La dimensione europea nei processi di rightsizing delle imprese
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La dimensione europea nei processi di rightsizing delle imprese
La dimensione europea nei processi di rightsizing delle imprese internazionali di Francesco Calza Istituto di Studi Aziendali, Istituto Universitario Navale, Via Medina 40 , 80133, Napoli Tel 081-5523709; Fax 081-5523709; E-mail [email protected] La dimensione europea nei processi di rightsizing delle imprese internazionali 1. Tendenze in atto nelle strategie delle imprese europee Le trasformazioni strutturali che in questi ultimi anni stanno interessando l’assetto delle imprese internazionalizzate si caratterizzano per un crescente processo di concentrazione delle attività d’impresa sul core business (Harrison, 1994). Differentemente dal processo che aveva accompagnato lo sviluppo dei gruppi industriali sino alla seconda metà degli anni 80’, caratterizzato da una crescita dimensionale e fortemente diversificata, i moderni gruppi multinazionali perseguono la strada della concentrazione e specializzazione in business integrabili (Green 1986; Carlton 1979). Le scelte di make or buy che ne derivanosono guidate sempre più dalla ricerca della “giusta dimensione”, del corretto livello di integrazione o di disintegrazione e del grado di diversificazione che può assicurare l’efficienza e la flessibilità tali da permettere una più rapida risposta alle sollecitazione del mercato e del cambiamento tecnologico (Piore, Sabel 1984; Porter 1985). Nel corso degli ultimi anni, quando la crescita degli elementi di incertezza e instabilità ambientale ha accresciuto la complessità del sistema economico, le scelte di esternalizzazione/internalizzazione di determinate attività aziendali hanno acquisito una nuovo impulso. Infatti, esse sono divenute un elemento attraverso cui le imprese reagiscono alla accentuazione del livello di complessità del sistema economico (rapidità del processo tecnologico, accentuarsi dei processi di globalizzazione dei mercati, variabilità degli scenari competitivi, crescente diffusione di varie forme di relazioni non competitive tra le imprese) (Vicari, 1989). A tal riguardo, le recenti operazioni di concentrazione e smembramento dei tradizionali gruppi industriali europei, in coincidenza con la realizzazione politica, oltre che economica, dell’Unione Europea, suggeriscono nuovi spunti di riflessione circa le modalità, i percorsi e, soprattutto, gli obiettivi strategici che sembrano rinnovarsi nel procedere delle imprese verso nuovi assetti competitivi. Negli ultimi dieci anni, infatti, il valore delle acquisizioni transnazionali in Europa è passato da un valore di due ad uno di venti miliardi di sterline, inoltre, nel medesimo periodo, accanto al crescente processo di integrazione internazionale le operazioni di concentrazione realizzate tra imprese europee sono passate dal 15% al 30% delle operazioni totali (fonte Databank Acquisition Montly). Millington e Bayliss (1996) hanno dimostrato che su un campione di 142 grandi imprese europee di interesse internazionale, il 60% si è mostrato fortemente orientato ad espandersi all’interno dei confini europei. Particolarmente attive in tal senso si sono dimostrate le imprese inglesi (più di 1300 acquisizioni intracomunitarie sono state condotte da imprese inglesi negli ultimi dieci anni), svedesi e tedesche (Colombo, Mariotti, 1993). A conferma della fondatezza delle azioni di focalizzazione sui core markets, Baden-Fuller e Stopford (1991) hanno rilevato che una azione strategica che guardi al mercato europeo enfatizzando i caratteri di omogeneità dei mercati nazionali si dimostra di gran lunga più efficace di un tradizionale approccio multinazionale, soprattutto se in presenza di elevate barriere all’entrata di tipo istituzionale, culturale o economico (Doz, 1986, Bartlett e Goshal, 1989). Nell’ottica delineata, pare opportuno indagare se ed a quali condizioni, l’ampliamento del mercato domestico per le imprese europee, dovuto ad un processo politico di integrazione sovranazionale, sia stata una variabile significativa nelle scelte di ridimensionamento strutturale sin qui descritte. E, soprattutto, quali caratteristiche connotano la variabile territoriale come variabile strategica nelle scelte di riorganizzazione delle attività di impresa nel caso in cui esse si concentrino sui core market. 2 2. Strategie di rightsizing: alcuni concetti definitori Il processo di rightsizing delle attività d’impresa è ampiamente noto nella letteratura aziendale. Esso è stato tradizionalmente ricondotto a due fenomeni paralleli e, tra loro, apparentemente contraddittori: un processo di ridimensionamento strutturale, realizzato attraverso l’esternalizzazione differenziata delle attività di impresa ritenute non centrali e il contemporaneo sviluppo dimensionale dell’impresa concentrata a gestire le attività core. A tal riguardo, la letteratura si è soffermata ad indagare le modalità attraverso le quali si realizza il processo di destrutturazione sia con riferimento alla nota dicotomia GerarchiaMercato (Williamson, 1975), sia focalizzando l’attenzione sulle reti di alleanze che danno vita a forme di organizzazione inter-aziendale di tipo intermedio (Eccles 1989; Lorenzoni, 1985). Se ne ricava l’idea che l’impresa possa costruirsi una tela di relazioni che vanno dalla gerarchia al mercato in un continuum di soluzioni attraverso le quali è possibile controllare, coordinare o esternalizzare del tutto il rapporto con le attività decentrate attraverso forme variegate di delega, nelle quali si combinano ricerca di efficienza gestionale ed opportunità di controllo (Contractor, Lorange,1988). L’impresa tende ad assumere il ruolo strategico di gestore delle relazioni che la legano ai suoi principali stakeholders con i quali costruisce, in un’ottica dinamica, rapporti di collaborazione più o meno strutturata in funzione della criticità delle attività valutate (Teece, 1980; Cibin, Genco, 1995). Ed è, appunto, attorno a questo concetto di criticità strategica delle attività d’impresa che si concentra l’ulteriore filone di ricerca relativo ai processi di esternalizzazione. 2.1 Le determinanti delle scelte di rightsizing Con riferimento alle decisioni di rightsizing diversi contributi si soffermano a indicare le potenziali fonti del vantaggio competitivo cui attribuire il possibile focus dell’azione di riorganizzazione. Alcuni autori misurano tale propensione a costruire un nuovo vantaggio competitivo attraverso il contributo che determinate attività offrono all’impresa nella innovazione di prodotto o di processo (Tecce, 1980), ne consegue che una scelta di rightsizing le imprese dovrebbero investire nelle attività dalle maggiori potenzialità di innovazione. E’ evidente come tale logica nasca da una posizione profondamente differente da quella del portafoglio delle attività d’impresa. In quel caso, infatti, proprio il mantenimento delle attività mature consentiva l’afflusso di cash flows utili al reinvestimento in business interessanti. In questo, caso il focus non è più sul contributo finanziario che le attività sono in grado di offrire, ma piuttosto sulla capacità di accrescere la propensione innovativa dell’impresa sulla quale si fonda il suo maggior valore aggiunto (Cantwell, 1987). In quest’ottica, la scelta di riduzione delle attività d’impresa alla giusta dimensione è guidata dal possesso o meno di competenze distintive nel patrimonio di conoscenze consolidato in azienda (Calvelli, 1995). Il ricentraggio o rifocalizzazione è visto, quindi, come quel processo a somma zero o negativa attraverso il quale le imprese si concentrano su quelle attività maggiormente coerenti con il patrimonio di conoscenze e risorse. Le risorse liberate da quelle attività dimesse in quanto ritenute “non centrali” rispetto al business aziendale possono essere reinvestite in attività capaci di rafforzare le “core competencies” dell’impresa (Prahalad, Hamel 1990). Da ultima, la ricerca di condizioni efficienti sulle quali costruire il portafoglio ottimale di relazioni rappresenta una ulteriore determinante del processo di rightsizing (Williamson, 1975), finalizzato alla ricerca, da parte delle imprese, di strutture più snelle e l’allocazione all’esterno delle attività richiedenti elevati impegni in costi fissi. Le imprese si sono quindi indirizzate ad esternalizzare parte delle proprie attività in funzione del maggiore o minore loro contributo alla realizzazione di un portafoglio efficiente di relazioni. 3 Una ricerca questa, condizionata: a) dalle differenti fasi del ciclo di vita del prodotto; b) dal livello di incertezza ambientale che in un’ottica contingente caratterizza l’ambiente in cui l’impresa opera (Lamming, 1993). In tale contesto, la gestione delle attività aziendali tende a basarsi maggiormente su regole situazionali in cui prevalgono gli aspetti di specificità a livello firm, industry, country; ciò comporta che le imprese tendono a perseguire strategie specifiche basate sulle competenze interne e sulle capacità di sfruttare al meglio le risorse presenti nel sistema ambientale (Grant, 1991). Tale approccio risulta particolarmente evidente con riferimento al contesto europeo, laddove le variabili situazionali risultano fortemente preponderanti rispetto alle tradizionali variabili competitive; da ciò risulta un comportamento difficilmente riconducibile a criteri interpretativi omogenei, se non visto nell’ottica della comune ricerca del vantaggio competitivo. 2.2 Gli obiettivi da perseguire Un ulteriore problema legato alle logiche del rightsizing riguarda l’obiettivo sul quale focalizzarsi, ovvero la domanda su cosa ricentrare? Tale problema, trova la sua articolazione in una serie di modalità e di soluzioni strategiche che, la letteratura riconduce a due determinanti tipiche: - la necessità di recuperare margini di competitività nei core business; - la necessità di concentrarsi su alcune “funzioni aziendali”, delegando la gestione di quelle meno critiche al mercato, o meglio, la necessità di concentrarsi su quelle attività della catena del valore ritenute strategicamente rilevanti per il conseguimento di un vantaggio competitivo. Per quanto concerne il primo obiettivo, il percorso di concentrazione riguarda la tendenza per le imprese multi business a liberarsi delle attività più lontane dalle core competence. Il modello tradizionale di impresa diversificata, infatti, riproponendo la logica di portafoglio come criterio unificante dei business di impresa creava evidenti problemi di coordinamento delle attività (Hax e Majiluf, 1981). Ciò sia sul piano del reperimento interno delle competenze gestionali per contenere il processo di crescita centrifugo delle imprese, sia sul piano di un efficace controllo delle attività nella ricerca di sinergie attivabili tra ASA spesso non correlate. Tale limite si rende ancor più evidente a seguito della accresciuta contedibilità dei mercati, che si traduce in un inasprimento del confronto competitivo, e che impone una crescente attenzione delle imprese a mantenere le solide posizioni competitive acquisite. Inoltre, la trasversalità delle nuove tecnologie legittima una trasversalità dei meccanismi competitivi, per cui, imprese appartenenti a settori tradizionalmente distinti possono insistere sul medesimo target di mercato, ampliando di fatto il numero di attori in competizione in quanto a sovrapponibilità dei meccanismi produttivi, ma anche a sostituibilità dei prodotti nel soddisfacimento dei bisogni finali (Vicari, 1989). Da ciò deriva, dunque, una sostanziale crescita della complessità nel governo delle attività di impresa, allorquando la struttura si presenta fortemente diversificata e scarsamente integrabile. Per quanto riguarda il secondo obiettivo, la concentrazione sulle funzioni aziendali, o meglio, sulle attività della catena del valore ritenute strategicamente rilevanti, può rappresentare un’utile occasione di recupero di efficienza gestionale oltre che un presupposto necessario per la migliore allocazione delle risorse aziendali. Ve, infine, notato che il processo di concentrazione non riguarda necessariamente imprese multi-prodotto ma, anche, imprese mono-prodotto, nelle quali la dimensione ed il controllo diretto della attività della catena non costituiscono più fonti efficaci del vantaggio competitivo. 4 2.3 Il ruolo della variabile di contesto Le strategie di dimensionamento della struttura aziendale risentono di una serie di trasformazioni ambientali che ne hanno accelerato la realizzazione e, in qualche modo, condizionato le performance. La variabile che prevalentemente insiste su tali scelte riguarda la trasnazionalità e la trasversalità dei settori tradizionali di appartenenza. Se, infatti, attraverso una strategia di rifocalizzazione o ricentraggio si intende porre attenzione sulle core activity dell’impresa sulle quali investire risorse nel medio lungo periodo, la trasformazione strutturale dei contesti competitivi nei quali le imprese si trovano ad operare, che ha reso fluidi i concetti di confine e di settore, di fatto, riduce la possibilità di attuare più efficacemente strategie di rightsizing. A tal riguardo, infatti, l’ubiquità del vantaggio competitivo (Vicari, 1989), che correttamente interpreta un atteggiamento proattivo delle imprese in un contesto privo di reali barriere territoriali, consente di leggere la variabile geografica sia come una opportunità da cogliere sul piano globale sia come un rischio economico-finanziario e competitivo più o meno elevato da affrontare. Inoltre, dall’esame della letteratura economico aziendale (Porter, 1986; Vicari, 1989; Omahe, 1985) si evince la sempre minore incidenza dei confini territoriali sulla formulazione delle strategie d’impresa grazie al concorso di due cause prevalenti: la maggiore interrelazione dei mercati e la trasversalità delle tecnologie. Tuttavia, alcuni autori hanno evidenziato che le imprese che operano in cluster di paesi relativamente omogenei hanno, in termini probabilistici, maggiori opportunità di realizzare profitti stabili (Vachiani, 1990). Allo stesso modo, Grant (1987) sostiene che le multinazionali che operano in paesi psicologicamente vicini al mercato domestico incontrano minori costi di coordinamento e ciò consente loro di standardizzare alcune attività e politiche funzionali quali ad esempio, quelle di marketing (Buckley e Casson, 1976; Ronen, 1986). Se, dunque, le caratteristiche strutturali dell’ambito competitivo, in cui le imprese operano, non considerano il concorso della variabile geografica quale possibile componente del vantaggio competitivo, pare opportuno chiedersi se, in realtà, tale variabile non possa assumere il ruolo di fattore moltiplicativo delle potenzialità già insite nella dotazione di competenze distintive dell’impresa. Laddove, infatti, la scelta di rightsizing concentri gli sforzi dell’impresa sulle core activity alle quali applicare le core competence1, l’esistenza di un mercato integrato, culturalmente omogeneo, può accelerare la crescita cumulata delle competenze distintive dell’impresa, rafforzando indirettamente il suo vantaggio competitivo. In tale ottica, quei mercati che presentano potenzialità di accelerare il processo di sviluppo delle core competence dell’impresa possono definirsi essi stessi come “core market”. A tal proposito, l’analisi della tendenza in atto nelle linee strategiche delle imprese europee ha evidenziato una sorta di focalizzazione sui paesi dell’UE nelle decisioni di espansione, attuate attraverso operazioni di concentrazione, di fusione e acquisizione, spesso accompagnate da operazioni di break-up delle attività, che non possono trovare un beneficio differente dal fatto di essere svolte in questi paesi. 3. Dai vantaggi di localizzazione al rightsizing sul core market: quale ruolo per il mercato europeo? La letteratura ha dunque classificato il ruolo del contesto esterno alle imprese, visto nei suoi aspetti socio-economici, come fondamentale per il perseguimento del vantaggio competitivo In tal senso, alcuni contesti hanno garantito, grazie alla presenza di una forte tradizione imprenditoriale, di una elevata concentrazione industriale (Varaldo, 1985) e di una forte cultura radicata nel contesto, un vantaggio competitivo addizionale alle imprese localizzate in 1 Per core competence si intende non solo il possesso di risorse particolari, tangibili e non, ma soprattutto la capacità di combinare tali risorse in modo da rendere l’impresa unica sul proprio mercato (Grant, 1994). 5 tali aree (Varaldo, 1994). I distretti industriali italiani, ad esempio, riproducono un habitat ideale nel quale le imprese sono in grado di costruire economie di area (Vacca, Rullani, 1983) attraverso una efficiente ed efficace redistribuzione orizzontale e verticale della produzione. Inoltre, la prossimità localizzativa garantisce una omogenea circolazione delle conoscenze che amplifica le capacità di sviluppo delle imprese (Pilotti e Rullani, 1991). Con riferimento ai processi di internazionalizzazione, un ruolo alla variabile territoriale è stato attribuito da Porter, (1986) allorquando egli considerava la dotazione di servizi e la presenza di dotazioni non fattoriali quali elementi di successo internazionale delle nazioni e quali premesse per la creazione di piattaforme di supporto ai processi di sviluppo. In nessun caso, tuttavia, le specificità ambientali costituiscono un elemento fondante dei core factor sui quali incentrare una strategia di rightsizing delle imprese multinazionali, anzi le caratteristiche stesse dell’ambiente che giustificano scelte di rightsizing nella grande impresa, sono trattate nella letteratura all’insegna della globalità dei mercati e della trasversalità delle tecnologie . Eppure, l’evidenza empirica dimostra che, in alcuni settori come in alcune imprese, si assiste a un processo di riassestamento delle quote del mercato competitivo indotto dalla crescita delle attività delle imprese che hanno ricentrato le proprie risorse su specifici mercati geografici. Si potrebbe, quindi, ipotizzare che la variabile territoriale costituisca una determinante critica nei processi di rightsizing laddove abbia una valenza strategica e costituisca un terreno fertile per l’accrescimento del patrimonio di competenze distintive delle imprese. 3.1 Le determinanti esogene della criticità territoriale Le determinanti di ordine macro-economico che concorrono a disegnare i core market caratterizzano una specifica area geografica sul piano delle normative protezionistiche che la connotano, sul piano dei comportamenti settoriali che vi si realizzano e sul piano, infine, della cultura radicata nelle aree che la compongono. Per quanto attiene la normativa si fa qui chiaro riferimento alle misure, a vario modo protezionistiche che possono connotare un’area, sia attraverso meccanismi di incentivazione mirata, sia mediante vere e proprie forme di contingentamento. A tal riguardo il contesto europeo costituisce un esempio forte di area integrata chiusa; Calingaert (1997) ha dimostrato la gravità per le imprese Usa derivanti dal recepimento da parte degli stati europei dell’articolo 58 del Trattato di Roma, con il quale si definisce l’impresa europea come impresa che ha in Europea la propria centrale e la fonte dei capitali utilizzati. Sono escluse, pertanto da tale definizione quelle imprese che abbiano localizzati in Europa solo unità commerciali o anche logistiche, come è accaduto per la gran parte dei gruppi industriali Usa che operano in UE. Inoltre, le politiche dell’UE volte e creare un mercato protetto in quei settori in cui esiste una forte tradizione industriale europea costituisce di fatto un considerevole disincentivo per le imprese non europee ad operare in questo mercato. La seconda variabile macro economica attiene all’omogeneizzazione dei comportamenti delle imprese appartenenti allo stesso settore. E’ indubbio, in proposito, che in Europa proprio il settore rappresenti un fattore unificante nell’interpretazione delle strategie di ricentraggio delle imprese e delle correlate modalità di attuazione. In particolare, fortemente interessati al fenomeno della concentrazione azionaria sul mercato europeo si sono mostrati i settori bancario, assicurativo, farmaceutico ed automobilistico. La tendenza a livello di settore è quella di creare gruppi integrati di imprese che concorrano a gestire mercati semi-oligopolistici. La creazione di un più ampio mercato di sbocco impone, d’altra parte, una concentrazione settoriale dell’offerta più adeguata ad affrontare le maggiori dimensioni della domanda. 6 Con riferimento alla variabile settoriale, una ulteriore determinante atta a descrivere il ruolo strategico attribuibile al territorio riguarda l’esistenza di competenze di area legate ad una pregressa tradizione industriale, difficilmente riproducibili in altro loco. In questo caso si tratta esplicitamente di una sorta di dotazione fattoriale che garantisce una posizione competitiva fortemente difendibile alle imprese locali (Vacca, Rullani 1983); essa riguarda in Europa, ed in Italia, riguarda un elevato numero di settori a tecnologia matura. Si tratta di una chiara riproposizione in un mercato integrato di quei vantaggi da localizzazione precedentemente descritti per le aree distretto italiane (Lorenzoni, 1986) La terza ed ultima determinante macro-economica di crescita delle barriere all’ingresso in una specifica area è rappresentata dalla variabile culturale (Calvelli, 1997). Si tratta della eventualità che una forte omogeneità culturale che assuma caratteristiche sovranazionali, di fatto possa erigersi a serio ostacolo all’ingresso di concorrenti non nazionali. L’omogeneità culturale ha sicuramente effetto sul processo di acquisto del consumatore, e, di conseguenza, sulle politiche commerciali degli operatori locali, che sono d’altro canto, maggiormente in grado di interpretare le istanze che derivano da quegli specifici mercati in cui operano. La variabile culturale può, inoltre, offrire alle imprese l’opportunità di costruire relazioni interfirm caratterizzate da particolari meccanismi di coordinamento/controllo generati da specifiche situazioni di contesto, che possono garantire migliori condizioni gestionali. In particolare alcune indagini hanno evidenziato un crescente ricorso, nel contesto europeo, a soluzioni di spin off nelle scelte di esternalizzazione delle imprese, che si caratterizza in Europa per una particolare attenzione nei rapporti tra impresa gemmata ed impresa madre e per uno scarso opportunismo degli investitori (Calza, Passaro, 1995). Tali caratteristiche, oltre a differenziare fortemente lo spin off europeo da quello tipicamente americano, offrono alle imprese madri nuovi strumenti di coordinamento fondati sulla fiducia e sui rapporti interfirm altrove non riproponibili. Le imprese di grandi dimensioni possono liberarsi della gestione diretta sia di attività non core, da affidare direttamente al controllo del mercato, sia di attività ritenute critiche sulle quali è possibile esercitare, a costi contenuti, un efficace controllo attraverso, appunto legami relazionali. Anche in quest’ultimo caso, è difficile distinguere la componente fattoriale da quella riconducibile alle specifiche abilità manageriali; infatti, le ragioni che giustificano tale opportunità risiedono presumibilmente in una particolare condizione culturale che diffusamente caratterizza il contesto economico europeo. Tuttavia, risulta evidente che in tali condizioni le grandi imprese che operano in un contesto europeo, hanno ulteriori margini di competitività in termini di riduzione dei costi di coordinamento/controllo e di potenziali sinergie attivabili. Che l’Europa, nel suo complesso, costituisca un cluster di paesi culturalmente omogenei è tuttavia una assunzione che trova scarso riscontro nella realtà; piuttosto l’Europa raccoglie omogeneità culturali diverse che caratterizzano alcune aree regionali, non necessariamente nazionali (Calvelli, 1997). Si può, quindi, associare la variabile culturale alla capacità di elevare barriere all’ingresso se si fa esplicito riferimento ai mercati regionali culturalmente omogenei. Sul piano aziendale, anche le scelte deliberate delle imprese e il loro comportamento strategico possono muoversi nella direzione di selezionare il core market per il raggiungimento di un vantaggio competitivo sostenibile. Resta chiaro che tale opportunità sono demandate unicamente alla grande impresa, la quale ha a disposizione le risorse e le competenze necessarie per indirizzare e condizionare la fisionomia di un’area, sia sul piano della rete di fornitori, sub-fornitori e distributori che è in grado di attivare, sia in termini di ricaduta che la sua azione può avere sul territorio. Si possono immaginare tre diversi comportamento attraverso i quali l’impresa può contribuire ad individuare i propri core market. 7 In primo luogo, si può considerare la possibilità che l’impresa costruisca, in determinati mercati, una dimensione produttiva tale da inibire comportamenti ostili di parte dei competitors. Tale comportamento strategico, non necessariamente legato ad un area territoriale, si sostanzia in una scelta precisa di localizzazione, allorquando l’investimento in tecnologie consenta di insistere su uno specifico mercato in condizioni competitive. Si tratta di una concezione consolidata nella letteratura come nell’agire manageriale. Un ulteriore comportamento attivo può riguardare il costante investimento in attività di ricerca e sviluppo che contribuisca a creare nell’area un sistema diffuso di conoscenza tale da rendere l’attività dell’impresa strettamente legata al territorio. Tale comportamento non riguarda esclusivamente l’attività di R&S, ma piuttosto ogni azione innovativa che, come tale, può riguardare un assetto organizzativo come una immagine di mercato. Tali due ulteriori aspetti arricchiscono il contributo che l’impresa può offrire alla difendibilità di un’area, soprattutto se si combinano in maniera sinergica con le caratteristiche strutturali dell’area su cui insistono. In particolare, le scelte innovative sul piano organizzativo possono riguardare un particolare assetto delle relazioni interfirm che consenta un efficace controllo ed un efficiente gestione. Un esempio, a tal riguardo, sono gli spin off europei, per i quali non si configurano le condizioni di opportunismo e speculazione finanziaria riscontrabili nel mercato statunitense, ma piuttosto un processo di esternalizzazione ammorbidito dal mantenimento di strutturate relazioni con l’impresa madre. In tali casi, la possibilità che le imprese europee hanno di esternalizzare attività, anche strategicamente rilevanti, ad imprese di ex-dipendenti, garantisce l’impresa sul piano del controllo ed assicura relazioni “particolari” facilmente gestibili sul piano di una efficiente allocazione delle risorse. Si tratta di una soluzione organizzativa di tipo innovativo, ampiamente diffusa nel contesto europeo, che di fatto protegge il mercato della sub-fornitura di prodotti /servizi e impedisce che imprese terze entrino in un mercato protetto. Si può parlare, in tal senso, di un meccanismo relazionale di protezione del mercato, direttamente imputabile all’azione dell’impresa. Un secondo comportamento innovativo, attiene la possibilità che si crei in un’area, un circolo virtuoso tra immagine di successo delle imprese in esse operanti e, di riflesso, un’immagine dell’area di localizzazione sulla quale comportamenti attivi dell’impresa possono fare costantemente leva. Anche in questo caso, esistono nel contesto europeo situazioni di consolidata (talora stereotipata) immagine spesso imputabile al comportamento innovativo di poche grandi imprese. A volte le conseguenze sono pericolose, in quanto portano a legare l’immagine di un’area ad una specifica vocazione industriale ed eventuali necessità di riconversione o, semplicemente di diversificazione rispetto alle attività produttive esistenti dovranno risentire sia dei costi strutturali, che dei costi di impatto sociale. Si disegna, in tal modo sia una barriera all’ingresso di nuovi concorrenti, sia, anche una pesante barriera all’uscita. 3.2. Un modello interpretativo delle scelte di rightsizing Le riflessioni prima riportate suggeriscono uno schema interpretativo delle opportunità che fanno della variabile territoriale una variabile strategica (tabella 1). Sull’asse delle ordinate è riportata la contendibilità dei core market. Tale variabile si connota prevalentemente di quegli elementi macro e micro economici che descrivono la convenienza ad investire in una specifica area: una bassa contendibilità dei core market definisce una chiara opportunità economica per le imprese che a quell’area appartengono; viceversa un’alta contendibilità rappresenta un pericolo nella misura in cui priva le imprese di una protezione strutturale. 8 Sull’asse delle ascisse sono riportate le tipologie di approccio al core market perseguibili dalle imprese: un approccio innovativo alla variabile territoriale descrive un atteggiamento fortemente competitivo da parte dell’impresa. Essa, infatti, in un’ottica sinergica rispetto alle caratteristiche favorevoli del contesto, investe nei core market alla ricerca di possibilità di apprendimento e per sfruttare l’esistenza di condizione macro-economiche favorevoli alla creazione di piattaforme per lo sviluppo. Tale condizione connota un atteggiamento proattivo delle imprese verso l’uso della variabile territoriale in chiave strategica e legittima occasioni di rightsizing sui core market. Viceversa una scarsa attenzione delle imprese verso le concentrazioni sui mercati core si giustifica o con l’assenza di un interesse strategico delle imprese per quella specifica area, o, ancora con una scarsa attenzione verso i vantaggi da localizzazione percepiti. Tabella 1 I Core Market nelle strategie di rightsizing Approccio al Core Market Alta A B Rightsizing sul Core Market Rightsizing speculativo Contendibilità dei Core Market D C Rightsizing EsplorativoConoscitivo Scelte Operative Bassa Il quadrante (A) individua la condizione ottimale nella quale è possibile riscontrare una scelta di rightsizing modellata sulla base di un mercato geografico di riferimento. In tale condizione, infatti, si verifica la coincidenza di ragioni strutturali ed aziendali a difesa di un’area specifica. Tale situazione può essere di forte aiuto alle imprese in fase di disinvestimento in quanto legittima le scelte di core sulle quali far ruotare il processo di rightsizing rendendo evidenti i vantaggi che da esso possono derivare. Sul fronte opposto, si colloca il quadrante (C). In tal caso, infatti, non è riscontrabile né una vocazione territoriale né una particolare attenzione o capacità delle imprese nel ricercare le condizioni per la creazione di core market. Tali condizioni escludono la possibilità di costruire percorsi di rightsizing che guardino alla variabile territoriale quale variabile critica sulla quale concentrarsi. Ne deriverebbe, infatti, una soluzione debole, scarsamente difendibile sia sul piano istituzionale che comportamentale. 9 Nulla esclude che le imprese così caratterizzate non possano perseguire di rightsizing, tuttavia legate a variabili diverse da quella territoriale. Tipicamente, però, tale scelta muove dalla considerazione che per determinate aree di business o attività della catena del valore non esista un vantaggio territoriale esclusivo, ma che, piuttosto, la globalizzazione dei mercati e la trasversalità del sapere tecnologico ne legittimino una sostanziale ubiquità. Di maggiore interesse si mostrano, invece i quadranti (B) e (D), in quanto essi raccolgono situazioni anomale, o quanto meno non immediate nella loro lettura. Il quadrante (B) si caratterizza per una bassa contendibilità del core market e una visione tradizionale della variabile territoriale quale fonte del vantaggio competitivo. Ciò implica che esistono in tale condizione, forti fattori di ordine normativo, economico-settoriale e culturale che legittimano una difendibiltà strutturale di un mercato, cui si combina una scarsa capacità/opportunità delle imprese di costruire una posizione competitiva forte. Si descrivono i tale quadrante i vantaggi tipici della localizzazione tutti imputabili alle caratteristiche dell’area e scarsamente misurabili in termini di capacità/opportunià dell’agire imprenditoriale. Si potrebbe pensare, in tal caso, ad una forma di rightsizing di tipo speculativo, nel senso che essa non è deliberatamente scelta dall’impresa, ma, piuttosto il frutto di un insieme di condizioni esogene. In tal caso pare più opportuno parlare di barriere all’uscita piuttosto che all’entrata, in quanto le imprese, in tali condizioni, possono evitare di esternalizzare determinate attività unicamente per evitare di sostenere i costi dell’uscita, o semplicemente per continuare ad approfittare di condizioni competitive di considerevole vantaggio. Si tratta di un comportamento miope se inserito in un contesto competitivo di medio-lungo periodo, in quanto affida la sopravvivenza dell’impresa a condizioni di struttura sulle quali l’impresa può scarsamente influire. Tali comportamenti sono tipici dei settori maturi (Harrigan, 1990), nei quali la scarsa innovatività delle imprese, unitamente ad una consolidata condizione competitiva del mercato impediscono alle imprese di costruire fonti innovative del vantaggio competitivo2. Inoltre, proprio per tali tipologie di settore è frequente rinvenire condizioni strutturali di protezione sia in termini normativi, che settoriali e culturali. In particolare, il mercato europeo, risulta fortemente caratterizzato da settori economici appartenenti a tale condizione, per i quali si sovrappongono meccanismi di protezione comunitari a meccanismi nazionali di salvaguardia di posizioni privilegiate. L’ultimo quadrante individuato dallo schema, il quadrante (D), individua una condizione in cui è alta la contendibilità dei core market mentre esistano elementi forti su cui fondare una posizione competitiva difendibile da parte dell’impresa. Si tratta, in questo caso di comportamenti fortemente innovativi, nei quali le imprese attraverso una politica di costante attenzione alle istanze che derivano dal mercato finale e dal comportamento dei principali competitors traggono lo spunto per costruire una solida posizione competitiva. In un’ottica tradizionale tale condizione si costruiva attraverso la realizzazione di forti investimenti in strutture e macchinari che realizzavano economie altrove non riproponibili. In un’ottica più moderna, si può pensare ad un investimento costante in sapere tecnologico e scientifico che garantisca ad un’area una disponibilità di competenze altrove non riscontrabile3. 2 Tale concetto tradizionalmente applicato alle tecnologie produttive può, in realtà riguardare anche il mercato dei prodotti finiti : “..... una efficace gestione delle barriere dovute ai costi di riconversione di clienti redditizi è molto importante se l’impresa vuole continuare a servire quel tipo di clienti con i prodotti rimasti in catalogo. Per ............ le imprese a volte continuano a vendere beni che non producono più acquistandoli da terzi, anche molto dopo che hanno chiuso gli impianti di produzione” (Harrigan, 1990) pg. 104 3 E’ un comportamento sicuramente vincente, pur se fortemente costoso e pericoloso sul piano della costante esposizione alla reazione dei maggiori competitors. 10 Si può pensare anche alla capacità delle imprese di costruire relazioni innovative con gli attori del sistema del valore. In tal caso la capacità di personalizzare e ottimizzare il sistema di relazioni in cui è inserita l’impresa rappresenta una condizione di forte vantaggio competitivo. Una volta individuati i quadranti dello schema può essere utile immaginare i percorsi tipici cui le imprese sono sottoposte nella individuazione di una scelta strategica di rightsizing. A tal riguardo, sono ipotizzabili almeno due percorsi nei quali l’impresa ha la possibilità di evolvere, mutando il proprio approccio al rightsizing. Un primo percorso è imputabile alla diretta responsabilità dell’impresa e riguarda il percorso “B verso A”. In tal caso, a parità di situazione di contesto, l’impresa può interiorizzare le condizioni di vantaggio che il mercato offre per sommare ad esse una propria capacità competitiva. Si tratta di una trasformazione radicale dell’agire d’impresa che sposta l’ottica di pianificazione dal medio al medio/lungo periodo, durante il quale, attraverso un processo di responsabilizzazione, l’impresa procede ad investire in quelle attività/risorse che maggiormente contribuiscono a raggiungere una posizione competitiva difendibile. Nel quadrante (B) si collocano le vie tradizionali del vantaggio da localizzazione, e nel caso europeo, la legislazione relativa alle aree speciali ad obiettivo 1 costituisce una forte premessa per la creazione di un percorso virtuoso che muova da (B) ad (A). Il secondo percorso è rappresentabile dalla direttrice “D verso A”. Si tratta di un processo imputabile ad una mutazione esogena di ordine prevalentemente normativo o economico settoriale, la variabile culturale, infatti non consente evoluzioni traumatiche che legittimino un percorso di tal genere. In tali casi, il passaggio delle imprese da una condizione di rightsizing esplorativoconoscitivo ad un puro rigthsizing sul core market diventa quasi automatica, in quanto garantita dalla mutazione strutturale. Tale percorso, è quello che più tipicamente ha riguardato le imprese europee, abituate a competere nei mercati dell’UE, considerandoli alla stregua di mercati extra-europei; tale comportamento risulta inefficace allorquando viene posta in essere una variazione istituzionale che le protegge oggi dai competitors internazionali. L’evidenza empirica dimostrerà l’esistenza di numerosi esempi di tal genere, nei quali una solida posizione competitiva si somma ad una favorevole mutazione di contesto. E’ bene precisare che in questo ultimo percorso è possibile individuare comportamenti patologici, quelli, cioè che possono spingere dal quadrante (D) al quadrante (B). Infatti, la realizzazione di una situazione di contesto favorevole può indurre le imprese innovative ad abbandonare la strada dei continui investimenti in innovazione, per approfittare di più comode rendite di posizione. 4. Alcune evidenze empiriche E’ questo un processo che ha riguardato tutti i grandi gruppi industriali europei, pur se in forme diverse per settore di attività, per tradizione imprenditoriale, per orientamento strategico. In questa fase saranno descritti alcuni casi di rightsizing di grandi gruppi europei sui quali è possibile testare lo schema interpretativo, per comprendere sino a che punto la variabile territoriale, rappresentata dall’impellenza della realizzazione politica dell’UE, abbia Nella evidenza empirica, tale condizione si caratterizza in alcuni sporadici casi di imprese e non presenta alcuna correlazione con l’appartenenza ad un dato settore 11 influenzato la modalità del ricentraggio e testare su tali osservazioni un’interpretazione teorica delle scelte di rightsizing4. Il caso Electrolux Fatturato al 1994 : 79,77 miliardi di corone svedesi Utile lordo : 6,26 miliardi di corone svedesi La Electrolux colosso svedese nel settore degli elettrodomestici ha promosso negli anni dal 1990 al 1995 un progressivo percorso di rightsizing sul mercato europeo degli eletrodomestici, in particolare Il gruppo, ha proceduto ad esternalizzare il 100% delle azioni Autoliv, partecipata controllata da Electrolux, leader europeo nel settore degli airbag e cinture di sicurezza per autovetture. Autoliv aveva realizzato nel 1993 un fatturato di 1.100 miliardi di lire pari al 5% del complessivo fatturato del gruppo. Inoltre, il gruppo ha proceduto a cedere sul mercato Usa la controllata Blaw Knox operante nel mercato dell’equipaggiamento per il movimento terra alla Clark Equipment, società americana del settore. Sul mercato europeo Electrolux ha venduto la divisione Klippan che opera nel mercato europeo dei prodotti di sicurezza per bambini La scelta di Electrolux di cedere tali consociate si lega alla necessità di realizzare liquidità per concentrarsi sul mercato europei degli elettrodomestici che pesano ora per il 60% del fatturato. A tale operazione, infatti è corrisposta una parallela acquisizione della divisione elettrodomestici della AEG, la Aeg Hausgereate, già controllata al 20% al prezzo di 700 miliardi di lire . L’integrazione garantisce ad Electrolux una piattaforma fondamentale sul mercato tedesco dove subiva la concorrenza di Bosh-Siemens, permettendole di accrescere la propria quota sul mercato europeo dal 20 al 30% e diventarne il leader. Il mercato mondiale degli elettrodomestici è notoriamente un mercato fortemente concentrato, la variabile settoriale, in questo caso consente ad Electrolux di creare forti barriere all’ingresso in un mercato chiuso quale quello europeo, impedendo possibili azioni di ingresso di competitors internazionali. La scelta di concentrare le risorse su un mercato geografico trova allora una doppia giustificazione, di ordine settoriale e di ordine strategico nella volontà dell’impresa di costruire una posizione competitiva fortemente difendibile. Il caso Nokia Utile lordo al 1996 1.680 miliardi di lire Nokia, secondo produttore mondiale di telefoni cellulari, ha ceduto la divisione televisori, unitamente alla proprietà degli impianti di produzione alla Semi-tech di Hong Kong, l’accordo prevede, a latere, la possibilità per l’acquirente di utilizzare il Know how e i marchi Nokia sino al 1999. L’abbandono del comparto televisivo coincide con la scelta di concentrare gli investimenti per il prossimo futuro sul core business dei telefoni cellulari, il cui mercato sta vivendo una fase di forte espansione sia in Europa che negli Usa. Inoltre, la cessione deli impianti 4 L’indagine empirica si fonda su di una ricerca esplorativa condotta su un database di 240 operazioni di fusioni, acquisizioni e cessioni internazionali, realizzate tra il 1990 e il 1996 ricavata dalla stampa specializzata (fonti: Financial Times, The Economist, Il sole 24 ore). 12 ed anche del Know how non incorporato negli investimenti, testimonia una uscita radicale del gruppo Nokia da quel mercato. Significative, in proposito, le dichiarazioni dell’amministratore delegato del gruppo Jorma Ollia: “il mercato europeo non consente attualmente la continuazione di un’industria indipendente televisiva” (il sole24ore 29-02-96). E’, comunque, obittivo strategico dichiarato del gruppo non abbandonare alcune produzioni strategiche correlate al comparto dei televisori, come quelle della Tv digitale, monitor ed apparecchiature per satellite. Il caso della cessione Nokia, rientra nelle tipologie di rightsizing che escludono per caratteristiche strutturali del mercato una focalizzazione sul core market. Piuttosto, è possibile immaginare una scelta di business globale sul quale concentrare le risorse dell’impresa relative ai settori innovativi delle componenti per tv digitali ed apparecchiature satellitari. E’ in questo caso la natura della tecnologia e del mercato nel suo complesso a ridurre la difendibilità di un’area geografica e ad imporre una scelta di natura globale. Il caso Ciba-Sandoz: lo spin off Mipharma Ciba, impresa leader mondiale nel settore della chimica e della farmaceutica, sta procedendo a realizzare nel comparto delle ricerca e sviluppo di nuovi principi attivi una maxi-fusione con il gruppo Sandoz. Da tale operazione nasce Novartis, primo gruppo chimico-farmaceutico a livello mondiale. Per realizzare tale obiettivo Ciba e Sandoz stanno parallelamente procedendo a concentrarsi sulle attività maggiormente coerenti con il business di Novartis e le attività della catena del valore maggiormente utili a core business del nuovo consorzio. Nell’ambito di tale probesso, Sandoz ha proceduto alla acquisizione diGerber nel segmento della nutrizione per neonati. Ciba, da parte sua ha ceduto la Mettler Toledo, consociata specializzata nella produzione di strumenti di precisione e bilance elettroniche alla AEA Investors. A ciò si aggiunga la decisione del consorzio Novartis di concentrare la attività produttive nello stabilimento della Ciba di Torre Annunziata (Na), rinunciando allo stabilimento di Sandoz in Milano. La decisone sicuramente non estranea a condizionamenti ambientali di ordine sindacale e politico, orientati, cioè a concentrare le attività di produzione in aree a maggiore tasso di disoccupazione, risciano di far chiudere una delle maggiori realtà produttive in campo europeo. Ne è conseguita la scelta da parte del management interno di mettere in moto una opearzione di management buy out attraverso la quale realizzare uno spin off produttivo, Mipharma, specializzato nella produzione conto terzi nel settore farmaceutico. L’operazione condotta in piena armonia con il management di Novartis assicura la nuova impresa attraverso consistenti commesse per i prossimi cinque anni e realizza una dismissione “controllata” di una attività della catena del valore rilevante. Mipharma conta di produrre e confezionare 42 milioni di forma farmaceutiche entro la fine del 1998, di queste il 70% saranno destinate al mercato italiano il 30% a quello europeo. Il caso Mipharma può essere interpretato, nella strategia di rightsizing di Novartis, sotto una duplice ottica: quella di concentrazione sul core business di Novartis, il quale, tuttavia opera su una scala globale; quello di concentrarsi su una core activity in un core market sfruttando una particolare relazione di collaborazione tipica degli spin off europei. In questo secondo caso, infatti lo spin off di Mipharma non nasce con l’obiettivo speculativo di far crescere il valore azionario di una nuova attività, ma piuttosto, in sinergia con Novartis, di ampliare e 13 potenziare una attività in uno specifico mercato geografico. E’, dunque, nella relazione innovativa l’opportunità colta da Novartis di liberarsi di una attività non core. Nalla stessa ottica si inquadra il caso Sagit Spa Il caso Sagit Spa Sagit, consociata italiana di Unilever Co., specializzata in Europa nella produzione di alimenti gelati e surgelati ha completato, negli anni novanta un lungo processo di esternalizzazione delle attività della logistica distributiva. Le ragioni di tale scelta risiedono nella particolare costosità della logistica del freddo e nella particolare struttura del comparto distributivo in Italia ed in Europa. In Italia, infatti la distribuzione finale dei prodotti alimentari è notoriamente rappresentata da una grande numero di piccoli e piccolissimi esercizi, anche se tale fenomeno è diversamente distribuito sul territorio nazionale. Nell’europa continentale, invece tale tendenza si inverte a vantaggio della grande distribuzione organizzata. Sagit ha realizzato in Italia la destrutturazione del canale logistico ulitizzando l’arma degli spin off logistici attivati da ex dipendenti. Nell’arco di un decennio, cioè la Sagit ha trasformato le filiali logistiche che il gruppo localizzava in tutte le principali province italiane in rapporti di concessione esclusiva ad imprenditori locali organizzati in cooperative di ex dipendenti Sagit. Attraverso tale operazione Sagit si è concentrata sulla core activity che è quella produttiva, approfittando di situazioni di contesto che le hanno suggerito la soluzione di spin off. La particolarità del mercato italiano, unitamente alla particolare natura degli spin off logistici attivabili hanno consentito a Sagit di realizzare una particolare forma di rightsizing in un particolare mercato, legittimando una condizione di vantaggio competitivo che le ha consentito di recuperare competitività nei confronti di Italgel-Nestlè suo principale concorrente. Una applicazione dello schema interpretativo individuato in sede teorica alle evidenze empiriche sin qui analizzate, evidenzia comportamenti imprenditoriali interessanti. In particolare, nel quadrante A sono rappresentabili le azioni di Electrolux che approfittando di una condizione di settore particolarmente favorevole, ha investito sul mercato europeo nella ricerca di ulteriori condizioni di vantaggio, sia con attenzione al mercato finale, sia con attenzione al comparto della R&D. Nel quadrante D, invece, è possibile collocare i casi Mipharma e Sagit, in quanto, a dispetto di una globalità dei mercati, o, anche di una scarsa protezione istituzionale, le imprese hanno investito valorizzando determinati territori alla ricerca di vantaggi da relazione tipici di un mercato europeo. Il caso Nokia, infine, si colloca nel quadrante C, in quanto le caratteristiche fortemente innovative della tecnologia e le peculiarità del mercato finale ne fanno un settore di tipo globale, che piuttosto deve cercare nelle competenze tecnologiche il focus delle strategie di righsizing. 5. Conclusioni 14 Le scelte di rightsizing rappresentano una costante nel panorama dei comportamenti strategici dei gruppi diversificati europei. Le informazioni disponibili connotano una crescente attenzione di tali imprese verso il mercato europeo, soprattutto dopo la realizzazione dell’unione politica dei paesi dell’UE. Tale fenomeno, non trova esatta rispondenza negli obiettivi tradizionali del rightsizing, orientati a focalizzare le risorse dell’impresa sulle core competence o sulle core activity piuttosto che sui core markets. Infatti, numerosi vantaggi indotti dalla globalizzazione dei mercati e dalla trasversalità delle nuove tecnologie riducono l’attenzione verso una azione di concentrazione su specifici mercati geografici. D’altra parte, i tradizionali vantaggi di localizzazione rappresentati in letteratura dagli studi sulle economie di area, rappresentano una interpretazione limitata delle possibili motivazioni che spiegano l’attenzione delle imprese multinazionali nel ricentraggio sui mercati europei. Pare, dunque, opportuno provare a stimolare un’ attenzione innovativa delle imprese verso la variabile territoriale nelle scelte di rightsizing, fondata su determinanti nuove. Le variabili innovative che connotano un’area nel renderla oggetto di azioni di rightsizing possono risiedere nella esistenza di maggiori possibilità di apprendimento, nella possibilità di approfittare di un’efficace immagine di area, di sfruttare, in sintesi, le potenzialità offerte dai core market. Tali aspetti si sono dimostrati rilevanti in alcuni casi di rightsizing sino a giustificare una azione di concentrazione sul mercato europeo. Accanto a ciò l’indagine ha evidenziato che le scelte di rightsizing risentono della condizione strutturale di un mercato, in relazione alla capacità che esso esprime di offrire un maggiore o minore carattere di contendibilità. La combinazione livello di contendibilità del core market e dell’approccio innovativo/tradizionale al core market, concorre, dunque, a disegnare strategie diverse di rightsizing sul core market. 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