La dimensione europea nei processi di rightsizing delle imprese

Transcript

La dimensione europea nei processi di rightsizing delle imprese
La dimensione europea nei processi di rightsizing delle
imprese internazionali
di Francesco Calza
Istituto di Studi Aziendali, Istituto Universitario Navale, Via Medina 40 , 80133, Napoli
Tel 081-5523709; Fax 081-5523709; E-mail [email protected]
La dimensione europea nei processi di rightsizing delle imprese
internazionali
1. Tendenze in atto nelle strategie delle imprese europee
Le trasformazioni strutturali che in questi ultimi anni stanno interessando l’assetto delle
imprese internazionalizzate si caratterizzano per un crescente processo di concentrazione
delle attività d’impresa sul core business (Harrison, 1994). Differentemente dal processo che
aveva accompagnato lo sviluppo dei gruppi industriali sino alla seconda metà degli anni 80’,
caratterizzato da una crescita dimensionale e fortemente diversificata, i moderni gruppi
multinazionali perseguono la strada della concentrazione e specializzazione in business
integrabili (Green 1986; Carlton 1979). Le scelte di make or buy che ne derivanosono guidate
sempre più dalla ricerca della “giusta dimensione”, del corretto livello di integrazione o di
disintegrazione e del grado di diversificazione che può assicurare l’efficienza e la flessibilità
tali da permettere una più rapida risposta alle sollecitazione del mercato e del cambiamento
tecnologico (Piore, Sabel 1984; Porter 1985).
Nel corso degli ultimi anni, quando la crescita degli elementi di incertezza e instabilità
ambientale ha accresciuto la complessità del sistema economico, le scelte di
esternalizzazione/internalizzazione di determinate attività aziendali hanno acquisito una
nuovo impulso. Infatti, esse sono divenute un elemento attraverso cui le imprese reagiscono
alla accentuazione del livello di complessità del sistema economico (rapidità del processo
tecnologico, accentuarsi dei processi di globalizzazione dei mercati, variabilità degli scenari
competitivi, crescente diffusione di varie forme di relazioni non competitive tra le imprese)
(Vicari, 1989). A tal riguardo, le recenti operazioni di concentrazione e smembramento dei
tradizionali gruppi industriali europei, in coincidenza con la realizzazione politica, oltre che
economica, dell’Unione Europea, suggeriscono nuovi spunti di riflessione circa le modalità, i
percorsi e, soprattutto, gli obiettivi strategici che sembrano rinnovarsi nel procedere delle
imprese verso nuovi assetti competitivi.
Negli ultimi dieci anni, infatti, il valore delle acquisizioni transnazionali in Europa è passato
da un valore di due ad uno di venti miliardi di sterline, inoltre, nel medesimo periodo, accanto
al crescente processo di integrazione internazionale le operazioni di concentrazione realizzate
tra imprese europee sono passate dal 15% al 30% delle operazioni totali (fonte Databank
Acquisition Montly).
Millington e Bayliss (1996) hanno dimostrato che su un campione di 142 grandi imprese
europee di interesse internazionale, il 60% si è mostrato fortemente orientato ad espandersi
all’interno dei confini europei. Particolarmente attive in tal senso si sono dimostrate le
imprese inglesi (più di 1300 acquisizioni intracomunitarie sono state condotte da imprese
inglesi negli ultimi dieci anni), svedesi e tedesche (Colombo, Mariotti, 1993).
A conferma della fondatezza delle azioni di focalizzazione sui core markets, Baden-Fuller e
Stopford (1991) hanno rilevato che una azione strategica che guardi al mercato europeo
enfatizzando i caratteri di omogeneità dei mercati nazionali si dimostra di gran lunga più
efficace di un tradizionale approccio multinazionale, soprattutto se in presenza di elevate
barriere all’entrata di tipo istituzionale, culturale o economico (Doz, 1986, Bartlett e Goshal,
1989).
Nell’ottica delineata, pare opportuno indagare se ed a quali condizioni, l’ampliamento del
mercato domestico per le imprese europee, dovuto ad un processo politico di integrazione
sovranazionale, sia stata una variabile significativa nelle scelte di ridimensionamento
strutturale sin qui descritte. E, soprattutto, quali caratteristiche connotano la variabile
territoriale come variabile strategica nelle scelte di riorganizzazione delle attività di impresa
nel caso in cui esse si concentrino sui core market.
2
2. Strategie di rightsizing: alcuni concetti definitori
Il processo di rightsizing delle attività d’impresa è ampiamente noto nella letteratura
aziendale. Esso è stato tradizionalmente ricondotto a due fenomeni paralleli e, tra loro,
apparentemente contraddittori: un processo di ridimensionamento strutturale, realizzato
attraverso l’esternalizzazione differenziata delle attività di impresa ritenute non centrali e il
contemporaneo sviluppo dimensionale dell’impresa concentrata a gestire le attività core.
A tal riguardo, la letteratura si è soffermata ad indagare le modalità attraverso le quali si
realizza il processo di destrutturazione sia con riferimento alla nota dicotomia GerarchiaMercato (Williamson, 1975), sia focalizzando l’attenzione sulle reti di alleanze che danno vita
a forme di organizzazione inter-aziendale di tipo intermedio (Eccles 1989; Lorenzoni, 1985).
Se ne ricava l’idea che l’impresa possa costruirsi una tela di relazioni che vanno dalla
gerarchia al mercato in un continuum di soluzioni attraverso le quali è possibile controllare,
coordinare o esternalizzare del tutto il rapporto con le attività decentrate attraverso forme
variegate di delega, nelle quali si combinano ricerca di efficienza gestionale ed opportunità di
controllo (Contractor, Lorange,1988). L’impresa tende ad assumere il ruolo strategico di
gestore delle relazioni che la legano ai suoi principali stakeholders con i quali costruisce, in
un’ottica dinamica, rapporti di collaborazione più o meno strutturata in funzione della criticità
delle attività valutate (Teece, 1980; Cibin, Genco, 1995). Ed è, appunto, attorno a questo
concetto di criticità strategica delle attività d’impresa che si concentra l’ulteriore filone di
ricerca relativo ai processi di esternalizzazione.
2.1 Le determinanti delle scelte di rightsizing
Con riferimento alle decisioni di rightsizing diversi contributi si soffermano a indicare le
potenziali fonti del vantaggio competitivo cui attribuire il possibile focus dell’azione di
riorganizzazione.
Alcuni autori misurano tale propensione a costruire un nuovo vantaggio competitivo
attraverso il contributo che determinate attività offrono all’impresa nella innovazione di
prodotto o di processo (Tecce, 1980), ne consegue che una scelta di rightsizing le imprese
dovrebbero investire nelle attività dalle maggiori potenzialità di innovazione.
E’ evidente come tale logica nasca da una posizione profondamente differente da quella del
portafoglio delle attività d’impresa. In quel caso, infatti, proprio il mantenimento delle attività
mature consentiva l’afflusso di cash flows utili al reinvestimento in business interessanti. In
questo, caso il focus non è più sul contributo finanziario che le attività sono in grado di
offrire, ma piuttosto sulla capacità di accrescere la propensione innovativa dell’impresa sulla
quale si fonda il suo maggior valore aggiunto (Cantwell, 1987).
In quest’ottica, la scelta di riduzione delle attività d’impresa alla giusta dimensione è guidata
dal possesso o meno di competenze distintive nel patrimonio di conoscenze consolidato in
azienda (Calvelli, 1995). Il ricentraggio o rifocalizzazione è visto, quindi, come quel processo
a somma zero o negativa attraverso il quale le imprese si concentrano su quelle attività
maggiormente coerenti con il patrimonio di conoscenze e risorse. Le risorse liberate da quelle
attività dimesse in quanto ritenute “non centrali” rispetto al business aziendale possono essere
reinvestite in attività capaci di rafforzare le “core competencies” dell’impresa (Prahalad,
Hamel 1990).
Da ultima, la ricerca di condizioni efficienti sulle quali costruire il portafoglio ottimale di
relazioni rappresenta una ulteriore determinante del processo di rightsizing (Williamson,
1975), finalizzato alla ricerca, da parte delle imprese, di strutture più snelle e l’allocazione
all’esterno delle attività richiedenti elevati impegni in costi fissi. Le imprese si sono quindi
indirizzate ad esternalizzare parte delle proprie attività in funzione del maggiore o minore
loro contributo alla realizzazione di un portafoglio efficiente di relazioni.
3
Una ricerca questa, condizionata: a) dalle differenti fasi del ciclo di vita del prodotto; b) dal
livello di incertezza ambientale che in un’ottica contingente caratterizza l’ambiente in cui
l’impresa opera (Lamming, 1993).
In tale contesto, la gestione delle attività aziendali tende a basarsi maggiormente su regole
situazionali in cui prevalgono gli aspetti di specificità a livello firm, industry, country; ciò
comporta che le imprese tendono a perseguire strategie specifiche basate sulle competenze
interne e sulle capacità di sfruttare al meglio le risorse presenti nel sistema ambientale (Grant,
1991).
Tale approccio risulta particolarmente evidente con riferimento al contesto europeo, laddove
le variabili situazionali risultano fortemente preponderanti rispetto alle tradizionali variabili
competitive; da ciò risulta un comportamento difficilmente riconducibile a criteri
interpretativi omogenei, se non visto nell’ottica della comune ricerca del vantaggio
competitivo.
2.2 Gli obiettivi da perseguire
Un ulteriore problema legato alle logiche del rightsizing riguarda l’obiettivo sul quale
focalizzarsi, ovvero la domanda su cosa ricentrare?
Tale problema, trova la sua articolazione in una serie di modalità e di soluzioni strategiche
che, la letteratura riconduce a due determinanti tipiche:
- la necessità di recuperare margini di competitività nei core business;
- la necessità di concentrarsi su alcune “funzioni aziendali”, delegando la gestione di quelle
meno critiche al mercato, o meglio, la necessità di concentrarsi su quelle attività della catena
del valore ritenute strategicamente rilevanti per il conseguimento di un vantaggio
competitivo.
Per quanto concerne il primo obiettivo, il percorso di concentrazione riguarda la tendenza per
le imprese multi business a liberarsi delle attività più lontane dalle core competence. Il
modello tradizionale di impresa diversificata, infatti, riproponendo la logica di portafoglio
come criterio unificante dei business di impresa creava evidenti problemi di coordinamento
delle attività (Hax e Majiluf, 1981).
Ciò sia sul piano del reperimento interno delle competenze gestionali per contenere il
processo di crescita centrifugo delle imprese, sia sul piano di un efficace controllo delle
attività nella ricerca di sinergie attivabili tra ASA spesso non correlate. Tale limite si rende
ancor più evidente a seguito della accresciuta contedibilità dei mercati, che si traduce in un
inasprimento del confronto competitivo, e che impone una crescente attenzione delle imprese
a mantenere le solide posizioni competitive acquisite. Inoltre, la trasversalità delle nuove
tecnologie legittima una trasversalità dei meccanismi competitivi, per cui, imprese
appartenenti a settori tradizionalmente distinti possono insistere sul medesimo target di
mercato, ampliando di fatto il numero di attori in competizione in quanto a sovrapponibilità
dei meccanismi produttivi, ma anche a sostituibilità dei prodotti nel soddisfacimento dei
bisogni finali (Vicari, 1989).
Da ciò deriva, dunque, una sostanziale crescita della complessità nel governo delle attività di
impresa, allorquando la struttura si presenta fortemente diversificata e scarsamente
integrabile.
Per quanto riguarda il secondo obiettivo, la concentrazione sulle funzioni aziendali, o meglio,
sulle attività della catena del valore ritenute strategicamente rilevanti, può rappresentare
un’utile occasione di recupero di efficienza gestionale oltre che un presupposto necessario per
la migliore allocazione delle risorse aziendali.
Ve, infine, notato che il processo di concentrazione non riguarda necessariamente imprese
multi-prodotto ma, anche, imprese mono-prodotto, nelle quali la dimensione ed il controllo
diretto della attività della catena non costituiscono più fonti efficaci del vantaggio
competitivo.
4
2.3 Il ruolo della variabile di contesto
Le strategie di dimensionamento della struttura aziendale risentono di una serie di
trasformazioni ambientali che ne hanno accelerato la realizzazione e, in qualche modo,
condizionato le performance.
La variabile che prevalentemente insiste su tali scelte riguarda la trasnazionalità e la
trasversalità dei settori tradizionali di appartenenza. Se, infatti, attraverso una strategia di
rifocalizzazione o ricentraggio si intende porre attenzione sulle core activity dell’impresa
sulle quali investire risorse nel medio lungo periodo, la trasformazione strutturale dei contesti
competitivi nei quali le imprese si trovano ad operare, che ha reso fluidi i concetti di confine
e di settore, di fatto, riduce la possibilità di attuare più efficacemente strategie di rightsizing.
A tal riguardo, infatti, l’ubiquità del vantaggio competitivo (Vicari, 1989), che correttamente
interpreta un atteggiamento proattivo delle imprese in un contesto privo di reali barriere
territoriali, consente di leggere la variabile geografica sia come una opportunità da cogliere
sul piano globale sia come un rischio economico-finanziario e competitivo più o meno elevato
da affrontare. Inoltre, dall’esame della letteratura economico aziendale (Porter, 1986; Vicari,
1989; Omahe, 1985) si evince la sempre minore incidenza dei confini territoriali sulla
formulazione delle strategie d’impresa grazie al concorso di due cause prevalenti: la maggiore
interrelazione dei mercati e la trasversalità delle tecnologie.
Tuttavia, alcuni autori hanno evidenziato che le imprese che operano in cluster di paesi
relativamente omogenei hanno, in termini probabilistici, maggiori opportunità di realizzare
profitti stabili (Vachiani, 1990). Allo stesso modo, Grant (1987) sostiene che le
multinazionali che operano in paesi psicologicamente vicini al mercato domestico incontrano
minori costi di coordinamento e ciò consente loro di standardizzare alcune attività e politiche
funzionali quali ad esempio, quelle di marketing (Buckley e Casson, 1976; Ronen, 1986). Se,
dunque, le caratteristiche strutturali dell’ambito competitivo, in cui le imprese operano, non
considerano il concorso della variabile geografica quale possibile componente del vantaggio
competitivo, pare opportuno chiedersi se, in realtà, tale variabile non possa assumere il ruolo
di fattore moltiplicativo delle potenzialità già insite nella dotazione di competenze distintive
dell’impresa. Laddove, infatti, la scelta di rightsizing concentri gli sforzi dell’impresa sulle
core activity alle quali applicare le core competence1, l’esistenza di un mercato integrato,
culturalmente omogeneo, può accelerare la crescita cumulata delle competenze distintive
dell’impresa, rafforzando indirettamente il suo vantaggio competitivo.
In tale ottica, quei mercati che presentano potenzialità di accelerare il processo di sviluppo
delle core competence dell’impresa possono definirsi essi stessi come “core market”.
A tal proposito, l’analisi della tendenza in atto nelle linee strategiche delle imprese europee ha
evidenziato una sorta di focalizzazione sui paesi dell’UE nelle decisioni di espansione, attuate
attraverso operazioni di concentrazione, di fusione e acquisizione, spesso accompagnate da
operazioni di break-up delle attività, che non possono trovare un beneficio differente dal fatto
di essere svolte in questi paesi.
3. Dai vantaggi di localizzazione al rightsizing sul core market: quale ruolo per il
mercato europeo?
La letteratura ha dunque classificato il ruolo del contesto esterno alle imprese, visto nei suoi
aspetti socio-economici, come fondamentale per il perseguimento del vantaggio competitivo
In tal senso, alcuni contesti hanno garantito, grazie alla presenza di una forte tradizione
imprenditoriale, di una elevata concentrazione industriale (Varaldo, 1985) e di una forte
cultura radicata nel contesto, un vantaggio competitivo addizionale alle imprese localizzate in
1
Per core competence si intende non solo il possesso di risorse particolari, tangibili e non, ma soprattutto la
capacità di combinare tali risorse in modo da rendere l’impresa unica sul proprio mercato (Grant, 1994).
5
tali aree (Varaldo, 1994). I distretti industriali italiani, ad esempio, riproducono un habitat
ideale nel quale le imprese sono in grado di costruire economie di area (Vacca, Rullani, 1983)
attraverso una efficiente ed efficace redistribuzione orizzontale e verticale della produzione.
Inoltre, la prossimità localizzativa garantisce una omogenea circolazione delle conoscenze
che amplifica le capacità di sviluppo delle imprese (Pilotti e Rullani, 1991).
Con riferimento ai processi di internazionalizzazione, un ruolo alla variabile territoriale è
stato attribuito da Porter, (1986) allorquando egli considerava la dotazione di servizi e la
presenza di dotazioni non fattoriali quali elementi di successo internazionale delle nazioni e
quali premesse per la creazione di piattaforme di supporto ai processi di sviluppo.
In nessun caso, tuttavia, le specificità ambientali costituiscono un elemento fondante dei core
factor sui quali incentrare una strategia di rightsizing delle imprese multinazionali, anzi le
caratteristiche stesse dell’ambiente che giustificano scelte di rightsizing nella grande impresa,
sono trattate nella letteratura all’insegna della globalità dei mercati e della trasversalità delle
tecnologie .
Eppure, l’evidenza empirica dimostra che, in alcuni settori come in alcune imprese, si assiste
a un processo di riassestamento delle quote del mercato competitivo indotto dalla crescita
delle attività delle imprese che hanno ricentrato le proprie risorse su specifici mercati
geografici.
Si potrebbe, quindi, ipotizzare che la variabile territoriale costituisca una determinante critica
nei processi di rightsizing laddove abbia una valenza strategica e costituisca un terreno fertile
per l’accrescimento del patrimonio di competenze distintive delle imprese.
3.1 Le determinanti esogene della criticità territoriale
Le determinanti di ordine macro-economico che concorrono a disegnare i core market
caratterizzano una specifica area geografica sul piano delle normative protezionistiche che la
connotano, sul piano dei comportamenti settoriali che vi si realizzano e sul piano, infine, della
cultura radicata nelle aree che la compongono.
Per quanto attiene la normativa si fa qui chiaro riferimento alle misure, a vario modo
protezionistiche che possono connotare un’area, sia attraverso meccanismi di incentivazione
mirata, sia mediante vere e proprie forme di contingentamento.
A tal riguardo il contesto europeo costituisce un esempio forte di area integrata chiusa;
Calingaert (1997) ha dimostrato la gravità per le imprese Usa derivanti dal recepimento da
parte degli stati europei dell’articolo 58 del Trattato di Roma, con il quale si definisce
l’impresa europea come impresa che ha in Europea la propria centrale e la fonte dei capitali
utilizzati. Sono escluse, pertanto da tale definizione quelle imprese che abbiano localizzati in
Europa solo unità commerciali o anche logistiche, come è accaduto per la gran parte dei
gruppi industriali Usa che operano in UE.
Inoltre, le politiche dell’UE volte e creare un mercato protetto in quei settori in cui esiste una
forte tradizione industriale europea costituisce di fatto un considerevole disincentivo per le
imprese non europee ad operare in questo mercato.
La seconda variabile macro economica attiene all’omogeneizzazione dei comportamenti
delle imprese appartenenti allo stesso settore.
E’ indubbio, in proposito, che in Europa proprio il settore rappresenti un fattore unificante
nell’interpretazione delle strategie di ricentraggio delle imprese e delle correlate modalità di
attuazione.
In particolare, fortemente interessati al fenomeno della concentrazione azionaria sul mercato
europeo si sono mostrati i settori bancario, assicurativo, farmaceutico ed automobilistico. La
tendenza a livello di settore è quella di creare gruppi integrati di imprese che concorrano a
gestire mercati semi-oligopolistici. La creazione di un più ampio mercato di sbocco impone,
d’altra parte, una concentrazione settoriale dell’offerta più adeguata ad affrontare le maggiori
dimensioni della domanda.
6
Con riferimento alla variabile settoriale, una ulteriore determinante atta a descrivere il ruolo
strategico attribuibile al territorio riguarda l’esistenza di competenze di area legate ad una
pregressa tradizione industriale, difficilmente riproducibili in altro loco. In questo caso si
tratta esplicitamente di una sorta di dotazione fattoriale che garantisce una posizione
competitiva fortemente difendibile alle imprese locali (Vacca, Rullani 1983); essa riguarda in
Europa, ed in Italia, riguarda un elevato numero di settori a tecnologia matura. Si tratta di una
chiara riproposizione in un mercato integrato di quei vantaggi da localizzazione
precedentemente descritti per le aree distretto italiane (Lorenzoni, 1986)
La terza ed ultima determinante macro-economica di crescita delle barriere all’ingresso in una
specifica area è rappresentata dalla variabile culturale (Calvelli, 1997). Si tratta della
eventualità che una forte omogeneità culturale che assuma caratteristiche sovranazionali, di
fatto possa erigersi a serio ostacolo all’ingresso di concorrenti non nazionali.
L’omogeneità culturale ha sicuramente effetto sul processo di acquisto del consumatore, e, di
conseguenza, sulle politiche commerciali degli operatori locali, che sono d’altro canto,
maggiormente in grado di interpretare le istanze che derivano da quegli specifici mercati in
cui operano.
La variabile culturale può, inoltre, offrire alle imprese l’opportunità di costruire relazioni
interfirm caratterizzate da particolari meccanismi di coordinamento/controllo generati da
specifiche situazioni di contesto, che possono garantire migliori condizioni gestionali. In
particolare alcune indagini hanno evidenziato un crescente ricorso, nel contesto europeo, a
soluzioni di spin off nelle scelte di esternalizzazione delle imprese, che si caratterizza in
Europa per una particolare attenzione nei rapporti tra impresa gemmata ed impresa madre e
per uno scarso opportunismo degli investitori (Calza, Passaro, 1995).
Tali caratteristiche, oltre a differenziare fortemente lo spin off europeo da quello tipicamente
americano, offrono alle imprese madri nuovi strumenti di coordinamento fondati sulla fiducia
e sui rapporti interfirm altrove non riproponibili. Le imprese di grandi dimensioni possono
liberarsi della gestione diretta sia di attività non core, da affidare direttamente al controllo del
mercato, sia di attività ritenute critiche sulle quali è possibile esercitare, a costi contenuti, un
efficace controllo attraverso, appunto legami relazionali.
Anche in quest’ultimo caso, è difficile distinguere la componente fattoriale da quella
riconducibile alle specifiche abilità manageriali; infatti, le ragioni che giustificano tale
opportunità risiedono presumibilmente in una particolare condizione culturale che
diffusamente caratterizza il contesto economico europeo.
Tuttavia, risulta evidente che in tali condizioni le grandi imprese che operano in un contesto
europeo, hanno ulteriori margini di competitività in termini di riduzione dei costi di
coordinamento/controllo e di potenziali sinergie attivabili.
Che l’Europa, nel suo complesso, costituisca un cluster di paesi culturalmente omogenei è
tuttavia una assunzione che trova scarso riscontro nella realtà; piuttosto l’Europa raccoglie
omogeneità culturali diverse che caratterizzano alcune aree regionali, non necessariamente
nazionali (Calvelli, 1997). Si può, quindi, associare la variabile culturale alla capacità di
elevare barriere all’ingresso se si fa esplicito riferimento ai mercati regionali culturalmente
omogenei.
Sul piano aziendale, anche le scelte deliberate delle imprese e il loro comportamento
strategico possono muoversi nella direzione di selezionare il core market per il
raggiungimento di un vantaggio competitivo sostenibile.
Resta chiaro che tale opportunità sono demandate unicamente alla grande impresa, la quale ha
a disposizione le risorse e le competenze necessarie per indirizzare e condizionare la
fisionomia di un’area, sia sul piano della rete di fornitori, sub-fornitori e distributori che è in
grado di attivare, sia in termini di ricaduta che la sua azione può avere sul territorio.
Si possono immaginare tre diversi comportamento attraverso i quali l’impresa può contribuire
ad individuare i propri core market.
7
In primo luogo, si può considerare la possibilità che l’impresa costruisca, in determinati
mercati, una dimensione produttiva tale da inibire comportamenti ostili di parte dei
competitors.
Tale comportamento strategico, non necessariamente legato ad un area territoriale, si
sostanzia in una scelta precisa di localizzazione, allorquando l’investimento in tecnologie
consenta di insistere su uno specifico mercato in condizioni competitive. Si tratta di una
concezione consolidata nella letteratura come nell’agire manageriale.
Un ulteriore comportamento attivo può riguardare il costante investimento in attività di
ricerca e sviluppo che contribuisca a creare nell’area un sistema diffuso di conoscenza tale da
rendere l’attività dell’impresa strettamente legata al territorio. Tale comportamento non
riguarda esclusivamente l’attività di R&S, ma piuttosto ogni azione innovativa che, come tale,
può riguardare un assetto organizzativo come una immagine di mercato.
Tali due ulteriori aspetti arricchiscono il contributo che l’impresa può offrire alla difendibilità
di un’area, soprattutto se si combinano in maniera sinergica con le caratteristiche strutturali
dell’area su cui insistono.
In particolare, le scelte innovative sul piano organizzativo possono riguardare un particolare
assetto delle relazioni interfirm che consenta un efficace controllo ed un efficiente gestione.
Un esempio, a tal riguardo, sono gli spin off europei, per i quali non si configurano le
condizioni di opportunismo e speculazione finanziaria riscontrabili nel mercato statunitense,
ma piuttosto un processo di esternalizzazione ammorbidito dal mantenimento di strutturate
relazioni con l’impresa madre.
In tali casi, la possibilità che le imprese europee hanno di esternalizzare attività, anche
strategicamente rilevanti, ad imprese di ex-dipendenti, garantisce l’impresa sul piano del
controllo ed assicura relazioni “particolari” facilmente gestibili sul piano di una efficiente
allocazione delle risorse. Si tratta di una soluzione organizzativa di tipo innovativo,
ampiamente diffusa nel contesto europeo, che di fatto protegge il mercato della sub-fornitura
di prodotti /servizi e impedisce che imprese terze entrino in un mercato protetto. Si può
parlare, in tal senso, di un meccanismo relazionale di protezione del mercato, direttamente
imputabile all’azione dell’impresa.
Un secondo comportamento innovativo, attiene la possibilità che si crei in un’area, un circolo
virtuoso tra immagine di successo delle imprese in esse operanti e, di riflesso, un’immagine
dell’area di localizzazione sulla quale comportamenti attivi dell’impresa possono fare
costantemente leva. Anche in questo caso, esistono nel contesto europeo situazioni di
consolidata (talora stereotipata) immagine spesso imputabile al comportamento innovativo di
poche grandi imprese.
A volte le conseguenze sono pericolose, in quanto portano a legare l’immagine di un’area ad
una specifica vocazione industriale ed eventuali necessità di riconversione o, semplicemente
di diversificazione rispetto alle attività produttive esistenti dovranno risentire sia dei costi
strutturali, che dei costi di impatto sociale. Si disegna, in tal modo sia una barriera
all’ingresso di nuovi concorrenti, sia, anche una pesante barriera all’uscita.
3.2. Un modello interpretativo delle scelte di rightsizing
Le riflessioni prima riportate suggeriscono uno schema interpretativo delle opportunità che
fanno della variabile territoriale una variabile strategica (tabella 1).
Sull’asse delle ordinate è riportata la contendibilità dei core market. Tale variabile si connota
prevalentemente di quegli elementi macro e micro economici che descrivono la convenienza
ad investire in una specifica area: una bassa contendibilità dei core market definisce una
chiara opportunità economica per le imprese che a quell’area appartengono; viceversa un’alta
contendibilità rappresenta un pericolo nella misura in cui priva le imprese di una protezione
strutturale.
8
Sull’asse delle ascisse sono riportate le tipologie di approccio al core market perseguibili
dalle imprese: un approccio innovativo alla variabile territoriale descrive un atteggiamento
fortemente competitivo da parte dell’impresa. Essa, infatti, in un’ottica sinergica rispetto alle
caratteristiche favorevoli del contesto, investe nei core market alla ricerca di possibilità di
apprendimento e per sfruttare l’esistenza di condizione macro-economiche favorevoli alla
creazione di piattaforme per lo sviluppo.
Tale condizione connota un atteggiamento proattivo delle imprese verso l’uso della variabile
territoriale in chiave strategica e legittima occasioni di rightsizing sui core market.
Viceversa una scarsa attenzione delle imprese verso le concentrazioni sui mercati core si
giustifica o con l’assenza di un interesse strategico delle imprese per quella specifica area, o,
ancora con una scarsa attenzione verso i vantaggi da localizzazione percepiti.
Tabella 1
I Core Market nelle strategie di rightsizing
Approccio al Core Market
Alta
A
B
Rightsizing sul Core Market
Rightsizing speculativo
Contendibilità
dei Core Market
D
C
Rightsizing EsplorativoConoscitivo
Scelte Operative
Bassa
Il quadrante (A) individua la condizione ottimale nella quale è possibile riscontrare una scelta
di rightsizing modellata sulla base di un mercato geografico di riferimento.
In tale condizione, infatti, si verifica la coincidenza di ragioni strutturali ed aziendali a difesa
di un’area specifica. Tale situazione può essere di forte aiuto alle imprese in fase di
disinvestimento in quanto legittima le scelte di core sulle quali far ruotare il processo di
rightsizing rendendo evidenti i vantaggi che da esso possono derivare.
Sul fronte opposto, si colloca il quadrante (C). In tal caso, infatti, non è riscontrabile né una
vocazione territoriale né una particolare attenzione o capacità delle imprese nel ricercare le
condizioni per la creazione di core market.
Tali condizioni escludono la possibilità di costruire percorsi di rightsizing che guardino alla
variabile territoriale quale variabile critica sulla quale concentrarsi. Ne deriverebbe, infatti,
una soluzione debole, scarsamente difendibile sia sul piano istituzionale che
comportamentale.
9
Nulla esclude che le imprese così caratterizzate non possano perseguire di rightsizing, tuttavia
legate a variabili diverse da quella territoriale. Tipicamente, però, tale scelta muove dalla
considerazione che per determinate aree di business o attività della catena del valore non
esista un vantaggio territoriale esclusivo, ma che, piuttosto, la globalizzazione dei mercati e la
trasversalità del sapere tecnologico ne legittimino una sostanziale ubiquità.
Di maggiore interesse si mostrano, invece i quadranti (B) e (D), in quanto essi raccolgono
situazioni anomale, o quanto meno non immediate nella loro lettura.
Il quadrante (B) si caratterizza per una bassa contendibilità del core market e una visione
tradizionale della variabile territoriale quale fonte del vantaggio competitivo. Ciò implica che
esistono in tale condizione, forti fattori di ordine normativo, economico-settoriale e culturale
che legittimano una difendibiltà strutturale di un mercato, cui si combina una scarsa
capacità/opportunità delle imprese di costruire una posizione competitiva forte. Si
descrivono i tale quadrante i vantaggi tipici della localizzazione tutti imputabili alle
caratteristiche dell’area e scarsamente misurabili in termini di capacità/opportunià dell’agire
imprenditoriale.
Si potrebbe pensare, in tal caso, ad una forma di rightsizing di tipo speculativo, nel senso che
essa non è deliberatamente scelta dall’impresa, ma, piuttosto il frutto di un insieme di
condizioni esogene. In tal caso pare più opportuno parlare di barriere all’uscita piuttosto che
all’entrata, in quanto le imprese, in tali condizioni, possono evitare di esternalizzare
determinate attività unicamente per evitare di sostenere i costi dell’uscita, o semplicemente
per continuare ad approfittare di condizioni competitive di considerevole vantaggio.
Si tratta di un comportamento miope se inserito in un contesto competitivo di medio-lungo
periodo, in quanto affida la sopravvivenza dell’impresa a condizioni di struttura sulle quali
l’impresa può scarsamente influire. Tali comportamenti sono tipici dei settori maturi
(Harrigan, 1990), nei quali la scarsa innovatività delle imprese, unitamente ad una consolidata
condizione competitiva del mercato impediscono alle imprese di costruire fonti innovative del
vantaggio competitivo2.
Inoltre, proprio per tali tipologie di settore è frequente rinvenire condizioni strutturali di
protezione sia in termini normativi, che settoriali e culturali. In particolare, il mercato
europeo, risulta fortemente caratterizzato da settori economici appartenenti a tale condizione,
per i quali si sovrappongono meccanismi di protezione comunitari a meccanismi nazionali di
salvaguardia di posizioni privilegiate.
L’ultimo quadrante individuato dallo schema, il quadrante (D), individua una condizione in
cui è alta la contendibilità dei core market mentre esistano elementi forti su cui fondare una
posizione competitiva difendibile da parte dell’impresa. Si tratta, in questo caso di
comportamenti fortemente innovativi, nei quali le imprese attraverso una politica di costante
attenzione alle istanze che derivano dal mercato finale e dal comportamento dei principali
competitors traggono lo spunto per costruire una solida posizione competitiva.
In un’ottica tradizionale tale condizione si costruiva attraverso la realizzazione di forti
investimenti in strutture e macchinari che realizzavano economie altrove non riproponibili. In
un’ottica più moderna, si può pensare ad un investimento costante in sapere tecnologico e
scientifico che garantisca ad un’area una disponibilità di competenze altrove non
riscontrabile3.
2
Tale concetto tradizionalmente applicato alle tecnologie produttive può, in realtà riguardare anche il mercato
dei prodotti finiti : “..... una efficace gestione delle barriere dovute ai costi di riconversione di clienti redditizi è
molto importante se l’impresa vuole continuare a servire quel tipo di clienti con i prodotti rimasti in catalogo.
Per ............ le imprese a volte continuano a vendere beni che non producono più acquistandoli da terzi, anche
molto dopo che hanno chiuso gli impianti di produzione” (Harrigan, 1990) pg. 104
3
E’ un comportamento sicuramente vincente, pur se fortemente costoso e pericoloso sul piano della costante
esposizione alla reazione dei maggiori competitors.
10
Si può pensare anche alla capacità delle imprese di costruire relazioni innovative con gli attori
del sistema del valore. In tal caso la capacità di personalizzare e ottimizzare il sistema di
relazioni in cui è inserita l’impresa rappresenta una condizione di forte vantaggio
competitivo.
Una volta individuati i quadranti dello schema può essere utile immaginare i percorsi tipici
cui le imprese sono sottoposte nella individuazione di una scelta strategica di rightsizing.
A tal riguardo, sono ipotizzabili almeno due percorsi nei quali l’impresa ha la possibilità di
evolvere, mutando il proprio approccio al rightsizing.
Un primo percorso è imputabile alla diretta responsabilità dell’impresa e riguarda il percorso
“B verso A”. In tal caso, a parità di situazione di contesto, l’impresa può interiorizzare le
condizioni di vantaggio che il mercato offre per sommare ad esse una propria capacità
competitiva. Si tratta di una trasformazione radicale dell’agire d’impresa che sposta l’ottica di
pianificazione dal medio al medio/lungo periodo, durante il quale, attraverso un processo di
responsabilizzazione, l’impresa procede ad investire in quelle attività/risorse che
maggiormente contribuiscono a raggiungere una posizione competitiva difendibile.
Nel quadrante (B) si collocano le vie tradizionali del vantaggio da localizzazione, e nel caso
europeo, la legislazione relativa alle aree speciali ad obiettivo 1 costituisce una forte premessa
per la creazione di un percorso virtuoso che muova da (B) ad (A).
Il secondo percorso è rappresentabile dalla direttrice “D verso A”. Si tratta di un processo
imputabile ad una mutazione esogena di ordine prevalentemente normativo o economico
settoriale, la variabile culturale, infatti non consente evoluzioni traumatiche che legittimino
un percorso di tal genere.
In tali casi, il passaggio delle imprese da una condizione di rightsizing esplorativoconoscitivo ad un puro rigthsizing sul core market diventa quasi automatica, in quanto
garantita dalla mutazione strutturale.
Tale percorso, è quello che più tipicamente ha riguardato le imprese europee, abituate a
competere nei mercati dell’UE, considerandoli alla stregua di mercati extra-europei; tale
comportamento risulta inefficace allorquando viene posta in essere una variazione
istituzionale che le protegge oggi dai competitors internazionali.
L’evidenza empirica dimostrerà l’esistenza di numerosi esempi di tal genere, nei quali una
solida posizione competitiva si somma ad una favorevole mutazione di contesto.
E’ bene precisare che in questo ultimo percorso è possibile individuare comportamenti
patologici, quelli, cioè che possono spingere dal quadrante (D) al quadrante (B). Infatti, la
realizzazione di una situazione di contesto favorevole può indurre le imprese innovative ad
abbandonare la strada dei continui investimenti in innovazione, per approfittare di più comode
rendite di posizione.
4. Alcune evidenze empiriche
E’ questo un processo che ha riguardato tutti i grandi gruppi industriali europei, pur se in
forme diverse per settore di attività, per tradizione imprenditoriale, per orientamento
strategico.
In questa fase saranno descritti alcuni casi di rightsizing di grandi gruppi europei sui quali è
possibile testare lo schema interpretativo, per comprendere sino a che punto la variabile
territoriale, rappresentata dall’impellenza della realizzazione politica dell’UE, abbia
Nella evidenza empirica, tale condizione si caratterizza in alcuni sporadici casi di imprese e non presenta alcuna
correlazione con l’appartenenza ad un dato settore
11
influenzato la modalità del ricentraggio e testare su tali osservazioni un’interpretazione
teorica delle scelte di rightsizing4.
Il caso Electrolux
Fatturato al 1994 : 79,77 miliardi di corone svedesi
Utile lordo : 6,26 miliardi di corone svedesi
La Electrolux colosso svedese nel settore degli elettrodomestici ha promosso
negli anni dal 1990 al 1995 un progressivo percorso di rightsizing sul mercato
europeo degli eletrodomestici, in particolare Il gruppo, ha proceduto ad
esternalizzare il 100% delle azioni Autoliv, partecipata controllata da
Electrolux, leader europeo nel settore degli airbag e cinture di sicurezza per
autovetture. Autoliv aveva realizzato nel 1993 un fatturato di 1.100 miliardi di
lire pari al 5% del complessivo fatturato del gruppo. Inoltre, il gruppo ha
proceduto a cedere sul mercato Usa la controllata Blaw Knox operante nel
mercato dell’equipaggiamento per il movimento terra alla Clark Equipment,
società americana del settore.
Sul mercato europeo Electrolux ha venduto la divisione Klippan che opera nel
mercato europeo dei prodotti di sicurezza per bambini
La scelta di Electrolux di cedere tali consociate si lega alla necessità di
realizzare liquidità per concentrarsi sul mercato europei degli elettrodomestici
che pesano ora per il 60% del fatturato.
A tale operazione, infatti è corrisposta una parallela acquisizione della divisione
elettrodomestici della AEG, la Aeg Hausgereate, già controllata al 20% al
prezzo di 700 miliardi di lire . L’integrazione garantisce ad Electrolux una
piattaforma fondamentale sul mercato tedesco dove subiva la concorrenza di
Bosh-Siemens, permettendole di accrescere la propria quota sul mercato
europeo dal 20 al 30% e diventarne il leader.
Il mercato mondiale degli elettrodomestici è notoriamente un mercato fortemente concentrato,
la variabile settoriale, in questo caso consente ad Electrolux di creare forti barriere
all’ingresso in un mercato chiuso quale quello europeo, impedendo possibili azioni di
ingresso di competitors internazionali. La scelta di concentrare le risorse su un mercato
geografico trova allora una doppia giustificazione, di ordine settoriale e di ordine strategico
nella volontà dell’impresa di costruire una posizione competitiva fortemente difendibile.
Il caso Nokia
Utile lordo al 1996 1.680 miliardi di lire
Nokia, secondo produttore mondiale di telefoni cellulari, ha ceduto la divisione
televisori, unitamente alla proprietà degli impianti di produzione alla Semi-tech di
Hong Kong, l’accordo prevede, a latere, la possibilità per l’acquirente di
utilizzare il Know how e i marchi Nokia sino al 1999. L’abbandono del comparto
televisivo coincide con la scelta di concentrare gli investimenti per il prossimo
futuro sul core business dei telefoni cellulari, il cui mercato sta vivendo una fase
di forte espansione sia in Europa che negli Usa. Inoltre, la cessione deli impianti
4
L’indagine empirica si fonda su di una ricerca esplorativa condotta su un database di 240 operazioni di fusioni,
acquisizioni e cessioni internazionali, realizzate tra il 1990 e il 1996 ricavata dalla stampa specializzata (fonti:
Financial Times, The Economist, Il sole 24 ore).
12
ed anche del Know how non incorporato negli investimenti, testimonia una uscita
radicale del gruppo Nokia da quel mercato. Significative, in proposito, le
dichiarazioni dell’amministratore delegato del gruppo Jorma Ollia: “il mercato
europeo non consente attualmente la continuazione di un’industria indipendente
televisiva” (il sole24ore 29-02-96). E’, comunque, obittivo strategico dichiarato
del gruppo non abbandonare alcune produzioni strategiche correlate al comparto
dei televisori, come quelle della Tv digitale, monitor ed apparecchiature per
satellite.
Il caso della cessione Nokia, rientra nelle tipologie di rightsizing che escludono per
caratteristiche strutturali del mercato una focalizzazione sul core market. Piuttosto, è possibile
immaginare una scelta di business globale sul quale concentrare le risorse dell’impresa
relative ai settori innovativi delle componenti per tv digitali ed apparecchiature satellitari. E’
in questo caso la natura della tecnologia e del mercato nel suo complesso a ridurre la
difendibilità di un’area geografica e ad imporre una scelta di natura globale.
Il caso Ciba-Sandoz: lo spin off Mipharma
Ciba, impresa leader mondiale nel settore della chimica e della farmaceutica, sta
procedendo a realizzare nel comparto delle ricerca e sviluppo di nuovi principi
attivi una maxi-fusione con il gruppo Sandoz. Da tale operazione nasce Novartis,
primo gruppo chimico-farmaceutico a livello mondiale.
Per realizzare tale obiettivo Ciba e Sandoz stanno parallelamente procedendo a
concentrarsi sulle attività maggiormente coerenti con il business di Novartis e le
attività della catena del valore maggiormente utili a core business del nuovo
consorzio. Nell’ambito di tale probesso, Sandoz ha proceduto alla acquisizione
diGerber nel segmento della nutrizione per neonati.
Ciba, da parte sua ha ceduto la Mettler Toledo, consociata specializzata nella
produzione di strumenti di precisione e bilance elettroniche alla AEA Investors.
A ciò si aggiunga la decisione del consorzio Novartis di concentrare la attività
produttive nello stabilimento della Ciba di Torre Annunziata (Na), rinunciando
allo stabilimento di Sandoz in Milano. La decisone sicuramente non estranea a
condizionamenti ambientali di ordine sindacale e politico, orientati, cioè a
concentrare le attività di produzione in aree a maggiore tasso di disoccupazione,
risciano di far chiudere una delle maggiori realtà produttive in campo europeo.
Ne è conseguita la scelta da parte del management interno di mettere in moto una
opearzione di management buy out attraverso la quale realizzare uno spin off
produttivo, Mipharma, specializzato nella produzione conto terzi nel settore
farmaceutico.
L’operazione condotta in piena armonia con il management di Novartis assicura
la nuova impresa attraverso consistenti commesse per i prossimi cinque anni e
realizza una dismissione “controllata” di una attività della catena del valore
rilevante. Mipharma conta di produrre e confezionare 42 milioni di forma
farmaceutiche entro la fine del 1998, di queste il 70% saranno destinate al
mercato italiano il 30% a quello europeo.
Il caso Mipharma può essere interpretato, nella strategia di rightsizing di Novartis, sotto una
duplice ottica: quella di concentrazione sul core business di Novartis, il quale, tuttavia opera
su una scala globale; quello di concentrarsi su una core activity in un core market sfruttando
una particolare relazione di collaborazione tipica degli spin off europei. In questo secondo
caso, infatti lo spin off di Mipharma non nasce con l’obiettivo speculativo di far crescere il
valore azionario di una nuova attività, ma piuttosto, in sinergia con Novartis, di ampliare e
13
potenziare una attività in uno specifico mercato geografico. E’, dunque, nella relazione
innovativa l’opportunità colta da Novartis di liberarsi di una attività non core.
Nalla stessa ottica si inquadra il caso Sagit Spa
Il caso Sagit Spa
Sagit, consociata italiana di Unilever Co., specializzata in Europa nella
produzione di alimenti gelati e surgelati ha completato, negli anni novanta un
lungo processo di esternalizzazione delle attività della logistica distributiva. Le
ragioni di tale scelta risiedono nella particolare costosità della logistica del freddo
e nella particolare struttura del comparto distributivo in Italia ed in Europa. In
Italia, infatti la distribuzione finale dei prodotti alimentari è notoriamente
rappresentata da una grande numero di piccoli e piccolissimi esercizi, anche se
tale fenomeno è diversamente distribuito sul territorio nazionale. Nell’europa
continentale, invece tale tendenza si inverte a vantaggio della grande
distribuzione organizzata.
Sagit ha realizzato in Italia la destrutturazione del canale logistico ulitizzando
l’arma degli spin off logistici attivati da ex dipendenti. Nell’arco di un decennio,
cioè la Sagit ha trasformato le filiali logistiche che il gruppo localizzava in tutte le
principali province italiane in rapporti di concessione esclusiva ad imprenditori
locali organizzati in cooperative di ex dipendenti Sagit.
Attraverso tale operazione Sagit si è concentrata sulla core activity che è quella
produttiva, approfittando di situazioni di contesto che le hanno suggerito la
soluzione di spin off.
La particolarità del mercato italiano, unitamente alla particolare natura degli spin off logistici
attivabili hanno consentito a Sagit di realizzare una particolare forma di rightsizing in un
particolare mercato, legittimando una condizione di vantaggio competitivo che le ha
consentito di recuperare competitività nei confronti di Italgel-Nestlè suo principale
concorrente.
Una applicazione dello schema interpretativo individuato in sede teorica alle evidenze
empiriche sin qui analizzate, evidenzia comportamenti imprenditoriali interessanti.
In particolare, nel quadrante A sono rappresentabili le azioni di Electrolux che approfittando
di una condizione di settore particolarmente favorevole, ha investito sul mercato europeo
nella ricerca di ulteriori condizioni di vantaggio, sia con attenzione al mercato finale, sia con
attenzione al comparto della R&D.
Nel quadrante D, invece, è possibile collocare i casi Mipharma e Sagit, in quanto, a dispetto
di una globalità dei mercati, o, anche di una scarsa protezione istituzionale, le imprese hanno
investito valorizzando determinati territori alla ricerca di vantaggi da relazione tipici di un
mercato europeo.
Il caso Nokia, infine, si colloca nel quadrante C, in quanto le caratteristiche fortemente
innovative della tecnologia e le peculiarità del mercato finale ne fanno un settore di tipo
globale, che piuttosto deve cercare nelle competenze tecnologiche il focus delle strategie di
righsizing.
5. Conclusioni
14
Le scelte di rightsizing rappresentano una costante nel panorama dei comportamenti strategici
dei gruppi diversificati europei. Le informazioni disponibili connotano una crescente
attenzione di tali imprese verso il mercato europeo, soprattutto dopo la realizzazione
dell’unione politica dei paesi dell’UE.
Tale fenomeno, non trova esatta rispondenza negli obiettivi tradizionali del rightsizing,
orientati a focalizzare le risorse dell’impresa sulle core competence o sulle core activity
piuttosto che sui core markets. Infatti, numerosi vantaggi indotti dalla globalizzazione dei
mercati e dalla trasversalità delle nuove tecnologie riducono l’attenzione verso una azione di
concentrazione su specifici mercati geografici. D’altra parte, i tradizionali vantaggi di
localizzazione rappresentati in letteratura dagli studi sulle economie di area, rappresentano
una interpretazione limitata delle possibili motivazioni che spiegano l’attenzione delle
imprese multinazionali nel ricentraggio sui mercati europei.
Pare, dunque, opportuno provare a stimolare un’ attenzione innovativa delle imprese verso la
variabile territoriale nelle scelte di rightsizing, fondata su determinanti nuove. Le variabili
innovative che connotano un’area nel renderla oggetto di azioni di rightsizing possono
risiedere nella esistenza di maggiori possibilità di apprendimento, nella possibilità di
approfittare di un’efficace immagine di area, di sfruttare, in sintesi, le potenzialità offerte dai
core market.
Tali aspetti si sono dimostrati rilevanti in alcuni casi di rightsizing sino a giustificare una
azione di concentrazione sul mercato europeo.
Accanto a ciò l’indagine ha evidenziato che le scelte di rightsizing risentono della condizione
strutturale di un mercato, in relazione alla capacità che esso esprime di offrire un maggiore o
minore carattere di contendibilità.
La combinazione livello di contendibilità del core market e dell’approccio
innovativo/tradizionale al core market, concorre, dunque, a disegnare strategie diverse di
rightsizing sul core market.
Bibliografia
Baden-Fuller C., Stopford J., (1991), Globalisation frustrated: The case of White goods,
Strategic Management Journal, 12;
Bartlett C. and Goshal S., (1989), Managing across borders: new strategic requirements,
Sloan Management Review, summer;
Bain J.S., (1956), Barriers to new competition, Harward University Press;
Blois K.J., (1972), “Vertical quasi-integration”, Journal of Industrial Economics, n.20;
Calingaert M., (1997), The single market: opportunities and challenges, but no fortress for US
bisiness, European Business Journal, n.2;
Calvelli A., (1995), "Diversificazione e Ricentraggio", in Caselli L., (1995), Le parole
d'Impresa, F. Angeli;
Calvelli A. (1997), Scelte di impresa e mercati internazionali, Giappichelli
Cameron K.S., (1994), “Strategie di rightsizing”, Sviluppo & Organizzazione, n. 146
Novembre/Dicembre ;
Cantwell J., (1987), The reorganisation of European industries after integration: Selected
evidence on the role of multinational enterprise activities, Journal of Common Market Studies
26(2);
Cibin R., Genco P., “Integrazione e deverticalizzazione”, in Caselli L., (1995), Le parole
d'Impresa, F. Angeli;
Collins R., Bechler K., Pires S., Outsourcing inthe automotive industry, European
Management Journal, Vol. 15, n.5;
15
Contractor F.J., Lorange P., (1988), Cooperative strategies in international Business, D.C.
Heath & Co. Books;
Corbetta G., Mazzola P., (1989), "Strategie delle imprese a rapida crescita: i modelli
vincenti", Economia e Management, vol.6, Gennaio;
Doz Y., (1986), Strategic management in multinational companies, Pergamon
Harrigan K.R., (1985), “Vertical Integration and Corporate strategy”, Academy of
Management Journal, n.28 ;
Harrigan K,R. (1990), Strategie d’impresa nei settori maturi, Mc Grow Hill
Harrison B., (1994), “The small firms myth”, California Management Review, Vol. 36, n.3 ;
Halal W.E., (1994), From hierarchy to enterprise: Internal markets are the new foundation of
management, Academy of Management Executive, Vol. 8, N. 4;
Hax J., Majiluf S., (1980), Direzione aziendale, Isedi
Keidel R.W., (1994), Rethinking organisational design, Academy of management executive,
Nov, v. 8, n. 4;
Lorenzoni G., (1986) Accordi reti e vantaggio competitivo, Etas
Millington A., Bayliss B.T., (1995), Transnational joit ventures between UK and EU
manifacturing companies and the structure of competition, Journal of International Bisiness
Studies, Second Quarter;
Millington A. Bayliss B.T., (1996), Corporate Integration and Market liberalisation in the EU,
European Management Journal, Vol.14, N. 2;
Omahe K., (1985), Triad power. The coming shape of global competition, The free Press NY;
Penrose E.T., (1959), The theory of te growth of the firm, Blackwell;
Pilotti L., Rullani E. (1990), L’impresa transnazionale, Etas
Porter M.E., (1986), Competition in global industry, HBS Press;
Prahalad C.K., Hamel G, (1985), Do you really have a global strategy?, Harvard Business
Review;
Rullani e:, Vacca S., (1983), Oltre il modello classico di impresa multinazionale, Finanza
Marketing e Produzione, n.1-2
Teece D.J., (1980), Economies of scope and the scope of enterprises, Journal of Economic
Behavior and Organisation, n.1;
Varaldo R., (1985), Il sistema delle imprese calzaturiere, Giappichelli
Vicari S., (1989), Le nuove dimensioni della concorrenza, Egea;
Williamson O.E., (1975), Market and hierarchies, NY Free press;
Yip G., (1991), A performance comparason of Continental and National Business in Europe,
International Marketing Review;
16