporgerà il ramo stupito ALLA RICERCA DELLA MIA IDENTITA’ Un giorno ha deciso di sapere chi sono ho letto le mie lettere e ho ascoltato la mai voce Mi sono spogliato di tutte le onorificenze ho rinunciato a tutti i privilegi Ho perduto la carta d’identità ed il libretto militare nei quali c’erano le mie foto con l’obolo della lingua nella bocca Tale è il prezzo per attraversare il fiume della lealtà Alla fine mi è caduta la rete dei nervi ero sicuro fino al midollo delle ossa lontano dalla maestria degli imbroglioni che si sono impossessati dell’arte del parlare con le mani strette sulla gola Sono l’aria malata Con ciò il poeta ha voluto dire che si sente ottimamente nel soprabito POETA TRISTE Hanno sputato sul poeta per secoli asciugheranno la terra e le stelle per secoli i propri volti il poeta sepolto vivo è come il fiume sotterraneo conserva in sé volti nomi speranza patria il poeta ingannato sente le voci sente la propria voce si guarda intorno come l’uomo svegliato di notte ma la menzogna del poeta è multilingue ed enorme come la torre di Babele è mostruosa e non muore mai. da “L’albero del silenzio”, Edizioni del Leone, Treviso, 1988 MI FARO’ PER VOI POETA PUBBLICO (a Camì) Quando avrò perso tutto, la mia debolezza, la mia lingua, il mio gusto di lottare, mi girerò ancora una volta di fronte a voi, uomini miei, carrettieri, braccianti, pastori, garzoni di drogheria, facce dimenticate smarrite rinnegate, uomini dei paesi nascosti in un tempo che non vuole che non può sbocciare e troverò nelle vostre occhiate, nella stretta delle vostre mani, nei vostri gridi lanciati senza sosta dal fondo alla cima della terra e che nessuno riesce a far tacere una ragione per credere ancora. Tornerò ad essere per voi, abitanti goffi e maldestri di un paese dalla voce d’infanzia e di terra, il ragazzo che non ha smesso d’essere un bimbo di città in cerca d’amore, del pioppo flessibile come il canto dello straccivendolo che ossessiona le alte praterie della vostra memoria, di uomini che sanno tutto senza avere mai letto nulla, tranne il libro del tempo che fa. Io alzerò una tavola di fronte allo slancio delle colline e mi farò per voi poeta pubblico. TUTTO RITORNA MADRE Tutto ritorna, il leone, il mago: il Sole, Venere, la Luna, le Pleiadi, ma l’uomo, l’uomo, la donna, la bella non tornano più. Madre devi tornare. Ma il solo dogma in cui credo l’ho detto: è la libertà, e il giorno che non sapessi di non essere libero mi ucciderei per mostrare che sono libero, ma lo so, ma lo so che sono libero, perciò ho le catene dell’impero, di tutto ciò che ritorna. Mangia ancora i frutti dei lampi nella notte dei falò di Quinzano sotto la luna cinta d’alone tutta la regione per monti e per valli sarà un lampo d’anime armate, di sangue di libertà; ascolta le ossa degli antenati, solo ciò ti può ridestare; quanto hai dormito, Madre, fata regina dei boschi? chi ti ha dato, Madre, il veleno dei sogni e della morte? chi ti ha fatto credere, Madre, quel veleno una bevanda divina? il nostro piangere, Madre, e le nostre lacrime ardenti ti giungeranno alle orecchie, ma quando, e nel cuore, mai più? Ahi noi non siamo api che per difendersi muore. Siamo tutti appiccicati dietro all’oca d’oro. Ahi l’animale ha tutto il genio della carne ma è puro, amoroso, con i non-amici ed i vecchi, è limpido selvaggio. Ma l’uomo è talmente cattivo che quasi vedi in questo lo spirito, la libertà dell’anima: se la natura è buona, è cattivo lo spirito. Oppure l’animale ha più, più spirito dell’uomo? Viva l’arte tra la vigna della Valpolicella e la roccia di San Rocchetto. PASSAMI LA TUA BATTAGLIA FIDAIYIN Nel ventre del tuo paese dove sabbia e corpi germogliano alla stagione del grano, nella kasba dove la luce prorompe in un urlo interminabile, nelle accecanti montagne del Golan dove la vita precipita nel tempo fermo della tua storia, tra i volteggi indifferenti dei giorni, nella sconvolta geologia della tua latitudine, incontriamoci Fidaiyin. Dammi la tua battaglia e il martirio e il sangue che ti scorre dal viso le tenebre contorte del tuo ventre e la fronte gelata dalla purezza, dammi il culto e la fame e l’hallagiah impregnato di morte la terra aperta e la funebre luna la distruzione dei neri grappoli - non è diverso a lanciarli che i noccioli di prugne da ragazzo. Dammi il credo Fidaiyin, la verità trafitta dagli spari, le spiagge dissanguate della Palestina che i tuoi piedi risvegliano scesi a fondare la vostra libertà. Dammi la mano Fidaiyin, posala sul cavallo del mio orrore, la vita mi ha tagliato il sogno dalla gola, la mia piccola sorte individuale mi tormenta come una catastrofe. Abbiamo ascoltato crollare i templi dei padri e il ghibli disperdere i troni, affondare le pietre nella sabbia degli anni. Ma del tempo che sale la stessa onda ci ha raggiunto e non abbiamo scampo. Noi moriremo a viso aperto conoscendo ogni male fino alla morte e come le cellule combattono la loro battaglia e come l’amore sparge l’inesorabile sperma - ancorata a un amplesso la lunga sorte del mondo – con quali sogni le cicatrici del dolore scrivono la storia di un popolo. Sono caduti attorno a Rameb i petali bianchi del giorno, il sole si tira da parte a morire, semina la notte rumori di stragi e fiamme, imposta presenza infuria la morte danzatrice del buio. dammi la tua mano Fidaiyin, nei campi arati della distruzione, mostrami il fiore della verità accovacciata ai muri, apparire improvvisa la tua rivelazione, esploderò la luce dagli occhi di fiamma travolgere tutta la terra. Dammi la tua mano Fidaiyin, e la speranza e la vita. Qui nel lattice chiaro dell’incerto da sopraffatti terremoti, brancolando salgono ai muri le piccole mani dell’edera, la terra di Palestina si lecca le piaghe fa giorno e caldo. da “Viaggio nello specchio della vita”, prefazione di Giancarlo Vigorelli, Edizioni ILTE, Torino, 1994 MUTA PIETRA Muta la pietra della coscienza legò la mia lingua, sostenne il labbro il dente, le palpebre e l’orditura delle dita, pulsare dell’uomo che si muove sia pure trascinandosi sulla pietra. Muta pietra, sta tessendogli l’inquietudine della miseria. Muta la pietra si inchiodò nell’inferriata della mia esistenza. Spietata al timore acuto la denuncia carceraria. Muraglie e fame, vittoria degli sciocchi e stanco ansito di guerrieri perdenti. Muta la pietra… ma a dispetto del tempo. giungo, a te, secchio bere di orbita ignorata, figlio della verità con resistenza. ELEGIA Il tempo mi va via – sognando ho visto nella terra il mio cranio. Le parole – cimiteri rilucenti di nomi dei morti, passo le loro porte – e il destino mi raggiunge. Il leone della mia giovinezza non scuote più la chioma. I caprioli sono scappati – l’orizzonte si è irrigidito nel profilo delle montagne. Vedo scurire il verde – il sole entra nel mare. LA BARCA VA ALLA DERIVA E dopo: sempre più a valle lungo il fiume, giorni più grigi anni più grigi (una nera corrente caduta a disuso, sotto alte tremule cataratte, spirali di dighe ricoperte di alghe battenti dove l’acqua scorre attraverso larghe falle; la corrente è più impetuosa, sulle rive si scorgono edifici cadenti, scheletri di barche in secca, io stesso in cammino, alla deriva su di una qualche chiatta, bianca e azzurra un tempo, ormai praticamente incatramata e con foglie marce, cicche di sigaretta ami rugginosi che non avevano pescato sul fondo, parzialmente alla deriva di chiusa, in chiusa sotto gli alberi). C’è “una educazione del cuore” che ci rende più savi col passare degli anni, e crei calore, fiducia vita dove un tempo c’era solo anelito, che insomma converta il gelo in calore, la brina in vegetazione e tramuti la sconfitta, non in vittoria, ma in un’aria più pura, più fresca che si può respirare senza inquietudine? Lo credo, e non lo credo, volevo crederlo e dovevo crederlo. C’è un veleno che si diffonde una sostanza segreta dall’effetto calmante, e che aguzza lo sguardo: l’orizzonte perde importanza e qualche pietra insignificante una foglia putrefatta, la capocchia di un chiodo in qualche vecchia parete diviene invece chiara, tu la osservi, essa ti osserva, e per un attimo ti comprende meglio di quanto tu non comprenda la foglia, la pietra, il chiodo, ma ecco ch’essa tace nuovamente, come se si fosse pentita all’ultimo istante e rinunciasse a confidarsi. E questo veleno fa sembrare piccoli gli anni, rende piccola addirittura la storia: come ci appaiono vicine le utopie dell’ottocento, il fresco bianco legno che Jan Racine lavorava per farne un’immagine dell’uomo ha appena qualcosa di più del color grigio causato dalla pioggia. E soltanto io, tra tutti gli esseri, son troppo vecchio. E’ il veleno lo stesso veleno che troppo presto spegne le rivolte? Lo stesso veleno che penetra invisibilmente nel linguaggio e lo avvelena con concessioni, inerenti menzogne, cinismi, risoluzioni unanimi, lo stesso veleno il quale fa in modo che l’Italia, questo mediterraneo e soleggiato paese, si trasformi in una ceca impenetrabile macchina di potere dove neppure il migliore evita di essere intrappolato dal linguaggio di potere travestito di tecnologia dell’ultimo congresso pianificatore, lo stesso veleno che nelle cellule delle Brigate Rosse crea un manicomio da epurazioni e controversie ideologiche e rende il borghese tavolo da pranzo vittoriano un esempio per il futuro, per il sognato mondo più pacificato del futuro, lo stesso veleno che crea in me l’acqua senza fondo del dubbio? Non lo so. Non so nulla. So che l’estate è finita, che l’autunno è senza pioggia, che inquieto batte un martello, inquieta la barca va alla deriva, che nel mezzo della nera corrente un gorgo sta immoto in attesa di inghiottirmi. da “Muro di pietra”, Libroitaliano Editore, Ragusa, 1998 CONFESSIONI DELL’ARTISTA DI VITA “Tutto quello che è qui, è materiale per la mia arte. Sull’estremo lembo di terra di fronte ai disordinati ritmi del mare assaporo un richiamo nell’aria. Io derivo da queste rocce che arrestano l’impulso del mare. Ma tale condizione, se l’accetti, è come aria: aria impregnata dal gusto di salsedine. Penso, quindi non posso evitare il pensiero del domani. Fuori dalla finestra, gli uccelli dell’aria e del giglio si sono smarriti nell’azione. Penso agli uccelli che dormono in volo, al pallido cereo splendore del giglio, a me stesso, e al domani che incombe. L’unica cosa chiara è che non debbo smarrirmi nel pensiero. Controlli quel che puoi, e usi quel che non puoi. Inebriante librarsi sopra i venti, leggero, con un senso di scelta. ruotare sopra una città, scartare le migliaia, e scegliere l’uno. Osservare la brava gente laggiù, sapere che il loro sangue circola, che si avventa come il tuo vivo tra estremi. E i non eletti, sono, Come morti. La loro morte, adesso, conferma gli eletti. Certo, essere dati per morti può portare dritto ad esserlo. Leggo di loro: e che altro mai di più corroborante per la propria identità del suicidio degli altri? Se esistono arti proibite, la mia dev’essere proprio una queste. Lei è in preda alla disperazione, ma sono qui io, per fortuna. Divenuta indefinita, si appoggia a me che a ogni momento sono robustamente ridefinito, conscio del suo bisogno, ed allenato ad avere pochi bisogni per me stesso. Mentre così la sostengo col mio splendido controllo, mi chiedo a un tratto: “e se fosse lei ad avere il sopravvento?” E levo non quello che ho, ma quello che vorrei avere, e mi vedo negli altri. C’è una ragazza in treno che emula l’alveare delle fotomodelle di quattro anni fa. Avvampo agli scherni che mi crescono in cuore, per paura che qualcosa li esprima. Perché mai s’è formato qualcosa di così tenero, così esposto al dolore? Ecco un’immagine famosa E’ di un piccolo ebreo, a Varsavia, qualche anno fa, trascinato non si sa dove. Sua madre quel mattino lo ha vestito pesante, con berretto e cappotto. Lui fissa la macchina fotografica mentre passa. Qualsiasi cosa quei grandi occhi scuri e splendenti abbiano appena accolto, ora non riescono più a vedere alcun richiamo nel vasto mondo. Invecchio nel disegno. Le profezie si avverano, mai però come si prevedeva, quasi per caso, anzi, quasi osservando qualche ordine estraneo. Ma a me interessa il mio rendermi conto che il disegno è in ogni parte etico e armonioso: circoli cominciano a chiudersi, linee a equilibrarsi. L’arte di disegnare la vita non scusa quella vita. La gente dimenticherà Shakespeare. Lui giacerà con me e con Ungaretti qui dove grufola il porco. Più tardi, con un lampo esploderà il sistema solare e cadrà nello spazio, perso per sempre. Per quello che si perde come per la vita non vi sarà scusa non v’è giustificazione. IMMORTALITA’ ONESTA La poesia non mi è necessaria per respirare né per amare, né per mordermi le labbra o svanire in città, né per soffrire, gridare o uccidere. La poesia non mi è affatto necessaria, mi afferra alla gola con un pugno di carta, cola il secco sangue degli aforismi, i grigi occhietti dei postulati si socchiudono e si aprono, il sordo richiamo d’un corteo da dietro una barricata che s’innalza vi scava piccoli alloggi per immigrati. Oh no, la poesia mi guarda come un’animale spaventato; modesto atelier di un lirico schietto che alleva polemica per tempi migliori. La poesia, sporco asciugamano d’albergo che passa da una mano all’altra e ha sempre lo stesso odore di grigio sapone. Che bello mantenersi con la morte, che si allena su grandi distanze al Madison Square Garden e credere che sia una metafora con cui si avrà immortalità onesta. VECCHIO POETA Questo poeta vive ancora benché non gridi slogan ha le labbra rosse di marmellata di ciliegie accarezza il cane sotto il muso, guarda rose indolenti. Oh tempi andati foste forse sognati? L’anima è appassita come un piccolo nontiscordardimé l’eco si è installata in lui a volte apre la bocca per inspirare aria ma ha bisogno di forze? lui pugno di terra portato dal vento il vecchio poeta profuma come un’ostia non sa se la vita a cui volle dare un nome si fermerà al momento giusto l’eco ironicamente ride. da “Il muro del tempo”, prefazione di Ninnj Di Stefano Busà, Lineacultura, Milano, 1998 L’IMMORTALITA’ (a nonna Creta) Ricordo mia nonna, quando stava morendo, s’era tutta rimpicciolita e ingrigita. Le chiesi se aveva paura, scosse la testa. Avevo paura di toccare la morte che avevo visto in lei, non trovavo niente di bello di consolante nel suo ritorno a Dio. Ho sentito tanto parlare dell’immortalità, ma io non l’ho mai vista. Mi chiedevo come sarebbe stata la mia morte, come avrei reagito sapere che quel respiro sarebbe stato l’ultimo per sempre. Spero solo di saperla accogliere, come ha fatto lei, con la stessa calma, perché è lì che si nasconde l’immortalità che non avevo mai visto. NESSUNA OPPRESSIONE È ETERNA Dove ci sono case di pietra e calcestruzzo devono esisterne altre di effimere strutture di materia, il paese si estende in ogni direzione, in alto e in profondità. Sotto strati di terra il figlio calpesta il padre, la figlia partorisce sulla tomba della madre. Spiriti fluttuano sui tetti, con una grande tenda di silenzio e sangue riparano i vivi dall’alta marea dell’elemento. I vivi, che sono solo una parte della loro cupa storia, corpo coperto di mito che s’alza in cielo con l’arcuato chiarore della fiamma, mentre l’altra è la polvere dove ci sono paesi devono esistere anche paesi di morti, la loro presenza conforta i vivi evidenziano che il presente non è illusione bensì una particella del grande tutto. Si insedia nella storia mostrando che ogni giogo ha la sua fine, che nessuna oppressione è eterna, che anche il tiranno un giorno morirà, il filosofo lo ha intuito, il drammaturgo lo ha mostrato. accanto, la testa intelligente di Orazio. TELA DELLA MIA VITA (a Claudia) Fino ieri avevo dipinto la mia vita in bianco e nero, poi ho incontrato i tuoi baci e ho colorato questo quadro di rosa tua pelle, di marrone i tuoi occhi, di celeste quando mi guardi, di musica quando mi ascolti, in parole d’amore mentre mano carezza capelli neri e folti. Piano luce di sole ha preso forza nel cielo di questo momento immobile su tela della mia vita. E poi ancora un attimo in più di calore, quando bacio sfiora mie labbra. MI ASSOLVO DA SOLO Non mi riguarda più, quel penetrante gelo della canna accostata alla mia bocca il 12 dicembre ’44, non mi riguarda più, anche se appartiene a me quella testa, né la mano con la pistola, né sapere chi ha ragione e dalla parte di chi. Lasciatemi in pace con quella testa rapata, è meglio per me non pensare né a quel polso in un manica di divisa, non mi riguarda più (eppure sento, tuttavia, che mi oltraggia); ripeto non mi riguarda, non mi tocca il dito puntato del manganello, non è mia quella testa coperta dalle mani, non ha niente a che vedere con quell’uomo picchiato, tranne il fatto inconfutabile che anch’io sono un uomo che in fin dei conti significa poco, tanto più comunque che senza motivo non picchiano; a dire il vero non ho preconcetti, ma so che quando picchiano qualcuno di sorpresa se lo è voluto lui, a me non riguarda (eppure sento, che benché sia così insignificante, tuttavia mi toglie la libertà); ripeto ancora: non mi riguarda, non mi sento toccato, quando sono costretto a sussurrare la mia confessione attraverso la grata d’un questionario che con sollievo compilo a chiare lettere non mi riguarda, quando mi chiedono delle idee passate, presenti, future, e mi assolvo da solo, giurandomi che mai mi lascerò immischiare, che non dirò niente più del necessario, perché tanto l’ultima parola ce l’hanno sempre loro, i più forti. da “Mi assolvo da solo”, prefazione di Giovanni Giudici, Gabrieli Editore, Roma, 2003 L’ULTIMO UOMO Egli evita il solenne ritmo del mare basta una sola collina per chi ha a disposizione il mondo intero. Si unisce il silenzio verdebruno, ispeziona le trappole, si perde nel folto, tra grandi massi riappare. Torri di guardia non innalza. Vive come gli uccelli, bastanti a se stessi saltellano e beccano. Potrebbe stare alla macchia per una settimana; mantiene l’abbrivio come loro sull’ala librata del presente. Ma a volte, allo svegliarsi, con il segno d’una pietra sul fianco più pungente del discorso dei sensi e della memoria di mostruosa battaglia. Schiude allora un canale in disuso all’irruzione dell’odio, finché l’estremo uomo sale l’estrema collina, senza avere pensiero sentimento, come prima. Preserva se stesso come natura ma quale vissuta caricatura della razza cui gli accade di sopravvivere. E’ vestito di fango. Interamente rappresentativo. USAVA CAMMINARE SCALZO Già prima usava camminare scalzo precorrendo le strade dove l’erba cresceva lungo i bordi per il nido dell’uccello palustre, già a pezzi l’uniforme cadeva dalla schiena. E a questo colle oltre la pianura era giunto del tutto rispogliato. Ora che, solo, non può portare messaggi a se medesimo, né trasmettere annunci da olmo a quercia, è un goffo saio che comincia a farsi con pelli di talpa e di coniglio; osserva che chi lo indossa è privo di mansioni. Ma il rubacuori scampato alla guerra ha solo perso chi ammirava i suoi riccioli che al collo prodigavano tepore; ma nessuno lo vede mentre il vento sillaba dalla piana ambigui ordini e le sole ragazze che egli abbia sono le digitali che s’inchinano, pure si è fatto quasi uniforme della sua povertà. Se stesso insegue con un ago di osso mentre cuce le toppe stese in grembo, messaggero che corre in cerca d’identità, e vede prender forma un disegno in mezzo al caos. LA BOCCA LOTTA DI PAROLE “Che cos’è? Che cosa?” La bocca lotta con le parole che la mente ha dimenticato. Mentre lui guarda la macchia dall’altura bruna la vede aumentare, in atto di avanzare strisciando, di strisciare involtabile, imprevista laggiù sulla pianura. “Devono essere uomini”. E’ invaso dal sapere, ma si ritrae di nuovo con la nausea di essere ancora vivo sui pendii verdi del suo isolamento, lui “l’ultimo uomo sull’ultima collina”, per una sorta quasi di espiazione. Ed ora il sogno d’un vicino stagno, fresco d’ombra, di acque di due rivi: se si tuffasse lì, per poi riemergere la pelle irrigidita dal gelo, freddo bianco inumano come astro d’ogni polvere immune. Ma non si muove. Potrebbe mai dichiarare ad uomini che s’inerpicano nel fango del loro viaggio che pulito era separato? Il fango si seccherebbe ancora, indurirebbe al caldo: è sempre quel fastidio, quel mondo di granelli inspirato, ammassato sulle mani e sui piedi. Non si accorge del cambiamento che già si verifica allorché là nella prima luce chiara e fredda esitando sull’erba ingiallita umida di rugiada ancora ingobbito, eppure già un po’ più eretto nel figurarsi l’uomo quasi uomo diventa. da “The Last Man”, Preface by Krishna Srinivas and Syed Ameeruddin, traslated Brian Patten, Editing International Poetry, Madras, India, 2002 da “L’ultimo uomo”, ILTE, Torino, 2004