Scheda da Film discussi insieme 2006

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Scheda da Film discussi insieme 2006
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La seconda notte di nozze
Regia: Pupi Avati
sceneggiatura: Pupi Avati
fotografia: Pasquale Rachini
montaggio: Amedeo Salfa
musica: Riz Ortolani
scenografia: Mario Carlini, Francesco Crivellini
costumi: Mario Carlini, Francesco Crivellino
interpreti: Antonio Albanese (Giordano Ricci), Katia Ricciarelli
(Liliana), Neri Marcorè (Nino Ricci), Angela Luce (Suntina
Ricci), Marisa Merlini (Eugenia Ricci), Roberto Madison (Enzo
Fiermonte), Toni Santagata (Ugo Di Dante), Manuela Morabito
(Estrelita), Sandro Dori (notaio Colliva), Mia Benedetta
(Mariagrazia), Valeria D’Obici (madre di Clara)
produzione: DueA, in collaborazione con Rai Cinema
distribuzione: 01 Distribution
durata: 1h 43’
PUPI AVATI
Bologna - 3 novembre 1938
1969 Thomas, gli indemoniati
1970 Balsamus, l’uomo di satana
1975 La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone
1976 Bordella
1976 La casa dalle finestre che ridono
1977 Tutti defunti... Tranne i morti
1978 Jazz band
1979 Pooh in concerto
1979 Le strelle nel fosso
1979 Cinema!!!
1980 Mille bambine per un sogno
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LA SECONDA NOTTE DI NOZZE
1980 Hengel Gualdi in concerto
1981 Aiutami a sognare
1982 Dancing paradise
1983 Accadde a Bologna
1983 Zeder
1983 Una gita scolastica
1983 Dino Sarti in concerto
1984 Impiegati
1984 Noi tre
1985 Festa di laurea
1986 Hamburger Serenade
1986 Regalo di Natale
1987 Sposi
1987 Confessioni di un alcolista
1987 Ultimo minuto
1989 È proibito ballare
1989 Storia di ragazzi e di ragazze
1991 Bix - Un’ipotesi leggendaria
1992 Fratelli e sorelle
1993 L’amico d’infanzia
1993 Magnificat
1994 Dichiarazioni d’amore
1996 Festival
1996 L’arcano incantatore
1997 Il testimone dello sposo
1999 La via degli angeli
2001 I cavalieri che fecero l’impresa
2003 La rivincita di Natale
2003 Il cuore altrove
2005 Ma quando arrivano le ragazze?
2005 La seconda notte di nozze
LA STORIA
Nella Bologna del secondo dopoguerra, Liliana cerca di rifarsi una vita dopo la morte del marito trasferendosi al sud,
presso dei parenti benestanti. In realtà è Nino, il figlio scapestrato di Liliana, a voler dare questa svolta alle loro vite
troppo misere e che rischiano di peggiorare anche di più.
Ma a volte, se si dà una mano al destino, ci può invece essere un futuro migliore... In questo film, Pupi Avati offre una
pagina di storia degli anni immediatamente successivi al
secondo conflitto mondiale, attraverso la difficile quotidianità della gente; e lo fa utilizzando anche i suoi tipici toni
poetici che nulla hanno a che fare con il neorealismo, ma
che sono comunque interessanti. In una chiesa di Bologna si
sono rifugiati dei poveri sfollati, che cercano di trovare un
modo non solo per sopravvivere, ma anche per ricominciare
tutto da capo. C’è chi trova dei metodi non proprio ortodossi per far questo, come Nino, che non disdegna di truffare e derubare gli altri pur di racimolare qualcosa per tirare
avanti. Nino è un personaggio che, nonostante le sue azioni
disoneste, pare ispirare - se non proprio simpatia - almeno
della comprensione. Di questo stesso parere sembra essere il
regista, dato che alla fine gli “permetterà” di realizzare i suoi
sogni. Tuttavia, per quanto si possa essere inclini all’indulgenza prima di condannare questo personaggio, è certamente impossibile essere solidali con lui quando è disposto a
ripagare un meccanico offrendogli in cambio la propria
madre. Liliana è una donna prostrata dalla guerra, dalla
vedovanza e dalle prove che ancora l’aspettano ogni giorno
ma, nonostante abbia dovuto scendere a patti con la propria
coscienza per avere un piatto caldo da chi, più che il compagno, sembra essere il suo protettore, conserva una profonda
dignità ed onestà. Una sua lettera al fratello del proprio
marito sarà ciò che darà una svolta al destino ed alla trama,
tutto sommato esile, del film. Proprio grazie a questa lettera,
la vicenda pare assumere dei toni fiabeschi, non per le atmosfere, ma per i contenuti in sé: i parenti poveri che raggiungono quelli ricchi, il rifiuto deciso di questi ultimi ad accoglierli, ed un principe azzurro che, innamorato di Cenerentola, aggiusta la situazione che culminerà nelle nozze. Solo
che, in questo caso, il principe azzurro è il cognato malato
di mente, e Cenerentola-Liliana non è di certo una ragazza
nubile, ma resta comunque la donna della quale il pover’uomo è sempre stato innamorato. E non mancano neppure le
due sorelle cattive, non però di Cenerentola, bensì del principe, che ancora non accettano il disonore gettato sulla loro
famiglia da Liliana, quando ha dovuto ricorrere al matrimonio riparatore per far nascere Nino. Alla fine, i rancori si
attenueranno e la zucca si trasformerà, per Nino, in un
camion che lo verrà a prendere per portarlo a lavorare alla
realizzazione di un film.
Avati offre uno spaccato non solo di quegli anni o dell’Italia
del dopoguerra, ma anche della mentalità di allora, fondata
su pregiudizi che generano rancori duri a morire, e che prevede una famiglia così patriarcale da non lasciare voce in
capitolo alle donne, nemmeno se a capo vi è un povero
malato. Ma non è tanto l’ottica sociologica che interessa al
regista, quanto piuttosto la pagina di storia che ridipinge a
tenui colori. Infatti, il povero malato è uno sminatore, e non
lo è per caso: “Chiamano me perché se muoio io non fa
nulla” è l’amara verità che egli dice. E questo è uno dei
momenti del film in cui tale personaggio dimostra di vederci forse meglio degli altri, nonostante la sua malattia, e di
possedere una fine sensibilità che a volte conta più dell’intelligenza. La vera forza del film sta però nell’interpretazione
indovinata dei tre protagonisti, che interpretano i propri
ruoli in sintonia con i personaggi stessi - e come non menzionare la provata ma composta Liliana cui dà volto Katia
Ricciarelli? - mentre le intenzioni del regista nel trattare il
tema scelto paiono svelarsi in una dedica alla fine del film,
che ricorda i bambini uccisi dagli ordigni bellici non disinnescati. (LUISA ALBERINI)
LA CRITICA
Ricordando con precisione il chiaro monito antisistema,
datato 1996 e intitolato Festival, in cui Massimo Boldi,
attore contrito, si vede sfuggire una meritata Coppa Volpi
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causa le solite pastette con premi pilotati, siamo rimasti sorpresi nel vedere Pupi Avati riaccettare la sfida della competizione ufficiale al Lido. Per uno che non ha bisogno di traini
commerciali il quesito rimane di difficile soluzione. Gole
profonde lo danno già come Gran premio della giuria; altri,
invece, non hanno accettato l’ennesima soluzione bozzettistica della tenera storia avatiana. Resta il fatto che Avati ha
un coraggio da leone e si ripropone tale e quale nonostante
il cinema. Sì, il cinema, inteso come artefatto di esperimenti, innovazioni ed evoluzioni pop. Pupi è passato dagli horror anni ‘70 agli artificiali set del reale che deviano la visione su un binario rassicurante. Pacificazione del sé e analisi
biografica, La seconda notte di nozze è tutto questo, più la
voglia di uscire dal recinto provinciale dell’ambientazione
bolognese: «Ho scelto la Puglia, perché mi sentivo colpevole
di aver scoperto tardi questa meravigliosa terra», sostiene
Avari, «mi sono invaghito del Sud mentre anni fa giravo I
cavalieri che fecero l’impresa. In questi luoghi è trattenuta
l’Italia, soprattutto in un periodo, come quello dell’immediato dopoguerra descritto nel film, in cui il meridione è
visto come terra promessa, dove si mangiava, in cui non si
correvano rischi». Giordano, il protagonista, (un Albanese
corpulento e taciturno), smina i terreni attorno a Torre
Canne. Due zie, la Merlini e la Luce, vegliano su di lui.
Considerato da tutti malato di mente, Giordano riceve una
lettera dalla cognata che aveva amato in gioventù, rimasta
da poco vedova. Lui lesto la invita nel casolare del tavoliere.
Lilliana, una debuttante Katia Ricciarelli, accetta con fatica,
trascinandosi dietro il figlio Nino, Neri Marcorè, un poco
di buono dedito al furto. Ovviamente all’arrivo in Puglia di
Lilliana e figlio, le zie si ingelosiscono, Giordano chiede di
sposare la cognata e Nino fugge con gli artisti del cinematografo. Con una chiosa finale dedicata ai bimbi morti per
avere giocato in campi pieni di bombe inesplose, Avati si
congeda dal pubblico: «È il tema centrale attorno al quale si
svolge il racconto. Mi ha ricordato quando a Sasso Marconi,
Porretta e Marzabotto da bambini raccoglievamo ordigni,
inconsapevoli del pericolo. Molti sono rimasti mutilati o
morti. A loro ho voluto dedicare il film».
(DARIO ZONTA, L’Unità, 10 settembre 2005 )
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La seconda notte di nozze ha chiuso allegramente la 62. Mostra del cinema che, a dispetto dell’intestazione, di arte ne
propone ormai poca e che, a ripensarci, non ci ha riservato
momenti divertenti. Pupi Avati, sceso in Puglia dalla natia
Bologna, ha il merito di conservare fresca la memoria che gli
consente di ricordare e di rappresentare gli anni del secondo
dopoguerra del ‘900 quando, a causa delle mine e delle
bombe inesplose, bambini e adulti saltarono in aria o rimasero monconi. Il bravo Antonio Albanese, nel ruolo di
Giordano, vive in una bella masseria in provincia di Bari.
Ben corazzato cerca mine nella zona e, quando le ha individuate, le fa esplodere davanti a bambini festosi. Non ha
paura di nulla, tanto lo considerano un po’ tonto, ha un fratello in manicomio e lui vive con due zie zitelle (Angela
Luce e Marisa Merlini) che fabbricano confetti per nozze.
Un giorno riceve una lettera della cognata Liliana Vespero
(la Ricciarelli, una sorpresa) che ha un figlio scioperato,
Nino (lo scapestrato Neri Marcorè). I due, rimasti senza abitazione, si imbarcano su un’automobile rubata e, dopo
un’odissea, raggiungono la masseria di Giordano. Accoglienza dolcissima da parte di costui da sempre innamorato
della cognata, freddezza delle zie, cena, congedo e, stentato,
invito a restare. Lo zio trova un lavoro per Nino presso un
avvocato, lui ne seduce la figlia in cambio di denaro che
offre al quasi divo Enzo Fiermonte che fu tra gli interpreti di
Harem con Vivi Gioi e interpretò Una spia tra le eliche (allusione a certa sua presunta attività di spione preso i repubblichini). Avati scrive storie amabili e gentili secondo le proprie
corde espressive e le dirige con garbo, corre il rischio del
bozzettismo in alcuni passaggi e dirige che è una meraviglia
gli attori regalando, come si è accennato, un gran ruolo a
Katia Ricciarelli, un efficace personaggio che, da donna
delusa e spaurita si trasforma in perfetta massaia e va sposa
al fratello del defunto marito.
(FRANCESCO BOLZONI, Avvenire, 10 settembre 2005)
È decisamente l’amore coniugale il tema dominante delle
uscite cinematografiche. A meta di un cartellone che riserva
grandi spazi a trascurabili titoli Usa e pellicole per amatori
di varia provenienza, si fanno largo due film attesissimi dal
pubblico e già promossi a pieni voti dalla critica, che ha
avuto modo di vederli in anteprima nelle diverse vetrine
festivalere che li hanno ospitati.
E allora, in attesa che venerdì prossimo esca La marcia dei
pinguini, il documentario di Luc Jacquet dominatore del
box office Usa, dopo aver sedotto la platea veneziana con la
raffinatezza che contraddistingue l’estetica e l’intensità tipiche delle sue narrazioni, è arrivato ieri nelle sale La seconda
notte di nozze di Pupi Avati. passato in concorso alla Mostra
Internazionale del Cinema del Lido, e approdato al circuito
distributivo con la 01, in oltre 200 copie. Un film che, se da
un lato conferma la delicatezza e al tempo stesso l’incisività
degli apologhi tipici della filmografia di Avati, dall’altro sorprende piacevolmente per la scelta degli attori. Stavolta,
infatti, gli affezionati del suo cinema si ritrovano a gustare
un ritratto’d’epoca dai toni agrodolci, speziato dai volti di
Antonio Albanese, chiamato in seconda battuta a rimpiazzare il diniego di John Turturro. Di una esordiente doc come
Katia Ricciarelli che, dismessi i pomposi abiti di scena che la
ribalta lirica le impone, si adegua stavolta, con compostezza
e misura, a vestire gli umili panni di una vedova costretta
dalla povertà ad accettare la corte del fratello del marito,
morto da pochi mesi e da sempre innamorato di lei. Ma,
soprattutto, La seconda notte di nozze propone i lineamenti
perversi di una delle più preziose maschere avatiane, Neri
Marcorè, per la prima volta alle prese con un personaggio
negativo. Il film, infatti, con cui il regista recupera l’immagine di un Italia che non c’è più, dura eppure ingenua, dove la
disperazione non chiude i varchi alla solidarietà. Narra di un
paese in cui tutti, anche i più perfidi, non erano poi così
cattivi - insomma, di un mondo raggiunto grazie a un cammino sociale a ritroso nel tempo che interseca i sentieri della
rivisitazione filosofica - racconta con il sorriso sulla bocca e
un pizzico di rimpianto nel cuore, una storia come ce ne
devono essere state tante nel dopoguerra, in cui tutto, alla
fine - sembra suggerire Avati - persino la povertà, aveva un
volto più umano. Tra Verga e i bozzetti di certo teatro popolare, animato da una galleria di personaggi veri non tanto
perché rispondenti al reale, quanto nella loro essenzialità
cinefila, il film mette in scena dunque l’intreccio di destini e
di solitudini, di sogni inseguiti e delusioni vissute, tra Antonio Albanese, matto del paese capace di sminare, tra
l’entusiasmo dei bambini, le bombe rimaste nei campi, protetto solo da un precario scudo di metallo e da un elmetto.
Neri Marcorè, uno di quei figli cattivi, capaci di riuscire a
ingannare con faccia d’angelo e cuore di pietra persino la
propria, apprensiva madre, Katia Ricciarelli, vittima della
povertà e delle macchinazioni di un figlio debosciato a carico, che ha deciso di darsi al cinema e, sullo sfondo, dicevamo, l’Italia rurale della provincia e delle masserie pugliesi, e
in sottofondo, i ricordi familiari dello stesso Avati, affidati
soprattutto agli irresistibili ritratti di due vecchie zie, a cui
nel film danno forza interpretativa e carattere poetico
Angela Luce e Marisa Merlini. Ricordi di un mondo che
non c’è più, ma che la magia del suo cinema riesce struggentemente a rievocare e trasmettere.
(PRISCILLA DEL NINNO, Il Secolo d’Italia, 12 novembre 2005
Coppa Volpi ideale della Mostra di Venezia, almeno secondo chi scrive, Katia Ricciarelli. Ex-aequo, come migliori
non protagoniste, Marisa Merlini e Angela Luce. Una provocazione, forse, ma solo per ribadire che Pupi Avati si conferma un grandissimo direttore di attori, da cui sa trarre
sempre le note più sottili e ripiegate, quel gusto mai macchiettistico della malinconia. E se la (quasi) debuttante
Ricciarelli colpisce per misura e naturalezza, sullo stesso
registro di sommessa credibilità si muovono anche Neri
Marcorè e Antonio Albanese, marcati stretti dal regista.
Strana storia quella del film di Avati, che è anche un
romanzo che si legge d’un soffio pubblicato da Mondadori
(e firmato dallo stesso regista): alla Mostra avrebbe indubbiamente meritato di surclassare gli altri italiani, più disinvolti e incerti. E invece su La seconda notte di nozze è caduto un silenzio un po’ sospetto. Eppure tra gli ultimi di Avati
questo è il racconto più riuscito e calibrato, soffuso di una
pazza poesia, quella dei matti di paese, quella dei pazzi
d’amore che sopravvivono ancora nel fondo devitalizzato
della provincia. E per quanto l’ambientazione sia quella
consueta (e un po’ desueta) del dopoguerra emiliano - che
qui però sfocia, grazie al road movie in Balilla, nella Puglia
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salvata dalla distruzione e ancora opulenta - il film, chissà
perché, non è mai antico. C’è, naturalmente, quel senso
delle piccole cose di pessimo gusto, le bomboniere preparate dalle zie, i confetti nuziali che candidi e glassati contrastano con il fango che si tira addosso Giordano/Albanese
mentre smina gli uliveti. E c’è, naturalmente, l’acre cattiveria che a Pupi Avati non difetta quando posa il suo sguardo
disilluso e nostalgico sul mondo: il ritratto sottotraccia
dello sgradevole Nino/Marcoré, la corte d’amanti sudati cui
la povera vedova Ricciarelli si concede frettolosamente per
tirare a campare, per ricavarne due patate e un piatto di
pasta scotta. Tutto è in equilibrio sottile e gentile, emozionante: la parte centrale in alcuni momenti sbanda, ma il
filo della poesia riprende tutto in mano, scena dopo scena,
inquadratura dopo inquadratura, fino alla rivelazione di
una possibilità d’amore che non segue i canoni. A convincere è la pervicacia con cui Avati costruisce, film dopo film,
il proprio universo senza mai tradirlo. Può interessarvi o
meno, ma la sua è una visione d’autore con in più il gusto
artigianale di seguire la storia e i suoi interpreti senza abbandonare la macchina da presa a se stessa e senza esagerare
in formalismi. Insomma, La seconda notte di nozze ti apre il
cuore con un tocco all’antica e una maestria di cinema che
si rischia troppo presto di liquidare con l’aggettivo “provinciale”. Fanno più chiasso, indubbiamente, le bestie nel
cuore. Ma per Avati il cinema non è improvvisazione.
(PIERA DETASSIS, Ciak, n. 11, novembre 2005)
I COMMENTI DEL PUBBLICO
lieve, dove niente è fuori posto ma che sa ache far pensare
sui valori.
OTTIMO
Bruna Teli - A mio giudizio, l’ultima opera di Pupi Avati è
un ottimo film che possono apprezzare soprattutto quelli
non più giovani che hanno conosciuto le difficili condizioni di vita nell’Italia del secondo dopoguerra. Il quadro per
nulla edulcorato che ci viene presentato ricorda la filmografia del Neorealismo. Al Neorealismo si riallacciano sia il
contenuto che la scelta degli interpreti, attori di varia provenienza, talvolta come la Ricciarelli alla sua prima prova
cinematografica, magistralmente diretti da Avati. La dedica ai bimbi morti per lo scoppio delle mine ci riporta ad
una tragedia che interessò il nostro Paese e che vide il
grande impegno di Don Gnocchi e della sua fondazione.
Lo spettatore è colpito dalle condizioni del Paese, caratterizzato da fame e da mancanza di valori e dagli esseri
umani che, afflitti dalla fame diventano abietti. L’unico
che si salva è il “puro di cuore” che fa l’artificiere per salvare vite umane ed è da sempre innamorato della cognata
ora vedova, che cerca di sopravvivere scendendo al sud, e
che lui accoglie generosamente. A lui si contrappone Nino
- Neri Marcoré, che incarna la tendenza di molti italiani
alla furbizia e alla disonestà. Infine non dimentico Marisa
Merlini e Angela Luce, perfette nella parte delle terribili
zie e la brava Ricciarelli. Concludo ricordando l’ambientazione credibile e affascinante e la bellissima colonna sonora di Riz Ortolani.
DA PREMIO
Mariateresa Risi - Storia originale ma ben meditata e ricca
di annotazioni delicate ma reali. La ricostruzione degli
ambienti e dei caratteri è magistrale. La scenografia accompagna con sicurezza e senza intoppi lo svolgersi degli eventi. La recitazione di Albanese e della Ricciarelli è ottima e
rende con naturalezza una situazione di per sé insolita.
Anche i personaggi minori sono ben delineati. Un film
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LA SECONDA NOTTE DI NOZZE
Arturo Cucchi - Di sicuro, il regista Pupi Avati, che conserva freschi nella memoria fatti, luoghi, facce dell’Italia povera
del 1945, con il film commedia “Seconda notte di nozze”,
quasi in flashback, in maniera smagliante, fidandosi delle
corde migliori della sua fantasia, dei suoi ricordi e della sua
poetica, sa raccontarci con verità una storia tenera e umanissima di due cognati. Il suo cinema mostra le esigenze primarie della gente semplice ma grande, con spiccata caratterizza-
zione dei vari personaggi. Troviamo la vedova Liliana Vespero, una sorprendente Katia Ricciarelli, garbata e bravissima in questo debutto, che, in difficoltà economiche, vive in
una chiesa assieme ad altri sfollati con il figlio Nino (Neri
Marcorè) ladro, imbroglione, mascalzone, che cerca persino
di vendere le grazie sue per fare soldi. Costretti ad abbandonare Bologna, raggiungono la Puglia e la ricca e bella masseria, dove abita il fragile cognato Giordano che, sebbene in
paese lo considerino un pò tonto (impersonato molto bene
da Antonio Albanese) sa, grazie ai suoi raccolti, dare da
mangiare a tutti. Di animo buono, si presta persino a sminare bombe belliche inesplose (“è meglio che lasci la pelle
lui che un altro!, si dice in paese”) attorniato da un crocchio
di bambini festanti, e riesce a completare la sua generosità
con una accoglienza generosa e dolcissima a Liliana che da
sempre ama. Ma due macchiette fantastiche, le temibili arcigne zie zitelle (Angela Luce e Marisa Merlini), che si dedicano a fabbricare confetti per i matrimoni, manterranno per
tutto il tempo il clima freddo e scorbutico della prima accoglienza e veglieranno invano per spiare sopratutto le mosse
della cognata. Lo zio intanto trova un lavoro per Nino presso un avvocato, e, con il passar del tempo, riesce a svegliare
in Liliana l’antica passione chiedendole la mano. Alla fine
commedia e melo sono uniti dalla metafora toccante della
bambina uccisa dalle mine. Il regista Avati sa sempre rivolgersi a un cinema della memoria che però non è nostalgia
ma veramente un ritratto penetrante e umano dei fatti del
suo tempo passato e che noi, pure della stessa età, confermiamo e amiamo.
Rosa Luigia Malaspina - Bello questo film di Pupi Avati,
d’altra parte come al solito, per me; dolcissimo, delicato,
magico, pieno di poesia. Pare vedere con gli occhi dell’anima la bellezza e posa uno sguardo benevolo sugli accomodamenti scombinati della vita. Protagonisti: una vedova
sfatta, uno sminatore “idiota”, un figlio malandrino e il
paesaggio dell’Italia in rovina del dopoguerra. La meschinità, l’avidità di persone che si direbbero normali, sono
poste in contrapposizione alla grandezza e generosità di
quelle stravaganti. Ma chi vive meglio e più profondamen-
te la propria vita? Disarmante la contrattazione dei confini
non superabili nel letto nuziale.
Piergiovanna Bruni - L’interpretazione degli attori è formidabile, così pure quella della Ricciarelli che è stata una piacevole sorpresa. Il tema è un pò quello dell’ironia della sorte
in momenti di estrema indigenza, trattati a volte in maniera
grottesca.
Poletti Umberto - Forse la morte di una bimba, saltata su
una mina, ha spinto il sempliciotto Giordano a disinnescare mine con una tecnica suicida. Ma qui stanno lo spirito e
l’umanità del film, che della seconda notte di nozze fa a
meno, come evento in sé. Gli eventi sono gli sfollati e i
coabitanti, la fame, le macerie del dopoguerra, le strade
“metaforiche” che non sai dove ti portano, perché in quegli
anni tutta l’Italia era stracciona, confusa, inselvatichita,
povera, mendicante. In questo ambiente avvilente, sopravvivevano e nascevano i nuovi furbetti, come quel simpatico
mascalzone di Nino e gli attori da circo pezzente. Per contrasto Giordano e Liliana sintetizzano quello che di buono
e di amaro riserva la vita: una vasta metafora del bene e del
male, della bontà al limite della stupidità, dell’affetto sincero, ma così difficile da trovare. Non è soltanto il racconto di “come eravamo”, ma anche intimamente di come
siamo, calati in ruoli talora non nostri, ma pur reali, fra
commedia e tragedia. Sperando che la mina della vita non
ti scoppi in faccia.
Anna Lucia Pavolini Demontis - Ben caratterizzata l’atmosfera del dopoguerra a Bologna e ben delineati i personaggi.
Non definirei “commedia” questo film perché tutto è intriso
di cruda realtà anche se piacevolmente arricchito di sovravivacità e talora di senso del ridicolo.
Letizia Ragona - Film molto italiano con i contrasti tra
nord e sud. Specialmente dopo i bombardamenti e prima
della liberazione. Ottima la regia e bravi quasi tutti gli interpreti (non è stata di mio gradimento la Ricciarelli). Una
menzione particolare ad Albanese e Marcorè.
LA SECONDA NOTTE DI NOZZE
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BUONO
Bruno Bruni - Neorealismo, figure grottesche, penose, con
la scusante dell’indigenza che veicola i più cattivi sentimenti, specialmente nelle nuove generazioni che vedono nella
truffa l’unico espediente per sopravvivere. Attori perfetti.
Una Katia Ricciarelli imprevedibile, molto appropriata nel
suo ruolo.
Sandro Vimercati - È un film che mi fa vedere come tutto
sia vero e possibile.
Grazia Agostini - Film ben diretto, ben recitato. Curiosa la
ripresa del secondo dopoguerra. Alla fine il contenuto mi
lascia perplessa...
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LA SECONDA NOTTE DI NOZZE
Dorigo Dora - È un film commedia a lieto fine. Bravi gli
attori, specialmente la Ricciarelli. È un ricordo di tempi
lontani.
DISCRETO
Lucia Fossati - Il film non mi ha convinto, forse per il contrasto fra l’ambientazione del primo dopoguerra abbastanza
realistica e la costruzione di personaggi irreali e quasi parodistici. Di Avati ho appena rivisto “Festa di Laurea” del
1985 e vi ho trovato gli stessi temi, specialmente il protagonista (là era Delle Piane qui Albanese): ugualmente assurdo
e irritante. Questo non toglie che gli attori siano bravi nell’interpretare secondo i desideri del regista.