Corrado Bevilacqua Da consumatori a cittadini

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Corrado Bevilacqua Da consumatori a cittadini
Corrado Bevilacqua
Da consumatori a cittadini
Diario politico delle ultime elezioni
Confesso d'essere preoccupato. La campagna elettorale va di male in peggio. dall'attacco
personale si è passati all'insulto. Ben donde. Scomparsi dalla scena ai vecchi partiti, a far
politica sono rimasti i singoli individui. Ciò non ha nulla da vedere con la politica. La nostra
costituzione parla di partiti e di elettorato attivo e passivo, cioè del diritto che spetta a ogni
cittadino di eleggere e di farsi eleggere come proprio rappresentante da d'altri cittadini.
In Italia, unico paese al mondo, i partiti sono stati sostituiti da un insieme di organizzazioni
incentrate su un singolo individuo che si presenta come rappresentante di se stesso. Ciò non è
solo anticostituzionale, ma anche antidemocratico. Dalla democrazia, grazie a Tangentopoli,
siamo passati alla demagogia. I signori che si presentano come futuri capi di governo non sono
dei rappresentanti di partiti politici, ma sono semplicemente dei demagoghi.
La democrazia è un'altra cosa. Democrazia è governo del popolo, con il popolo, sul popolo, per
il popolo. In Italia, il popolo è scomparso. Unico paese la mondo, il popolo va infatti a votare
non per dei partiti e per i loro programmi, ma per degli individui che hanno costruito delle
proprie organizzazioni, senza alcuna base popolare; ma semplici macchine destinate a
raccogliere voti che non vengono dati ad un programma, ad una storia politica, ad una cultura
politica, ma che vengono dati a dei singoli individui, i quali non devono rispondere a nessuno.
Essi, infatti, non rappresentano nessuno. Essi rappresentano solo se stessi e chiedono il voto
non in quanto rappresentanti di un partito ed in nome di un certo programma; ma in nome della
propria capacità di presentarsi agli elettori come rappresentanti del loro mal di pancia. Fare
politica, però, è un'altra cosa. Il vero politico non parla alla pancia degli elettori, ma al loro
cervello e lo fa in nome di un programma politico e di una propria storia politica.
La politica non è una cosa da comici o da pubblici ministeri. E' una cosa da politici, dove essere
dei politici, non vuol dire essere degli improvvisatori, ma vuol dire essere dei profondi
conoscitori dei meccanismi della politica, delle istituzioni, del loro funzionamento; in modo da
essere in grado, all'occorrenza, di trasformarle. Significa avere un programma politico pensato
in tutti i suoi aspetti.
Oggi, che succede? Succede che uno dei contendenti si alza alla mattina e sì inventa un
proposta da lanciare nel discorso che terrà il pomeriggio davanti a un pubblico di scimmie.
Questa non è politica. Questa è demagogia, parola d'origine greca con la quale si indica la
pratica politica tendente a ottenere il consenso delle masse lusingando le loro aspirazioni,
specialmente economiche, con promesse difficilmente realizzabili, vedi i 4 milioni di posti di
lavoro promessi da Berlusconi.
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La campagna elettorale è stata peggiore di quello che ci potevamo aspettare. Nessuna
discussione sui programmi. Nessuna visione del futuro. E tutto questo è avvenuto in un
momento in cui più che mai l'Italia bisogno di idee nuove, idee che sappiano trasformarsi in
forza materiale. La politica è prima di tutto un problema di idee, di valori, di programmi
politici. In altre parole, la politica è teoria. Senza teoria non si fa politica. L'uomo è un animale
che produce teoria. Il suo agire, anche più elementare, si basa su dei modelli di comportamento.
Invece, che succede? Succede che si parla a casaccio; si lanciano proposte senza capo né coda,
si fa della pura e semplice demagogia. La democrazia è altra cosa. Democrazia vuol dire
partecipazione, discussione, studio, diffusione del sapere. Apertura al nuovo, passione per la
ricerca del proprio passato. Nulla si crea al di fuori di una tradizione, affermò Martin Heidegger
in una famosa intervista a Der Spiegel, pubblicata nel 1976 con il titolo Solo un Dio ci può
salvare. Nulla che possa durare nel tempo. Così dovrebbe essere la politica.
Diceva Nietzsche che l'uomo è qualcosa che va superato. Tale superamento comportava una
trasvalutazione di tutti i valori. L'idea era suggestiva, però entrava in contraddizione con la sua
visione dell'eterno ritorno dell'identico. L'uomo attuale era l'uomo al tramonto. L'uomo nuovo
sarebbe stato completamente diverso. Egli sarebbe stato capace di stare in equilibrio sulla
cresta dell'onda, ovvero, sarebbe stato in grado di passare da una torre all'altra camminando su
una corda tesa tra le due torri, come scrisse in un passo famoso di Così parlò Zaratustra..
In questo quadro, Lenin fu il classico eroe nietzschiano; egli rappresentò infatti la quintessenza
del concetto di volontà di potenza; la sua concezione della politica era prettamente schmittiana
e verteva il rapporto amico/nemico. Così Guevara, quando scrisse che non essi non avevano
predso l poetre a Cuba per costruire delle belle fabbriche pulite, ma volevano instaurare il
socialismo per avere delle belle fabbriche pulite, ma per costruire l'uomo nuovo. L'uomo che
aveva trasvalutato tutti i valori ponendosi "al di là del bene e del male", l'anticristo".
La cosa più importante che noi abbiamo rifiutato di capire in nome delle sorti magnifiche e
progressive dell'umanità, riguarda il ruolo fondamentale svolto dal dolore nella nostra vita. Ma
leggiamo Nietzsche. "L'enorme tensione dell'intelletto che vuole fronteggiare il dolore fa che
tutto ciò su cui egli dirige lo sguardo risplenda di nuova luce" egli scrisse in Aurora. "Ciò ci fa
capire cosa vuol dire vivere.
Vivere significa , per dirla con il Nietzsche di Gaia scienza, "respingere senza tregua da noi
tutto ciò che vuole morire, ma per farlo, dobbiamo accettare di fare i conti con il nostro essere
gettati nel mondo; detto altrimenti, il nostro essere per la morte. La morte non è un file che si
può cestinare, né un virus che si può neutralizzare con un adeguato programma informatico. La
morte è il senso del non senso: è ciò che ci fa capire chi siamo, allo stesso modo del nostro
computer quando esso fa crash
Un tempo era d'uso paragonare l'uomo a una macchina. Penso a Cartesio, penso al suo saggio
sull'uomo, al suo studio sulle passioni dell'anima. Oggi il modello di riferimento è il computer.
Come dimostrarono Flores a Winograd molti anni fa, il modello del computer non è però, un
modello adeguato a rappresentare l'uomo. Posizione simile venne assunta da Johm Searle e da
Hilary Putnam. Tuttavia, il modello dell'uomo-macchina continua a tener banco, come continua
a tener banco la tradizione razionalistica alla quale esso si ispira.
In realtà, se l'uomo fosse un essere realmente razionale, avremmo risolto tutti i nostri problemi.
Purtroppo, non è così. Le scelte da noi compiute non hanno alcunché di razionale. come
dimostrò Freud. Il nostro comportamento è sempre soggetto all'azione dell'inconscio. In altre
parole, per usare una terminologia oggi di moda, ragioniamo con la pancia. La verità è che
nemmeno il nostro cervello è perfetto, come sanno neurofisiologi e biologi del
comportamento. La conseguenza di tutto ciò sarà che dalle urne elettorali uscirà una situazione
politica che renderà tutto più difficile e metterà a repentaglio il futuro del nostro paese.
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Siamo alla farsa. Napolitano nomina dieci saggi per stendere un programma di governo che
nessun politico italiano è intenzionato a realizzare. Non solo. Gli stessi saggi rilasciano
interviste nelle quali confessano di non credere nell'utilità del loro incarico. Grillo riunisce i
suoi parlamentari in una località segreta lontana dai giornalisti che il comico genovese non
vuole tra i piedi dopo aver condotto una campagna elettorale all'insegna della trasparenza.
Renzi attacca Bersani accusandolo di perdere tempo, come sta facendo Napolitano.
Bersani e Napoltano ribattono che loro non perdono tempo, meditano. Bersani e Napolitano
sono pericolosi quando meditano. Napolitano ha sul gozzo la disavventura del governo Monti
da lui voluto. Bersani e Berlusconi sono corresponsabili del disastro economico provocato da
Monti, in nome di una teoria sbagliata che fu causa della depressione degli Anni trenta.
In questo contesto si colloca il problema della scelta del successore di Napolitano. Qualcuno
vorrebbe D'Alema, il quale, dopo aver trombato Prodi in combutta con Cossiga, venne
trombato da Berlusconi. Come dire che non ne ha imbroccata una. Qualcun altr vorrebbe
Emma Bonino, la quale, però, ha poche probabilità di farcela, essendo donna.
Noi, però sbaglieremmo se attribuissimo la causa della crisi politica italiana soltanto alla
mancanza di uomini politici degni di questo nome. Gli uomini sono importanti. Più importante
degli uomini è, però, la cultura politica. In questo campo, noi italiani siamo alla frutta.
La prova è fornita dalle c.......te che si dicono sulla riforma della seconda parte della
Costituzione, quando da riformare dovrebbe essere la prima parte, a cominciare dalla
definizione di repubblica italiana, la quale dovrebbe essere così modificata: L'Italia è uno stato
federale .....
Cosa vuol dire, infatti, democrazia, libertà, uguaglianza, nell'era della globalizzazione? La
globalizzazione ha cambiato le carte in tavole creando delle situazioni affatto nuove. Queste
situazioni hanno creato una nuovo modo di vivere e di pensare; hanno creato, insomma, quello
che Elliott ha chiamato "Nuovo individualismo; hanno dato un'enfasi affatto nuova a quello che
già Pareto chiamava capitale personale. Hanno messo in crisi i ceti medi tradizionali e hanno
inferto dei colpi mortali alla classe operaia dei paesi capitalistici avanzati.
Infine è cambiato il nostro concetto di capitale che non può essere più inteso i termini di
quantità di moneta o di insieme di mezzi di produzione, ma deve essere inteso in termini di
organizzazione immateriale. La rivoluzione informatica ha prodotto un cambiamento
concettuale simile a quello prodotto dalla rivoluzione quantistica che spiazzò lo stesso Lenin, il
quale non la comprese; né avrebbe potuto farlo.
Lenin s'era formato alla scuola del materialismo classico. Materia era il legno con il quale era
stato costruito un tavolo. In altre parole, era qualcosa di realmente esistente, di palpabile, di
visibile. Ai politici nostrani sfugge il concetto di bene immateriale, ovvero, il concetto di
informazione. Così, non possono capire la società contemporanea che, com'è noto, è fondata
sull'informazione. Essi ignorano le teorie delle catastrofi e del disordine; sono rimasti dei
machiavellici, degli esegeti del "particulare".
A suo tempo, Enzo Tiezzi distinse fra tempi storici e tempi biologici. In realtà, occorrerebbe
distinguere fra tempi economici e tempi politici, non solo fra tempi storici e tempi biologici.
Per i nostri politici esiste solo il tempo della politica il quale è molto diverso da quello
dell'economia. Ciò apre una contraddizione che penalizza l'economia la quale, per funzionare
avrebbe bisogno di un governo in grado di tenere il passo con i cambiamenti che avvengono nel
campo dell'economia.
In altre parole, ci troviamo in una situazione nella quale, mentre la globalizzazione ha
accelerato i tempi dei cambiamenti economici e sociali, la politica continua a seguire dei tempi
che erano in voga prima della globalizzazione. Questa considerazione ci porta al punto di
partenza. Napolitano prende tempo, non sapendo che pesci pigliare, mentre Bersani continua a
non capire che nessuno lo vuole non per il suo passato di comunista, ma perché ha dimostrato
di non aver capito un accidente di quello che è avvenuto con le ultime elezioni politiche
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L'Italia è una repubblica. Che cosa vuol dire? Semplice. Repubblica è una forma di Stato in cui
il potere politico è esercitato da organi rappresentativi del popolo o di una parte di esso. In
generale, la repubblica viene contrapposta alla monarchia, in base alla considerazione che la
prima sarebbe caratterizzata dall’elettività e dalla temporaneità della carica di capo dello Stato,
laddove la seconda si caratterizzerebbe per l’ereditarietà e la durata vitalizia della carica (salvo,
ovviamente, abdicazione). Tuttavia, questo criterio non è esaustivo, dal momento che,
nell’ambito della storia dei regimi politici, non è raro il caso di monarchie elettive (come il
Regno di Polonia, o il Sacro Romano Impero dopo la riforma operata da Carlo IV di Boemia, o
lo stesso papato), o di repubblica a carattere ereditario (Siria o Corea del Nord).
Nell’ambito del pensiero politico moderno, la nozione di r. è stata utilizzata in alcuni casi come
sinonimo di democrazia – per es., da N. Machiavelli, che sostituisce alla classica tripartizione
delle forme di governo la bipartizione tra r. e principati –, mentre in altri è stata utilizzata in
contrapposizione a democrazia (così J. Madison, nei suoi Federalist Papers). Un momento
fondamentale nell’ambito del pensiero politico repubblicano è rappresentato dalla Rivoluzione
americana e dalla Rivoluzione francese, che segnarono il definitivo superamento delle tesi (per
es., di Montesquieu o di J.-J. Rousseau) che ritenevano le r. confacenti solo a Stati di piccole
dimensioni territoriali. Non c’è dubbio, però, che, da un punto di vista giuridico-costituzionale,
l’esperienza più fortemente caratterizzata dalla nozione di r. sia stata quella francese. È bene
ricordare, infatti, che i preamboli delle Costituzioni francesi del 1946 e del 1958 si richiamano
esplicitamente al 1789 e ai «principes fondamentaux reconnus par les lois de la République», e
che i documenti costituzionali del 1789-1791 erano già espressione di una ideologia giuridica
repubblicana, nel momento in cui dichiarano unica depositaria della sovranità la nazione,
degradando la figura del monarca a quella di primo funzionario dello Stato
Nell’ambito della esperienza costituzionale italiana, la nozione di r. viene richiamata più volte
nel testo costituzionale vigente, anche se con significati diversi. Il carattere repubblicano del
nostro regime politico si lega intrinsecamente alla forma di Stato democratica nel primo comma
dell’art. 1 Cost. («L’Italia è una R. democratica»), e la forma repubblicana (art. 139 Cost.)
costituisce un limite invalicabile alla revisione costituzionale. D’altra parte, la nozione di r.
viene richiamata anche per quanto riguarda i rapporti tra Stato e autonomie locali: secondo
l’art. 5 Cost., la R., una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali e favorisce il
decentramento e l’autonomia; secondo il nuovo art. 114 Cost., la R. è costituita da comuni,
province, città metropolitane, regioni e Stato. Più in particolare, la dottrina ritiene che la l. cost.
3/2001 abbia disegnato una R. delle autonomie, articolata su più livelli di governo, dei quali lo
Stato è sicuramente il più importante, ma non l’esclusivo. In ogni caso, nel testo costituzionale,
il termine r. viene anche utilizzato come sinonimo di Stato (art. 10, co. 3, art. 16, co. 2).
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Al referendum monarchia/repubblica, 10.718. 502 elettori, pari al 45,7 per cento dei votanti
complessivi votarono per la monarchia; 12.718641 elettori votarono per la repubblica. La repubblica,
perciò, vinse con il 54,3 per cento dei suffragi. Alle elezioni per l'Assemblea costituente, gli elettori
che al referendum avevano votato per la monarchia espressero il loro voto a favore dei partiti moderati
a cominciare dalla Democrazia cristiana.
All'Assemblea costituente, constatato che le posizioni erano radicalmente diverse, si decise, per il bene
superiore dell'unità nazionale, a giungere ad un compromesso fra cattolici, liberali, comunisti e
socialisti. Da questo compromesso nacque la nostra costituzione, che non è la costituzione più bella del
mondo, ma è semmai la più confusa; prova ne sia quanto essa statuisce a proposito dell'intervento dello
stato nell'economia che, da un lato, consentì allo stato italiano di produrre automobili, panettoni,
spaghetti, cioccolatini, gelati, acciaio, gas naturale; dall'altro lato, impedì che l'intervento dello stato
seguisse un piano economico atto a metter ordine nello sviluppo del paese. Per non parlare del
recepimento, da parte della Costituzione, e , quindi della Repubblica, del Concordato tra lo stato
italiano e la chiesa cattolica.
L'entrata in vigore della nuova costituzione non cambiò la "struttura materiale dello stato"; né impedì
che rimanessero in vigore i vecchi codici fascisti, salvo una ripulitura di facciata per renderli
compatibili con la nuova costituzione. In altre parole, vi fu continuità di strutture, di personale
amministrativo, di ideologie giuridiche, come se l'antifascismo non fosse mai esistito, come se Piero
Gobetti, Antonio Gramsci, Carlo e Nello Rosselli, Eugenio Colorni e tutte le altre vittime del fascismo
avessero speso la loro vita invano.
Considerate queste premesse, non ci si può meravigliare che le cose siano finite come sono finite. Non
ci si può stupire se in Italia fu non solo impossibile fare la rivoluzione - cosa che era stata esclusa da
Palmiro Togliatti sin dal suo discorso del 1942 nella sala del sindacato a Mosca; ma fu impossibile
anche fare le riforme che erano necessarie per modernizzare il paese. Pensiamo alla miseranda fine cui
andò incontro la riforma urbanistica proposta da Fiorentino Sullo nel 1962.
Per non parlare della cittadinanza che venne conferita ad un partito di smaccata fede fascista come il
Movimento sociale italiano. Stupisce, perciò, che la senatrice Finocchiaro riscopra soltanto adesso quel
tanto dibattuto articolo della costituzione che impone a partiti e sindacati la pubblica registrazione dei
propri iscritti, al solo fine di mettere al sicuro i poteri costituiti dalle insidie loro portate dal Movimento
5 Stelle.
La costituzione sulla quale la nostra repubblica si fonda, affida ai partiti politici, infatti, un compito
fondamentale: non a caso, uno storico profondo conoscitore sia dei partiti politici italiani che del
dibattito sulla costituzione, come Pietro Scoppola, definì la repubblica italiana una repubblica dei
partiti. Tale repubblica si sarebbe poi trasformata in "partitocrazia" e la "partitocrazia" avrebbe portato
alla attuale disaffezione dei cittadini italiani nei confronti della politica.
Per tutto il secondo dopoguerra, la politica italiana fu fondata su un servile filo-americanismo che, a
sua volta, si basava su quelo che il politilogo Giorgio Galli chiamò "bipartitismo imperfetto":
espressione con la quale Galli definiva un sistema politico caratterizzato dalla presenza di due grandi
partiti uno dei quali, il PCI, aveva finto per accettare la sua esclusione dalla possibilità di andare al
governo, consociandosi alla DC nella gestione del potere.
Tale pratica politica trovò il suo perfezionamento al tempo del governo della solidarietà nazionale che
ebbe uno dei suoi maggiori sostenitori nel segretario genrae della CGIL, Luciano Lama, detto LamabiLama per la sua adesione alla politica delle compatibilità economiche sostenuta dal premio
Nobel'economia Franco Modigliani e dal suo allievo, Enzo Tarantelli, ucciso dalle Brigate rosse perché
era stato accusato di essere nemico dei lavoratori. Stessa drammatica sorte toccò a D'Antona ed a Biagi,
due lavoristi sostenitori della necessità di flessibilizzare il mercato del lavoro.
Tutto ciò accadde avendo sullo sfondo la tragica vicenda del rapimento e dell'assassinio di Aldo Moro.
Presidente della DC, fautore del Centrosinistra prima, e dell'apertura al PCI, poi, Aldo Moro era uno
dei "professorini" che avevano scritto materialmente la costituzione della repubblica. La sua uccisione
per mano della Brigate rosse aveva perciò un alto valore simbolico Ciò rese più drammatico il dibattito
sul problema della trattativa con le Brigate rosse.
Il dibattito mise in campo due schieramenti: uno rappresentato dai "duri" i quali erano capitanati da
Andreotti e Berlinguer; ierà prt ldmun altro rappresentato dai "molli" i quali erano capitanati dai
socialisti di Bettino Craxi. Io trovavo il dibattito surreale. Le Brigate rosse non avevano infatti a mio
modo di vedere rapito Moro per restituirlo vivo. Lo volevano morto perché, a loro modo di vedere, solo
così avrebbero potuto infliggere allo stato italiano il colpo mortale.
Non fu così. Lo stato italiano resistette. La repubblica nata dalla Resistenza sopravvisse all'affaire.
Moro, come lo chiamò Leonardo Sciascia. A stroncare la repubblica fu la corruzione politica, furono i
"faccendieri", furono le furbizie d'una classe politica che aveva identificato la politica con i propri
interessi e s'era trasformata, nel migliore dei casi, in oligarchia; nel peggiore in casta. Oggi, ogni partito
ha i propri oligarchi, ogni oligarca ha i propri clientes. Manca solo un Bertolt Brecht che scriva la
versione italiana degli Affari del signor Giulio Cesare.
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Vita dura è quella dell'opinion maker, cioè di colui che è pagato, spesso profumatamente, per
fare opinione. A scadenza fissa, spesso settimanale, egli deve consegnare al giornale per cui
lavora, un pezzo su un argomento che si spera possa interessare l'opinione pubblica. Quella di
opinion maker è una professione relativamente. Essa è nata infatti con la stampa quotidiana e
con i quotidiani di opinione, da distinguersi dai quotidiani di partito.
Il Corriere della sera di Luigi Albertini era un quotidiano di opinione. L'Avanti di Benito
Mussolini era un quotidiano di partito. In realtà, il Corriere di Luigi Albertini dava voce agli
interessi degli industriali milanesi. L'Avanti di Benito Mussolini dava voce ai lavoratori che si
riconoscevano nel partito socialista italiano.
Un giorno, Benito Mussolini, ruppe con il partito socialista italiano e sostenuto dagli industriali
milanesi fondò una nuova organizzazione politica, i Fasci di Combattimento e pronunciò un
discorso, noto come il discorso di piazza san Sepolcro, che fece epoca, in quanto egli in quel
discorso disse le cose che molti italiani volevano sentirsi dire. A tale discorso, farà riferimento
Palmiro Togliatti, leader dei comunisti italiani, nella sua famosa Lettera ai fratelli in camicia
nera del 1936 in cui invitava i fascisti a ritornare al programma di piazza san Sepolcro.
Palmiro Togliatti, otto anni dopo avrebbe fatto scoppiare quella che Pietro Nenni chiamò la
"bomba Ercoli". Ercoli era il nick nane usato da Togliatti nella clandestinità e la bomba di cui
aveva parlato Nenni era la cosiddetta svolta di Salerno, con la quale Togliatti aveva annunciato
che i comunisti italiani non intendevano trasformare la guerra contro il fascismo in una guerra
di classe per l'instaurazione del socialismo in Italia.
Non solo, intendevano partecipare al nuovo governo assieme ai moderati e intendevano
"sollevare la bandiera italiana dal fango in cui l'aveva gettata la monarchia". Ora, tenendo conto
del fatto che nel mondo comunista non si muova foglia contro la volontà di Stalin, va da sé
pensare che Togliatti avesse preso quell'iniziativa in accordo con lo stesso Stalin di cui era stato
un fedele servitore nei suoi lunghi anni di esilio a Mosca.
A Mosca i rappresentati dei "partiti comunisti fratelli" erano alloggiati all'hotel Luxor, da dove
molti di essi furono portati via dalla polizia segreta e fatti sparire o alla Lubianka o in qualche
campo di gioia e di lavoro del Gulag staliniano. I campi di concentramento staliniani si
distinguevano da campi nazisti come Auschwitz-Birkenau che era un "campo di morte
immediata". Essi erano campi di "morte differita", come la maggior parte dei campi di
concentramento nazisti.
La vita si svolgeva in quei campi nel modo raccontato da Alexander Solzenitsyn in La giornata
di Ivan Denisovic, da Evghenija Ginzburg in Viaggio nella vertigine, da Valerian Salamov in
Kolyma, dove egli narra la morte del poeta Osip Maldelstam. Togliatti aveva sempre saputo
dell'esistenza dei suddetti campi di concentramento e aveva sempre saputo anche che molti
comunisti italiani erano caduti nelle grinfie di Stalin e della sua polizia segreta, ma non mosse
un dito per salvarli.
Il primo a parlare di queste vittime nel dopoguerra fu Alfonso Leonetti in una serie di articoli
pubblicati su Il mondo e successivamente raccolti in un volumetto dal titolo Comunisti italiani
vittime dello stalinismo in Urss. Alfonso Leonetti era noto nel mondo comnista per essere stato
uno dei tre espulsi dal Pci al tempo della "svolta del '30". Gli altri due furono Tresso e
Ravazzoli.
Nessun dirigente comunista ha mai osato criticare il comportamento di Togliatti. Anzi, esso
venne giustificato affermando che in quel modo Togliatti aveva voluto salvaguardare il partito
dalle epurazioni staliane. Sia come sia, l'argomento ritornò di attualità nel 1977. Allora,
lavoravo in un quotidiano della "nuova sinistra" e mi venne affidato l'incarico di fare u pezzo
sulle nuove rivelazioni inerenti il comportamento di Togliatti durante gli anni del suo esilio
moscovita.
Io, presi la mia agenda, e cominciai a fare una serie di telefonate a storici, politologi,
sovietologi e tutti mi risposero alo stesso modo. Non si trattava di uno scoop, ma si trattava di
cose sapute e risapute. La risposta pià simpatica mi venne data da Vittorio Foa il quale mi
chiese quanti anni avessi. Perché? - chiesi, a mia volta. Perché tutti coloro che hanno la mia
età, rispose Foa e hanno fatto politica a quel tempo, hanno sempre saputo dei comunisti italiani
trucidati da Stalin. E aggiunse. Scrivi pure che te l'ho detto io.
Ora, qualcuno potrebbe chiedermi, cosa c'entra tutto questo con il problema da cui siamo
partiti. Apparentemente c'entra come i cavoli a colazione. In realtà, anche in cavoli possono
essere presi in considerazione per una colazione fuori del comune: rognoni padellati. Alfonso
Leonetti affidò le proprie memorie a libri come Un comunista e Il cammino di un ordinovista.
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Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto questa mattina al Quirinale il Presidente
del Consiglio EnricoLetta, con il Ministro per le Riforme Quagliariello, e il Ministro per i Rapporti con
il Parlamento Franceschini. Poi ha incontrato anche il vicepremier e segretario Pdl Alfano. Di ieri
l'ultimo richiamo dal Quirinale ai partiti a fare le 'scelte urgenti', a non scivolare 'verso l'inconcludenzà.
In 18 mesi le riforme devono essere fatte, spiega il ministro Zanonato, e sono quelle istituzionali che ci
danno una legge elettoralediversa, che consenta al Paese di avere una governabilità certa'.
Procedere a tappe serrate sul percorso delle riforme. Varare, forse già la prossima settimana e
comunque prima del termine di fine giugno indicato dal Parlamento, il ddl costituzionale che disegnerà
l'iter delle modifiche costituzionali. E' l'intenzione ribadita, secondo quanto si apprende, dal premier
Enrico Letta e dai ministri Gaetano Quagliariello e Dario Franceschini nel colloquio di questa mattina
al Quirinale con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Nell'incontro al Quirinale si sarebbe parlato anche della commissione di esperti sulle riforme, che
dovrebbe essere nominata con un decreto della presidenza del Consiglio già questa settimana. La
composizione dell'organo, che avrà funzioni soltanto consultive, rientra nella piena discrezionalità del
governo. L'orientamento espresso al capo dello Stato sarebbe al momento quello di invitare a farne
parte venticinque 'teorici e pratici del diritto', tra i quali alcuni dei 'saggi' nominati dopo le elezioni da
Napolitano.
Il ddl costituzionale che disegnerà l'iter delle riforme dovrebbe approdare sul tavolo del Cdm già questa
settimana, nel corso della riunione attesa per venerdì. E' quanto si apprende da fonti di governo,
secondo le quali l'intenzione, anche in risposta alle sollecitazioni del Colle, é di varare il testo il prima
possibile.
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"Sto girando la Sicilia inseguito dalle tv, dai cameraman: siete in onda su 'Piazza pulita'. Vanno in giro
con truppettine" a cercare "qualcuno che odia il movimento e lo mandano in onda contro cinque stelle",
ha detto Beppe Grillo a Leonforte, nell'Ennese, tornando ad attaccare la televisione, facendo
'circondare' un cameraman dai presenti perché, ha detto, "io ho il diritto di non essere ripreso". "Noi
abbiamo un cartello e lo dobbiamo mettere davanti a quei signori davanti alla telecamera" ha aggiunto,
durante un comizio per le comunali in Sicilia, davanti a diverse migliaia di persone. Poi ha chiesto a
"'Vermigli' di fare un servizio sulla tua televisione, chi l'ha comprata, anche a chi l'hanno regalata...".
"Il 'nano' va eliminato - ha proseguito Grillo - non lo fa la sinistra, lo faremo noi, con le prossime
elezioni. Al prossimo voto ci saremo soltanto noi e Berlusconi, e vinceremo. Faremo come la
Protezione civile, governeremo sulle macerie che hanno lasciato.... Hanno paura di noi, per questo
mandano quei cessi a parlare di noi in televisione".
"Piazza Pulita - ha scritto poi il leader M5S su Twitter - ha il diritto di riprenderci, noi di ricordargli che
siamo al 57mo posto nel mondo per informazione". Beppe Grillo ha citato la scritta 'Informazione
italiana 57esimo posto' che c'era sul cartello che ha fatto mettere davanti la telecamera di 'Piazza Pulita'
che a Leonforte, nell'Ennese, stava riprendendo un comizio del leader del M5s.
"Uno spazio pubblico diventa partito quando in qualche misura quella identità soggiacciono ad alcune
regole che devono valere per tutti. Tre su tutte: il principio di maggioranza (si può decidere a
maggioranza); leader forte sì ma organi collegiali in cui si discute e ci si guarda in faccia, avendo
ascoltato tutti; senso di fraternità, Walter la chiama comunità, dove la passione o l'interesse del leader
viene messa al servizio di un destino comune", così parlò Guglielmo Epifani alla presentazione
dell'ultimo libro di Walter Veltroni.
"Uno dei limiti profondi del nostro Paese è lo stato del sistema politico nella sua fragilità ma anche un
sistema istituzionale in perenne transizione che non arriva mai in fondo". "Abbiamo un sistema
istituzionale - ha aggiunto - che di volta in volta tenta di metter qualche aggiustatina".
"Va bene un partito leggero, inclusivo, non burocratico, ma ci vuole un partito che abbia un'identità
forte", ha spiegato Epifani. Questo, ha evidenziato, determina la "fragilità" del Pdemocrazia Ed Epifani
lo ha paragonato ad un "fiume che vive dei suoi affluenti anche dopo che sono confluiti in esso".
"In Italia tolto il Pd abbiamo una serie di partiti personali che, lo dico con rispetto nei confronti dei loro
leader, sono i partiti più anti-democratici che esistono perché dipendono dai destini del leader". Epifani
ha sottolineato come questo sia "preoccupante" perché si determina una asimmetria che non esiste in
nessun altro Paese europeo.
Ora, io avrei alcune osservazioni da fare a proposito dell'affermazione di Epifani circa il Pd che sarebbe
l'unico partito democratico. A quel che si vede, esso è un partito di oligarchi. Le primarie sono una
foglia di fico che servono a coprire le malefatte degli oligarchi, i quali hanno rifiutato di votare Rodotà,
hanno bruciato Marini, hanno umiliato Prodi il quale era stato a sconfiggere Berlusconi in regolari
elezioni politiche, che sono quelle le contano.
Le primarie sono un vezzo americano che non risolve il problema vero che è quello della mancanza dì
una classe politica degna di questo nome come la nomina di Epifani a segretario del Pd dimostra. Non
sono riuscito a sentire ancora dai dirigenti del Pd un discorso politico nel senso vero e proprio della
parola. Dalla loro bocca non è uscito ancora un progetto di società nel significato politico del termine,
che non è quello di ragionare in astratto ma di porre dei paletti teorici.
Non chiedo agli oligarchi del Pd di pronunciarsi su Rwals, Dworkin, Nozick, Dahl, Walzer, che per loro
sono solo dei nomi di illustri sconosciuti. Chiedo loro di dire in modo chiaro e preciso cosa intendono
fare del loro partito, quali progetti hanno per il nostro paese, perché essi non l'hanno ancora detto.
L'occasione giusta per dirlo sarebbe stata la campagna elettorale, ma l'allora segretario del partito
Pierluigi Bersani, troppo preoccupato a smacchiare il giaguaro, se l'è dimenticato.
Un fatto comunque è certo. Nella crisi del Pd si riflette la crisi politica di un paese allo sbando, in balia
degli eventi a difenderlo dai quali non basterà l'azione ai limiti della Costituzione di Giorgio
Napolitano, il quale sembra avere fretta di passare lo scranno del Quirinale a Silvio Berlusconi, come si
evince dai suoi ultimi interventi nei confronti del governo Letta, il quale sa di poter sempre contare
sull'appoggio dello zio, braccio destro dello stesso Berlusconi.
Se in Italia lo stato non funziona, non è colpa della Costituzione. Lo stato non funziona perché
non ha mai funzionato. E non ha mai funzionato perché è sempre mancato agli italiani il senso
dello stato, l'idea di appartenere ad uno stato; perché in Italia ha sempre prevalso e continua a
prevalere l'attaccamento al "particulare". Perché il Risorgimento prima, la Resistenza poi,
hanno mancato l'obiettivo di dare agli italiani una coscienza nazionale.
***
Molti anni fa l'economista britannico Michael Kidron coniò l'espressione warfare capitalism per
evidenziare il ruolo fondamentale che a suo dire aveva svolto la spesa militare nel miracolo economico
capitalistico del secondo dopoguerra. Il primo, però, a porre il problema del complesso militare
industriale fu nientemeno che il presidente degli Usa, John Dwight Eisenhower nel suo farewell speech
con il quale passava le consegne a John Fitzgerald Kennedy.
Nel corso degli anni, numerosi studiosi si sono occupati del problema e qualcuno di essi si chiese se
non fosse il caso di cambiare nome al sistema economico e sociale esistente e di chiamarlo non più
capitalismo, ma pentagonismo, da Pentagono, simbolo del potere militare Usa. Negli stessi anni, Harry
Magdoff, della Monthly Review. la famosa rivista socialista americana fondata da Paul Sweezy e da
Leo Huberman, pubblicò The Age of Imperialism, un saggio in cui dimostrava il ruolo fondamentale
svolto nella politica americana dal suddetto complesso militare industriale.
L'Italia non fu seconda. Essa era ed è uno dei maggiori produttori ed esportatori di armi, alla faccia
della Costituzione che stabilisce che l'Italia aborre la guerra come strumento di offesa e mezzo per la
soluzione delle controversie internazionali. Malgrado ciò, l'Italia partecipò alla prima guerra del Golfo,
nel corso della quale si fece abbattere dagli iracheni l'uno aereo delle forze d'invasione che essi
riuscirono ad abbattere. E, auspice il governo D'Alema, essa partecipò alla guerra contro la repubblica
federativa di Jugoslavia.
Il complesso militare industriale fu il promotore anche della seconda guerra del Golfo grazie all'azione
dei suoi uomini presenti nel governo americano e non si trattava di due membri qualsiasi, ma si trattava
del vicepresidente Dick Cheney, il quale aveva affermato che la guerra contro l'Iraq sarebbe stata "una
passeggiata mangiando il gelato"; e del segretario alla difesa, Donald Rummy Rumsfled, inventore
della flexible force strategy con la quale riformava la precedente overwhelming force strategy.
elaborata da Colin Powell quando egli era, per dirla in italiano, capo di stato maggiore della difesa.
In Italia, a parlare di queste cose, si rischia l'accusa fascista di vilipendio delle forze armate, laddove è
chiaro come la luce del sole che le forze armate sono state, dai tempi della guerra di Troia, state al
servizio del potere politico il quale agiva in nome e per conto del potere economico - circostanza questa
che ha sempre impedito la possibilità di fare un discorso serio sulla conversione dell'industria bellica in
industria civile.
Chiarito ciò, passiamo alla cronaca. Con l'omaggio del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, alla tomba
del Milite Ignoto al Vittoriano, sono cominciate le celebrazioni per la Festa nazionale della Repubblica.
"Le Forze armate al servizio del Paese" è il tema della rassegna di quest'anno. Napolitano è giunto
all'Altare della Patria accompagnato dal ministro della Difesa Mario Mauro e dal capo di Stato
maggiore della Difesa Luigi Binelli Mantelli.
Sulle scale del Vittoriano, a ricevere il capo dello Stato, tra gli altri, il presidente del Senato, Piero
Grasso, quello della Camera, Laura Boldrini, il presidente del Consiglio, Enrico Letta, il sindaco di
Roma Gianni Alemanno e il presidente della Regione Nicola Zingaretti. La banda dell'Esercito ha
quindi intonato l'Inno nazionale. Dopo l'alzabandiera solenne e la deposizione di una corona d'alloro
sul sacello del Milite Ignoto, Napolitano ha lasciato Piazza Venezia per passare in rassegna le truppe.
Alla parata in circa 3.300, tra militari e civili, ma niente cavalli, aerei e neppure le Frecce Tricolori.
Anche i mezzi ridotti all'osso, in un'ottica di sobrietà e di austerity. Un'edizione che ricalca grosso
modo quella dell'anno scorso, quando motivi economici imposero di dimezzare i numeri della parata
2011.
Come già successo il 25 aprile il presidente della Repubblica è rimasto alla base della scalea del
Vittoriano, insieme alle altre autorità: solo i corazzieri sono saliti al sacello del milite ignoto per
deporre la corona. E' quella che viene definita deposizione della corona "in forma staticà e che, secondo
quanto si è appreso, verrà adottata d'ora in avanti.
Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, tra gli applausi della gente, ha raggiunto via del Fori Imperiali
a bordo della Flaminia presidenziale scoperta, scortato dai corazzieri in motocicletta posto sul palco
presidenziale dove sono presenti le massime autorità dello Stato. A rendergli gli onori un reparto di
corazzieri che, anche per questa edizione della parata segnata dall'austerity, sono a piedi e non a
cavallo. I costi sono stati stimati in un milione e mezzo di euro, contro i 2 milioni del 2012 e i 4 milioni
e 400 mila del 2011.
Qualcuno si ripara dal sole con un ombrellino, altri sventolano bandiere tricolori. I cittadini che stanno
assistendo alla parata del 2 giugno su via dei Fori Imperiali sono uomini, donne, anziani e bambini. A
chi chiede loro perché si trovano qui, molti rispondono "per passione". "Ero un militare - racconta
Gianluca - e sono qui per la passione che ho per l'Esercito, per questa festa che vedo come mia.
Bisogna onorarla tutti gli anni perché per questa bandiera sono morte persone. Bisogna onorarla tutti i
giorni e soprattutto oggi". Gli fa eco Francesco, catanese d'origine: "Sono venuto a Roma per assistere
a una bella manifestazione, per vedere un po' di popolo romano. La giornata è bella, l'unica cosa che
non mi piace è questa austerità". Stefania, dietro le transenne di via dei Fori Imperiali spiega di essere
qui per "una passione per i valori dello stato e il corpo militare". Il 2 giugno secondo lei "ha un
significato di appartenenza allo Stato".
"Circondati dall'affetto della popolazione, essi hanno sfilato in modo impeccabile, ben rappresentando,
con la compostezza del portamento, un Paese orgoglioso della propria storia e della propria cultura e
determinato a superare l'attuale difficile contingenza": così Napolitano in un messaggio al ministro
Mauro sulla parata. "La tradizionale Parata militare ha consentito anche quest'anno di unire cittadini e
istituzioni nella celebrazione della nascita della Repubblica", ha detto Napolitano sottolineando la
"determinazione" dell'Italia ad uscire dalla "difficile contingenza".
"In un contesto mondiale globalizzato, segnato da mutamenti profondi, da grandi progressi e insieme
da nuove minacce nonchè dal permanere di antiche tensioni, le missioni di stabilizzazione intraprese
dalle organizzazioni internazionali di cui l'Italia è parte attiva costituiscono un contributo essenziale
alla causa della pace, del progresso sociale e della collaborazione fra i popoli". Lo scrive il Presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano nel messaggio inviato al Capo di Stato Maggiore della Difesa,
Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, in occasione della Festa della Repubblica. "Rivolgo il mio pensiero
deferente - dice Napolitano - alla memoria dei militari italiani che in ogni tempo e luogo hanno perso la
vita al servizio della Patria: ieri, nel lungo e travagliato percorso che ha reso l'Italia una nazione libera e
democratica; oggi, in paesi attraversati da conflitti e devastazioni, in aiuto a popolazioni sofferenti che
nella presenza delle Forze armate italiane trovano motivo di speranza e di fiducia. Il prestigio dell'Italia
nel consesso delle nazioni dipende in misura rilevante dall'operato sul campo - al servizio della
comunità internazionale - dei nostri militari, cui sono unanimemente riconosciuti professionalità,
impegno, umanità". "Alle grandi sfide emergenti - conclude il Presidente della Repubblica - le Forze
armate italiane rispondono con concretezza e dinamismo, attraverso una radicale ed innovativa
revisione dello strumento militare come quella di recente avviata,ispirata a criteri di qualificazione
della spesa, razionalizzazione interforze e integrazione europea. Quest'ultima può e deve concorrere
all'auspicata unità politica del continente. Ai soldati, marinai, avieri, carabinieri e finanzieri, di ogni
ordine e grado ed in modo speciale a quanti in questo giorno di festa sono impegnati nei teatri
operativi, giungano la gratitudine del popolo italiano e un fervido augurio. Viva le Forze armate, viva la
Repubblica, viva l'Italia!"
Il presidente Napolitano, conversando con i giornalisti nei giardini del Quirinale, ha espresso
"apprezzamento per quello che hanno fatto le forze politiche", riferendosi alla decisione di formare un
governo di larghe intese. "Una scelta che comporta sacrifici da parte dei singoli partiti, una scelta - ha
aggiunto Napolitano - eccezionale e senza dubbio a termine". Il presidente della Repubblica ha
ricordato infatti che quello delle riforme è "un processo molto complesso" e quindi è "importante tenere
il ritmo". Il Capo dello Stato, rispondendo ai giornalisti, ha spiegato che quando ieri ha dato
appuntamento al prossimo 2 giugno per avere un'Italia serena, non intendeva assolutamente fornire una
tempistica alle riforme. Ciò detto, Napolitano si è detto sicuro che "da qui ad un anno si capirà a che
punto siamo, e allora tra un anno sarà chiara che l'Italia si è data una prospettiva più serena e sicura.
I partiti non devono essere più attaccati "alla propria bandiera, al proprio modello", di legge elettorale:
"questa volta bisogna uscirne" e ciò non significa che si debba tornare per forza "ad un proporzionale
puro", ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, parlando con i giornalisti. Non dirò
nulla sul contenuto delle riforme istituzionali" e su questo tema, sia oggi che nel futuro, "resterò
assolutamente neutrale ", ha aggiunto il presidente Napolitano dai Giardini del Quirinale. Resistendo
alle diverse domande dei giornalisti sul tema del presidenzialismo, il Capo dello Stato ha preferito
ricordare che "questa questione è all'ordine del giorno della Commissione che si sta costituendo e sarà
discusso nel comitato di esperti". Solo allora, ha aggiunto il presidente, "si entrerà nel merito". Infatti il
presidente ricorda a tutti che è quella la sede per affrontare il complesso tema delle riforme. A chi gli
faceva osservare il segretario del Pdl, Angelino Alfano, ha rilanciato oggi il presidenzialismo, Giorgio
Napolitano si è limitato a replicare: "ognuno ha le sue convinzioni".
"Circondati dall'affetto della popolazione, essi hanno sfilato in modo impeccabile, ben rappresentando,
con la compostezza del portamento, un Paese orgoglioso della propria storia e della propria cultura e
determinato a superare l'attuale difficile contingenza": così Napolitano in un messaggio al ministro
Mauro sulla parata. L'elezione diretta del capo dello Stato? "Noi ci abbiamo provato l'anno scorso e
purtroppo siamo riusciti solo al senato e non alla Camera. Adesso penso che potremo farcela perché
anche da parte del Pd si stanno aprendo significativi spiragli". Lo ha detto il vicepremier e Ministro
dell'Interno Angelino Alfano rispondendo ai giornalisti al termine della parata per la festa della
Repubblica. "Questa - ha proseguito - sarà anche un'ottima scelta per aumentare l'affetto dei cittadini
nei confronti delle istituzioni".
A chi gli chiedeva cosa ne pensasse dell'elezione diretta del capo dello Stato Alfano ha risposto: "Noi lo
diciamo da tempo: siamo assolutamente d'accordo e nel 2012 abbiamo fatto una grande battaglia. La
strada giusta - ha proseguito - è quella secondo cui i cittadini devono poter eleggere il presidente della
repubblica. Se viene eletto direttamente dal popolo i cittadini potranno partecipare ad una grande gara
democratica come succede in Francia e in America". Alfano ha sottolineato che "gli italiani già
guardano con favore a quelle gare democratiche, quando si sceglie il presidente degli Usa o della
Francia. Perché non consentirlo anche a loro?".
Zero tasse agli imprenditori che assumono disoccupati; via l'Imu e non aumento dell'Iva;
semplificazioni per chi vuole investire: "Se queste azioni funzioneranno noi potremmo avere una bella
speranza per la seconda metà del 2013", ha detto il vicepremier Angelino Alfano. "Noi dobbiamo dare
lavoro ai giovani - ha detto Alfano, parlando con i giornalisti al termine della parata per la festa della
Republica e abbiamo una ricetta che può immediatamente offrire la possibilità che questo lavoro si crei,
e cioé - ha spiegato - zero tasse per gli imprenditori che assumono giovani disoccupati. Chi assumerà
questi ragazzi insomma non dovrà pagare quelle tasse che fin qui hanno rappresentato un disincentivo
all'assunzione". Inoltre, ha proseguito Alfano: "Attraverso le politiche fiscali di detassazione, come nel
caso dell'eliminazione dell'Imu, o di non appesantimento fiscale, come il non aumento dell'Iva, si può
ambire ad una ripresa dei consumi che è capace a sua volta di generare nuova intrapresa". Infine, "terzo
ambito su cui puntiamo molto - ha aggiunto il ministro dell'Interno - è quello delle semplificazioni. Chi
ha degli euro in tasca e vuole investire deve poterlo fare immediatamente senza incorrere nei lacci e nei
lacciuoli della burocrazia". "la nostra previsione è positiva", ha concluso il ministro: "Se queste azioni
funzioneranno noi potremo avere una bela speranza per la seconda metà del 2013".
Il Consiglio dei ministri ha fatto "una importante proposta che riguarda il finanziamento pubblico dei
partiti e speriamo che il parlamento proceda rapidamente. Poi sarà il turno della legge elettorale, subito
dopo le riforme costituzionali". Lo ha detto il vice premier Angelino Alfano, sottolineando che con la
proposta del governo "abbiamo superato questi 20 anni di finanziamento pubblico per come sono stati
conosciuti".
Continuano i malumori nella maggioranza sulla proposta varata in consiglio dei ministri per
l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. I renziani criticano apertamente la legge e il ministro
Bonino arriva a ipotizzare un referendum. Le opposizioni continuano a gridare alla truffa, e Letta taglia
corto: "Il finanziamento pubblico ai partiti è un tema su cui si deciderà. A chi non piace la proposta
presentata ieri, ne faccia altre, ma il tema é da affrontare". La prima ad esprimere i suoi mal di pancia è
il ministro degli Esteri. Sul finanziamento pubblico, dice Emma Bonino, c'é stato "l'inizio di un
processo compromissorio, ma non sono così fiduciosa che l'arrivo del ddl in parlamento migliori o
chiarisca la situazione... Credo che i radicali potrebbero lanciarsi in una nuova campagna referendaria"
per abrogarlo. Nel governo, il ministro della Difesa Mario Mauro (Sc) chiede un tetto per le spese dei
partiti, per evitare "l'avvento di una plutocrazia". Il collega Giampiero D'Alia chiede il tetto anche per
le donazioni, oltre a una legge per le lobby (legge chiesta anche da Pino Pisicchio di Centro
democratico). Matteo Renzi si tiene prudente: "Io sono un sostenitore dell'abolizione del finanziamento
pubblico ai partiti da una vita. Ma non commento ciò che fa il governo", perché "ogni volta succede un
casino". I suoi parlamentari si sbilanciano di più.
"Il meccanismo del 2 per mille mi sembra prefiguri una sorta di obbligatorità che non mi piace affatto",
dice il senatore Pd Andrea Marcucci, e la collega Rosa Maria Di Giorgi ribadisce "devono scegliere i
cittadini, non possono esserci automatismi". Scontata l'approvazione del deputato lettiano Francesco
Boccia ("riforma coraggiosa e innovativa"). Ma il suo collega Daniele Marantelli osserva che "in
decenni di attività politica non ho mai incrociato eserciti di benefattori privati disinteressati". Anche fra
i parlamentari Pdl la proposta del governo suscita perplessità. Il capogruppo alla Camera Renato
Brunetta propone che il 2x1000 "non optato" non vada ai partiti e che la stessa regola si applichi per
l'8x1000 alle confessioni religiose. Il senatore Carlo Giovanardi reagisce stizzito, "non si possono
confondere" le due cose, dice, ma Brunetta rimane della sua idea. "Legge dettata da una certa frenesia
populista che non ci porterà da nessun parte", commenta il senatore Francesco Giro. Per la deputata
Elena Centemero c'é il rischio di "rendere la politica esclusivo appannaggio di lobby e ricchi".
All'opposizione, Beppe Grillo continua a sparare a zero: "Il finanziamento pubblico ai partiti è vivo e
vegeto". Per Nichi Vendola quella del governo è "una riforma lontana dal'Europa e con elementi di sola
propaganda", mentre per Luca Zaia "si abbia il coraggio" di abolire "subito" il finanziamento pubblico
"e non si aspetti il 2016". Antonio Di Pietro parla di "mossa propagandistica", mentre il suo ex alleato
Antonio Ingroia è l'unico all'opposizione a giudicare positivamente il disegno di legge: "E' un buon
punto di partenza".
"Ho fatto la Tv per 40 anni, la tv fa male non per quello che viene detto ma per quello che si vede. Noi
non andremo in tv, noi la occuperemo". Lo ha detto Beppe Grillo ad un comizio a Marina di Ragusa,
frazione di Ragusa, per le Comunali in Sicilia. "Napolitano, fatti in esame di coscienza, andavi da
Roma a Bruxelles con un volo da 66 euro e te ne facevi rimborsare 800, non hai infranto la legge, ma
l'etica si". Lo ha detto Beppe Grillo, intervenuto a Marina di Ragusa ad un comizio per le Comunali in
Sicilia. "Sempre a dire che i grillini - aveva prima detto Grillo - sanno solo dire di no, noi da quando
siamo in Parlamento abbiamo fatto le leggi ma la stampa non lo dice, ci hanno copiato il programma e
poi volevano i voti dei nostri parlamentari per raggiungere il quorum. Se volevano mandare a a casa
Berlusconi, dovevano votare Rodotà e Prodi, invece, hanno fatto altre scelte, eleggendo Napolitano che
ormai solo vigila. Sono accusato di vilipendio perché lui, mentre si raddoppiava la carriera, ha dato
mandato alla Cancellieri di andare a casa di 21 giovani per avere detto cose sgradevoli al presidente
della Repubblica".
"Lo Stato non sa più dove prendere i soldi e specula sulla povera gente, siamo dalla parte dei cittadini
che vogliono togliere le macchinette del gioco d'azzardo dai centri commerciali. E' uno Stato che crea
ansia, che ricatta e che manda la Guardia di Finanza a controllare i bed and breakfast mentre si fa
scappare 21 miliardi dal Monte dei Paschi di Siena". Lo ha detto Beppe Grillo in una tappa del suo tour
per le comunali a Marina di Ragusa.
"Questo Paese sta esplodendo, è finito dal punto di vista economico e politico: siamo nelle macerie".
Lo ha affermato Beppe Grillo in un comizio a Marina di Ragusa a sostegno del Movimento 5 stelle per
le Comunali in Sicilia. Il leader del M5s è tornato ad attaccare il giornalisti, il Pd di avere voluto
l'accordo col Pdl, a definire il presidente del Consiglio, Enrico Letta, "uno che per 20 anni è stato lì, a
10mila euro al mese, al fare il nipote di suo zio" Gianni. Grillo sta parlando davanti ad una platea di
centinaia di persone.
"Il governo fa solo proclami e si balocca con il presidenzialismo, la legge elettorale che verrà sotto gli
occhi vigili di Napolitano, la presa per il culo del falso taglio al finanziamento dei partiti,la legge per
eliminare M5S dal parlamento, la nuova Costituzione e altre amenità". Lo scrive Beppe Grillo,
sottolineando che l'Italia è al collasso. Il titolo del post è "L'Italia è come un cammello", e scrive Grillo
in conclusione, "il cammello Italia collasserà e gli italiani, ignari, lo verranno a sapere in prima serata,
dopo la pubblicità e prima degli elicotteri". Per Grillo, infatti, "Capitan Findus Letta" fa parte dei
"venditori di miraggi". "Il cuore dell'uomo - premette - è come un cammello che, se debilitato, può
morire all'improvviso sotto sforzo, senza dar prima alcun segno. Il nostro cuore sopporta qualunque
cosa, compensa ogni problema del corpo e poi cede di schianto. L'Italia è come un cammello. Nelle
gobbe non ha più acqua e davanti un deserto che sembra non avere fine". "Secondo uno studio della
Cgil - sottolinea - ci vogliono 13 anni per tornare al Pil del 2007 e 63 anni per avere lo stesso livello di
occupati. Sessantatre anni? Sembra la marcia di Mosé nel deserto del Sur verso la Terra Promessa. La
disoccupazione (ufficiale) è del 12,8% (in realtà considerando gli scoraggiati, chi il lavoro non lo cerca
più, è intorno al 20%). La peggiore dal 1977. I giovani disoccupati sono il 40%. Il Sud è diventato terra
di emigrazione come nell'Ottocento. Il debito pubblico batte ogni mese un record, a marzo è arrivato a
2034 miliardi di euro, un aumento di 6 miliardi da febbraio (2028 mil.). Gli interessi annui sul debito
aumentano, hanno raggiunto circa 100 miliardi all'anno. Per Banca d'Italia il Pil del 2012 è stato
inferiore del 7 per cento rispetto a quello del 2007, il reddito disponibile delle famiglie del 9 per cento,
la produzione di un quarto. Chiude un'impresa al minuto, ma con l'aumento dell'Iva da luglio dal 21 al
22 per cento, che porterà in dote 200 euro di costi in più per famiglia (fonte Adusbef), la mortalità è
destinata ad aumentare. Si comprerà di meno, si produrrà di meno, anche beni di prima necessità.
L'Ocse ha tagliato le stime del nostro Pil a meno 1,8% il 2013, valutazione più che ottimistica. Tradotto
in disoccupazione significa perdere circa un milione di posti di lavoro". "Le gobbe del cammello Italia
sono aride, ma i venditori di miraggi si moltiplicano. Le oasi di Capitan Findus Letta: "La priorità
assoluta è il lavoro, ridurre le tasse sul lavoro, poi ci sono altre priorità, come la casa... abbiamo
lanciato un grande messaggio per dare lavoro alle imprese, per fare efficientamento energetico, per fare
ripartire il settore dei mobili e dell'edilizia".
Europa +33%, con Milano tra le migliori in aumento del 39% e mercati Usa leggermente meno forti
(+29%). Le Borse sono ai massimi degli ultimi cinque anni anche se l'economia non riparte: la
domanda è se possono continuare a tenere e la risposta degli operatori è quasi sempre positiva. Però sta
arrivando l'estate, da sempre il momento delle grandi tempeste e la prossima settimana secondo gli
analisti servirà a indirizzare i mesi più caldi, con appuntamenti cruciali quasi tutti i giorni. Anche
perché l'ultima parte di maggio qualche temporale l'ha riservato, dopo un periodo abbastanza tranquillo
in costante recupero. La settimana scorsa si è tra l'altro chiusa in un clima negativo, attenuato solo dal
dato della fiducia negli Stati Uniti migliore delle stime, che ha permesso ai listini di contenere le
perdite. Ma l'ottimismo - anche tra i pochi operatori di Piazza Affari rimasti nel week end a preparare
l'apertura di settimana dei mercati - rimane, con l'attenzione rivolta ai molti segnali che sono in
calendario per i prossimi giorni.
Si apre subito con l'indice Pmi europeo e - più importante - con l'andamento del settore manifatturiero
statunitense. Martedì toccherà alla bilancia commerciale Usa, ma la giornata clou sarà quella di
mercoledì: tra i tanti dati macroeconomici cui guardano i mercati, ci sono anche quelli del Pil europeo e
l'Ism non manifatturiero d'oltreoceano. Ma è probabile che rimangano tutti fermi fino a sera, quando la
Federal reserve pubblicherà il suo 'beige book' con le indicazioni sulla politica monetaria. Anche perché
fino a oggi la contraddizione è stata evidente: le Borse hanno temuto maggiormente dati economici
positivi piuttosto che negativi, in quanto si prevede che la Fed possa ridurre le sue misure di sostegno
alla liquidità non appena arrivi la prima ripresa. Ma non è finita: il giorno dopo il book della Federal
reserve, toccherà a Mario Draghi, che giovedì a inizio pomeriggio, quindi a mercati aperti, terrà la
conferenza stampa pre-estiva. Infine venerdì, con gli attesissimi dati dell'occupazione negli Usa: i senza
lavoro al momento si tengono sul confortante livello del 7,5%, una quota che le stime pensano venga
confermata.
"Qualche turbolenza in più rispetto alle Borse la prevediamo nel mercato dei titoli di Stato, anche se
per ora l'Italia ha tenuto bene", dice un operatore del comparto, che poco guarda alle improbabili
decisioni della Bce di metà settimana sui tassi e più a un segnale "preoccupante": il maggior gruppo di
investimento mondiale in titoli di Stato, la statunitense Pimco, starebbe analizzando ulteriori vendite di
bond europei in quanto teme ulteriori downgrade dal parte delle agenzia di rating sul debito sovrano di
diversi Paesi europei.
Una volta si diceva che i salmi finivano in gloria. Oggi che, per parafrasare Hegel, la lettura dei
listini di borsa ha sostituito le preghiere del mattino, potremo di che tutti i salmi finiscono con
una lode al capitale finanziario, il quale, malgrado la crisi continua a fare profitti sulle spalle
dell'economia reale grazie, fra l'altro, ai buoni uffici del complesso militare industriale la cui
ddomanda di ben prodotti dall'industria bellica non mostra segni di cedimento. Come affermava
il titolo di un vecchio film con Alberto Sordi, Finché c'è guerra c'è speranza.
***
L'Italia non si piega alla crisi, alla quale deve reagire con uno sforzo comune con l'obiettivo di
raggiungere una nuova prospettiva, 'piu' serena e sicurà, entro il prossimo anno. E' l'appello di
Napolitano per il 2 giugno. Il Presidente invita ognuno a fare la sua parte per la crescita ed ai
partiti rimarca: ho accettato il bis, ora tocca a loro confrontarsi. Poi avverte che vigilerà 'perche'
non si scivoli verso rigidità e inconcludenze. Dal presidente sono anche venute parole sulla
disoccupazione giovanile, 'in Ue problema numero 1', e apprezzamento sull'accordo sulla
rappresentanza tra sindacati e confindustria.
La priorità del governo è la "riduzione delle tasse sul lavoro per creare" nuovi posti. Lo ha detto
il premier, Enrico Letta, intervenendo al Festival dell'economia.
Il governo italiano si presenterà al vertice europeo del 27-28 giugno con "un piano di
interventi" e la priorità "é la riduzione della disoccupazione giovanile sotto la soglia del 30%",
ha detto Letta. "Vedo fondamentale la scadenza alle elezioni europee dell'anno prossimo, che
saranno le più importanti della storia. Se non facciamo la svolta, avremo il Parlamento europeo
più antieuropeo della storia". Ad affermarlo è stato il premier in un incontro con l'economista
Tito Boeri. "O l'Europa - ha sottolineato - diventa in 18-24 mesi quello strumento di
democrazia della globalizzazione, di sovranità condivisa, oppure non la tocchiamo più e resta
in mano ad altri". "Vivo con una certa preoccupazione - ha aggiunto - questa fase della vita
europea, perché vedo uno scollamento della percezione del cittadino europeo, italiano o
portoghese che sia, e la percezione delle leadership europee nel dare risposte". "Le
preoccupazioni sono enormi - ha proseguito - perché la crisi del 2009 è stata percepita prima
dagli ambienti accademici, poi è entrata nella carne viva. E oggi, inerzialmente, la percezione
dei nostri popoli è un misto tra rassegnazione tra un'Europa che non riesce a dare risposte e
animosità. L'Europa non basta, anzi è foriera di brutte notizie. Si dice 'siamo usciti dalla
procedura di deficit eccessivo e dov'é il vantaggio?'".
"L'Europa è morta a Sarajevo, è morta a Srebrenica". Letta ha ricordato come l'Unione europea
in questi anni "non sia riuscita ad affrontare certe situazioni e certi temi". Per questo il primo
ministro auspica che l'Europa abbia "un proprio ministro degli esteri". "E' sbagliato dare tutta la
colpa al rigore. Il tema è la non politica. Gli Stati Uniti sono un'architettura unitaria che ha
preso decisioni in tempo reale, l'Europa no". Così il premier a proposito delle politiche di
austerity in Europa. Unico esempio contrario la decisione della Banca centrale, "prima della
quale ci furono 28 vertici europei, con relativi annunci: un'incapacità delle istituzioni di
decidere".
"I 18 mesi che ci siamo dati è il tempo giusto per completare l'iter di riforme", secondo il
premer. "La riforma del Titolo V della Costituzione va cambiata. E' da rivedere. Lì dentro c'é
qualcosa che non funziona". "Siamo qui e dico che non è più tempo di leggi ordinarie che si
diano addosso una con l'altra. Se i Costituenti hanno pensato procedure complesse una ragione
c'era. Andremo in quella direzione e il Trentino conosce bene i temi con la sua autonomia. Il
presidente Napolitano - ha evidenziato - ha ribadito che serve andare in questa direzione".
Questo "governo è eccezionale e non si ripeterà", ha spiegato il presidente del Consiglio.
Anche se l'Italia intercetterà la ripresa ci vorranno 63 anni per recuperare i livelli occupazionali
del 2007. Solo nel 2076, cioe', si tornerebbe alle 25.026.400 unita' di lavoro standard nel 2007.
E' quanto risulta da uno studio dell' ufficio economico Cgil che prende come punto di partenza
il contesto attuale. Nello studio della Cgil 'La ripresa dell'anno dopo - Serve un Piano del
Lavoro per la crescita e l'occupazione", si simulano però alcune ipotesi di ripresa, nell'ambito
delle attuali tendenze e senza che si prevedano modifiche significative di politica economica,
sia nazionale che europea, per dimostrare la necessità di "un cambio di paradigma: partire dal
lavoro per produrre crescita". Se quello delineato inizialmente è quindi lo scenario peggiore, lo
studio Cgil prende in considerazione "ipotesi più ottimistiche" legate alla proiezione di un
livello di crescita pari a quello medio registrato nel periodo 2000-2007, ovvero del +1,6%. In
questo caso il risultato prevede che il livello del Pil, dell'occupazione e dei salari verrebbe
ripristinato nel 2020 (7 anni dopo il 2013) mentre quello della produttività nel 2017 e il livello
degli investimenti nel 2024 (12 anni dopo il 2013).
Lo studio della Cgil calcola inoltre anche la perdita cumulata generata dalla crisi, cioé il livello
potenziale di crescita che si sarebbe registrato nel caso in cui la crisi non ci fosse mai stata, e
che è pari a 276 miliardi di euro di Pil (in termini nominali oltre 385 miliardi, circa il 20% del
Pil). Uno studio, quindi, funzionale alla Cgil per rivendicare la centralità del lavoro. "Per uscire
dalla crisi e recuperare la crescita potenziale occorre un cambio di paradigma", osserva il
segretario confederale della Cgil, Danilo Barbi, secondo il quale "per non attendere che sia
un'altra generazione ad assistere all'eventuale uscita da questa crisi, e ritrovare nel breve
periodo la via della ripresa e della crescita occupazionale, occorre proprio partire dalla
creazione di lavoro". Con la ripresa annunciata per il 2014 l'Italia impiegherà tredici anni per
ritornare al livello del Pil del 2007, rivela lo studio dal titolo 'La ripresa dell'anno dopo - Serve
un Piano del Lavoro per la crescita e l'occupazione'.
La firma dell'accordo sulla rappresentanza tra la Confindustria e i sindacati "rappresenta un
avvenimento di prima grandezza per il Paese. È un segno importante e incoraggiante di volontà
costruttiva e di coesione sociale". Così il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
sull'accordo raggiunto ieri.
Cgil, Cisl e Uil e Confindustria hanno raggiunto l'accordo sulla rappresentanza e la democrazia
sindacale. I leader dei sindacati Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti ed il
presidente degli industriali, Giorgio Squinzi, hanno siglato l'intesa dopo 4 ore di confronto. Con
l'accordo interconfederale si introducono nuove regole per misurare la rappresentativita' delle
organizzazioni sindacali, certificare gli iscritti e il voto dei lavoratori e a dare certezza agli
accordi sindacali, che una volta approvati e ratificati a maggioranza semplice varranno
effettivamente per tutti.. ''E' un accordo storico'', commentano Camusso e Squinzi. ''un accordo
che mette fine ad una lunga stagione di divisioni'', aggiunge il leader della Cgil.''Dopo 60 anni
definiamo le regole per la rappresentanza, che ci permette di avere contratti nazionali
pienamente esigibili'', sottolinea il presidente di Confindustria. Si prevedono infatti regole per
''l'esercizio del diritto di sciopero e sanzioni per mancato rispetto e le conseguenti violazioni'',
sottolinea ancora Squinzi.
"E' una svolta davvero importante nelle relazioni industriali", dice il leader della Cisl, Raffaele
Bonanni. "La Cisl è molto contenta. Abbiamo perseguito con molta forza questo obiettivo" ."E'
un accordo importante che regolerà i rapporti, le relazioni industriali in modo più chiaro e
trasparente. La dimostrazione che le parti sociali sono capaci di autoregolarsi'', spiega il leader
della Uil, Luigi Angeletti. Il plauso all'accordo arriva anche dal premier Enrico Letta che twitta:
''Una bella notizia l'accordo appena firmato Confindustria-sindacati: è il momento di unire, non
di dividere per combattere la disoccupazione''. Con questo accordo si mettono nero su bianco le
regole per certificare gli iscritti e il voto dei lavoratori, indicando la soglia del 5% per sedere al
tavolo della contrattazione nazionale. Nel settore privato, come gia' accade da 20 anni nel
pubblico impiego, la rappresentativita' verra' misurata attraverso l'incrocio, il mix tra numero
degli iscritti e voto proporzionale delle Rsu (rappresentanze sindacali unitarie). L'intesa indica
anche le regole per validare gli accordi, definiti dalle organizzazioni sindacali che
rappresentano almeno il 50% piu' uno, cioe' la maggioranza semplice. La stessa maggioranza
semplice richiesta per la consultazione certificata dei lavoratori, il voto a cui cioe' verranno
sottoposti gli stessi accordi. Cosi' se un contratto nazionale e' sottoscritto dal 50% piu' uno della
rappresentanza sindacale ''tutti -chiarisce Squinzi- sono tenuti a rispettare quanto stabilito da
quel contratto''
Ora cosa dire di tutto ciò? Quello che si può dire di tutto ciò, esclusa la chiara provocazione
della CGIL sul 2076, è che si tratta di preoccupazioni e accordi che sono condivisibili, ma che,
ancora una volta il problema è un altro. Il problema, lo ripeterò alla nausea, è il denaro. Il
problema sono le banche. Il problema è il debito pubblico finanziato dalle banche. Il problema
è che, come scrisse Federico Caffè, ancora nel 1971, in Italia non s'è mai data la giusta
importanza al problema del lavoro. Il problema del lavoro è oggi venuto al pettine e nessuno sa
o non vuole sapere come risolverlo.
***
Perché non riusciamo a risolvere i nostri problemi economici? Perché non riusciamo a uscire
dalla crisi? Rispondere a queste domande non è facile. Molti sono infatti i motivi che ci
impediscono di risolvere i nostri problemi economici. L'economista indiano R.Rajan ne ha
parlato nel libro Terremoti finanziari. Qui, mi interessa trattare brevemente di uno di essi, di
carattere prettamente teorico, anzi, per essere preciso, di filosofia dell'economia.
Si tratta infatti della nozione di economico - un concetto la cui origine viene attribuita a Adam
Smith il quale avrebbe fornito in Ricchezza delle nazioni le prove dell'autonomia
dell'economico. In realtà, si può parlare di economia solo in riferimento alla società.
L'economia è un fenomeno sociale per sua natura. Inoltre, esistono o sono esistite diverse
forme di organizzazione economica: alcune basate sulla redistribuzione, altre sul dono, altre
sulla reciprocità. Vedi le ricerche di M. Mauss e di K. Polany.
Infine, non va dimenticato che la ricerca del massimo profitto non è l'unico scopo possibile
dell'azione umana. Esiste, come ha spiegato T. Nagel, anche l'altruismo; esistono cioè delle
motivazioni dell'azione umana che, come ha dimostrato B. Frey, escono dal quadro concettuale
fissato da Adam Smith quando, in Ricchezza delle nazioni scrisse che “It is not from the
benevolence of the butcher, the brewer, or the baker, that we can expect our dinner, but from
their regard to their own interest”.
Malgrado ciò, continuiamo a essere prigionieri di una visione economicistica dell'agire umano
che ci impedisce di comprendere le cause della stessa crisi economica la quale affonda le sue
radici nella distruzione operata dalla globalizzazione delle relazioni sociali tradizionali, al
punto che il sociologo francese A. Touraine parlò a suo tempo di "fine del sociale".
La migliore dimostrazione della correttezza di questa affermazione ci vene dalla crisi in cui
versa il mercato del lavoro. Come spiegò a suo tempo R. Solow il mercato del lavoro è prima di
tutto una istituzione sociale e il suo principio di funzionamento non può essere ridotto al
principio della domanda e dell'offerta come si trattasse di un mercato qualsiasi. Noi, però, non
teniamo conto di questo fatto e non possiamo perciò stupirci del fallimento dei nostri tentativi
di riforma dello stesso mercato del lavoro.
Questa affermazione ci riporta a quella che K. Polany chiamò la nostra obsoleta mentalità di
mercato e, più in generale, a quelli che gli economisti chiamano fallimenti del mercato. la cui
esistenza giustificherebbe a loro dire l'intervento dello stato al fine di garantire il buon
funzionamento dello stesso mercato.
Per renderci conto di questo fatto, possiamo pensare all'inquinamento ambientale prodotto dalle
nostre attività economiche o, più in generale, possiamo pensare a quelle che gli economisti
chiamano esternalità negative, fra le quali possiamo collocare il già ricordato inquinamento
ambientale. Come dire che può aprirsi una contraddizione fra efficienza privata e efficienza
pubblica nell'uso delle risorse.
Questo problema, già evidenziato un secolo fa da C. Pigou in Economia del benessere, è
divenuto sempre più pressante e sempre più vicina si fa minaccia di una catastrofe ecologica
che renderebbe impossibile la vita sulla Terra. Ciò significa che dobbiamo rivedere tutti i nostri
concetti economici, a cominciare da quello di reddito nazionale, ovvero di prodotto interno
lordo, come G. Myrdal aveva suggerito ancora nel lontano 1974.
Analoghe considerazioni possono essere fatte per quello che riguarda i problemi finanziari i
quai non potranno essere risolti finché non cambieremo il nostro modo di vedere la relazione
fra economia reale e economia finanziaria. Il nodo della questione risiede in un'errata
concezione della cosiddetta speculazione finanziaria. La speculazione finanziaria è infatti, parte
fondamentale dell'attività economica capitalistica. Non solo. Essa esplica una funzione
fondamentale nel mantenimento del nostro welfare state assorbendo i titoli del debito pubblico
senza i quali lo stato del benessere crollerebbe.
In questo contesto diventa fondamentale una riconsiderazione del concetto di capitalismo
monopolistico. Solo così potremmo cominciare a comprendere le cause profonde della crisi che
continua a mettere a dura prova le nostre economie e tentare in questo modo di uscire dalla
stessa.
***
Volendo porre la questione nei suoi termini essenziali, possiamo dire che la storia della scienza
è la storia della ricerca di che cosa tiene insieme il mondo. L'economia politica non fa
eccezione. Secondo Adam Smith, il fondatore dell disciplina, ciò che tiene insieme il mondo è
la predisposizione naturale dell'uomo allo scambio. Tale predisposizione favorisce la divisione
del lavoro la quale favorisce, a sua volta, lo sviluppo economico. non a caso, per Smith, i paesi
più sviluppati sono anche quelli dove è più sviluppata la divisione del lavoro che peerrmette d
produrre un maggior numero di ben a prezzi inferiori a quelli che si avrebbero in sua assenza.
Nelle parole dello stesso Smith,
"Prendiamo dunque un esempio in una manifattura di poco conto dove la divisione del lavoro è
stata molto spesso citata, quella, cioè, dello spillettaio; un operaio non educato in questa
manifattura (che la divisione del lavoro ha reso uno speciale mestiere), non preparato all'uso del
macchinario realizzato per questo (la cui invenzione probabilmente è stata resa possibile dalla
stessa divisone), può a fatica, forse, con la sua laboriosità, produrre uno spillo al giorno, e di
certo non può produrne 20. Dato il modo in cui viene svolto oggi questo compito, non solo tale
lavoro nel suo complesso è divenuto mestiere particolare, diviso in un certo numero di
specialità, la maggior parte delle quali sono anch'esse mestieri particolari. Un uomo trafila in
metallo, un altro raddrizza il filo, il terzo lo taglia, un quarto gli fa la p nta, un quinto lo
schiaccia l'estremità dove deve inserirsi la capocchia; fare la capocchia richiede due o tre
operazioni distinte; inserirle in attività distinta, pulire gli spilli è un'altra, e persino il metterli
nella carta un'altra occupazione se stante, sicché l'importante attività di fabbricare uno spillo
viene divisa, in tal modo in circa 18 distinte operazioni che, in alcune manifatture, sono tutte
compiute da mani diverse, sebbene si diano casi in cui la stessa persona ne compie due o tre. Io
ho visto una piccola manifattura di questo tipo dove erano impiegati solo 10 uomini, e dove
alcuni di essi di conseguenza compivano due o tre distinte operazioni. Ma sebbene loro fossero
assai poveri, e perciò non disponessero molto delle macchine necessarie, potevano, quando si
impegnavano a vicenda, fare all'incirca dodici libbre di spilli in un giorno. Una libbra contiene
più di mille spilli di grandezza media. Quelle 10 persone, quindi, riuscivano a fare più di 0.000
spilli al giorno. Ciascuno di loro 10 dunque, facendo una decima parte di 48000 spilli, può
essere considerato come se ne fabbricasse 4800 in un giorno. Se invece avessero lavorato tutti
separatamente e indipendentemente senza che alcuno di loro fosse stato previamente addestrato
a questo compito particolare, non avrebbero certamente potuto fabbricare neanche 20 spilli al
giorno per ciascuno, forse neanche un solo spillo al giorno; cioè certamente non la
duecentoquarantesima parte, e forse neanche la quattromilaottocentesima parte di quel che sono
intanto capaci di compiere in conseguenza di una appropriata divisione e combinazione delle
loro differenti operazioni. In tutte le altre arti e manifatture, gli effetti della divisione del lavoro
sono analoghi a quelli che abbiamo riscontrato in quest'attività di modestissimo rilievo;
sebbene, in molte di esse, il lavoro non possa essere suddiviso fino a questo punto, né ridotto a
una tale semplicità di operazioni. La divisione del lavoro, comunque, nella misura in cui può
essere introdotta, determina in ogni mestiere un aumento proporzionale delle capacità
produttive del lavoro."
Nell' Abbozzo, egli aveva già posto e quasi interamente sviluppato le basi concettuali
dell'argomento: "Solo la divisione del lavoro, per la quale ciascun individuo si limita ad
esercitare un'attività particolare, può fornirci una spiegazione di questa maggiore ricchezza che
si produce nelle società evolute".
Secondo Smith: "Questo grande aumento della quantità di lavoro che lo stesso numero di
uomini è capace di compiere in conseguenza della divisione del lavoro si deve a tre
diversecircostanze: in primo luogo l'aumento della destrezza, di ciascun operaio; in secondo
luogo il risparmio del tempo che si perde comunemente nel passare da una specie di lavoro ad
un'altra; infine, l'invenzione di un gran numero di macchine che facilitano ed abbreviano il
lavoro e consentono ad un uomo di fare il lavoro di molti". La divisione del lavoro aumenta la
destrezza del lavoratore e favorisce l'aumento della quantità prodotta.
"In primo luogo il miglioramento della destrezza dell'operaio aumenta necessariamente la
quantità di lavoro che egli può eseguire; e la divisione del lavoro, riducendo il mestiere di
ciascun uomo ad una sola operazione semplice, e rendendo questa operazione l'unica
occupazione della sua vita, necessariamente aumenta di molto la destrezza dell'operaio".
"In secondo luogo, il vantaggio che si ottiene dal risparmio del tempo che si perde
comunemente nel passare da una specie di lavoro ad un'altra, è molto maggiore di
quello, che a prima vista si sarebbe indotti ad immaginare. È impossibile passare
rapidamente da una specie di lavoro ad un'altra che si fa in un luogo diverso e con
strumenti totalmente diversi".
"In terzo e ultimo luogo, chiunque comprende facilmente come il lavoro venga molto
abbreviato e facilitato dall'applicazione di adatto macchinario. Non è necessario darne esempio.
Osserverò quindi soltanto che l'invenzione di tutte quelle macchine, mediante le quali il lavoro
è tanto abbreviato e facilitato, sembra essere stata originariamente dovuta alla divisione del
lavoro. Gli uomini sono molto maggiormente atti a scoprire metodi più facili e più pronti per
raggiungere qualsiasi scopo quando tutta l'attenzione
della loro mente è diretta verso quel singolo scopo, che quando è dissipata tra una
grande varietà di oggetti. Ma, in conseguenza della divisione del lavoro, tutta
l'attenzione di ciascun uomo viene naturalmente diretta verso qualche oggetto molto semplice".
"Gran parte delle macchine che sono usate in quelle industrie in cui il lavoro è
maggiormente suddiviso, furono originariamente invenzioni di operai comuni i quali, ciascuno
di loro essendo addetto a qualche operazione semplicissima, volsero
naturalmente la loro attenzione a trovare metodi più facili e più rapidi per eseguirla".
La concezione smithiana è alla base delle teorie neo-liberiste sulla globalizzazione. Per esse,
infatti, la globalizzazione è un fenomeno naturale come naturale è la predisposizione dell'uomo
allo scambio. Tale concezione economica trova la sua giusitifcazione morale nel sentimento
della simpatia. Come Smith scrisse infatti in Theory of moral sentiments,
"How selfish soever man may be supposed, there are evidently some principles in his nature,
which interest him in the fortune of others, and render their happiness necessary to him, though
he derives nothing from it except the pleasure of seeing it. Of this kind is pity or compassion,
the emotion which we feel for the misery of others, when we either see it, or are made to
conceive it in a very lively manner. That we often derive sorrow from the sorrow of others, is a
matter of fact too obvious to require any instances to prove it; for this sentiment, like all the
other original passions of human nature, is by no means confined to the virtuous and humane,
though they perhaps may feel it with the most exquisite sensibility. The greatest ruffian, the
most hardened violator of the laws of society, is not altogether without it."
In questo contesto si situa il discorso della invisible hand, la quale agisce in modo che ciascun
individuo, perseguendo il proprio tornaconto non fa altro che collaborare al benessere di tutti.
Secondo Smith, “It is not from the benevolence of the butcher, the brewer, or the baker, that we
can expect our dinner, but from their regard to their own interest”.
Questa affermazione di Smith è stata sempre causa di un fraintendimento del pensiero dello
stesso Smith il quale, teorizzando il ruolo fondamentale svolto dal perseguimento del proprio
tornaconto nel processo di sviluppo sociale, non intendeva certamente additare come individui
degni d'ammirazione truffatori e avventurieri, speculatori e faccendieri. In altre parole, Adam
Smith sarebbe stato il primo a criticare la subprime mania che è recentemente stata una delle
cause deella più grave crisi finanziaria che abbia scosso il capitalismo dalla crrisi innescata con
il Grande crollo del del 1929, a proposito del quale John K. Galbraaith scrissse, che nessuno
può essere considerato responsabile di essa; nessuno condusse la gente al macello. La crisi fu il
prodotto della libera scelta di migliaia di persone spinte dal desiderio di diventare ricche. In
realtà, la crisi scoppiò, come ricordò Gordon in Crescita e ciclo dell'economia americana, dopo
un periodo di grande espansione sia a livello di produzione industriale che d formazione del
capitale e, come scrisse Overy, le imprese lucravano cospicui profitti emettendo grandi quantità
di azioni che eccedevano le capacità di assorbimento del mercato. Il crollo di Wall Street si
ripercosse sulla economia reale causando la chiusura d'un grande numero di aziende e un
aumento drammatico della disoccupazione. Gli effetti negativi della crisi vennero aggravati
dalla politica del governo americano, il quale, invece di porre in essere le necessarie misure
anti-crisi, emanò una serie di provvedimenti che andavano in direzione affatto opposta.
Il crollo Wall Street ebbe conseguenze negative anche in Europa. Come ricordava Aldcroft, alla
metà del 1930 tutti i paesi europei erano caduti vittime della crisi. Il peggio, però, doveva
ancora arrivare. Esso arrivò nell'estate del 1931 con il crack del viennese Credit Anstalt. Le
ripercussioni negative del crollo di Wall Street si fecero sentire particolarmente in Germania
che era ancora alle prese con le conseguenze economiche negative della Prima guerra mondiale
e con le difficoltà create dal pagamento delle riparazioni di guerra, come Keynes aveva
preveduto in Le conseguenze economiche della pace. Come scrisse infatti Keynes, coloro che
trattarono con la Germania le condizioni della pace non erano preoccupati del futuro
dell'Europa, ma erano unicamente interessati a punire la Germania imponendole una pace
cartaginese.
In termini generali, possiamo, comunque, dire, come disse Joseph Stigliz nella sua Nobel Prize
Lecture, che l'esperienza insegna che la mano invisibile non esiste; o, se esiste, è palizzata.
Inoltre, possiamo aggiungere che esiste anche l'altruismo, per lo meno nella forma di possibilità
in quanto non esistono solo motivazioni economiche del comportamento umano. Esistono
anche motivazioni non economiche, come i milioni di persone che lavorano nel settore noprofit dimostrano.
In Marx, ciò che tiene insieme il mondo è il perseguimentto da parte della borghesia del
proprio interesse di classe. Nel fare questo essa prepara la propria distruzione. Nelle parole di
Marx, Manifesto dei comunisti,
La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.
Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e
garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e
condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una
trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.
Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della
società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica
abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle
corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi
ognuna di queste classi.
La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli
antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni
di oppressione, nuove forme di lotta.
La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli
antagonismi di classe. L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici,
in due grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato.
Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo popolo
minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia.
La scoperta dell'America, la circumnavigazione dell'Africa crearono alla sorgente borghesia un
nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, gli
scambi con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al
commercio, alla navigazione, all'industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò
impressero un rapido sviluppo all'elemento rivoluzionario entro la società feudale in
disgregazione.
L'esercizio dell'industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno
che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura. Il medio ceto
industriale soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro fra le diverse corporazioni
scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa.
Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più
sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale.
All'industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al ceto medio industriale
subentrarono i milionari dell'industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni.
La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch'era stato preparato dalla scoperta
dell'America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla
navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta
sull'espansione dell'industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio,
navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto
nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo.
Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa stessa il prodotto d'un lungo processo di
sviluppo, d'una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico.
Ognuno di questi stadi di sviluppo della borghesia era accompagnato da un corrispondente
progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni
armate ed autonome nel Comune, talvolta sotto la forma di repubblica municipale
indipendente, talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all'epoca dell'industria
manifatturiera, nella monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla
nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la
creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico
esclusivo dello Stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato
che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese.
La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria.
Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali,
patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano
l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo
interesse, il freddo "pagamento in contanti". Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico
i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha
disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà
patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli.
In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello
sfruttamento mascherato d'illusioni religiose e politiche.
La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e
considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della
scienza, in salariati ai suoi stipendi.
La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha
ricondotto a un puro rapporto di denaro.
La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto
nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la
borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha compiuto ben
altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a
termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i
rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le
classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di
produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le
situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra
tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di
idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di
potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni
cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria
posizione e i propri reciproci rapporti.
Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a
percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue
basi, dappertutto deve creare relazioni.
Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla
produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno
nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state
distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie
nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da
industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e
i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del
mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che
per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica
autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una
interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella
intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune.
L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte
letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.
Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni
infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare.
I bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie
cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe
tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in
rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In
una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.
La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha
accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale,
strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale.
Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e
semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l'Oriente
dall'Occidente.
La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della
popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha
concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria la centralizzazione
politica. Province indipendenti, legate quasi solo da vincoli federali, con interessi, leggi,
governi e dazi differenti, vennero strette in una sola nazione, sotto un solo governo, una sola
legge, un solo interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale.
Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in
massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre
generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della
chimica all'industria e all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il
dissodamento d'interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per
incanto dal suolo -quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale
stessero sopite tali forze produttive?
Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta
costituendo la borghesia erano stati prodotti entro la società feudale. A un certo grado dello
sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale
produceva e scambiava, l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una
parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai
sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in
altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate.
Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il
dominio economico e politico della classe dei borghesi.
Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i
rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di
produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le
potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del
commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti
moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di
esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro
periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società
borghese.
Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una parte dei prodotti ottenuti,
ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia
sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della
sovrapproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea
barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i
mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società
possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le
forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese
e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne
vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società
borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono
divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. -Con quale
mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze
produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei
vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e
la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.
A questo momento le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si
rivolgono contro la borghesia stessa. Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che la
porteranno alla morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai
moderni, i proletari.
Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il
proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che
trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono
costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono
quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le
oscillazioni del mercato.
Con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha
perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l'operaio. Egli diviene un
semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un'operazione manuale
semplicissima, estremamente monotona e facilissima da imparare. Quindi le spese che causa
l'operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per
il proprio mantenimento e per la riproduzione della specie. Ma il prezzo di una merce, quindi
anche quello del lavoro, è uguale ai suoi costi di produzione. Quindi il salario decresce nella
stessa proporzione in cui aumenta il tedio del lavoro. Anzi, nella stessa proporzione
dell'aumento dell'uso delle macchine e della divisione del lavoro, aumenta anche la massa del
lavoro, sia attraverso l'aumento delle ore di lavoro, sia attraverso l'aumento del lavoro che si
esige in una data unità di tempo, attraverso l'accresciuta celerità delle macchine, e così via.
L'industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale nella
grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono
organizzate militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell'industria, sotto la
sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli operai non sono soltanto
servi della classe dei borghesi, ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla
macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona. Questo
dispotismo è tanto più meschino, odioso ed esasperante, quanto più apertamente esso proclama
come fine ultimo il guadagno.
Quanto meno il lavoro manuale esige abilità ed esplicazione di forza, cioè quanto più si
sviluppa l'industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle
donne [e dei fanciulli]. Per la classe operaia non han più valore sociale le differenze di sesso e
di età. Ormai ci sono soltanto strumenti di lavoro che costano più o meno a seconda dell'età e
del sesso.
Quando lo sfruttamento dell'operaio da parte del padrone di fabbrica è terminato in quanto
all'operaio viene pagato il suo salario in contanti, si gettano su di lui le altre parti della
borghesia, il padron di casa, il bottegaio, il prestatore su pegno e così via.
Quelli che fino a questo momento erano i piccoli ordini medi, cioè i piccoli industriali, i piccoli
commercianti e coloro che vivevano di piccole rendite, gli artigiani e i contadini, tutte queste
classi precipitano nel proletariato, in parte per il fatto che il loro piccolo capitale non è
sufficiente per l'esercizio della grande industria e soccombe nella concorrenza con i capitalisti
più forti, in parte per il fatto che la loro abilità viene svalutata da nuovi sistemi di produzione.
Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione.
Il proletariato passa attraverso vari gradi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia comincia
con la sua esistenza. Da principio singoli operai, poi gli operai di una fabbrica, poi gli operai di
una branca di lavoro in un dato luogo lottano contro il singolo borghese che li sfrutta
direttamente. Essi non dirigono i loro attacchi soltanto contro i rapporti borghesi di produzione,
ma contro gli stessi strumenti di produzione; distruggono le merci straniere che fan loro
concorrenza, fracassano le macchine, danno fuoco alle fabbriche, cercano di riconquistarsi la
tramontata posizione del lavoratore medievale.
In questo stadio gli operai costituiscono una massa disseminata per tutto il paese e dispersa a
causa della concorrenza. La solidarietà di maggiori masse operaie non è ancora il risultato della
loro propria unione, ma della unione della borghesia, la quale, per il raggiungimento dei propri
fini politici, deve mettere in movimento tutto il proletariato, e per il momento può ancora farlo.
Dunque, in questo stadio i proletari combattono non i propri nemici, ma i nemici dei propri
nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i
piccoli borghesi. Così tutto il movimento della storia è concentrato nelle mani della borghesia;
ogni vittoria raggiunta in questo modo è una vittoria della borghesia.
Ma il proletariato, con lo sviluppo dell'industria, non solo si moltiplica; viene addensato in
masse più grandi, la sua forza cresce, ed esso la sente di più. Gli interessi, le condizioni di
esistenza all'interno del proletariato si vanno sempre più agguagliando man mano che le
macchine cancellano le differenze del lavoro e fanno discendere quasi dappertutto il salario a
un livello ugualmente basso. La crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi
commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai; l'incessante e
sempre più rapido sviluppo del perfezionamento delle macchine rende sempre più incerto il
complesso della loro esistenza; le collisioni fra il singolo operaio e il singolo borghese
assumono sempre più il carattere di collisioni di due classi. Gli operai cominciano col formare
coalizioni contro i borghesi, e si riuniscono per difendere il loro salario. Fondano perfino
associazioni permanenti per approvvigionarsi in vista di quegli eventuali sollevamenti. Qua e là
la lotta prorompe in sommosse.
Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle lotte
non è il successo immediato, ma il fatto che l'unione degli operai si estende sempre più. Essa è
favorita dall'aumento dei mezzi di comunicazione, prodotti dalla grande industria, che mettono
in collegamento gli operai delle diverse località. E basta questo collegamento per centralizzare
in una lotta nazionale, in una lotta di classe, le molte lotte locali che hanno dappertutto uguale
carattere. Ma ogni lotta di classi è lotta politica. E quella unione per la quale i cittadini del
medioevo con le loro strade vicinali ebbero bisogno di secoli, i proletari moderni con le
ferrovie la attuano in pochi anni.
Questa organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico torna ad essere spezzata
ogni momento dalla concorrenza fra gli operai stessi. Ma risorge sempre di nuovo, più forte,
più salda, più potente. Essa impone il riconoscimento in forma di legge di singoli interessi degli
operai, approfittando delle scissioni all'interno della borghesia. Così fu per la legge delle dieci
ore di lavoro in Inghilterra.
In genere, i conflitti insiti nella vecchia società promuovono in molte maniere il processo
evolutivo del proletariato. La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l'aristocrazia, più
tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto con il progresso
dell'industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si
vede costretta a fare appello al proletariato, a valersi del suo aiuto, e a trascinarlo così entro il
movimento politico. Essa stessa dunque reca al proletariato i propri elementi di educazione,
cioè armi contro se stessa.
Inoltre, come abbiamo veduto, il progresso dell'industria precipita nel proletariato intere sezioni
della classe dominante, o per lo meno ne minaccia le condizioni di esistenza. Anch'esse
arrecano al proletariato una massa di elementi di educazione.
Infine, in tempi nei quali la lotta delle classi si avvicina al momento decisivo, il processo di
disgregazione all'interno della classe dominante, di tutta la vecchia società, assume un carattere
così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si distacca da essa e si
unisce alla classe rivoluzionaria, alla classe che tiene in mano l'avvenire. Quindi, come prima
una parte della nobiltà era passata alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al
proletariato; e specialmente una parte degli ideologi borghesi, che sono riusciti a giungere alla
intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme.
Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe
realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il
proletariato è il suo prodotto più specifico.
Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l'artigiano, il contadino,
combattono tutti la borghesia, per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini
medi. Quindi non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché cercano di
far girare all'indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari, sono tali in vista del loro
imminente passaggio al proletariato, non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi
futuri, e abbandonano il proprio punto di vista, per mettersi da quello del proletariato.
Il sottoproletariato, questa putrefazione passiva degli infimi strati della società, che in seguito a
una rivoluzione proletaria viene scagliato qua e là nel movimento, sarà più disposto, date tutte
le sue condizioni di vita, a lasciarsi comprare per mene reazionarie.
Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già annullate nelle condizioni di esistenza
del proletariato. Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con moglie e figli non ha più
nulla in comune con il rapporto familiare borghese; il lavoro industriale moderno, il
soggiogamento moderno del capitale, identico in Inghilterra e in Francia, in America e in
Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Leggi, morale, religione sono per lui
altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi.
Tutte le classi che si sono finora conquistato il potere hanno cercato di garantire la posizione di
vita già acquisita, assoggettando l'intera società alle condizioni della loro acquisizione. I
proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto abolendo il loro proprio
sistema di appropriazione avuto sino a questo momento, e per ciò stesso l'intero sistema di
appropriazione che c'è stato finora. I proletari non hanno da salvaguardare nulla di proprio,
hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le assicurazioni private che ci sono state
fin qui.
Tutti i movimenti precedenti sono stati movimenti di minoranze, o avvenuti nell'interesse di
minoranze. Il movimento proletario è il movimento indipendente della immensa maggioranza.
Il proletariato, lo strato più basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi,
senza che salti per aria l'intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale.
La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non
sostanzialmente, certo formalmente. E` naturale che il proletariato di ciascun paese debba
anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia.
Delineando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile
più o meno latente all'interno della società attuale, fino al momento nel quale quella guerra
erompe in aperta rivoluzione e nel quale il proletariato fonda il suo dominio attraverso il
violento abbattimento della borghesia.
Ogni società si è basata finora, come abbiam visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi
di oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le debbono essere assicurate condizioni entro
le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. Il servo della gleba, lavorando
nel suo stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a membro del comune, come il cittadino
minuto, lavorando sotto il giogo dell'assolutismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma
l'operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l'industria progredisce, scende sempre più
al disotto delle condizioni della sua propria classe. L'operaio diventa un povero, e il pauperismo
si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare
manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe dominante
della società e di imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge
regolatrice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l'esistenza al proprio
schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una
situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non
può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più
compatibile con la società.
La condizione più importante per l'esistenza e per il dominio della classe borghese è
l'accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del
capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente
sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è
veicolo involontario e passivo, fa subentrare all'isolamento degli operai risultante dalla
concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall'associazione. Con lo sviluppo della
grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale
essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto
e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili.
E' in questo contesto che va collocata l'elaborazione di Il capitale, l'opera di economia politica
più discussa che mai sia stata pubblicata. Il capitale, infatti, è un'opera eivoluzionaria nel
contenuto, nello scopo e nel metodo. Nello scopo, perché era intenzione di Marx fornire con
essa al proletariato indusstriale, l'arma per combattere la borgheia sul piano della teoria. E'
rivoluzionaria nel contenuto. perché Marx non parla dei capitalisti, ma del capitale inteso,
prima di tutto, come rapporto sociale. Infine, è rivoluzionaria nel metodo perché è un'opera di
critica dell'economia politica.
Era inevitabile che ciò causasse una reazione a parte della borghesia che si trovava a vivere i
suoi giorni migliori. Tale reazione prese la forma della teoria dell'equilibrio economico
generale la quale dimostrava che l'economia di mercato, date certe condizioni, tendeva a
raggiungere uno stato di equilibrio e che, una volta che essa si fosse allontanata da esso,
sarebbbe comunqe riitornata in equilibrio grazie al fnzionamento dei meccanismi di mercato
incentrati sul funzionamento della legge della domanda e offerta.
La dimostrazione della correttezza della teoria si reggeva su di un imponente e, per i profani,
intimidente, apparato matematico ispirato alla fisica newtoniana, e ciò avveniva, per ironia
della sorte, proprio negli anni immediatamente precedent alla rivoluzonwe quantistica che
avrebbe proposto na visione del mondo affatto diversa da quella newtoniana.
Inoltre, va ricordato che i meccanismi automatici di aggiustamento di un'economia di mercato
potevano funzionare solo in un'economia di concorrenza perfetta, la quale non aveva già allora
alcuna attinenza con la realtà, se pensiamo che lo Sherman Act, che fu la prima e più famosa
legge antimonopolio, è del 1890. Da allora è trasccorso un secolo e mezzo. L'economia
capitalistica ha sempre più accentuato le sue tendenze monopolitiche; malgrado ciò, la teoria
economica dominante continua a ispirarsi al modello elaborato da Jevons, Walras e Menger alla
fne dell'Ottocendo.
Affatto diversa era l'impostazione keynesiana. L'unverso keynesiano non aveva nulla in
comune con l'unverso newtonano, o, per meglio dire, deterministico, di Walras. L'universo di
Keynes era un universo di propensioni, di aspettative, di preferenze e l'economia reale si
trovava costantemente in una stuazione di instabilità. Come Keynes scrisse in La fine del
lasciar fare,
It is not true that individuals possess a prescriptive 'natural liberty' in their economic activities.
There is no 'compact' conferring perpetual rights on those who Have or on those who Acquire.
The world is not so governed from above that private and social interest always coincide. It is
not so managed here below that in practice they coincide. It is not a correct deduction from the
principles of economics that enlightened self-interest always operates in the public interest. Nor
is it true that self-interest generally is enlightened; more often individuals acting separately to
promote their own ends are too ignorant or too weak to attain even these. Experience does not
show that individuals, when they make up a social unit, are always less clear-sighted than when
they act separately.
***
Il problema della comunicazione politica ha molti aspetti. Qui, mi interessa ricordare che che
tali problemi nascono, dal punto di vita giuridico, con la formazione di un dibattito pubblico
libero e non manipolato. Nella storia del costituzionalismo moderno, infatti, l’opinione
pubblica è sempre stata considerata una delle garanzie costituzionali più importanti.
Se per i grandi teorici del costituzionalismo liberale, come J. Bentham e B. Constant, essa era
la garanzia per eccellenza, la sua importanza non è venuta meno con l’affermarsi dello Stato
democratico: basti pensare al fatto che uno dei massimi filosofi politici del XX secolo,
Habermas, ha voluto dedicare la sua prima opera proprio ai mutamenti strutturali nell’ambito
della sfera pubblica e alle sue potenzialità emancipative e che, in questi ultimi anni, si è parlato
addirittura della discussa formazione di una «opinione pubblica mondiale».
Allo stesso tempo, però, l’affermazione dello Stato democratico di massa, con l’enorme
sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, ha portato alcuni studiosi, come C. Schmitt,
Marcuse, Adorno e Horkheimer, a ritenere che l’opinione pubblica possa essere manipolata,
laddove per Bentham, invece, il «tribunale dell’opinione pubblica» poteva esser sì fallibile, ma
mai corruttibile.
In Italia, la materia della comunicazione politica, a partire dagli anni novanta del Novecento, è
stata interessata dalla problematica della c.democrazia par condicio, cioè della parità di accesso
ai mezzi di comunicazione di massa da parte dei diversi soggetti politici. Una prima disciplina
organica in questo senso è stata posta in essere con la l. n. 515/1993, approvata in
corrispondenza del più generale processo di riforma dei sistemi elettorali. Successivamente,
però, l’uso abnorme della pubblicità televisiva da parte di alcuni candidati durante la campagna
elettorale del 1994 ha portato un ulteriore irrigidimento della disciplina normativa, che è stato
introdotto prima tramite il democrazial. n. 83/1995 (peraltro dichiarato parzialmente illegittimo
dalla Corte costituzionale) e, successivamente, con una nuova legge di riforma organica della
disciplina (l. n. 28/2000), – quest’ultima, invece, ritenuta non costituzionalmente illegittima – a
sua volta parzialmente modificata con la l. n. 313/2003, riguardante il pluralismo nella
programmazione delle emittenti radiofoniche e televisive locali.
La l. n. 28/2000 disciplina separatamente la comunicazione politica radiotelevisiva e quella
attraverso sui giornali, mentre non detta alcuna disciplina per altri strumenti di comunicazione
quali internet, la telefonia cellulare ecc. Per quanto riguarda la comunicazione politica
televisiva, è vietata la trasmissione di messaggi pubblicitari, essendo possibile solo la
trasmissione di «messaggi politici autogestiti», in condizioni di parità, da parte delle diverse
forze politiche. Tali «messaggi politici autogestiti» sono gratuiti, ma questa trasmissione,
mentre è obbligatoria per la concessionaria pubblica (R.A.I.), è meramente facoltativa per le
emittenti private, nel senso che queste possono anche decidere di non mettere a disposizione
alcuno spazio. Disposizioni particolari vengono dettate per le emittenti radiofoniche e
televisive locali.
Per quanto riguarda il settore della radiotelevisione privata, sono previsti in capo all’Autorità
per le garanzie nelle comunicazioni, istituita con la l. n. 249/1997 (Autorità amministrative
indipendenti), poteri di tipo normativo e sanzionatorio, mentre, per quanto riguarda la
concessionaria pubblica, è competente la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e
la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.
Lo streaming dell'incontro fra Bersani e M5S ha creato una situazione affatto nuova. Le
telecamere sono entrate in camera da letto, si sono infilate sotto le lenzuola; in altre parole,
hanno portato all'estremo la spettacolarizzazione della politica, A questo punto, tutto è pronto
per la creazione d'una orwelliana repubblica degli animali, dove tutti sono uguali, ma uno è più
uguale degli altri***
Il principio della sovranità popolare, che rinviene nel popolo la fonte e la giustificazione della
potestà politica, trova i suoi inizi nel concetto romano della lex come «ciò che il popolo
ordina», e lo stesso potere imperiale è frutto di delega da parte del popolo (pactum subiectionis:
il popolo pattuisce di sottomettersi al sovrano). Problema medievale, connesso con la lotta per
le investiture e con la generale questione del primato del potere papale o imperiale, fu di
stabilire se il pactum subiectionis implicasse la rinuncia da parte del popolo ai suoi diritti
(alienatio) ovvero soltanto una concessione (cessio) revocabile ove, per es., il monarca non
assolvesse più i suoi compiti e si trasformasse in tiranno, o, nel caso di conflitto con la Chiesa,
in nemico della fede e dei canoni. Il rapporto tra popolo e re si analizzò in un complesso di
diritti e doveri regolati dal patto intervenuto e dall’obbligazione reciproca di attuare la giustizia
e di osservare la legge. L’Umanesimo e la Riforma determinarono un movimento per cui si
giunse a una specificazione delle clausole del pactum attraverso la loro interpretazione alla luce
del diritto privato; forte era ancora l’influenza delle teorie medievali. Subito dopo il concetto di
popolo cominciò a trasformarsi; poi gli elementi elaborati da Calvino e dai monarcomachi
confluirono nelle grandi crisi politiche inglesi dei sec. 16° e 17°, nelle quali il principio della s.
popolare si affermò in modo nuovo (dopo la dissoluzione dei concetti giuridici medievali),
sotto l’influenza delle dottrine del diritto naturale allora rinnovate da U. Grozio: nacque l’idea
atomistica del popolo come composto dagli individui, liberi e sovrani prima ancora
dell’ordinamento politico; la s. popolare era perciò concepita come garanzia dei diritti
individuali dei singoli. Le nuove idee sulla s. popolare, depurate e ulteriormente elaborate da J.
Milton, A. Sidney, J. Harrington, J. Locke, ebbero grande diffusione nelle colonie della Nuova
Inghilterra (R. Williams, T. Hooker, W. Penn, J. Wise) e su di esse si fondarono poi i principi
della Dichiarazione dei diritti e della Costituzione degli Stati Uniti d’America. La rivoluzione
americana ebbe grande ripercussione in Francia, dove la filosofia politica del 18° sec. si era
ispirata a questi stessi principi, collegandoli, attraverso il ginevrino J.-J. Rousseau, con quelli
provenienti dal pensiero politico inglese; l’idea della s. popolare era alla base della ideologia
rivoluzionaria. Nell’ambito del costituzionalismo moderno, la teoria della s. poplare si collegò
strettamente al suffragio universale, come emerge in particolare nella Costituzione giacobina
dell’anno I, là dove afferma che la s. risiede nel popolo (art. 25 Déclaration des droits de
l’homme et du citoyen del 1793) e che il popolo sovrano è costituito dall’universalità dei
cittadini (art. 7 Cost. francese del 1793). Di contro, la Costituzione francese del 1791, che
prevedeva un suffragio di tipo censitario (esplicitato nella distinzione tra citoyens actifs e
citoyens passifs) parlava, non a caso, di s. della nazione.
Nel corso del 19° sec., proprio per negare il fondamento filosofico-giuridico del voto universale
e attenuarne la carica dirompente, alcuni studiosi non esitarono a parlare di una s. della Ragione
(F. Guizot), o, addirittura di s. dello Stato (è il caso, per es. dei massimi esponenti del
positivismo giuridico tedesco, come C.F. Gerber, P. Laband e G. Jellinek). Di s. popolare parlò,
invece, il massimo esponente dei radical whigs inglesi, J. Bentham, nel suo testamento politicospirituale, il Constitutional Code (1830). Dal punto di vista dei testi costituzionali, anche se non
mancano eccezioni già nel corso del 19° sec. (cfr. art. 1 Cost. francese del 1848), il principio
della s. popolare trovò la sua definitiva consacrazione nelle carte costituzionali successive al
primo dopoguerra.
Nella Costituzione italiana la s. popolare è accolta e proclamata nell’art. 1, nel quale si afferma
che la s. appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, cioè
con un sistema di democrazia indiretta.
***
Democrazia d’élite e democrazia di massa. Il processo di democratizzazione dei sistemi politici
contemporanei si può descrivere essenzialmente nel passaggio dallo Stato liberale di
democrazia ‘limitata’ (democrazia d’élite) allo Stato sociale di democrazia ‘diffusa’
(democrazia di massa). R. Dahl pone alla base di questo processo due tendenze: la
liberalizzazione , ovvero il grado in cui sono ammessi il dissenso, l’opposizione e la
competizione tra le diverse forze politiche o politicamente rilevanti; l’inclusività , ovvero la
proporzione di cittadini che hanno titolo a partecipare in modo diretto o indiretto alle decisioni
collettive. Le diverse possibilità di incrocio fra queste dimensioni danno modo di costruire una
tipologia dei sistemi politici democratici, distinguendoli in oligarchie competitive, egemonie
includenti e poliarchie. La sequenza storica di questi modelli si può rintracciare nel passaggio
dalla democrazia di élite alla democrazia di massa, e questa transizione trova riscontro sia sul
piano dei riferimenti teorici che dei referenti storici. Sul piano teorico si riflette nel contrasto
fra elitismo e pluralismo.
Le analisi che si rifanno agli assunti elitistici (G. Mosca, V. Pareto e R. Michels) ritengono che
la sovranità popolare sia un ideale astratto che non può corrispondere a nessuna realtà di fatto,
perché in ogni regime politico, quale che sia la sua formula, è sempre una minoranza quella che
detiene il potere effettivo. Questa impostazione è in parte corretta da J. Schumpeter, secondo il
quale vi è democrazia laddove vi sono diversi gruppi in concorrenza fra loro per la conquista
del potere attraverso la competizione elettorale.
All’estremo opposto le teorie pluraliste (R. Dahl, R. Dahrendorf) puntano piuttosto a ridefinire
il concetto di leadership in termini democratici, innalzando il principio del pluralismo a dato
costitutivo della struttura sociale. Al suo interno la democrazia si definisce in particolare come
un sistema di istituzionalizzazione dei conflitti mediante precise regole del gioco. A proposito
di questo insieme di regole formalizzate che caratterizzano le poliarchie reali si è parlato di in
contrapposizione alla democrazia sostanziale (H. Kelsen). Sul piano delle generalizzazioni
storiche il processo di democratizzazione si caratterizza per l’estensione dei diritti di
cittadinanza e per il loro impatto sulla struttura sociale: più precisamente nella transizione da
un regime di cittadinanza civile, nel quale ci si limita a garantire i diritti di libertà personale, a
un regime di cittadinanza politica, che prevede l’istituzione del suffragio universale, fino al
regime di cittadinanza sociale che postula l’uguaglianza delle opportunità (R. Bendix).
***
Internet. Con tale espressione si intende designare, in informatica, la rete di elaboratori a
estensione mondiale, mediante la quale le informazioni contenute in ciascun calcolatore
possono essere messe a disposizione di altri utenti che possono accedere alla rete in qualsiasi
località del mondo. I. rappresenta uno dei più potenti mezzi di raccolta e diffusione
dell’informazione su scala globale. Ciascun calcolatore può essere connesso alla rete mediante
una varietà di mezzi (fibre ottiche, cavi coassiali, collegamenti satellitari, doppino telefonico),
anche se più spesso comunica con una rete locale (per es., la rete locale aziendale), che a sua
volta è connessa a I. (di cui costituisce una sottorete); le organizzazioni che offrono servizi I.
sono detti ISP (Internet service provider).
La storia di I. ha inizio con quella dell’ente che più di ogni altro ha contribuito alla sua nascita:
l’ARPA (Advanced Research Project Agency), creata nel 1957 (ha cambiato nome nel 1971,
premettendo il termine Defense, e diventando così la DARPA) dal dipartimento della Difesa
statunitense per finanziare i progetti di ricerca suscettibili di applicazioni militari. Qui nel 1967
L. Roberts, del Massachusetts Institute of Technology, pubblicò un piano per ARPANet , una
rete per l’interconnessione e l’interlavoro di calcolatori di tipo diverso, distribuiti su distanze
geografiche anche considerevoli. Le motivazioni del finanziamento erano di carattere
prettamente militare: uno studio del 1962 di P. Baran, della RAND Corporation, aveva indicato
una rete fortemente decentralizzata (in cui le informazioni non passano sempre da un medesimo
calcolatore centrale che costituirebbe un punto nevralgico) e ridondante (in cui le informazioni
possono arrivare alla medesima destinazione attraverso più percorsi) come un sistema capace di
garantire le comunicazioni anche in caso di distruzione parziale della rete. Erano già presenti i
principali concetti che avrebbero portato allo sviluppo di una rete globale facilmente
accessibile a tutti. Nel giro di qualche anno infatti partì, a opera dell’ARPA, il progetto
Internetworking Architecture che, per contrazione della denominazione, assunse la
denominazione di Progetto Internetting, dando così origine al termine Internet.
La prima rete ARPANet, costituita da quattro calcolatori, nacque nel 1969 presso la University
of California di Los Angeles (UCLA). Tre anni più tardi, la rete era già cresciuta fino a
comprenderne 40 e fu presentata in occasione della prima International Computer
Communication Conference. Gli anni successivi furono dedicati alla messa a punto delle
tecniche di interconnessione tra calcolatori eterogenei e, in particolare, alla definizione, a opera
principalmente di V.G. Cerf e R.E. Kahn, della serie di protocolli TCP/IP (transmission control
protocol/internet protocol), ufficialmente adottati nel 1983.
Parallelamente, lo sforzo di elaborazione di uno standard di comunicazione universale era
accompagnato dalla creazione di una struttura organizzativa per la gestione dell’evoluzione
della rete Internet. Nel 1979 fu infatti istituito un organismo centrale di controllo, denominato
Internet Configuration Control Board (ICCB), che quattro anni più tardi lasciò il posto a una
struttura costituita dall’Internet Activities Board (IAB) e da un insieme di gruppi più agili detti
task force. L’adozione di I. come rete globale di comunicazione non fu però immediata. Pur
avendo dimostrato la fattibilità di una rete di calcolatori su vasta scala, la rete ARPANet fu
affiancata da una miriade di reti create per comunità chiuse di utenti. Nell’aprile 1995 la
National Science Foundation (NSF) abbandonò il ruolo di finanziatore pubblico di I., la cui
struttura di trasporto su lunga distanza, denominata dorsale o backbone, è ora costituita da una
molteplicità di reti, appartenenti sia a enti pubblici, come la stessa NSF e la NASA, sia a
gestori di reti di telecomunicazioni come AT&T, MCI e SPRINT e ad altri operatori
commerciali.
Per gestire a livello globale l’evoluzione di I. è stata creata nel 1991 la Internet Society (ISOC),
che rappresenta la principale struttura di ‘governo’ di I., a cui fanno capo la Internet
Architecture Board (indicata ancora con la sigla IAB), la Internet Engineering Task Force
(IETF), che definisce le normative tecniche, e la Internet Research Task Force (IRTF).
Il messaggio informativo digitale, ossia una stringa di numeri, che un utente, tramite il proprio
calcolatore, vuole inviare al calcolatore di un altro utente, viene suddiviso in porzioni più
piccole, dette pacchetti (generalmente secondo la tecnica detta appunto di commutazione di
pacchetto), i quali vengono inviati separatamente in rete e possono raggiungere la destinazione
seguendo percorsi diversi; non esiste un percorso predestinato e identico per tutti i pacchetti.
Ogni pacchetto, oltre al contenuto informativo, ha anche gli indirizzi numerici (definiti dai
protocolli TCP/IP) del calcolatore che ha generato il messaggio e del calcolatore a cui è diretto.
L’indirizzo di ogni calcolatore è detto indirizzo IP; a tali indirizzi corrispondono nomi,
organizzati in gruppi gerarchici detti domini. L’indicazione dell’indirizzo dominio del
calcolatore destinatario rende possibile l’instradamento del pacchetto attraverso le varie
sottoreti che formano I., per opera di elaboratori dedicati, detti router. In contrapposizione, i
calcolatori dotati di indirizzo I. che non possiedono le funzionalità di instradamento vengono
detti host. Per agevolare l’uso di I. da parte degli utenti sono stati messi a punto opportuni
software dotati di interfaccia grafica.
Ottenuta la connessione a I., l’utente è in grado, con l’utilizzo di opportuni software installati
sul proprio calcolatore, di usufruire di una serie di servizi di natura disparata.
Tra i servizi più usati dagli utenti della rete, è il sistema che permette la condivisione di
documenti ipertestuali multimediali, costituiti cioè da un insieme di contenuti testuali, visuali e
audio/video. Per accedere al world wide web si utilizza un opportuno software, detto browser .
I documenti, detti genericamente pagine web, sono memorizzati in opportune porzioni della
memoria dei server e sono tipicamente raggruppati in insiemi detti siti; per essere accessibili, le
pagine web vengono costruite mediante opportuni linguaggi descrittori, il più diffuso dei quali
è l’HTML (hypertext markup language), che permette di specificare sia il contenuto delle
pagine sia il loro formato di visualizzazione sul browser dell’utente. Il protocollo che regola le
comunicazioni tra client e server e il trasferimento delle pagine web è l’HTTP (hypertext
transfer protocol). Le singole risorse disponibili sulla rete sono individuate univocamente da
una serie di caratteri, denominata URI (universal resource identifier). L’URI può essere del tipo
URL (uniform resource locator) oppure del tipo URN (uniform resource name). La differenza
tra i due tipi consiste nel fatto che nella modalità URL viene specificata la posizione del
documento, mentre la modalità URN consente di specificarne semplicemente il nome (un
programma si incarica poi di tradurre il nome in una locazione fisica). 3.2 E-mailServizio di
rete di messaggistica asincrona che permette agli utenti di inviare e ricevere documenti di testo
e file allegati; i provider offrono agli utenti tale servizio previa registrazione e assegnazione
agli stessi di un indirizzo e-mail che li identifica univocamente. Il messaggio può essere
costituito da un semplice testo oppure può contenere file allegati (in inglese attachments), il cui
uso è regolato dal protocollo MIME (multipurpose Internet mail extensions, «estensioni
multiuso di posta via I.»). Il servizio può essere usato tanto sulle intranet quanto su I. grazie ai
protocolli SMTP (simple mail transfer protocol), per l’invio, e POP (post office protocol), per
la ricezione.
L’accesso remoto è un servizio che permette a un utente di accedere a un calcolatore (e quindi a
tutti i file e a tutti i programmi ivi localizzati) connesso a I. da un altro punto della rete. Tale
servizio può prevedere o meno sistemi di sicurezza per il controllo degli accessi. Il file sharing
permette la condivisione di file tra più utenti, che può avvenire in diversi modi, per es.
caricando i file da condividere su un server FTP (file transfer protocol) o accedendo a una rete
peer-to-peer. Anche in questo caso l’accesso ai singoli file può essere controllato, per es.
mediante codifica dei file o mediante meccanismi di autenticazione degli utenti che vi
accedono. Il servizio di streaming consente la fruizione da parte dell’utente di contenuti
multimediali, principalmente audio e video, in tempo reale. Tale servizio, un tempo molto
limitato, si è assai diffuso grazie alla sempre crescente diffusione della banda larga. Il VOIP
(voice over Internet protocol) permette comunicazioni audio real-time sfruttando la rete I.
piuttosto che la tradizionale linea telefonica.
L’ormai estesissima diffusione di I. ha dato luogo a una serie di profili rilevanti dal punto di
vista civilistico. Innanzitutto, per poter navigare in I. occorre aver previamente stipulato un
contratto con un access provider, che gestisce gli accessi e li concede ai suoi clienti. Oltre
all’access provider si ha un service provider, che fornisce servizi connessi (ospitalità di siti,
caselle di posta elettronica ecc.) e un content provider, che introduce in rete propri materiali
(per es., notizie, racconti ecc.).
Il nome a dominio (o domain name) è un segno di identificazione che individua materialmente
uno spazio acquistabile in rete, cioè un sito Internet. È preceduto da un hostname (www) e può
essere costituito da un nome di persona, uno pseudonimo, la denominazione di una ditta ecc. Il
nome a dominio è ormai pacificamente considerato dalla dottrina e da una giurisprudenza
pressoché unanime un segno distintivo al pari della ditta, dell’insegna (con la quale presenta
analogie nella funzione di collegare un soggetto all’impresa attraverso una ‘localizzazione’) e
del marchio. Tale qualificazione è stata normativamente riconosciuta con l’entrata in vigore del
nuovo Codice sulla proprietà industriale (democrazia legisl. 30/2005) che consente di difendere
il nome a dominio dagli atti di contraffazione e di usurpazione posti in essere da terzi mediante
un giudizio ordinario, ovvero il ricorso alla tutela cautelare. Considerata la capillare diffusione
di I. e soprattutto le potenzialità della rete a livello economico e commerciale, è divenuto
particolarmente vantaggioso registrare domini per poi concederli a terzi o gestirne l’uso.
È possibile concludere validamente contratti tramite I., attraverso l’incontro on line di proposta
e accettazione, ma il legislatore ha dettato regole differenti a seconda che lo stipulante agisca
nell’ambito della propria attività professionale (professionista) oppure no (consumatore).
Notevole rilevanza hanno acquistato l’I. banking , ossia le attività svolte tramite I. da banche
(essenzialmente la raccolta del risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito) o con le
banche, e l’I. financing , cioè i servizi finanziari e creditizi prestati da intermediari non bancari
a ciò abilitati.
I. rappresenta uno spazio virtuale e delocalizzato, che pone complessi problemi di diritto
internazionale privato e processuale, nella ricerca della giurisdizione e della legge applicabili ai
contratti tra soggetti di paesi diversi, ai quali solo in parte è stato possibile trovare soluzione in
regole di carattere sovranazionale. Analoghi problemi si pongono sotto il profilo tributario, sia
in relazione all’applicazione dell’imposizione sui redditi, sia in relazione all’imposizione
indiretta e segnatamente all’IVA.
In particolare, individuare i luoghi in cui sono state commesse attività illecite, o in cui si sono
prodotti gli effetti negativi di queste, e risalire quindi agli autori degli illeciti, è operazione
talvolta complessa. Inoltre, natura, contenuti e intensità degli obblighi sussistenti in capo ai
providers non sono stati ancora definiti in maniera chiara e completa. Tenuto anche conto della
difficoltà di reagire contro eventuali reati informatici, l’uso di I. presenta quindi alcuni rischi,
legati soprattutto alla possibile diffusione di dati, anche sensibili, in virtù del semplice
collegamento a un sito presente in rete, ai pagamenti effettuati attraverso la firma digitale,
all’accesso a distanza al proprio conto corrente, ovvero all’impiego della moneta elettronica.
Un capitolo a parte è rappresentato dai profili penali connessi alla violazione degli altrui diritti
di privativa, con particolare riferimento alle tecniche di riproduzione e diffusione delle opere
dell’ingegno, nelle quali si configurano talvolta forme di pirateria informatica.
La grande espansione di I. solleva una serie di problemi di carattere economico. Un numero
crescente di economisti dedica sempre maggiore attenzione al fenomeno della ‘rete delle reti’,
tanto che si è consolidata una branca dell’economia che va sotto il nome di Internet economics.
Il principale e più immediato problema che si pone nell’affrontare il fenomeno di I. è
l’individuazione di un sistema di prezzi efficiente, che sia cioè in grado di garantire la copertura
di tutti i costi generati dall’uso della rete. A un livello più specifico, molta attenzione è anche
dedicata all’e-commerce e all’impiego della cosiddetta moneta elettronica (e-money).
Da un punto di vista economico, I. si caratterizza per l’esistenza di importanti ‘esternalità di
rete’: l’utilità della rete, cioè, cresce con il crescere del numero degli utilizzatori, ma cresce
anche la congestione. Tali esternalità possono essere positive (benefici) o negative (costi). In
una certa situazione, gli utenti già connessi alla rete possono trarre benefici dal fatto che altri si
connettano, per es., perché in tal modo crescono le possibilità di acquisire nuove informazioni o
di raggiungere nuovi potenziali clienti. Le esternalità divengono negative quando l’incremento
del traffico in una data situazione determina costi aggiuntivi per gli utenti. Se la rete diviene
eccessivamente affollata (congestionata), si allungano i tempi di trasmissione dei dati e questi
ritardi possono comportare peggioramenti sensibili nella qualità del servizio (per es., nel caso
di trasmissione di dati audio e video in tempo reale).
I. ha cambiato il volto della produzione e del consumo. Le imprese non sono altro, in un certo
senso, che informazione organizzata a scopi produttivi, e I., in quanto espressione della
rivoluzione telematica (informatica e telecomunicazioni) ha portato a una incredibile riduzione
del costo dell’informazione, sia nella sua componente di costo di ottenimento sia in quella di
trasporto. L’informazione costa poco e può essere resa disponibile ovunque a bassissimo costo.
Questo ha portato a una generale riduzione di costi, man mano che i processi produttivi
venivano riorganizzati; questa riduzione di costi ha preso anche la forma di un ‘subappalto’
(outsourcing) di parti dell’attività aziendale verso paesi emergenti che offrivano più bassi costi
del lavoro. I. ha cambiato anche la domanda: molti consumatori usano I. per comprare beni e
servizi, per incontrarsi, per scambiare beni e opinioni, e questa agorà elettronica genera a sua
volta nuove offerte volte a sfruttare le enormi potenzialità della rete.
I. ha quindi anche una dimensione sociale e politica: crea nuove forme di partecipazione e di
democrazia, e rende più difficile la censura per i sistemi autoritari. D’altra parte, il carattere
libertario (e secondo alcuni anarcoide) di I. rende più difficile anche la ‘censura buona’: rende
più facile, cioè, l’accesso a siti di pornografia, pedofilia, e la propaganda in favore di
terrorismo, eversione, razzismo. Come tutti i grandi cambiamenti, I. attira anche problemi: dai
virus (programmi che danneggiano i computer e che vengono trasmessi dalla rete) alla spam
(posta elettronica invadente, che riempie le caselle postali degli utenti). Una grossa parte delle
risorse dedicate a I. è stata dirottata sulla sicurezza, e non è escluso che anche la tariffazione
della posta elettronica cambi, e venga richiesto un piccolo pagamento (un ‘francobollo’) per
inoltrare una e-mail, così da scoraggiare il fenomeno della spam.
L’impatto fortissimo avuto dal web sulla comunicazione ha dischiuso opportunità prima
inimmaginabili di contatto, d’informazione e di scambio. Attraverso i social network le
popolazioni del pianeta hanno conquistato maggiori opportunità di incontrarsi e non solo
virtualmente: in tutte le democrazie la partecipazione politica dal basso, su iniziativa dei
cittadini, ha ricevuto nuovo impulso grazie alla Rete che ha permesso di promuovere iniziative
di protesta, appelli, movimenti politici spontanei, azioni collettive su base locale o nazionale. L’
informazione libera e indipendente ha allargato i suoi confini, arricchita di contributi da ogni
angolo del Pianeta messi a disposizione di tutti sul web. Nel giugno 2009, riprese da un
telefono cellulare, hanno fatto il giro del mondo le immagini drammatiche che riprendevano gli
ultimi istanti di vita di una giovane studentessa iraniana, Neda Agha Soltan, uccisa da un
cecchino mentre marciava pacificamente nelle strade di Teheran per protestare contro il regime.
Milioni e milioni di individui, via Internet, sono stati testimoni della sua morte, divenuta un
bruciante atto d’accusa per il presidente Ahmadinejademocrazia Repressa brutalmente, la
protesta dei giovani iraniani invase il web cercando di sfuggire all’oscuramento di Youtube e di
molti siti dell’opposizione attuato dal regime: fu Twitter, in particolare, grazie all’estrema
facilità e immediatezza di utilizzo, a raccogliere i disperati appelli di aiuto e a propagare le
ragioni di quanti erano scesi nelle piazze. Da allora la sorveglianza del governo iraniano sulla
rete si è fatta sempre più stretta e sofisticata: software di filtraggio per negare l’accesso ai siti
indesiderati, rallentamenti dei social network, episodi circoscritti di oscuramento totale di
Internet. Queste drastiche misure di controllo sono state adottate per periodi di tempo limitati,
spesso in concomitanza con lo scoppio di manifestazioni di protesta o per evitare che la rete
amplificasse il dissenso messo a tacere dalle autorità, in Nepal, Arabia Saudita, Yemen,
Bahrein, Cuba. Altri regimi hanno optato per una censura preventiva, ostacolando la diffusione
stessa di Internet nei loro territori, per esempio la Corea del Nord, Myanmar, il Turkmenistan,
paesi dove di conseguenza la percentuale di popolazione che ha accesso alla rete è molto bassa.
Un caso a sé, in questo panorama, è costituito dalla Cina dove il regime non solo non ha
contrastato l’avvento di Internet ma lo ha promosso, considerandolo uno strumento al servizio
dello sviluppo economico. Così, in brevissimo tempo, la popolazione cinese di utenti online ha
raggiunto nel 2011 i 485 milioni, contro i 245 milioni degli Stati Uniti. Per sorvegliare un
numero di utenti così alto è in funzione un sistema di controllo estremamente duttile, pervasivo
ed efficace, in grado di imbrigliare la vivacità e l’inafferrabilità della rete nelle maglie della
censura. È stato proprio il ruolo di primo piano ricoperto dallo Stato nella diffusione di Internet
a facilitare la pianificazione di questo schema centralizzato di sorveglianza: gli utenti internet
in Cina, infatti, si connettono alla rete attraverso alcuni cancelli di interconnessione organizzati
da agenzie statali che censurano oltre 19.000 siti stranieri e oscurano selettivamente messaggi e
parole - per esempio democrazia o diritti umani - sgraditi al regime. Sono trentamila i tecnici
che controllano la rete riuscendo così a pilotare le ricerche dei cinesi sul web e a cancellare la
memoria di avvenimenti drammatici come il massacro compiuto dall’esercito a Piazza Tian An
Men a Pechino il 3 e 4 giugno 1989. Nel giugno 2009, in occasione del ventesimo anniversario
di quegli avvenimenti, le autorità hanno stretto ancora di più le maglie della censura impedendo
o rallentando anche l’accesso ai social network autorizzati, ai server fotografici e di posta
elettronica e alle versioni in lingua cinese della Bbc e della Cnn. Aggirare il ‘great firewall’,
come viene chiamato il sistema di censura cinese, non è impossibile, ma il rischio di essere
scoperti e arrestati è altissimo. Nel 2004 una grande eco suscitò nel mondo l’arresto di un
dissidente cinese colpevole di aver fatto circolare sul web una nota riservata del governo che
invitava tutti i giornalisti al più totale silenzio sugli avvenimenti del 1989 e il cui nome fu
rivelato alle autorità di polizia dagli uffici di Yahoo di Hong Kong. Alle imposizioni
dell’apparato repressivo cinese si sono piegati in più occasioni anche gli altri colossi
dell’informatica, come Google e Microsoft, preoccupati di venire estromessi da una fetta tanto
appetibile e consistente del mercato.
Nel 2011 i bloggers hanno assunto un ruolo di primo piano nelle rivoluzioni dei Paesi arabi
svolgendo una duplice funzione: promuovere e coordinare la rivolta nei loro Paesi e tenere
informato il mondo in tempo reale di quanto avveniva nelle strade e nelle piazze. Attivisti in
piazza e sulla Rete, i bloggers egiziani, tunisini, siriani, yemeniti sono stati perseguitati,
arrestati e uccisi, ma con la loro azione hanno mostrato la potenza inarrestabile della rete e gli
usi molteplici cui questa si presta. Nei paesi arabi la rete è stato il medium che ha consentito la
formazione di un’opinione pubblica non controllata dai regimi e la vivacità del dibattito
politico sul web ha influenzato anche i media tradizionali che in molti casi hanno abbandonato
la loro deferenza al regime appoggiando le rivoluzioni. Alcuni analisti hanno scritto che
Facebook è stato un alleato prezioso per i rivoluzionari egiziani che lo hanno usato per
diffondere date, luoghi e orari delle proteste. Inoltre, a differenza di quanto successo in Cina, i
vertici del social network sembrano aver agito in questa occasione a tutela dei rivoltosi,
attivando una protezione speciale per i profili degli attivisti. Non va dimenticato, tuttavia, che è
stata la presenza di milioni di persone nelle strade e decretare il successo della rivoluzione in
Tunisia e in Egitto: quando nella notte del 27 gennaio, con un’azione senza precedenti, il
presidente egiziano Mubarak ordinava il blackout di Internet nel paese, riducendo quasi al
silenzio la realtà virtuale della protesta, questa ha continuato a dilagare inarrestabile nelle
strade fino al crollo del regime.Internet come diritto dell’umanitàLe rivoluzioni del 2011 in
Africa dimostrano che più cresce l’importanza di Internet e la sua diffusione globale, più si
mostrano prepotentemente gli interessi di controllo da parte dei grandi poteri economici e degli
Stati nazionali. La tecnologia, d’altronde, è in grado di fornire sofisticati strumenti di controllo
della rete e contestualmente le applicazioni in grado di aggirarli. Il dibattito su Internet e la
censura, il diritto alla libertà di opinione e la manipolazione del consenso si arricchisce
continuamente di nuovi argomenti coinvolgendo tutti gli attori internazionali. L’accesso a
Internet come diritto di tutta l’umanità è quanto sostenuto in un rapporto del 16 maggio 2011
presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Report of the Special
Rapporteur on the promotion and protection of the right to freedom of opinion and expression).
Si legge nel documento che Internet si è rivelato uno strumento straordinario per promuovere lo
sviluppo, combattere l’ineguaglianza e tutelare la libertà e la vita delle persone. Di conseguenza
dovrebbe essere interesse prioritario degli Stati assicurare l’accesso universale a Internet,
riducendo al minimo indispensabile le restrizioni al libero flusso dell’informazione e della
comunicazione. Non possono non destare preoccupazione, dunque, denuncia il rapporto delle
NU, gli interventi legislativi che tendono a impedire, limitare o pilotare l’accesso al web, in un
clima generale che vede orientarsi in questa direzione anche alcuni paesi democratici.
***
Democrazia diretta è quel genere di democrazia nel quale il popolo esercita in prima persona il
potere. Democrazia rappresentative è quel genere di democrazia in cui il popolo esercita il
potere attravers i propri rappresentanti in parlamento. Rappresentare politicamente, scrisse
Gianfranco Pasquino, significa agire in nome, al posto e per conto di qualcuno in cariche dotate
di potere politico decisionale.
La rappresentanza politica deve essere correttamente interpretata come ‘delega’, con ampi spazi
per il rappresentante di decidere i suoi comportamenti e di esprimere i suoi voti, piuttosto che
come ‘mandato’ imperativo (vietato dall’art. 67 della Costituzione italiana) e vincolante.
D’altronde, qualsiasi mandato imperativo in situazioni caratterizzate da alta complessità e
imprevedibilità delle problematiche e degli avvenimenti, come si rileva già in questi primi anni
del 21° secolo, finirebbe per irrigidire e paralizzare sia i procedimenti decisionali, sia la stessa
capacità di rappresentare società che cambiano.
Almeno su un punto sembra esservi concordanza di opinioni nel contrasto fra i molti sostenitori
della delega e i relativamente pochi fautori del mandato. Rispetto agli inizi del 20° sec., i
cittadini non soltanto delle democrazie sono in grado di esercitare un potere di pressione non
indifferente nei confronti dei loro rappresentanti, comunicando informazioni e preferenze. Più
problematico è stabilire quanto ascolto in realtà ottengano questi flussi di informazioni e
pressioni. Tuttavia, le maggiori possibilità di partecipazione politica contribuiscono a
ridisegnare limiti, compiti, attività ed effetti della rappresentanza politica stessa. Anzi, il
ridisegno, ulteriormente influenzato dai processi della globalizzazione, è tuttora in corso. La
rappresentanza che interessa maggiormente è quella che viene prodotta attraverso le
competizioni elettorali. In generale, i rappresentanti, che in questa discussione considereremo
essere gli eletti a cariche nelle assemblee politiche, possono sentirsi vincolati da una delega o
da un mandato ricevuto oppure ritenersi i fiduciari dell’elettorato, loro o del loro partito,
godendo di notevole discrezionalità. Più raramente, i rappresentanti saranno e si sentiranno
‘rappresentativi’ soltanto perché assomigliano al loro elettorato o gruppo di riferimento, ovvero
perché ne condividono alcune o molte caratteristiche sociali e sociologiche.
La rappresentanza come rispecchiamento non è conseguibile nelle democrazie che,
costitutivamente, debbono affidarsi a procedure elettorali. Il rispecchiamento è praticamente
impossibile in società che cambiano. La richiesta che il Parlamento sia lo ‘specchio’ del Paese,
se intesa nel senso della rappresentatività sociologica, non può essere accolta. Se, invece, si
riferisce al rispecchiarsi delle preferenze, delle esigenze, degli interessi di un Paese (quello
‘reale’) nel Parlamento (quello ‘legale’), potrà essere soddisfatta dai partiti che, nella
competizione per ottenere consenso elettorale e cariche per i loro rappresentanti, dovrebbero
mirare a una piena comprensione delle domande dell’elettorato e alla migliore rappresentanza
possibile. Tuttavia, l’elemento quasi sicuramente più problematico della rappresentanza politica
nelle democrazie contemporanee, compresa quella italiana, è dato proprio dal fatto che lo
‘specchio’ riflette una politica nella quale, tranne le ammirevoli eccezioni di alcuni Paesi e di
alcuni partiti, le donne hanno un limitatissimo accesso alle assemblee dette rappresentative.
Nonostante, spesso, altri gruppi minoritari risultino variamente sottorappresentati, dovrebbe
essere palese che l’assenza del punto di vista delle donne inficia in maniera molto seria la
possibilità di avere una visione complessiva dei problemi sociali, delle esigenze e delle
preferenze da rappresentare.
Affidato, come vuole la tradizione liberale, al puro esito delle competizioni elettorali, il
problema della rappresentanza delle donne non ha finora trovato soluzione. Per questo si sono
cercati correttivi sotto forma di ‘quote’, di percentuali predefinite, di obiettivi numerici da
raggiungere, tutti discutibili e nessuno risolutivo. Ovviamente, se le donne elettrici volessero
‘rispecchiarsi’ nel loro Parlamento dovrebbero imporre candidature femminili e poi, che è
quanto di rado avviene, preferire l’elezione in Parlamento delle donne invece degli uomini.
Saggiamente, però, le elettrici non votano riflettendo una semplice appartenenza di genere, ma
individuando chi sembra in grado di rappresentare le loro esigenze e le loro preferenze. In un
certo senso, il voto delle donne è la migliore smentita della validità della richiesta di
rispecchiamento come modalità di rappresentanza.
La rappresentanza politica perseguita e conseguita attraverso procedimenti elettorali è
strettamente collegata con la responsabilità, vale a dire che i rappresentanti dovranno
rispondere dei loro comportamenti, delle loro azioni, inazioni e cattive azioni di fronte agli
elettori nella successiva tornata elettorale. Pertanto, è nell’interesse dei rappresentanti stessi
mantenere il contatto con le mutevoli preferenze della loro società poiché, in caso contrario,
altri verranno premiati dal consenso degli elettori per la maggioranza dei quali, evidentemente,
la problematica della rappresentanza delle donne non è ancora ritenuta essenziale. Potrebbe
anche essere che gli interessi che i rappresentanti devono articolare e suscitare, conoscere e
capire, aggregare e trasformare in decisioni non abbiano necessariamente un segno di genere e
che, dunque, perseguire la rappresentanza di genere finisca per distorcere processi
rappresentativi fondati su una o più concezioni di interessi generali, sociali, persino ‘di classe’.
In sintesi, appare essenziale sottolineare e mantenere sempre nella più alta considerazione come
la rappresentanza politica si esprima in decisioni prese con responsabilità dagli eletti che,
tenendo conto delle preferenze dell’elettorato, intendono, per quanto possibile, rispondervi e
soddisfarle.
A lungo, nelle democrazie occidentali, Italia compresa, i partiti sono stati, ancorché non gli
attori esclusivi, certo i protagonisti della rappresentanza politica. Tutte le democrazie sono
diventate tali grazie alla capacità dei partiti di garantire competizione e possibilità di scelta fra
programmi, idee e persone con l’obiettivo di rappresentare la società e, grazie al ruolo di
governo affidato quasi esclusivamente agli esponenti di partito (party government), di guidarla
lungo il percorso programmatico prescelto. Dal canto loro le società occidentali si sono a lungo
sentite rappresentate in modo adeguato dai partiti e dai loro corrispondenti sistemi di partito
anche grazie a una struttura relativamente semplice. Tuttavia, non va dimenticato che, se da un
lato l’ideale della rappresentanza politica era costituito dalla competizione fra partiti e fra
gruppi, ovvero dal pluralismo, dall’altro, in alcuni regimi democratici tutt’altro che irrilevanti,
si era venuta affermando nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale una diversa,
seppure non incompatibile con il pluralismo competitivo, modalità di rappresentanza degli
interessi: il cosiddetto neocorporativismo. Comunque, non è venuto mai meno il tentativo di
una pluralità di gruppi delle più varie tipologie di influenzare la rappresentanza politica
esprimendo interessi specifici e facendo eleggere candidati che ne fossero portatori. Questo
fenomeno, presentatosi in misura diversa nei vari sistemi politici, a seconda sia del grado di
diversificazione socioeconomica, sia delle capacità associative, sia della legittimità accordata, è
stato chiamato gruppi di interesse, gruppi di pressione (che segnalano la modalità con la quale i
gruppi operano sui rappresentanti) e, più di recente, lobby. Le valutazioni sono divise per quel
che concerne il rapporto fra rappresentanza politica e rappresentanza di interessi. Secondo
alcuni studiosi, le attività dei gruppi e delle lobby frammentano la rappresentanza politica e
rendono difficilissima la produzione di decisioni che rispondano a interessi generali, al
cosiddetto bene comune. Secondo altri studiosi, i gruppi e le lobby sono non la causa, quanto
piuttosto l’effetto della frammentazione sociale e le loro attività sono utili a integrare in
maniera efficace e non altrimenti possibile la rappresentanza politica. Grazie all’espressione (in
particolar modo quando è palese, trasparente, pubblica) delle domande di cui sono portatori,
tutti i gruppi, in tal modo, danno il proprio contributo alla definizione condivisa e accettabile,
ma pur sempre mutevole, del bene comune che è l’esito di un procedimento di ricomposizione
della pluralità degli interessi più vicino alle preferenze complessive di qualsiasi società nella
quale tutti i gruppi abbiano, al tempo stesso, la possibilità e il diritto di esprimersi liberamente.
Nell’ambito della visione elaborata dal pluralismo competitivo sono presenti due varianti. La
prima ritiene che tutti gli interessi esistenti in una determinata società abbiano regolarmente e
sempre la possibilità di tradursi in gruppi e di influenzare così la rappresentanza e i processi
decisionali; la seconda sostiene che in tutte le società alcuni gruppi godono di vantaggi
associativi, politici, di legittimità per le loro azioni, mentre altri partono comunque
svantaggiati, quando non vengono, addirittura, costantemente trascurati e ignorati. In realtà,
anche i più avveduti tra gli studiosi del pluralismo hanno fin dall’inizio sottolineato come sia
molto improbabile che qualsiasi rappresentanza degli interessi riesca a contemplare uguali
punti di partenza, offrire uguali opportunità di accesso, garantire uguale influenza sugli esiti per
ciascuno e per tutti i gruppi. È noto, inoltre, che nei sistemi economici di tipo capitalistico (gli
unici nei quali si siano affermati regimi democratici e di libera competizione fra gruppi) esiste
una propensione favorevole agli interessi degli imprenditori e dei produttori a scapito dei
lavoratori che tenteranno di farsi rappresentare dai sindacati. Più di recente è emersa la
consapevolezza che la linea distintiva rilevante corre fra interessi di natura socioeconomica –
più facili da organizzare, far valere e rappresentare – e interessi definibili come diffusi,
indubbiamente più difficili da organizzare e da rappresentare. Si tratta dei diritti, civili e umani,
in particolare delle categorie più svantaggiate, a partire dai bambini, le donne, gli anziani, i
profughi e, certamente, su un altro piano, dei diritti dei consumatori. Tuttavia, sono sorte
diverse associazioni in difesa di questi diritti, ben determinate a portare avanti le loro battaglie
nonostante i molti ostacoli che ne ritardano visibilità e influenza.
Dal canto loro, gli studiosi del neocorporativismo non hanno avuto difficoltà a notare che in
alcune democrazie solidamente strutturate, sia in termini istituzionali sia in termini partitici,
aveva fatto la sua comparsa un modello di rappresentanza degli interessi che, pur non
sovrapponendosi alla rappresentanza politica e non cancellandola, era riuscito a influenzarla nei
suoi tessuti profondi e a ridefinirla in maniera significativa. Più precisamente, nei Paesi
scandinavi, così come, per es., in Austria e in Svizzera, erano emersi triangoli virtuosi di
rappresentanza degli interessi che comprendevano il partito al governo (generalmente di
sinistra, socialdemocratico e molto rappresentativo politicamente), il sindacato (in prevalenza
unitario, con un alto numero di iscritti) e le grandi associazioni imprenditoriali. Le più
importanti decisioni venivano prese attraverso trattative all’interno di questo rapporto
triangolare ed erano poi sottoposte all’approvazione dei rispettivi parlamenti nei quali il partito
socialdemocratico godeva di una maggioranza oppure ne costituiva l’asse portante. Nella
misura in cui quelle società erano solidamente organizzate entro grandi gruppi e in cui il
processo decisionale partitico-parlamentare funzionava rispondendo alle esigenze e alle
preferenze sociali, i modelli neo-corporativi sono stati in grado di garantire per lungo tempo
un’efficace rappresentanza politica complessiva.
Ciò ci riporta al nostro punto di partenza. La politica è un fenomeno istituzionale. Non c'è
alternativa alla via istituzionale, se si vuole fare politica. Non si fa politica per via assembleare
oppure per va referendaria. Allo stesso modo, non si fa politica rispondendo elettronicamente a
una serie di quesiti cliccando con il mouse, al modo del Mi piace di Facebook
***
La nascita dell'economia politica come scienza viene fatta normalmente coincidere dagli storici
del pensiero economico con la pubblicazione nel 1776 di La ricchezza delle nazioni di Adam
Smith che, per ironia della storia, coincise con la Dichiarazione americana di indipendenza.
Questo fatto ha indotto gli storici della politica e gli storici delle idee a interrogarsi sul rapporto
fra i due eventi e, in particolar modo, sul rapporto tra Adam Smith e Thomas Jefferson che,
tradizione vuole, abbia steso materialmente il testo della Dichiarazione americana di
indipendenza. In questa sede, credo meriti soltanto sottolineare che i padri fondatori degli Stati
uniti d'America erano tutti dei proprietari di schiavi. (G. Vidal L'invenzione degli Stati uniti
d'America, Fazi)
Polemiche a parte, un fatto è certo. Con la pubblicazione dell'opera di Adam Smith nacque il
moderno concetto di economico e con esso nacque una nuova visione del mondo che poneva al
proprio centro il perseguimento dell'interesse individuale come fattore determinante il
benessere della collettività. (L. Dumont Homo aequalis, Adelphi, idemocrazia Saggi
sull'individualismo, Adelphi, A. Hirschman Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, G. B.
McPherson Individuo e proprietà alle origini del pensiero borghese, Isedi)
L'economia politica è stata spesso definita la dismal science, la scienza deprimente. Non fu
sempre così. Non lo fu per Cantillon, per Smith, per l'abate Galiani. Il problema sorse quando
l'economia politica cadde vittima delle "eroiche astrazioni" di David Ricardo che posero le
condizioni per la sua successiva matematizzazione introdotta in modo onnipervasivo da Leon
Walras e dalla "rivoluzione marginalista" del 1870. (A. Quadrio Curzio Sui momenti fondativi
dell'economia politica. Il mulino). Ma andiamo con ordine.
Una caratteristica del nuovo sistema, che venne alla luce sin dall'inizio, scrisse Stefano
Zamagni, è la scomparsa dell'interesse per il fenomeno dello sviluppo economico, il grande
tema delle teorie economiche di Smith, Ricardo, Marx e di tutti gli economisti classici.
L'attenzione, invece, si concentrò sui problemi dell'allocazione di risorse date. Certo le idee
fondamentali dei classici sul problema della crescita continuavano a esercitare la loro influenza.
Nella 36 lezione degli Éléments, Walras esponeva una teoria dell'evoluzione economica che si
può ancora considerare ricardiana. Lo stesso potrebbe dirsi, per fare un altro esempio, del
processo di 'crescita della ricchezza' esposto da Marshall nei suoi Principles. Ma è un fatto che,
malgrado la presenza, qua e là, di considerazioni sulla dinamica dei sistemi economici, il
pensiero dei fondatori del sistema teorico neoclassico trascurò sostanzialmente il problema
della individuazione delle forze che spiegano l'evoluzione nel tempo delle economie industriali.
Argomento centrale della ricerca teorica in tale periodo fu lo studio di un sistema in equilibrio
statico, cioè di una economia, come poi avrebbe detto Clark, "libera di cercare i livelli finali di
equilibrio dettati dai fattori operanti in ogni dato momento del tempo". Al centro del sistema
neoclassico sta il problema dell'allocazione di risorse date fra usi alternativi. Scriveva Jevons
nella Theory: "Il problema economico può essere formulato come segue: dato: una certa
popolazione con vari bisogni e poteri di produzione, in possesso di certe terre e di altre fonti di
materia; da determinare: il modo di impiegare il lavoro meglio atto a rendere massima l'utilità
del prodotto". Questa formulazione di Jevons diede l'impronta alla ricerca economica di tutta
l'epoca. Nell'analisi delle condizioni che assicurano l'ottima allocazione di risorse date fra usi
alternativi il pensiero neoclassico individuò un principio di validità universale, in grado, da
solo, di abbracciare l'intera realtà economica. "Sul lato analitico - per dirlo con le parole di L.
Robbins - l'economia dimostra di essere una serie di deduzioni dal concetto fondamentale di
scarsità di tempo e di materiali. [...] Qui, allora, è l'unità dell'oggetto della scienza economica,
le forme assunte dal comportamento umano nel disporre di mezzi scarsi" . La tendenza a
estendere il modello di base a tutte le branche dell'indagine economica si rafforzerà nel corso di
questo secolo fino a culminare nella tesi di P.A. Samuelson secondo cui ci sarebbe un principio
semplice al cuore di ogni problema economico: una funzione matematica da massimizzare
sotto vincoli.
Un'altra caratteristica che accomuna i tre padri fondatori della teoria economica neoclassica,
nota Zamagnj, e che resterà un pilastro del sistema teorico neoclassico, è la loro adesione
all'approccio utilitarista, un approccio che annoverava tra i precursori Galiani, Beccaria,
Bentham, Say, Senior, Bastiat, Cournot e, soprattutto, Gossen. In realtà il contributo teorico più
importante di Jevons, Menger e Walras consisté, più ancora che in una riformulazione completa
e coerente della teoria del valore-utilità e dell'ipotesi di utilità marginale decrescente, nel modo
in cui essi modificarono le fondamenta utilitaristiche dell'economia politica. Il loro
marginalismo accreditò una speciale versione della filosofia utilitaristica, quella per cui il
comportamento umano è esclusivamente riducibile al calcolo razionale teso alla
massimizzazione dell'utilità. A tale principio venne riconosciuta validità universale: da solo
esso avrebbe consentito di comprendere l'intera realtà economica. In ciò soprattutto risiede
l'aspetto rivoluzionario delle nuove teorie economiche e non tanto, come taluno ha sostenuto,
nella tesi secondo cui i prezzi dei beni sarebbero determinati dall'utilità.
Un terzo elemento distintivo riguarda il metodo. Il metodo neoclassico è basato sul principio
delle variazioni delle proporzioni, il cosiddetto 'principio di sostituzione': è un metodo che non
ha equivalenti nel pensiero classico. Nell'ambito della teoria del consumo si assume
sostituibilità tra un paniere di beni e un altro; nell'ambito della teoria della produzione
sostituibilità tra una combinazione di fattori e un'altra. L'analisi è condotta nei termini delle
possibilità alternative tra cui i soggetti, siano essi consumatori o produttori, possono scegliere.
E l'obiettivo è il medesimo: ricercare le condizioni sotto le quali si arriva a scegliere
l'alternativa ottimale. Tale metodo presuppone che le alternative in gioco siano 'aperte' e che le
decisioni prese siano reversibili; diversamente il principio di sostituzione non avrebbe ragione
d'essere.
Una quarta caratteristica distintiva dell'approccio neoclassico riguarda i soggetti economici. Se
essi devono essere soggetti capaci di effettuare scelte razionali in vista della massimizzazione
di un obiettivo individuale, quale l'utilità o il profitto, devono essere degli individui, al più degli
aggregati sociali 'minimi', ma caratterizzati dall'individualità dell'unità decisionale, come le
famiglie o le imprese. Così scompaiono di scena i soggetti collettivi, le classi sociali, i 'corpi
politici', che invece i mercantilisti, i classici e Marx avevano posto al centro dei loro sistemi.
Una quinta caratteristica del sistema neoclassico è rappresentata dal definitivo raggiungimento
di un obiettivo cui molti classici avevano spesso aspirato, ma che nessuno aveva mai realizzato
completamente: l'astoricità delle leggi economiche. Assimilata l'economia alle scienze naturali,
e alla fisica in particolare, le leggi economiche vengono ad assumere finalmente quel carattere
assoluto e obiettivo che si attribuisce alle leggi di natura. L'eternità stessa del problema
economico posto dai neoclassici, il problema della scarsità, fonda la validità universale delle
leggi economiche. Ma perché ciò abbia senso è necessario espungere dal dominio di studio
dell'economia le relazioni sociali, esorcizzandole come una superstizione a un tempo inutile e
non in linea con le nuove acquisizioni della scienza dell'epoca.
Con la rivoluzione marginalista, sottolinea Zamagni, nacque quel progetto riduzionista del
discorso economico che contraddistingue tutto il pensiero neoclassico successivo, un progetto
in forza del quale all'economia non viene riconosciuto altro ambito di studio che quello delle
relazioni tecniche (le relazioni tra uomo e natura). Così, mentre il riduzionismo individualista
aveva portato all'eliminazione delle classi sociali, il riduzionismo anti-storicista portò
all'eliminazione delle relazioni sociali; con il che, poi, perse ovviamente di rilevanza anche lo
studio del loro cambiamento. Mentre nei classici e in Marx l'apparato analitico è costruito con
esplicito riferimento al sistema capitalistico, del quale si vogliono indagare le leggi di
movimento, il paradigma neoclassico aspira a una completa a-storicità.
Naturalmente non è una cosa facile, spiega Zamagni. Persino Walras dovette servirsi di nozioni
quali capitale, interesse, imprenditore, salario, ecc., nozioni che hanno un senso solo se riferite
al sistema capitalistico. Infine un sesto importante elemento distintivo della teoria neoclassica
consiste nella sostituzione di una teoria soggettivista del valore a quella oggettivista. Alla base
del principio del valore soggettivo sta la tesi secondo cui tutti i valori sono individuali e
soggettivi. Individuali significa che vanno intesi sempre come fini di particolari individui. Non
esistono cioè valori collettivi esprimibili come fini di gruppi o di classi sociali in quanto tali.
D'altro canto i valori sono soggettivi, nel senso che scaturiscono da un processo di scelta: un
oggetto ha valore se è desiderato da un soggetto. L'elemento della soggettività indica che un
valore è tale perché qualcuno lo sceglie in quanto fine; l'elemento dell'individualità postula
invece che deve esserci un particolare soggetto cui imputare quel fine. Viceversa, nell'opposta
concezione, quella del valore oggettivo, i valori esistono indipendentemente dalle scelte
individuali. L'individuo può accogliere o respingere i valori, ma non rientra nelle sue facoltà
fissarne la cogenza. Una conseguenza immediata e importante dell'approccio neoclassico alla
questione del valore è che la teoria della distribuzione del reddito diventa un caso particolare
della teoria del valore, un problema di determinazione dei prezzi dei servizi dei fattori
produttivi piuttosto che di ripartizione del reddito tra classi sociali.
I teorici neoclassici rifiutano infatti, spiega Emiliano Brancaccio, una analisi della società
basata sulla divisione tra le classi. Ad essa contrappongono il cosiddetto individualismo
metodologico. Questo metodo si basa sulla idea che qualsiasi aggregato sociale, inclusa la
classe, è in realtà costituito da singoli individui. L’analisi scientifica della società deve sempre
partire dall’analisi del comportamento del singolo.
Inoltre, i neoclassici rifiutano l’idea di doversi occupare di uno specifico modo di produzione, e
in particolare del capitalismo. Essi si propongono di elaborare una teoria molto più astratta e
generale, che valga per ogni sistema di organizzazione dei rapporti sociali e per ogni periodo
storico, e che valga anche per ogni individuo (indipendentemente dalla ricchezza che possiede
o dalla funzione economica che svolge). In questo senso i neoclassici ritengono che il problema
economico fondamentale di ogni individuo e di ogni società sia quello di impiegare al meglio i
mezzi scarsi di cui dispone al fine di accrescere più che può il proprio benessere. Questo
problema secondo i neoclassici è così importante che definisce in quanto tale l’oggetto stesso
della scienza economica.
Nel Saggio sulla natura e sul significato della scienza economica del 1932, l'economista
neoclassico Lionel Robbins definì l’economia come quella scienza «che studia il
comportamento umano come una relazione fra scopi classificabili in ordine d’importanza e
mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi». Pochi anni dopo un altro economista neoclassico
fornì una descrizione ancor più sintetica della disciplina: nel suo celebre Fondamenti di analisi
economica del 1947, Paul Samuelson definì il nucleo di ogni problema economico come «una
funzione matematica da massimizzare sotto vincoli», dove i vincoli rappresentano le risorse
scarse disponibili e la funzione da massimizzare in genere rappresenta il benessere individuale.
Secondo i neoclassici tale benessere può esser misurato attraverso l’utilità, un concetto che essi
adoperano molto spesso nelle loro analisi. Dunque, per i neoclassici, l’analisi basata sulla
esistenza delle classi sociali, presente negli economisti classici, è inutile e per certi versi
fuorviante, visto che il comportamento di ogni individuo, indipendentemente dalla classe di
appartenenza, può essere esaminato come un problema di massimizzazione della utilità sotto il
vincolo delle risorse scarse di cui egli dispone, e più specificamente come un problema
risolvibile con il calcolo marginale.
Il ruolo e il significato attribuiti all’utilità hanno subito profondi mutamenti nella storia del
pensiero economico. Secondo gli economisti classici, come A. Smith e democrazia Ricardo,
l’utilità (o valore d’uso) costituiva un semplice prerequisito del valore di scambio di un bene:
solo una merce che soddisfi determinati bisogni o che sia desiderata da qualcuno (che sia cioè
utile) può avere un valore di scambio positivo, ma quest’ultimo deve essere determinato sulla
base di elementi diversi dal valore d’uso. Il valore di scambio di un bene, infatti, veniva fatto
dipendere dai costi di produzione (calcolati in termini di ore di lavoro) misurabili e
confrontabili quantitativamente, e non dall’utilità, che rappresentava invece una semplice
qualità conferita dai singoli soggetti al bene in questione e dunque non suscettibile di
espressione quantitativa.
Con l’approccio marginalista, sviluppato a partire dalla prima metà dell’Ottocento, si verificò
un mutamento di prospettiva e alla teoria oggettiva del valore propria dell’impostazione
classica venne contrapposta una concezione soggettiva, secondo cui il valore dei beni nasce dal
confronto tra la scarsità delle risorse e l’utilità attribuita ai beni dagli individui. Il passaggio
analitico verso la nuova teoria fu reso possibile dalla distinzione tra utilità totale (derivante dal
consumo di una determinata quantità di un bene) e utilità marginale (incremento dell’utilità
totale dovuto all’aumento di una quantità piccola, ‘marginale’, del bene consumato), già
conosciuta dagli economisti nel 19° sec., ed enunciata correttamente da W.F. Lloyd (1833) e N.
Senior (1836). Alla base dei rapporti di scambio tra i beni andava infatti considerata non tanto
l’utilità totale, quanto l’utilità marginale, riferita alla quantità disponibile dei beni. Tale
distinzione consentiva di risolvere il famoso ‘paradosso del valore’ messo in luce da Smith: i
diamanti, beni non utilissimi, valgono più dell’acqua, indispensabile alla sopravvivenza umana,
perché la loro scarsità dà luogo a un grado relativo di utilità superiore a quello dell’abbondante
acqua.
Dal fatto che il valore di un bene fosse determinato in base alla sua utilità marginale discendeva
l’importante principio secondo cui incrementi successivi della quantità disponibile di un bene
assicurano incrementi di utilità via via minori (legge dell’utilità marginale decrescente). Si
ponevano in tal modo le premesse per l’elaborazione di una compiuta teoria della domanda del
consumatore, in quanto l’utilità di una merce dipendeva dal suo consumo. I primi contributi
significativi in questo campo furono quelli dell’economista francese A.-J. Dupuit (1844), che si
servì del principio dell’utilità marginale decrescente per elaborare il concetto di surplus del
consumatore, e del tedesco H. Gossen (1854), che elaborò il principio di massimizzazione
dell’utilità del consumatore in termini di uguaglianza delle utilità marginali dei singoli beni
ponderate con i rispettivi prezzi.
Il superamento definitivo della teoria classica del valore basata sui costi e l’affermazione del
concetto di utilità come spiegazione del valore dei beni avvenne però solo intorno al 1870, con
i contributi di quegli economisti che apportarono una radicale rielaborazione del pensiero
economico, in seguito ribattezzata ‘rivoluzione marginalista’. In particolare, W.S. Jevons
(1871) utilizzò le funzioni di utilità marginale dei soggetti coinvolti nello scambio per dedurre
il rapporto di scambio di equilibrio tra due beni, mentre l’esponente della scuola austriaca C.
Menger (1871) estese il principio dell’utilità marginale agli stessi costi di produzione. L.
Walras (1874), invece, seguendo un approccio diverso da quello di Jevons, elaborò un modello
di equilibrio economico generale comprendente più individui e più beni, nel quale il valore di
equilibrio degli scambi veniva determinato dalle funzioni di utilità marginale in ciascun
soggetto economico.
Fu, tuttavia, con la pubblicazione dei Principles of economics di A. Marshall, nel 1890, che i
diversi e ancora eterogenei contributi dei pionieri del marginalismo trovarono una definitiva
sistemazione nella teoria dei prezzi di mercato, basata sull’analisi dell’offerta e dei costi e
integrata da una coerente teoria del consumatore espressa in termini di utilità.
L’approccio marginalistico dell’utilità fu sottoposto, agli inizi del Novecento, ad alcuni rilievi
critici. In primo luogo, fu messo in discussione il criterio di massimizzazione dell’utilità basato
sul confronto delle utilità marginali dei diversi beni. Infatti, tale confronto presupponeva che
ciascun soggetto disponesse di una misura cardinale dell’utilità e che fosse quindi in grado di
assegnare a ogni bene un numero rappresentante l’ammontare di utilità a esso associata. Ciò
non poteva tuttavia ritenersi corretto, poiché gli individui possono al massimo confrontare le
utilità ma, essendo le utilità elementi psicologici, non possono dare loro una misura. In tal
senso fu sottoposta a critica anche la possibilità di confronto interpersonale delle utilità, che
necessariamente deve intervenire quando dai problemi relativi al benessere personale si passa
ai problemi di carattere collettivo. In particolare, non essendo possibile valutare se la perdita di
utilità di un soggetto economico, derivante da una particolare azione di politica economica o di
altro genere, sia compensata o meno dall’incremento di utilità di un altro soggetto, non si
possono neanche stabilire gli effetti della suddetta azione sul benessere della collettività. A.C.
Pigou (1912) cercò di aggirare il problema della misura dell’utilità collettiva ricorrendo al
concetto di dividendo nazionale (o reddito reale aggregato) come controparte oggettiva del
benessere nazionale. Il benessere sarebbe aumentato con il crescere del reddito reale e con una
più equa distribuzione delle risorse. Tale soluzione lasciava tuttavia insoddisfatti i sostenitori di
un approccio positivo dell’economia, libero da giudizi di valore riguardanti i problemi
dell’equità e della distribuzione del reddito.
Vilfredo Pareto riformulò invece la teoria marginalista adottando una concezione ordinale delle
utilità in luogo di quella cardinale. Pareto, ricorrendo alla tecnica delle curve di indifferenza
sviluppate da F.Y. Edge worth, fu in grado di stabilire, per ogni coppia di beni, se l’utilità
derivante dal possesso di uno dei due beni sia minore, uguale o maggiore dell’utilità derivante
dal possesso dell’altro bene. In tal modo era possibile stabilire un ordinamento delle preferenze
di ciascun individuo rispetto a un paniere di beni basato su una scala ordinata anziché sulla
misurabilità dell’utilità. La nuova impostazione di Pareto ebbe rilevanti conseguenze sulle
successive teorie del consumatore, creando le premesse per lo sviluppo dell’approccio
ordinalista dell’utilità di J.R. Hicks e R.G.democrazia Allen (1934) e della teoria delle
preferenze rivelate di P.A. Samuelson (1938). Inoltre, la negazione della possibilità dei
confronti intersoggettivi di utilità diede luogo a un nuovo filone interpretativo dell’analisi del
benessere sociale (conosciuto come nuova economia del benessere in contrapposizione alla
teoria utilitaristica di Pigou e Marshall) a opera di economisti come A. Bergson (1938), N.
Kaldor (1939), J.R. Hicks (1939), T. Scitovsky(1941), Samuelson (1947) e K.J. Arrow (1951).
Anche se tali sviluppi hanno progressivamente indebolito il riferimento all’utilità quale
principio esplicativo delle scelte del consumatore, la teoria dell’utilità continua a rimanere uno
dei punti di riferimento ineliminabili della teoria marginalista.
Il concetto economico di utilità ha avuto nel corso del tempo numerose precisazioni
matematiche, riferite in particolare a situazioni di certezza, di rischio, di incertezza. Per quanto
riguarda le prime, sono prevalentemente utilizzate per la formulazione di gran parte delle
funzioni di consumo in cui l’esito della decisione è noto e corrisponde al risultato della
massimizzazione della funzione di utilità del consumatore sulla base delle sue preferenze. Le
decisioni prese in condizioni di rischio si riferiscono invece a una situazione in cui a ogni
evento alternativo che si può verificare corrisponde una probabilità. La precisazione
matematica è in questo caso necessaria per la valutazione dell’utilità di un risultato aleatorio
(per es., di una lotteria) e per la formulazione della posta da puntare che, nel caso di gioco
equo, e secondo J. von Neumann e O. Morgenstern, corrisponde alla vincita media o speranza
matematica. Prendendo in considerazione un bene esprimibile in termini quantitativi, l’utilità di
una quantità x per una persona è una funzione u(x) che rispecchia l’ordinamento di
preferenze della persona e tale che l’utilità di una quantità aleatoria x è uguale all’utilità della
media di x. L’esistenza di una funzione che soddisfi tali proprietà viene dimostrata, purché si
ammettano alcune ipotesi sull’ordinamento delle preferenze della persona considerata, tra cui è
(comprensibilmente) essenziale che, date due quantità (certe e aleatorie), la persona possa
discriminarle, dire cioè se la prima è preferibile, o equivalente, o meno preferibile, rispetto alla
seconda. La dimostrazione è costruttiva: permette, in base alle risposte di una persona, di
valutare la sua funzione di utilità, che però non è individuata in modo univoco, in quanto una
sua trasformazione monotona rappresenta le stesse preferenze della funzione di partenza.
L’utilità così definita risponde quindi a diverse delle condizioni poste dagli economisti, in
particolare a quella di no bridge, che viene anche detta impossibilità del confronto
interpersonale dell’utilità. A esse si aggiunge l’importante condizione riguardante la media, che
permette ampi sviluppi della teoria dei giochi e della teoria delle decisioni statistiche. Sviluppi
più recenti nelle formulazioni matematiche dell’utilità riguardano prevalentemente situazioni di
incertezza in cui l’esito della decisione dipende da eventi non controllabili dagli agenti
economici, come per es., nei giochi non cooperativi. In tali casi, numerosi contributi (di F.P.
Ramsey, B. de Finetti, L.J. Savage) hanno introdotto un concetto soggettivo di probabilità
secondo il quale, nella massimizzazione della funzione dell’utilità, vengono prese in
considerazione le conoscenze di cui dispone l’agente economico in un determinato momento.
Lo sviluppo di queste tematiche ha portato a un uso sempre più esteso della matematica
aumentando in questo modo il disagio dei profani nei confronti dell'economia politica.
La scuola matematica si distingue in due sottoscuole, quella degli equilibri economici parziali
(A.-A. Cournot, W.S. Jevons, A. Marshall, F.Y. Edgeworth, M. Pantaleoni e altri), che
considera ciascun settore del sistema separatamente, e quella degli equilibri economici generali
(L. Walras, V. Pareto, I. Fisher, E. Barone e altri), che prende in considerazione tutti i settori
simultaneamente; l’una e l’altra, determinati i vincoli ai quali, nelle condizioni ipotizzate, è
subordinato il sistema economico, impostano un sistema di equazioni in cui i vincoli stessi sono
i dati, mentre i prezzi, le quantità prodotte e consumate ecc. sono le incognite. Se i dati
permettono di determinare la forma delle equazioni e se il sistema così costruito è determinato
(il numero di equazioni indipendenti uguagliando in tal caso quello delle incognite), esso è
risolubile e permette di individuare la sola posizione di equilibrio del mercato particolare o
generale.
La scuola matematica ha consentito notevoli progressi alla scienza economica, sostituendo al
concetto di causa ed effetto tra i fenomeni economici quello di correlazione e mettendo in luce
l’interdipendenza e la simultaneità dei fenomeni stessi, ma i suoi risultati sono stati a loro volta
contestati da J.M. Keynes e dai suoi seguaci i quali, valendosi sempre dello strumento
matematico, ritengono che i sistemi economici, una volta spostatisi dalla situazione di
equilibrio, non tendano a tornarvi se non grazie a un intervento dei poteri pubblici.
Critiche di fondo alla teoria dell’equilibrio economico generale sono state mosse anche da P.
Sraffa e tentativi per dimostrare la possibilità di un equilibrio non di concorrenza sono stati
fatti da J. Robinson ed E.H. Chamberlin; la teoria è stata poi ripresa e perfezionata al fine di
determinare le condizioni di stabilità di un sistema da J.R. Hicks, O. Lange e P.A. Samuelson.
Il crescente ricorso all’impiego della matematica ha consentito inoltre di studiare l’evoluzione
nel tempo e l’elaborazione dei modelli macroeconomici di sviluppo. Di notevole importanza è
anche l’econometria, corrente di pensiero che combina insieme analisi economica, statistica e
matematica e ha consentito l’analisi delle interdipendenze settoriali, gli studi sulla
programmazione lineare e una più rigorosa impostazione dei problemi relativi alla
pianificazione. Tra i contributi più recenti all’economia m. vanno annoverati la teoria dei
giochi e la matematica del caos. La prima analizza il comportamento di individui in situazione
di interazione strategica e ne caratterizza gli equilibri. La seconda si rifà allo studio dei sistemi
dinamici complessi ed evidenzia come l’economia possa essere governata da sistemi di
equazioni non lineari che possiedono equilibri multipli dipendenti dai parametri e dalle
condizioni iniziali; le traiettorie attuali sono quindi il risultato di scelte passate.
In genere si ritiene che la nascita di una vera e propria scienza economica, scrive Emiliano
Brancaccio sia avvenuta tra il 1760 e il 1830, ossia a cavallo di quella prima Rivoluzione
industriale che in Inghilterra e in altri paesi creò le basi per la piena affermazione del modo di
produzione capitalistico (cioè di un sistema nel quale la classe dei capitalisti detiene il controllo
dei mezzi di produzione, mentre la classe dei lavoratori si presenta sul mercato offrendo ai
capitalisti la propria forza lavoro in di un salario).
Durante la prima Rivoluzione industriale si assiste a un grande processo di innovazione
tecnologica, di allargamento dei mercati, di concentrazione dei capitali, di trasformazione di
larghe masse di lavoratori in operai salariati e di aumento generalizzato della scala della
produzione e della circolazione delle merci. Tali trasformazioni economiche sono
accompagnate anche da importanti cambiamenti negli assetti sociali e politici. In questa fase si
registra infatti il relativo declino politico della classe aristocratica dei proprietari terrieri e
prende avvio l’ascesa sociale e politica di una nuova classe di soggetti, quella dei capitalisti
proprietari delle moderne imprese agricole e industriali. Il successo dei capitalisti porta a una
nuova concezione dello Stato: non più espressione degli interessi del sovrano e dell’aristocrazia
fondiaria, l’autorità statale viene chiamata a favorire lo sviluppo del capitale. Nuovo scopo del
potere politico è dunque di salvaguardare gli interessi della nuova classe capitalista emergente,
in contrapposizione alle istanze provenienti dalla classe dei proprietari terrieri.
E’ esattamente in questi scenari che avviene la pubblicazione delle fondamentali opere di due
studiosi considerati i padri fondatori della scienza economica moderna: lo scozzese Adam
Smith, autore della Ricchezza delle nazioni del 1776; e l’inglese David Ricardo, autore dei
Principi di economia politica e della tassazione del 1817. Smith e Ricardo sono considerati i
massimi esponenti della cosiddetta economia classica. Gli economisti classici risultano in larga
parte sostenitori del cosiddetto liberismo, o “laissez-faire”.
A grandi linee il liberismo, spiega Brancaccio, è quella dottrina politica che si situa alla base
dell’idea che per favorire lo sviluppo economico e la crescita del benessere di tutti si debbano
liberare le forze del mercato dai lacci dell’autorità statale, cioè si debba “lasciar fare” ai
capitalisti privati. Sia pure seguendo ragionamenti molto articolati e con diversi accenti e
sfumature, Smith e Ricardo in definitiva sostengono le tesi liberiste. Essi infatti ritengono che
ci si dovrebbe affidare prevalentemente alle forze spontanee del mercato e della concorrenza tra
le imprese private, senza inutili vincoli o intromissioni da parte dello Stato. A questo proposito,
Smith elabora il cosiddetto “teorema della mano invisibile”.
Secondo questo “teorema” gli individui agiscono nel libero mercato guidati dal loro egoismo
personale, ma proprio seguendo i loro interessi particolari essi inconsapevolmente
contribuiscono allo sviluppo economico complessivo, e quindi finiscono per servire l’interesse
di tutti. Scrive Smith che «ciascuno è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine
che non era parte delle proprie intenzioni». Le forze del mercato rappresentano cioè una “mano
invisibile” che guida i singoli individui egoisti a compiere il bene comune dello sviluppo
economico. In questo senso egli aggiunge che «non è dalla benevolenza del macellaio, del
birraio o del fornaio che ci dobbiamo aspettare la cena, ma dal fatto che essi perseguono il
proprio interesse».
Il motivo per cui secondo Smith il “teorema” funziona è che i capitalisti proprietari delle
imprese, in concorrenza tra loro, cercheranno di prevalere gli uni sugli altri producendo
esattamente le merci che i consumatori desiderano. Inoltre, i capitalisti
cercheranno di adottare i metodi produttivi più efficienti al fine di ridurre al
minimo i costi, ed essere quindi più competitivi rispetto ai diretti concorrenti. La riduzione dei
costi farà sì che le merci siano vendute ai prezzi più bassi possibili, il che garantirà sviluppo e
benessere diffuso. A grandi linee, sono questi i motivi per cui secondo Smith è bene lasciare
che le forze del mercato e della concorrenza siano tendenzialmente lasciate libere di operare.
Una sorta di teorema della mano invisibile verrà in seguito applicato da David Ricardo anche al
caso dei rapporti internazionali. Per Ricardo occorre infatti salvaguardare le libertà di mercato
non soltanto quando si considerino i singoli capitalisti in concorrenza tra loro, ma anche
quando si tratti di nazioni che competono negli scambi commerciali. Ricardo quindi era non
soltanto un liberista ma anche un “liberoscambista”. Egli cioè non era semplicemente un
fautore del liberismo economico tra le imprese e tra i singoli individui, ma sosteneva anche il
libero scambio tra paesi. Egli elaborò in questo senso il famoso “teorema dei vantaggi
comparati”. Questo teorema ci dice che il libero scambio di merci tra paesi è sempre
vantaggioso per tutti. In quest’ottica, anche se un paese fosse più efficiente di un altro nella
produzione di tutte le merci, al primo converrà comunque concentrarsi nella produzione delle
merci in cui sia relativamente più efficiente, mentre potrà lasciare la produzione delle altre
merci al secondo paese. In questo senso Ricardo sostenne che l’Inghilterra avrebbe dovuto
specializzarsi
nella produzione e nella esportazione di manufatti industriali, mentre avrebbe dovuto importare
grano dagli altri paesi. Il consiglio che Ricardo dava all’Inghilterra era quindi di abbandonare il
protezionismo commerciale, cioè di rinunciare ai dazi con i quali il paese cercava di proteggere
l’agricoltura nazionale dalla importazione di grano proveniente dall’estero. I dazi erano
sostenuti dai proprietari fondiari inglesi, che guadagnavano dalla produzione di grano sui loro
terreni. Ma per Ricardo la classe dei proprietari terrieri rappresentava un ostacolo allo sviluppo
economico. Il paese doveva quindi abbandonare le protezioni, specializzarsi nella manifattura e
aprirsi agli scambi internazionali.
Gli economisti classici offrivano quindi una interpretazione sostanzialmente
positiva del capitalismo e delle leggi della concorrenza che lo governavano. Essi talvolta
definivano “naturale” l’equilibrio concorrenziale determinato dalle forze del mercato. In tal
modo sembravano voler dare l’idea che il capitalismo si sviluppasse secondo “leggi naturali”,
ossia in un certo senso armoniche ed eterne.
I classici tuttavia, nota Brancaccio, non nascondevano gli elementi di conflitto insiti nella
società capitalista. Non a caso Smith e Ricardo ritenevano che la società fosse divisa in classi: i
proprietari terrieri, i capitalisti e i lavoratori. In varie circostanze essi riconobbero che le classi
sociali hanno interessi irriducibilmente contrapposti tra loro. Ricardo, in particolare, costruì una
teoria secondo cui il profitto spettante ai capitalisti va concepito come un “residuo”, come un
“surplus” che si ottiene una volta che da una data produzione totale siano state sottratte le merci
spettanti ai proprietari terrieri a titolo di rendite e le merci spettanti ai lavoratori sotto forma di
salari. Ma allora, se il profitto è un residuo, ciò significa che esso sarà tanto più grande quanto
minori siano le rendite e i salari, il che mette chiaramente in luce i motivi di contrasto tra le
classi sociali nella ripartizione della produzione.
Al centro dell'economia politica classica, ha scritto Giorgio Lunghini, e successivamente della
critica marxiana, sta il concetto di sovrappiù (la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith è del
1776; i Principî di David Ricardo sono del 1817-1821; gli scritti di Karl Marx qui rilevanti
vanno dal 1835 al 1883). Il sovrappiù è quel che resta del prodotto sociale (tutto quanto viene
prodotto in un'economia, in un dato periodo di tempo), una volta reintegrati i mezzi di consumo
necessari per la riproduzione dei lavoratori, nonché i mezzi di produzione consumati o logorati
nel processo produttivo. In generale il prodotto sociale sarà composto da beni eterogenei,
mentre la determinazione quantitativa del sovrappiù richiede che i termini della somma
algebrica da cui questo risulta siano espressi nella stessa unità di misura. La rappresentazione
quantitativa del processo capitalistico di produzione e riproduzione economica e sociale
richiederà dunque una teoria dei prezzi che consenta una contabilità adeguata delle diverse
grandezze. Questa contabilità, che per il capitalismo è essenziale, è però premessa necessaria
ma non sufficiente per la parte critica del discorso, per l'analisi della distribuzione del prodotto
sociale tra le differenti classi della società. Questa analisi, che a maggior ragione non può non
essere storicamente determinata, richiede non solo una teoria dei prezzi ma anche, e prima,
un'indagine circa le cause della ricchezza e l'origine del valore.
Per Smith "il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte
le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma" . All'origine del sovrappiù sta
dunque la produttività del lavoro. A sua volta, la produttività del lavoro dipende dalla divisione
del lavoro, e questa dalla tendenza propria della natura umana al baratto e allo scambio. Poiché
il lavoro può essere produttivo di sovrappiù in tutti i settori dell'economia, per l'economia nel
suo complesso il sovrappiù potrà essere determinato quantitativamente soltanto in termini di
valore, e il lavoro potrà essere preso a "misura reale" del valore stesso. Normalmente il valore
di scambio di una merce è espresso nei termini del denaro che se ne può avere in cambio,
anziché in termini di lavoro o di un'altra merce. La moneta è però una unità di misura variabile.
Anche il lavoro lo è, e tuttavia, a differenza della moneta e di qualsiasi merce, è preferibile
come unità di misura poiché "in ogni tempo e luogo, uguali quantità di lavoro si può dire
abbiano uguale valore per il lavoratore. Nel suo stato ordinario di salute, di forza e d'animo, al
livello ordinario della sua arte e della sua destrezza, egli deve sacrificare sempre la stessa
quantità del suo riposo, della sua libertà e della sua felicità. [...] Soltanto il lavoro dunque, non
variando mai nel suo proprio valore, è l'ultima e reale misura con cui il valore di tutte le merci
può essere stimato e paragonato in ogni tempo e luogo. È il loro prezzo reale; la moneta è solo
il loro prezzo nominale".
Se "il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose
necessarie e comode della vita", sembrerebbe ragionevole dedurre che il valore di una merce
dipende dal lavoro che vi è contenuto. Smith ritiene invece che ciò sia vero soltanto in quello
stadio "rozzo e primitivo" della società nel quale tutto il prodotto del lavoro appartiene al
lavoratore. Così, "se in un popolo di cacciatori uccidere un castoro costa di solito un lavoro
doppio rispetto a quello che occorre per uccidere un cervo, un castoro si scambierà
naturalmente per due cervi, ovvero avrà il valore di due cervi".
Quando la produzione abbia modi e fini capitalistici, sia cioè produzione per il profitto anziché
per l'uso, ricord Lunghini, questa semplice regola di determinazione dei prezzi relativi non vale
più, poiché il prezzo di una merce dovrebbe pagare non soltanto il lavoro che vi è contenuto,
ma anche profitti e rendite. In una situazione capitalistica il prodotto del lavoro non appartiene
tutto al lavoratore: "Nella maggior parte dei casi egli dovrà spartirlo col proprietario dei capitali
che lo occupano. E la quantità di lavoro comunemente impiegata nel procurarsi o nel produrre
una merce non è più l'unica circostanza che può regolare la quantità di lavoro che essa
dovrebbe comunemente comprare, o comandare o ricevere in cambio. È evidente che una
quantità addizionale deve spettare ai profitti dei capitali che hanno anticipato i salari e fornito i
materiali di quel lavoro. Non appena la terra di un paese diventa tutta proprietà privata, i
proprietari della terra, come tutti gli altri uomini, amano mietere dove non hanno seminato ed
esigono una rendita anche per il suo prodotto naturale". Di qui un paradosso, peraltro fecondo:
se si assume che il valore di una merce corrisponde al lavoro che si può comperare
("comandare") con il ricavato della sua vendita, sembrerebbe che il lavoro comandato da una
merce sia maggiore di quello che vi è contenuto. In verità Smith commette un errore,
confondendo il lavoro contenuto con il salario pagato.
L'ambigua conclusione smithiana è questa: "Il valore reale di tutte le diverse parti componenti
del prezzo è misurato dalla quantità di lavoro che ognuna di esse può comprare o comandare. Il
lavoro misura il valore non solo della parte del prezzo che si risolve in lavoro, ma anche di
quella che si risolve in rendita e di quella che si risolve in profitto. In ogni società il prezzo di
ogni merce si risolve, in definitiva, nell'una o nell'altra di queste parti o in tutte e tre, mentre in
ogni società progredita tutte e tre entrano, poco o tanto, come componenti del prezzo della
maggior parte delle merci" . Da un lato Smith pensa che salario, profitto e rendita siano il
risultato della divisione di un valore che ha precedentemente avuto origine dal lavoro erogato
dal lavoratore. Dall'altro egli accenna una teoria 'additiva' del valore, sostenendo che salario,
profitto e rendita sono le fonti originarie di ogni reddito, così come di ogni valore di scambio.
Da questa ambiguità hanno origine le due grandi linee di pensiero in tema di teoria del valore:
da un lato vi è chi ritiene che salario, profitto e rendita siano parti di un valore a essi
presupposto e che ha come sola origine il lavoro; dall'altro vi è chi ritiene che dietro a ciascuna
forma di reddito vi sia un distinto 'fattore produttivo'.
Nell'elaborazione della sua teoria del valore, che è parte iniziale ed essenziale della sua teoria
della distribuzione del prodotto sociale, Ricardo muove da una critica della teoria smithiana e
in particolare dalla confusione, nella teoria di Smith, fra la quantità di lavoro necessaria per
produrre una data merce, e il prezzo del lavoro (il salario pagato). L'esito della critica ricardiana
è l'affermazione della teoria del valore lavoro: "Che la quantità maggiore o minore di lavoro
impiegata nella produzione delle merci sia l'unica causa possibile della modificazione del loro
valore è del tutto chiaro, non appena si sia d'accordo che tutte le merci sono il prodotto del
lavoro e non avrebbero alcun valore se non fosse per il lavoro speso nella loro produzione"
Ricardo ammette che vi sono merci il cui valore è determinato esclusivamente dalla scarsità.
Tuttavia, argomenta Ricardo, queste merci formano una piccolissima parte della massa di merci
scambiate giornalmente sul mercato, mentre la parte di gran lunga maggiore delle merci che
sono oggetto di desiderio è procurata dal lavoro: "Perciò, quando parliamo di merci, del loro
valore di scambio e delle leggi che ne regolano i prezzi relativi, intendiamo sempre riferirci
esclusivamente alle merci la cui quantità può venire accresciuta con l'impiego dell'operosità
umana e sulla cui produzione la concorrenza agisce senza limitazione".
Ricardo conviene anche, con Smith, che nei primi stadi della società il valore di scambio di
queste merci dipende ("quasi esclusivamente") dalla relativa quantità di lavoro erogata per
ciascuna. In Smith ci sarebbe però, secondo Ricardo, una confusione. Smith ammette che ogni
incremento nella quantità di lavoro deve aumentare il valore della merce nella quale essa si
manifesta, così come ogni diminuzione deve diminuirlo. Tuttavia, come unità di misura, egli
prende non la quantità di lavoro erogata nella produzione di un dato oggetto, ma la quantità di
lavoro che l'oggetto può comandare nel mercato: "come se queste due espressioni fossero
equivalenti". Soltanto se il compenso del lavoratore fosse sempre proporzionato a ciò che egli
produce, il lavoro erogato nella produzione di una merce e la quantità di lavoro che quella
merce consentirebbe di acquistare sarebbero entrambe grandezze mediante le quali misurare
accuratamente le variazioni delle altre cose. Queste grandezze, tuttavia, non sono eguali.
L'errore di Smith sta nella confusione fra lavoro erogato e salario, nel non intendere che la
differenza fra lavoro comandato e lavoro incorporato corrisponde al lavoro erogato ma non
pagato. Secondo Ricardo è invece esatto affermare, come Smith aveva affermato in precedenza,
che "il rapporto fra le quantità di lavoro necessarie a procurarsi diversi oggetti sembra sia la
sola circostanza che possa offrire una qualche regola per scambiarli l'uno con l'altro" (v. Smith,
1776; tr. it., p. 49). In altre parole: è la quantità relativa di merci che il lavoro produce, e non la
quantità relativa di merci che sono date al lavoratore in cambio del suo lavoro, che ne
determina il valore relativo. Se si mantiene anche per la situazione capitalistica la nozione di
lavoro comandato da una merce quale lavoro contenuto nelle merci con cui essa si scambia,
allora si conserva la conclusione che pareva limitata allo stadio "rozzo e primitivo": il lavoro
contenuto determina il rapporto di scambio fra le merci, secondo rapporti che sono uguali ai
rapporti fra le quantità di lavoro oggettivate nelle merci. L'unica differenza tra lo scambio
semplice e lo scambio in condizioni capitalistiche sta nel fatto che nel primo caso tutto il valore
che si forma nello scambio è percepito dal lavoratore, mentre nel secondo caso questo valore si
suddivide tra le tre classi della società capitalistica. La tesi fondamentale di Ricardo è che il
modo in cui il valore, una volta formatosi, si distribuisce, non ha nulla a che vedere col modo in
cui esso si forma.
Smith sostiene, continua Lunghini che: 1) l'intero prodotto annuo o, che è lo stesso, l'intero
prezzo di questo prodotto si divide naturalmente in tre parti: rendita, salari e profitti; 2) in ogni
società esistono dei saggi 'naturali' della rendita, del salario e del profitto, la cui somma
determina il prezzo delle merci. Ricardo accetta la prima proposizione, mentre rifiuta la
seconda (dalla quale seguirebbe che il prezzo naturale di una merce varia al variare dei saggi
naturali delle sue parti componenti).
La ragione per la quale Ricardo rifiuta la teoria additiva è da ricercare da un lato nella
estensione a una situazione capitalistica della teoria del valore basata sul valore contenuto,
dall'altro nella sua teoria del saggio dei profitti. Questo, per Ricardo, è determinato da due
ordini di circostanze: dalle condizioni tecniche della produzione e dal saggio di salario. Date le
prime, il prodotto sociale (netto di rendita) si distribuirà tra profitti e salari. Fra queste due
grandezze vi è una relazione inversa, tale che se il saggio di salario è alto, il saggio dei profitti è
basso: "Se il grano deve ripartirsi tra l'agricoltore e il lavoratore, quanto maggiore è la porzione
che viene data a quest'ultimo, tanto minore sarà la porzione che rimane al primo".
Mentre per Smith si tratta di una somma, per Ricardo si tratta di una divisione. Come noterà
Karl Marx. "Se io determino in modo autonomo la grandezza di tre differenti linee rette e poi
con queste tre linee come 'parti costitutive' formo una quarta linea retta di grandezza pari alla
loro somma, non è affatto lo stesso procedimento che se, invece, ho davanti a me una data linea
retta e per un qualunque scopo divido questa in tre segmenti differenti, in un certo qual senso la
'risolvo'. Nel primo caso la grandezza della linea cambia interamente con la grandezza delle tre
linee, di cui costituisce la somma. Nel secondo caso la grandezza dei tre segmenti è limitata,
già in precedenza, dal fatto che essi costituiscono parti di una linea di determinata grandezza.
[...] Ricardo suddivide il prezzo della merce in queste parti costitutive. La grandezza di valore è
dunque il prius. La somma delle parti costitutive è presupposta come grandezza data, si parte da
essa, non come al contrario fa spesso Smith, il quale in contrasto con le proprie concezioni più
giuste e più profonde, deriva la grandezza di valore post festum dall'addizione delle parti
costitutive".
La teoria ricardiana del valore, tuttavia, patisce delle eccezioni. Per Ricardo la teoria del valore
è strumentale alla determinazione del saggio dei profitti (che è il rapporto tra profitti e capitale
investito). Poiché il prodotto sociale consiste in merci eterogenee, per misurare i profitti
occorre conoscere il prezzo delle diverse merci. Questi prezzi, per evitare ragionamenti in
circolo, dovranno essere indipendenti dal saggio dei profitti. Per soddisfare tale requisito
Ricardo adotta una teoria del valore contenuto, in quanto questo sembrerebbe dipendere solo
dalle condizioni tecniche di produzione.
Nei diversi settori dell'economia il saggio dei profitti non può essere diverso durevolmente,
poiché il capitale si muove in cerca delle occasioni più profittevoli. Ora si può dimostrare che,
affinché il saggio dei profitti risulti uniforme nell'economia, in equilibrio le merci dovrebbero
scambiarsi secondo la quantità di lavoro che esse contengono. In realtà la determinazione dei
prezzi sulla base del lavoro contenuto risulta invariante rispetto alla distribuzione del prodotto
sociale soltanto se i periodi di produzione sono uguali nei diversi settori. Se sono diversi,
l'uniformità dei saggi di profitto richiede che il profitto stesso sia commisurato al periodo di
produzione: non sarebbe una situazione di equilibrio quella in cui un capitale impegnato per un
anno e uno impegnato per due anni dessero lo stesso reddito. Perché i saggi di profitto siano
uniformi bisognerà dunque tener conto dei periodi di produzione delle diverse merci. Se i
periodi di produzione sono diversi, i prezzi delle merci verranno a dipendere non soltanto dal
lavoro in esse contenuto, ma anche dal saggio dei profitti, e in tal caso i prezzi non risulteranno
indipendenti dalla distribuzione del prodotto sociale. Analoghe eccezioni alla teoria del valore
lavoro si manifestano quando i diversi settori impieghino quantità diverse di beni capitali.
Ricardo è consapevole di questo limite di una teoria del valore lavoro, ma ritiene che essa
consenta una approssimazione accettabile. Marx, al contrario, non potrà ignorare queste
'eccezioni', che sono all'origine del cosiddetto 'problema della trasformazione'.
In Produzione di merci a mezzo di merci pubblicato nel 1960, Piero Srafa dimostra, come nota
Stefano Lucarelli, l’impossibilità di concepire il capitale come una merce, di cui il profitto
possa essere considerato il prezzo, essendo il capitale in realtà un insieme di mezzi di
produzione eterogenei. Da ciò consegue che il capitale non può essere dato, cioè misurato in
termini di valore, indipendentemente dalla determinazione dei valori delle merci che lo
costituiscono e anteriormente ad essa. Se questo non è possibile, allora non è possibile
nemmeno misurare il prodotto marginale del capitale, e nemmeno quello del lavoro. Pertanto
non esiste la possibilità di risolvere il problema distributivo adottando l’impianto marginalista,
che calcola il profitto e il salario d’equilibrio proprio sulla base dei prodotti marginali di
capitale e lavoro. Ne deriva che la divina armonia distributiva sancita dai neoclassici non è
dimostrabile: non esiste quindi nessun livello “naturale” del salario, e di conseguenza nessuna
configurazione distributiva del prodotto sociale d’equilibrio. Esistono invece limiti alquanto
ampi entro i quali le quote distributive possono variare, ed entro tali limiti la situazione viene
determinata in primo luogo dalle influenze storiche esercitate gradualmente dalle forze sociali e
politiche. In altre parole, Sraffa riporta l'economia politica in grembo alla politica dalla quale
essa nacque nel 1776.
***
Il principio di ragione afferma che le cose accadono perché qualcosa le fa accadere. Se oggi ci
troviamo nella situazione possibile là perché il presidente Napolitano aveva voluto porre fine
al governo Berlusconi e affidare il governo al professor Monti, nominato nel frattempo,
senatore a vita, il quale ha portato avanti una politica economica sucida che ha messo in
ginocchio il paese.
Se fossimo andati al voto talora, oggi ci troveremmo a metà del guado. non è stato così e oggi
lo stesso Napolitano non sa che pesci pigliare. Allora si parlò di democrazia bambina. di
vulnus inferto alla democrazia italiana; in realtà. il presidente Napolitano manipolò il testo
della costituzione con grande abilità - da autentico uomo delle istituzioni, come egi ama
definirs. Tant'è che oggi si parla addirittura di governo del presidente. Esso sarebbe un nuovo
errore Bersani deve andare davanti alle camere e presentare il proprio governo. Poi si vedrà.
Molto dipenderà da ciò che decideranno di fare i grillini.
Se essi dovessero rifiutare i loro appoggio a Bersani, la parola potrebbe passare ad un nuovo
governo tecnico, ovvero, un governo di autorevolezza nazionale. nel senso di Hannah Arendt.
Tale governo non potrebbe esser comunque altro che un governo ponte perché in democrazia il
potere appartatene al popolo che lo gestisce tramite i suoi rappresentanti. e sarebbe un grave
errore ripetere l'esperienza del illlinigoverno Monti. se così non fosse, l'intero parlamento
potrebbe cadere in mano ai grillini, con l conseguenza di accelerare il crollo della democrazia.
***
L'assemblea della Camera ha approvato con 436 voti a favore, 134 no e otto astenuti la
mozione della maggioranza che indica il percorso per le riforme costituzionali. Con 400 no e
139 sì la Camera ha respinto la mozione presentata da Roberto Giachetti che chiedeva
l'immediata abolizione del Porcellum e il ritorno al sistema elettorale del Mattarellum. Gli
astenuti sono stati nove. Roberto Giachetti mantiene la sua mozione per abolire il Porcellum e
tornare al Mattarellum ma è cosciente che il voto di oggi segnerà una sua sconfitta sul tema.
"Do la mia piena adesione alla maggioranza ma riproverò ad abolire il Porcellum magari con
maggior fantasia di oggi".
Con le precisazioni che erano state chieste in sede di replica dal presidente del Consiglio,
Enrico Letta, la Camera ha approvato con 441 sì, 138 no e un astenuto, la mozione della Lega
Nord sul percorso di riforma della Costituzione. La Camera, in due distinte votazioni, ha
respinto le mozioni di Sel e del M5S sul percorso per le riforme costituzionali. Il documento di
Sel è stato respinto con 547 no e 33 sì. Quello del Movimento 5 Stelle, che era in parte
precluso, ha raccolto 476 no e 103 sì.
Al percorso di riforme costituzionali "si lega la vita di questa legislatura". Così il premier
Enrico Letta, durante il suo intervento in Aula. "Ha avuto inizio oggi nelle aule del Parlamento
un percorso di modernizzazione della nostra democrazia". Lo dichiara il ministro per le
Riforme costituzionali Gaetano Quagliariello. "Il governo - prosegue - onorerà il mandato
ricevuto dalla Camera e dal Senato per quanto di propria competenza, e sosterrà con
convinzione il lavoro delle Camere per dare all'Italia istituzioni più autorevoli e più efficienti.
Ciò in ossequio al testimone che i padri costituenti lasciarono alle successive generazioni, e con
la consapevolezza - conclude Quagliariello - che uno Stato che funziona è il primo antidoto alla
crisi economica e di sovranità in cui versa il nostro Paese".
"Il Pd, tutto il Pd non vuole più tornare a votare con questa legge elettorale". Lo ha detto il
segretario del Pd, Guglielmo Epifani, nelle dichiarazioni di voto alla Camera sulle mozioni
riguardanti le riforme. "Le parole non cancellano i fatti - ha ammonito Epifani - che vanno
avanti per loro conto. Solo le scelte orientano i processi e solo attraverso essi ricostruiscono il
rapporto tra cittadini e istituzioni. Questo - ha concluso - è un impegno di serietà di fronte a
Paese".
Falso problema. Se la politica italiana è in crisi; se la classe politica ha perso credibilità nei
confronti degli elettori, non è a causa del bicamenralismo o degli elevati appannaggi dei
parlamentari; tanto meno è a causa del loro numero. Il numero non fa la qualità. Oggi quello
che manca alla politica italiana è infatti la qualità. Meglio ancora, manca la cultura. Non solo la
cultura politica, ma la cultura tout court.
Lo si evince dal linguaggio usato: un linguaggio culturalmente povero che ridonda di
tecnicismi, di luoghi comuni; quando non arriva alla boutade, all'insulto. Il vero problema è che
la politica italiana manca sia di ésprit de finesse che di ésprit de géometrie. In altre parole,
manca dei "fondamentali", per usare un termine preso a prestito dalla finanza. Ne deriva che, se
le cose stanno così, non sarà facile trovare una soluzione alla crisi della politica.
Tale soluzione non richiederà i diciotto mesi pronosticati dal presidente del consiglio, Enrico
Letta; ma richiederà degli anni. I nostri politici dovranno rtornare a scuola a imparare
nuovamente a legge e scrivere. La stessa cosa dovrà essere fatta per risolvere i problemi
economici del paese. Anche in questo campo, i nostri politici mostrano di mancare non solo d
"visione", come direbbe Joseph Schumpeter, ma dei "fondamentali", delle conoscenze di base,
dei modelli su cui si sono formate generazioni di economisti.
L'economia politica è una disciplina difficile, lo so. Ma è anche affascinante. Oggi viene
trattata dai nostri come una semplice tecnica di taglia e cuci. Non è così. Il problema vero della
nostra economia non è quello di tagliare e cucire, ma di fare in modo che le banche scucino i
soldi che custodiscono in cassaforte al fine di rimettere in moto l'economia secondo il classico
schema
D-M-M'-D'
dove D sta per denaro, M sta per materie prime, energia, forza lavoro, M' sta per prodotti finiti,
D' sta per ricavi conseguiti dalla vendita dei prodotti. Quindi, due sono gli elementi
fondamentali d'un processo economico: il denaro senza il quale bo è possibile l'investimento e
il consumo senza il quale non vi è incentivo all'investimento. Il problema è tutto qui.
***
Eravamo a un passo dal baratro. Ma c'eravamo salvati e poteva partire la fase dedicata alla
crescita: liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro, da approvare con tempi «piuttosto
veloci». Era pronto anche lo slogan, che aveva il copyright del presidente del consiglio: dopo il
decreto «salva-Italia», arrivano le misure «cresci-Italia». (Stampa.it, 29 dicembre 201). Lavoro,
scuola, strade, territorio, urbanistica: al Pirellone lo chiamano progetto di legge cresci
Lombardia, come il cresci Italia. Era il provvedimento che avrebbe dovuto ridare benzina al
motore economico italiano. (Corriere della sera, 3 aprile 2012). Non fu così. L'economia
continua a sprofondare nella recessione. L'occupazione continua a diminuire, mentre continua
ad aumentare
Con il termine occupazione di Insieme degli individui che, in base alle rilevazioni dell’ISTAT
sulla forza lavoro, risultano occupati in un determinato periodo come dipendenti o come
indipendenti. Lo stato di o., pertanto, implica uno scambio in atto fra prestazione lavorativa e
reddito che avviene sul mercato del lavoro e richiede la realizzazione contemporanea di due
condizioni: la decisione di partecipazione del lavoratore, e quella di impiego del datore di
lavoro lavoro, domanda di). Insieme agli individui disoccupati, l’o. costituisce la forza lavoro.
Fanno parte dell’o. anche i cosiddetti sottoccupati, ossia coloro che svolgono un impiego
effettivo di qualità più scadente (per livello di retribuzione, stabilità ecc.) rispetto a quello
abituale, oppure che lavorano per un numero di ore inferiore a quello desiderato. Un
sottoinsieme dell’o. è rappresentato dalla manodopera, termine con il quale si fa generalmente
riferimento al complesso delle persone che prestano lavoro subordinato (normalmente come
operai) in uno o più settori di attività produttiva.
La piena occupazione e le diverse scuole di pensiero. Si ha piena o. quando tutti coloro che
desiderano lavorare alle condizioni di mercato sono occupati; in questo caso, coloro che non
lavorano sono considerati disoccupati volontari. La teoria economica ha elaborato diverse
teorie dell’occupazione. La scuola classica classica, economia) era giunta alla conclusione che,
in condizioni di equilibrio e di perfetta flessibilità di tutti i prezzi, non dovesse esserci
disoccupazione e che il mercato tendesse automaticamente all’equilibrio di piena o. attraverso
aumenti e diminuzioni dei salari reali. Nel modello neoclassico la sostituibilità dei fattori
produttivi e la perfetta flessibilità dei loro prezzi fanno sì che il sistema economico si muova
nel lungo periodo sempre verso il pieno impiego.
J.M. Keynes ha messo in luce come possa invece riscontrarsi disoccupazione involontaria
anche in situazione di equilibrio a causa della rigidità dei salari monetari e reali, e ha
sottolineato la dipendenza del volume dell’o. dal livello della domanda effettiva di beni e
servizi.
Le nuove teorie e le strategie intraprese. Le due principali teorie dell’o. sono, da una parte,
quella dei nuovi economisti classici (noti anche come economisti delle aspettative razionali;
dall’altra, quella dei cosiddetti neokeynesiani. I primi affermano che la disoccupazione deriva
dalla prevalenza e persistenza sul mercato del lavoro di salari reali e monetari più elevati di
quelli che la domanda delle imprese sia disposta ad accettare. I secondi affermano che la
mancanza di piena o. risulta da un livello di equilibrio del prodotto nazionale insufficiente a
richiedere i servizi produttivi del totale dell’offerta di lavoro.
Il raggiungimento della piena o. rappresenta uno dei 3 nuovi grandi obiettivi stabiliti dalla
strategia europea per l’o, in seguito alla sua revisione attuata nel 2003. L’ulteriore revisione del
2005 ha individuato gli orientamenti per l’o. e li ha integrati con quelli economici, confluendo
negli Orientamenti Integrati per la Crescita e l’Occupazione (OICO). Gli orientamenti relativi
all’o. sono, per es., l’attuazione di strategie volte alla piena o., al miglioramento della qualità e
della produttività sul posto di lavoro e al potenziamento della coesione sociale e territoriale, o
la creazione di mercati del lavoro inclusivi, rendendo l’attività lavorativa più attraente e
proficua per quanti sono alla ricerca di impiego e per le persone meno favorite e inattive.
In Italia, la normativa volta al sostegno dell’occupazione è stata oggetto, a partire dagli anni
1990, di una riforma strutturale che ha coinvolto diversi aspetti, tra cui l’incontro tra domanda e
offerta di lavoro, le pari opportunità, i servizi per l’impiego. Dal punto di vista della
competenza istituzionale, la gestione dei servizi offerti ai cittadini e l’individuazione delle
misure di politica attiva sono stati delegati, nel rispetto del principio di sussidiarietà, alle
Regioni e agli enti territoriali, al fine di meglio rispondere alle esigenze effettive del territorio.
Con il dlgs. n. 276/2003, attuativo della legge delega 30/2003, il legislatore ha perseguito
l’obiettivo di rendere più flessibile il mercato del lavoro, migliorandone l’efficienza,
sostenendo politiche attive per il lavoro e favorendo la diminuzione del tasso di
disoccupazione. Una delle innovazioni più rilevanti, che hanno riguardato sia l’incontro tra
domanda e offerta di lavoro, sia i servizi per l’impiego, è consistita nel riconoscimento di nuovi
soggetti di intermediazione: le agenzie per il lavoro. L’attività di intermediazione può essere
svolta anche da università, pubbliche e private, e da fondazioni universitarie, alle quali
l’autorizzazione è concessa ope legis, nonché da Comuni e Camere di commercio, scuole di
secondo grado, associazioni sindacali a livello nazionale, enti bilaterali, associazioni private
riconosciute ecc., che possono ottenere le autorizzazioni sulla base di requisiti ridotti. Il
democrazia lgs. n. 276/2003 ha così reso operativa la riforma dei servizi per l’impiego,
delineando un nuovo mercato del lavoro nel quale i tradizionali operatori pubblici (i centri per
l’impiego) e i soggetti privati autorizzati svolgono la propria attività in regime di competizione
e di concorrenza.
Anche le norme sul collocamento ordinario e obbligatorio sono state oggetto di innovazione. In
particolare, il democrazia lgs. n. 469/1997 ha conferito alle Regioni e alle Province le funzioni
e i compiti relativi al collocamento e alle politiche attive del lavoro, mentre il democraziap.r. n.
442/2000 e il democrazia lgs. n. 181/2000 hanno semplificato le procedure sul collocamento
(vedi: collocamento diritto del lavoro). Con riferimento al collocamento obbligatorio, la l.
68/1999 si è inoltre preoccupata di attuare la promozione dell’inserimento e della integrazione
lavorativa delle persone diversamente abili (Disabili. Diritto del lavoro). Il democrazia lgs. n.
276/2003 (con successive modifiche e integrazioni) ha altresì previsto e valorizzato nuove
forme contrattuali volte a favorire l’occupazione attraverso l’introduzione di strumenti di
flessibilità del lavoro. In particolare, sono state introdotte o riformate alcune tipologie
contrattuali, quali la somministrazione di lavoro, l’appalto di servizi, il contratto a orario
modulato, il contratto a tempo parziale, il lavoro ripartito e intermittente; il contratto di
inserimento, che sostituisce il contratto di formazione e lavoro e si rivolge soprattutto alle
donne delle aree svantaggiate e ai lavoratori più anziani. È stata poi riformata la disciplina delle
collaborazioni coordinate e continuative, mediante la previsione della riconducibilità delle
stesse a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal
committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del
coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo
impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa. Con più specifico riferimento
all’occupazione giovanile particolare rilievo assume il nuovo ruolo attribuito dal democrazia
lgs. n. 276/2003 al contratto di apprendistato. Ulteriori misure sono state introdotte, in questa
materia, dal democrazial. n. 185 /2008 (l. n. 2/2009), che ha previsto, tra le varie misure
straordinarie volte a fronteggiare la disoccupazione, l’istituzione di un Fondo di sostegno per
l’occupazione e l’imprenditoria giovanile. Infine, nell’ambito degli interventi volti a
promuovere le pari opportunità, la l. n. 53/2000 ha recato disposizioni a sostegno della
maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei
tempi delle città, mirando, tra l’altro, a consentire ai genitori una reale distribuzione dei compiti
di cura dei figli, con un sistema di tutele molto più ampio di quello previsto dalle norme
preesistenti.
Siamo così arrivati alla legge Fornero, la quale avrebbe dovuto flessibilizzare il mercato del
lavoro e aumentare le opportunità lavorative. Non è stato così. Il mercato del lavoro non è un
mercato come gli altri, E' un'istituzione sociale: Ciò che si vende e che si compera non è un
bene econiomico qualsiasi; è la vita della gente, il modo di vivere delle famiglie, il futuro dei
nostri giovani. Ciò crea una situazione che non è matematizzabile all'interno di un classico
modello di crescita economica.
Con tale espressione si intende l’insieme degli aspetti quantitativi dello sviluppo, misurati
attraverso le principali grandezze macroeconomiche (reddito nazionale, investimenti ecc.). Si
ha c. economica equilibrata in un processo di sviluppo, in cui tutte le principali grandezze
macroeconomiche crescono allo stesso tasso percentuale costante. Si ha c. zero nella situazione
in cui l’economia non si sviluppa, rimanendo stazionaria. In economia, si studia la teoria della
c. con modelli che rappresentano, a diversi livelli di aggregazione, l’andamento nel tempo di
variabili cruciali quali il reddito, il risparmio, gli investimenti ecc. I modelli di c. possono
essere formulati anche con equazioni dinamiche in un contesto di equilibrio generale, come nel
modello anticipatore elaborato nel 1937 dal fisico J.L. von Neumann.
La teoria della c. si distingue dall’economia dello sviluppo per l’attenzione esclusiva agli
aspetti quantitativi e alla formalizzazione, a discapito dello studio degli aspetti istituzionali,
storici, etici, antropologici che condizionano i processi di sviluppo nelle diverse regioni del
mondo. Nei modelli neoclassici di c. elaborati negli anni 1950 e 1960, a partire dal contributo
di R.M. Solow, il tasso di c. del prodotto lordo pro capite era spiegato da tre variabili,
esplicitate in una funzione aggregata di produzione: il tasso di c. dello stock di capitale, quello
del fattore lavoro impiegato e il progresso tecnico. Il progresso tecnico era considerato
esogenamente dato, cioè non spiegato da altre variabili del modello. Su questa base, ci si
dovrebbe attendere che nel lungo periodo i tassi di c. di tutti i paesi tendano a convergere. Se il
progresso tecnico è esogeno, tutti i paesi dovrebbero godere uniformemente dei suoi benefici
ed eventuali differenze iniziali sarebbero eliminate nel corso del tempo, perché si può
dimostrare che, nell’impianto teorico di tali modelli, i paesi con un più basso livello di capitale
pro capite crescono più velocemente di quelli con un più elevato livello di capitale pro capite.
La convergenza predetta dalla teoria non si verifica nell’esperienza storica. I divari di c. tra i
paesi sono stati ampi e persistenti.
La discrepanza fra teoria e realtà ha contribuito, soprattutto negli anni 1980 e 1990, allo
sviluppo di una nuova classe di modelli di c., noti come modelli di c. endogena . Contributi
importanti in questo campo sono quelli di R. Lucas, P.M. Romer e R.J. Barro. Nei modelli di c.
endogena il tasso di c. del prodotto pro capite dipende da variabili endogene, il cui andamento è
spiegato in seno al modello. Tra le variabili che spiegano la c. del sistema economico,
particolare attenzione è stata dedicata al capitale umano inteso come il risultato d’investimenti
nella formazione e nell’istruzione. La quantità di capitale umano impiegata nella produzione è
una variabile endogena: dipende dalle decisioni degli individui sulla quantità di risorse da
dedicare appunto alla formazione di capitale umano. Il progresso tecnico è considerato
endogeno, perché dipende dal tasso di accumulazione, se si suppone che il veicolo attraverso il
quale le imprese introducono innovazioni tecnologiche sia l’investimento in beni capitali. Il
capitale umano può non essere liberamente trasferibile da un paese all’altro e la
specializzazione di un paese nella produzione di certi beni può determinare un più alto o più
basso tasso di c., secondo il maggiore o minore grado di progresso tecnico incorporato nei
mezzi di produzione, che le diverse specializzazioni favoriscono. Nei modelli di c. endogena, in
sintesi, la convergenza dei tassi di c. nel lungo periodo non è più necessariamente vera. I
modelli di c. endogena hanno rappresentato un significativo avanzamento rispetto ai modelli di
c. neoclassici tradizionali. Altre impostazioni teoriche, d’ispirazione classica, postkeynesiana,
austriaca o evoluzionista, hanno concentrato l’attenzione su modelli di crescita.
Si possono considerare come fattori che promuovono processi di c. endogena, la spesa pubblica
e le politiche economiche, o la specializzazione produttiva a livello internazionale. Fattori
endogeni e cumulativi della c. sono stati posti in evidenza da N. Kaldor con riferimento alla
specializzazione di un paese nelle esportazioni manifatturiere.