la prassi del digiuno cristiano nel nt
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la prassi del digiuno cristiano nel nt
LA PRASSI DEL DIGIUNO CRISTIANO NEL N.T. Il termine digiuno nel nuovo testamento è tradotto con il termine nhstiς, che in genere nella lingua classica sta ad indicare colui che non ha mangiato. Il termine può avere un significato tecnico con riferimento all’astensione volontaria dal cibo per motivi religiosi. In tal caso indica colui che osserva il digiuno. Similmente il verbo nhsteύω significa in genere essere digiuno, essere senza nutrimento, ed è usato principalmente per il digiuno religioso e rituale. Anche il sostantivo nhsteία sempre nella cultura greca classica indica in generale il non aver mangiato. L’usanza del digiuno è presente in tutte le religioni del mondo antico. Il motivo di questa diffusione nell’antichità la dobbiamo a due credenze parimenti diffuse: I demoni acquistano potere sull’uomo mentre questi mangia. Il digiuno è un mezzo efficace o per prepararsi all’incontro con Dio o per ottenere da Lui forze estatiche. Il digiuno del mondo greco e romano non sarebbe dunque ascesi, ma rito praticato per entrare in relazione con la divinità. Il digiuno nell’A.T. Nell’A.T. per indicare l’azione del digiunare è usato il verbo şûm, o altre espressioni come ‛innâ nefeš che letteralmente significa umiliare l’anima (Lv 16,29.31; 23,27.29; Nm 29,7; Is 58,7). Nell’A. T. si digiuna in casi di morte più per esprimere il dolore per la morte del defunto (1 Sam 31,13; 2 Sam 1,12; 3,35; 12,21). In altri casi il digiuno prepara anche qui a ricevere rivelazioni rendendo capace di incontrare Dio e udire le sue parole: questo è il caso di Mosè che prima di ricevere le tavole della Legge digiuna 40 giorni e 40 notti ( Es 34,28; Dt 9,9) o di Daniele che si mortifica per un certo tempo prima di avere le sue visioni (Dn 9,3; 10,2). Ma il motivo più sviluppato è quello del digiuno come umiliazione dell’uomo davanti a Dio. A digiunare è sia il singolo (2 Sam 12,16ss; 1 Re 21,27; Sal 35,13) che tutto il popolo (1 Sam 7,6; 1 Re 21,9 Ger 36,6.9; Gio 3,5ss) Digiuno e preghiera sono strettamente congiunti per essere ascoltati da Dio (Ger 14,24; Ne 1,4; Esd 8,21.23) specialmente se si tratta di una preghiera penitenziale per la confessione dei peccati ( 1 Sam 7,6; Ne 9,1). Chi digiuna è spesso come uno in lutto ( 1 Re 21,27; Est 4,3). Soltanto il digiuno in occasione della grande festa penitenziale di Israele, nel giorno dell’espiazione era prescritto dalla Legge ed era strettamente legato al culto. Il digiuno era anche praticato per sollecitare una guarigione (2 Sam12,16.22). Come il sacrificio al quale venne affiancato come atto cultuale (Ger 14,12) anche il digiuno divenne opera meritoria di valore corrispondente alla durata. I profeti furono ostili ad un tale atteggiamento di fondo che scollega il digiuno da una vita lontana da Dio ( Is 58,1ss; Ger 14,12; Zac 7,5ss; Gl 2,13). L’opposizione profetica all’esteriorità religiosa è stato un gridare al vento, e nella religiosità legalistica del giudaismo postesilico il digiuno sarà uno degli atti più importanti della vita religiosa. L’importanza del digiuno crebbe così tanto che al tempo del N.T. divenne quasi un segno distintivo dei Giudei. I Farisei divengono così particolarmente scrupolosi nel digiunare (Sal 3,8) osservano volontariamente giorni di digiuno (Mc 2,18; anche i discepoli di Giovanni digiunavano) e pensano che questa pratica dia meriti particolari ( Lc 18,12). Più tardi non si digiuna soltanto per espiare una colpa, per evitare una sventura o per ottenere che i propri desideri vengano esauditi, ma si digiunerà per amore del digiuno. Si è convinti, infatti, che Dio attribuisca un grande valore all’opera in sé. Una forma particolare di digiuno privato è l’osservanza costante del digiuno in certi giorni della settimana per periodi scelti personalmente più o meno lunghi. Probabilmente i giorni scelti erano quei due in cui cadevano anche i digiuni generali cioè il lunedì ed il giovedì. Il digiuno nel N.T. Nel N.T. troviamo nhsteύω 20 volte, soltanto nei sinottici ( 8 in Mt, 6 in Mc 4 in Lc) e negli Atti (2v.); nhsteία compaiono negli scritti giovannei. La posizione di Gesù nei confronti del digiuno è molto originale. La descrizione della Quaresima fatta da Gesù (Mt 4,2; Lc 4,1-2) richiama il digiuno di 40 giorni e 40 notti fatto da Mosè. Ma se Mosè col digiuno si era preparato alla rivelazione divina, Gesù ha già ricevuto la sua rivelazione precedentemente nell’evento del Battesimo (Mt 3,17; Lc 3,22), e digiunando si prepara alla manifestazione della sua dignità. Se lo Spirito lo spinge a questo digiuno, lo fa perché inauguri la sua missione messianica con un atto di abbandono fiducioso nel Padre suo (Mt 4,1-4). Nel discorso della montagna (Mt 6,1 -18) il digiuno insieme alla preghiera e l’elemosina diventa uno degli atti che esprimono davanti a Dio umiltà, speranza, attesa. Il digiuno assume ora contorni ilari e gioiosi " Lavarsi, ungersi, profumarsi sono atti che preludono ad una festa più che ad un lutto, per questo celano le rinunce […] in realtà il cristiano che digiuna può assumere di fatto un atteggiamento di festa perché sa del valore della sua penitenza davanti a Dio. Per questo egli si comporta come se andasse ad un convito invece che ad una veglia. Il digiuno è una fonte di gioia, la privazione diventa diletto. L’invito di Gesù ad assumere un atteggiamento giulivo invece che tetro, sottolinea il significato definitivo della penitenza cristiana; se persino anche poter soffrire è una grazia la stessa cosa è digiunare"(Ortensio da Spinetoli). Nelle fonti, oltre il digiuno dopo il Battesimo, non troviamo mai detto che Gesù abbia mai digiunato nel corso del suo ministero pubblico, per questa ragione alcuni esegeti (J. Behm, autore della voce sul digiuno nel GLNT) fanno fatica a scorgere in tutto il N. T. una positività al digiuno. Ma il detto di Mt 6,16ss fa pensare che il digiuno fosse una delle forme ricorrenti di pietà che Gesù stesso ammetteva e incoraggiava. Il senso del digiuno dato da Gesù è però del tutto diverso da quello del giudaismo, vittima in questo di un’autoillusione. Il digiuno è culto, servizio reso a Dio che si compie in segreto. Sfoggiare apertamente il proprio digiuno davanti agli uomini significa mancare il fine vero della pratica. La prospettiva chiara del N.T. è espressa in Mc 2, 19s: "Gesù disse loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno»". L’irruzione del Regno, la presenza di Gesù che adesso annuncia l’arrivo della pienezza dei Tempi, significano gioia ed escludono il digiuno in senso giudaico. Il digiuno, infatti, appartiene al tempo dell’attesa della salvezza; i discepoli in assenza di Gesù a motivo della sua morte saranno tristi (Gv 16,20) sarà dunque quello il tempo in cui digiuneranno (Mt 9,15). Quando lo si considera a partire dal messaggio escatologico, il digiuno è dunque qualcosa di superato ( Mc 2,21), ma Gesù, consapevole del tempo che intercorre tra l’ora presente e il tempo finale, non abolisce il digiuno tra i tempi, ma lo comprende come segno dell’attesa della fine dei tempi. In attesa che lo sposo ritorni a noi, il digiuno penitenziale ha il suo posto nelle pratiche della Chiesa (R. Girard). Per quanto detto, pur non negando perciò l’aspetto ascetico del digiuno, in quanto attesa operativa il digiuno è ancor prima segno della grazia operante che trasforma e vivifica la realtà. In riferimento sempre a Mt 6 secondo G. Busca, se con la preghiera l’uomo riceve grazia in se stesso e con l’elemosina la passa agli altri, "con il digiuno l’uomo passa la grazia al mondo materiale e collabora alla trasformazione del suo essere biologico e del corpo cosmico. L’apice del desiderio dell’anima è Dio, il vero infinito. Se fuoriesce da questa traiettoria, l’anima moltiplica a dismisura i desideri sensuali e si disperde ciecamente nei godimenti materiali. Per sottrarla a questo cattivo infinito, […] è necessario il digiuno. [...] Il gusto sazio, infatti, diventa sordo, cioè non percepisce più nei doni della terra una manifestazione della Provvidenza di Dio ( 1 Tm 4,3-5). […] Il digiuno è una disciplina dell’oralità che lavora non solo sui registri alimentari, ma anche su quello della parola e degli affetti, per proteggere le relazioni umane dal rischio che il desiderio dell’unione diventi un possesso vorace dell’altro". La grazia accolta conduce dunque ad un percorso ascetico che predispone ad una sempre più apertura alla grazia. In questo cammino la pratica del digiuno deve essere unita all’amore del prossimo ed implicare una ricerca della vera giustizia, perciò esso non è separabile dall’elemosina e dalla preghiera che insieme ad esso sono frutto di questa grazia ma anche ricettori. Gesù insiste sul distacco nei confronti delle ricchezze (Mt 19,21), sulla continenza volontaria (Mt 19,12) e soprattutto sulla rinuncia a se stessi per portare la croce (Mt 10,38-39). Letto in questa prospettiva il digiuno, come i consigli evangelici, apre l’uomo ad una profonda relazione con Dio e lo colloca nella prospettiva dell’attesa escatologica. Se prima inoltre attraverso i riti espiatori collettivi, il digiuno aveva un significato sociale di primaria importanza, adesso l’accento è posto sulla relazione con Dio: bisogna digiunare per amore a Dio e non per piacere agli uomini. Perciò Gesù invita nel digiuno ad una grande discrezione: noto a Lui solo, questo digiuno sarà la pura espressione della speranza in Lui, un digiuno umile che aprirà il cuore alla giustizia interiore, opera del Padre che vede e ricompensa nel segreto ( Mt 6,17). Secondo la parola del Signore in Mt 19,21: "Questa razza di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno", anche se in questo versetto la parola digiuno è omessa in alcuni testimoni, non possiamo negargli l’importanza nel recupero della tradizione precedente riguardo il digiuno come mezzo ascetico di purificazione. Nella prima comunità cristiana il digiuno era solitamente praticato. Quando Barnaba e Saulo vengono inviati dalla comunità di Antiochia (At 13,3), quando essi scelgono gli anziani per le nuove comunità, si impongono un digiuno volontario per rinforzare la preghiera. Paolo non si accontenta di soffrire la fame e la sete quando lo esigono le circostanze; ma vi aggiunge ripetuti digiuni ( 2 Cor 6,5; 11.27). Probabilmente la prassi del digiuno, con un significato rinnovato era perciò simile a quella delle comunità giudaiche. Solo successivamente, dopo le tensioni, si scelsero prassi diverse. Nella Didachè è presente già il digiuno settimanale facoltativo e si contrappongono i giorni del digiuno cristiano (mercoledì e venerdì ) a quelli dell’osservanza giudaica. Poiché dunque "il regno di Dio non è cibo o bevanda, ma giustificazione, pace e gioia nello Spirito Santo " ( Rm 14,17) il digiuno nella prima era cristiana acquista valore in rapporto alla motivazione che lo ispira. Oltre ai vantaggi che la ragione può trovare in una sana ascesi per un equilibrio psico-fisico, il digiuno trova il suo più vero significato come partecipazione alla vita di grazia, esterna l’attesa per l’avvento di Cristo diventa segno tangibile di amore nel donare a chi ha bisogno quanto non consumato.