Corrado Bevilacqua Da consumatori a cittadini
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Corrado Bevilacqua Da consumatori a cittadini
Corrado Bevilacqua Da consumatori a cittadini Diario politico delle ultime elezioni Confesso d'essere preoccupato. La campagna elettorale va di male in peggio. dall'attacco personale si è passati all'insulto. Ben donde. Scomparsi dalla scena ai vecchi partiti, a far politica sono rimasti i singoli individui. Ciò non ha nulla da vedere con la politica. La nostra costituzione parla di partiti e di elettorato attivo e passivo, cioè del diritto che spetta a ogni cittadino di eleggere e di farsi eleggere come proprio rappresentante da d'altri cittadini. In Italia, unico paese al mondo, i partiti sono stati sostituiti da un insieme di organizzazioni incentrate su un singolo individuo che si presenta come rappresentante di se stesso. Ciò non è solo anticostituzionale, ma anche antidemocratico. Dalla democrazia, grazie a Tangentopoli, siamo passati alla demagogia. I signori che si presentano come futuri capi di governo non sono dei rappresentanti di partiti politici, ma sono semplicemente dei demagoghi. La democrazia è un'altra cosa. Democrazia è governo del popolo, con il popolo, sul popolo, per il popolo. In Italia, il popolo è scomparso. Unico paese la mondo, il popolo va infatti a votare non per dei partiti e per i loro programmi, ma per degli individui che hanno costruito delle proprie organizzazioni, senza alcuna base popolare; ma semplici macchine destinate a raccogliere voti che non vengono dati ad un programma, ad una storia politica, ad una cultura politica, ma che vengono dati a dei singoli individui, i quali non devono rispondere a nessuno. Essi, infatti, non rappresentano nessuno. Essi rappresentano solo se stessi e chiedono il voto non in quanto rappresentanti di un partito ed in nome di un certo programma; ma in nome della propria capacità di presentarsi agli elettori come rappresentanti del loro mal di pancia. Fare politica, però, è un'altra cosa. Il vero politico non parla alla pancia degli elettori, ma al loro cervello e lo fa in nome di un programma politico e di una propria storia politica. La politica non è una cosa da comici o da pubblici ministeri. E' una cosa da politici, dove essere dei politici, non vuol dire essere degli improvvisatori, ma vuol dire essere dei profondi conoscitori dei meccanismi della politica, delle istituzioni, del loro funzionamento; in modo da essere in grado, all'occorrenza, di trasformarle. Significa avere un programma politico pensato in tutti i suoi aspetti. Oggi, che succede? Succede che uno dei contendenti si alza alla mattina e sì inventa un proposta da lanciare nel discorso che terrà il pomeriggio davanti a un pubblico di scimmie. Questa non è politica. Questa è demagogia, parola d'origine greca con la quale si indica la pratica politica tendente a ottenere il consenso delle masse lusingando le loro aspirazioni, specialmente economiche, con promesse difficilmente realizzabili, vedi i 4 milioni di posti di lavoro promessi da Berlusconi. *** La campagna elettorale è stata peggiore di quello che ci potevamo aspettare. Nessuna discussione sui programmi. Nessuna visione del futuro. E tutto questo è avvenuto in un momento in cui più che mai l'Italia bisogno di idee nuove, idee che sappiano trasformarsi in forza materiale. La politica è prima di tutto un problema di idee, di valori, di programmi politici. In altre parole, la politica è teoria. Senza teoria non si fa politica. L'uomo è un animale che produce teoria. Il suo agire, anche più elementare, si basa su dei modelli di comportamento. Invece, che succede? Succede che si parla a casaccio; si lanciano proposte senza capo né coda, si fa della pura e semplice demagogia. La democrazia è altra cosa. Democrazia vuol dire partecipazione, discussione, studio, diffusione del sapere. Apertura al nuovo, passione per la ricerca del proprio passato. Nulla si crea al di fuori di una tradizione, affermò Martin Heidegger in una famosa intervista a Der Spiegel, pubblicata nel 1976 con il titolo Solo un Dio ci può salvare. Nulla che possa durare nel tempo. Così dovrebbe essere la politica. Diceva Nietzsche che l'uomo è qualcosa che va superato. Tale superamento comportava una trasvalutazione di tutti i valori. L'idea era suggestiva, però entrava in contraddizione con la sua visione dell'eterno ritorno dell'identico. L'uomo attuale era l'uomo al tramonto. L'uomo nuovo sarebbe stato completamente diverso. Egli sarebbe stato capace di stare in equilibrio sulla cresta dell'onda, ovvero, sarebbe stato in grado di passare da una torre all'altra camminando su una corda tesa tra le due torri, come scrisse in un passo famoso di Così parlò Zaratustra.. In questo quadro, Lenin fu il classico eroe nietzschiano; egli rappresentò infatti la quintessenza del concetto di volontà di potenza; la sua concezione della politica era prettamente schmittiana e verteva il rapporto amico/nemico. Così Guevara, quando scrisse che non essi non avevano predso l poetre a Cuba per costruire delle belle fabbriche pulite, ma volevano instaurare il socialismo per avere delle belle fabbriche pulite, ma per costruire l'uomo nuovo. L'uomo che aveva trasvalutato tutti i valori ponendosi "al di là del bene e del male", l'anticristo". La cosa più importante che noi abbiamo rifiutato di capire in nome delle sorti magnifiche e progressive dell'umanità, riguarda il ruolo fondamentale svolto dal dolore nella nostra vita. Ma leggiamo Nietzsche. "L'enorme tensione dell'intelletto che vuole fronteggiare il dolore fa che tutto ciò su cui egli dirige lo sguardo risplenda di nuova luce" egli scrisse in Aurora. "Ciò ci fa capire cosa vuol dire vivere. Vivere significa , per dirla con il Nietzsche di Gaia scienza, "respingere senza tregua da noi tutto ciò che vuole morire, ma per farlo, dobbiamo accettare di fare i conti con il nostro essere gettati nel mondo; detto altrimenti, il nostro essere per la morte. La morte non è un file che si può cestinare, né un virus che si può neutralizzare con un adeguato programma informatico. La morte è il senso del non senso: è ciò che ci fa capire chi siamo, allo stesso modo del nostro computer quando esso fa crash Un tempo era d'uso paragonare l'uomo a una macchina. Penso a Cartesio, penso al suo saggio sull'uomo, al suo studio sulle passioni dell'anima. Oggi il modello di riferimento è il computer. Come dimostrarono Flores a Winograd molti anni fa, il modello del computer non è però, un modello adeguato a rappresentare l'uomo. Posizione simile venne assunta da Johm Searle e da Hilary Putnam. Tuttavia, il modello dell'uomo-macchina continua a tener banco, come continua a tener banco la tradizione razionalistica alla quale esso si ispira. In realtà, se l'uomo fosse un essere realmente razionale, avremmo risolto tutti i nostri problemi. Purtroppo, non è così. Le scelte da noi compiute non hanno alcunché di razionale. come dimostrò Freud. Il nostro comportamento è sempre soggetto all'azione dell'inconscio. In altre parole, per usare una terminologia oggi di moda, ragioniamo con la pancia. La verità è che nemmeno il nostro cervello è perfetto, come sanno neurofisiologi e biologi del comportamento. La conseguenza di tutto ciò sarà che dalle urne elettorali uscirà una situazione politica che renderà tutto più difficile e metterà a repentaglio il futuro del nostro paese. *** Siamo alla farsa. Napolitano nomina dieci saggi per stendere un programma di governo che nessun politico italiano è intenzionato a realizzare. Non solo. Gli stessi saggi rilasciano interviste nelle quali confessano di non credere nell'utilità del loro incarico. Grillo riunisce i suoi parlamentari in una località segreta lontana dai giornalisti che il comico genovese non vuole tra i piedi dopo aver condotto una campagna elettorale all'insegna della trasparenza. Renzi attacca Bersani accusandolo di perdere tempo, come sta facendo Napolitano. Bersani e Napoltano ribattono che loro non perdono tempo, meditano. Bersani e Napolitano sono pericolosi quando meditano. Napolitano ha sul gozzo la disavventura del governo Monti da lui voluto. Bersani e Berlusconi sono corresponsabili del disastro economico provocato da Monti, in nome di una teoria sbagliata che fu causa della depressione degli Anni trenta. In questo contesto si colloca il problema della scelta del successore di Napolitano. Qualcuno vorrebbe D'Alema, il quale, dopo aver trombato Prodi in combutta con Cossiga, venne trombato da Berlusconi. Come dire che non ne ha imbroccata una. Qualcun altr vorrebbe Emma Bonino, la quale, però, ha poche probabilità di farcela, essendo donna. Noi, però sbaglieremmo se attribuissimo la causa della crisi politica italiana soltanto alla mancanza di uomini politici degni di questo nome. Gli uomini sono importanti. Più importante degli uomini è, però, la cultura politica. In questo campo, noi italiani siamo alla frutta. La prova è fornita dalle c.......te che si dicono sulla riforma della seconda parte della Costituzione, quando da riformare dovrebbe essere la prima parte, a cominciare dalla definizione di repubblica italiana, la quale dovrebbe essere così modificata: L'Italia è uno stato federale ..... Cosa vuol dire, infatti, democrazia, libertà, uguaglianza, nell'era della globalizzazione? La globalizzazione ha cambiato le carte in tavole creando delle situazioni affatto nuove. Queste situazioni hanno creato una nuovo modo di vivere e di pensare; hanno creato, insomma, quello che Elliott ha chiamato "Nuovo individualismo; hanno dato un'enfasi affatto nuova a quello che già Pareto chiamava capitale personale. Hanno messo in crisi i ceti medi tradizionali e hanno inferto dei colpi mortali alla classe operaia dei paesi capitalistici avanzati. Infine è cambiato il nostro concetto di capitale che non può essere più inteso i termini di quantità di moneta o di insieme di mezzi di produzione, ma deve essere inteso in termini di organizzazione immateriale. La rivoluzione informatica ha prodotto un cambiamento concettuale simile a quello prodotto dalla rivoluzione quantistica che spiazzò lo stesso Lenin, il quale non la comprese; né avrebbe potuto farlo. Lenin s'era formato alla scuola del materialismo classico. Materia era il legno con il quale era stato costruito un tavolo. In altre parole, era qualcosa di realmente esistente, di palpabile, di visibile. Ai politici nostrani sfugge il concetto di bene immateriale, ovvero, il concetto di informazione. Così, non possono capire la società contemporanea che, com'è noto, è fondata sull'informazione. Essi ignorano le teorie delle catastrofi e del disordine; sono rimasti dei machiavellici, degli esegeti del "particulare". A suo tempo, Enzo Tiezzi distinse fra tempi storici e tempi biologici. In realtà, occorrerebbe distinguere fra tempi economici e tempi politici, non solo fra tempi storici e tempi biologici. Per i nostri politici esiste solo il tempo della politica il quale è molto diverso da quello dell'economia. Ciò apre una contraddizione che penalizza l'economia la quale, per funzionare avrebbe bisogno di un governo in grado di tenere il passo con i cambiamenti che avvengono nel campo dell'economia. In altre parole, ci troviamo in una situazione nella quale, mentre la globalizzazione ha accelerato i tempi dei cambiamenti economici e sociali, la politica continua a seguire dei tempi che erano in voga prima della globalizzazione. Questa considerazione ci porta al punto di partenza. Napolitano prende tempo, non sapendo che pesci pigliare, mentre Bersani continua a non capire che nessuno lo vuole non per il suo passato di comunista, ma perché ha dimostrato di non aver capito un accidente di quello che è avvenuto con le ultime elezioni politiche *** L'Italia è una repubblica. Che cosa vuol dire? Semplice. Repubblica è una forma di Stato in cui il potere politico è esercitato da organi rappresentativi del popolo o di una parte di esso. In generale, la repubblica viene contrapposta alla monarchia, in base alla considerazione che la prima sarebbe caratterizzata dall’elettività e dalla temporaneità della carica di capo dello Stato, laddove la seconda si caratterizzerebbe per l’ereditarietà e la durata vitalizia della carica (salvo, ovviamente, abdicazione). Tuttavia, questo criterio non è esaustivo, dal momento che, nell’ambito della storia dei regimi politici, non è raro il caso di monarchie elettive (come il Regno di Polonia, o il Sacro Romano Impero dopo la riforma operata da Carlo IV di Boemia, o lo stesso papato), o di repubblica a carattere ereditario (Siria o Corea del Nord). Nell’ambito del pensiero politico moderno, la nozione di r. è stata utilizzata in alcuni casi come sinonimo di democrazia – per es., da N. Machiavelli, che sostituisce alla classica tripartizione delle forme di governo la bipartizione tra r. e principati –, mentre in altri è stata utilizzata in contrapposizione a democrazia (così J. Madison, nei suoi Federalist Papers). Un momento fondamentale nell’ambito del pensiero politico repubblicano è rappresentato dalla Rivoluzione americana e dalla Rivoluzione francese, che segnarono il definitivo superamento delle tesi (per es., di Montesquieu o di J.-J. Rousseau) che ritenevano le r. confacenti solo a Stati di piccole dimensioni territoriali. Non c’è dubbio, però, che, da un punto di vista giuridico-costituzionale, l’esperienza più fortemente caratterizzata dalla nozione di r. sia stata quella francese. È bene ricordare, infatti, che i preamboli delle Costituzioni francesi del 1946 e del 1958 si richiamano esplicitamente al 1789 e ai «principes fondamentaux reconnus par les lois de la République», e che i documenti costituzionali del 1789-1791 erano già espressione di una ideologia giuridica repubblicana, nel momento in cui dichiarano unica depositaria della sovranità la nazione, degradando la figura del monarca a quella di primo funzionario dello Stato Nell’ambito della esperienza costituzionale italiana, la nozione di r. viene richiamata più volte nel testo costituzionale vigente, anche se con significati diversi. Il carattere repubblicano del nostro regime politico si lega intrinsecamente alla forma di Stato democratica nel primo comma dell’art. 1 Cost. («L’Italia è una R. democratica»), e la forma repubblicana (art. 139 Cost.) costituisce un limite invalicabile alla revisione costituzionale. D’altra parte, la nozione di r. viene richiamata anche per quanto riguarda i rapporti tra Stato e autonomie locali: secondo l’art. 5 Cost., la R., una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali e favorisce il decentramento e l’autonomia; secondo il nuovo art. 114 Cost., la R. è costituita da comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato. Più in particolare, la dottrina ritiene che la l. cost. 3/2001 abbia disegnato una R. delle autonomie, articolata su più livelli di governo, dei quali lo Stato è sicuramente il più importante, ma non l’esclusivo. In ogni caso, nel testo costituzionale, il termine r. viene anche utilizzato come sinonimo di Stato (art. 10, co. 3, art. 16, co. 2). *** Al referendum monarchia/repubblica, 10.718. 502 elettori, pari al 45,7 per cento dei votanti complessivi votarono per la monarchia; 12.718641 elettori votarono per la repubblica. La repubblica, perciò, vinse con il 54,3 per cento dei suffragi. Alle elezioni per l'Assemblea costituente, gli elettori che al referendum avevano votato per la monarchia espressero il loro voto a favore dei partiti moderati a cominciare dalla Democrazia cristiana. All'Assemblea costituente, constatato che le posizioni erano radicalmente diverse, si decise, per il bene superiore dell'unità nazionale, a giungere ad un compromesso fra cattolici, liberali, comunisti e socialisti. Da questo compromesso nacque la nostra costituzione, che non è la costituzione più bella del mondo, ma è semmai la più confusa; prova ne sia quanto essa statuisce a proposito dell'intervento dello stato nell'economia che, da un lato, consentì allo stato italiano di produrre automobili, panettoni, spaghetti, cioccolatini, gelati, acciaio, gas naturale; dall'altro lato, impedì che l'intervento dello stato seguisse un piano economico atto a metter ordine nello sviluppo del paese. Per non parlare del recepimento, da parte della Costituzione, e , quindi della Repubblica, del Concordato tra lo stato italiano e la chiesa cattolica. L'entrata in vigore della nuova costituzione non cambiò la "struttura materiale dello stato"; né impedì che rimanessero in vigore i vecchi codici fascisti, salvo una ripulitura di facciata per renderli compatibili con la nuova costituzione. In altre parole, vi fu continuità di strutture, di personale amministrativo, di ideologie giuridiche, come se l'antifascismo non fosse mai esistito, come se Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Carlo e Nello Rosselli, Eugenio Colorni e tutte le altre vittime del fascismo avessero speso la loro vita invano. Considerate queste premesse, non ci si può meravigliare che le cose siano finite come sono finite. Non ci si può stupire se in Italia fu non solo impossibile fare la rivoluzione - cosa che era stata esclusa da Palmiro Togliatti sin dal suo discorso del 1942 nella sala del sindacato a Mosca; ma fu impossibile anche fare le riforme che erano necessarie per modernizzare il paese. Pensiamo alla miseranda fine cui andò incontro la riforma urbanistica proposta da Fiorentino Sullo nel 1962. Per non parlare della cittadinanza che venne conferita ad un partito di smaccata fede fascista come il Movimento sociale italiano. Stupisce, perciò, che la senatrice Finocchiaro riscopra soltanto adesso quel tanto dibattuto articolo della costituzione che impone a partiti e sindacati la pubblica registrazione dei propri iscritti, al solo fine di mettere al sicuro i poteri costituiti dalle insidie loro portate dal Movimento 5 Stelle. La costituzione sulla quale la nostra repubblica si fonda, affida ai partiti politici, infatti, un compito fondamentale: non a caso, uno storico profondo conoscitore sia dei partiti politici italiani che del dibattito sulla costituzione, come Pietro Scoppola, definì la repubblica italiana una repubblica dei partiti. Tale repubblica si sarebbe poi trasformata in "partitocrazia" e la "partitocrazia" avrebbe portato alla attuale disaffezione dei cittadini italiani nei confronti della politica. Per tutto il secondo dopoguerra, la politica italiana fu fondata su un servile filo-americanismo che, a sua volta, si basava su quelo che il politilogo Giorgio Galli chiamò "bipartitismo imperfetto": espressione con la quale Galli definiva un sistema politico caratterizzato dalla presenza di due grandi partiti uno dei quali, il PCI, aveva finto per accettare la sua esclusione dalla possibilità di andare al governo, consociandosi alla DC nella gestione del potere. Tale pratica politica trovò il suo perfezionamento al tempo del governo della solidarietà nazionale che ebbe uno dei suoi maggiori sostenitori nel segretario genrae della CGIL, Luciano Lama, detto LamabiLama per la sua adesione alla politica delle compatibilità economiche sostenuta dal premio Nobel'economia Franco Modigliani e dal suo allievo, Enzo Tarantelli, ucciso dalle Brigate rosse perché era stato accusato di essere nemico dei lavoratori. Stessa drammatica sorte toccò a D'Antona ed a Biagi, due lavoristi sostenitori della necessità di flessibilizzare il mercato del lavoro. Tutto ciò accadde avendo sullo sfondo la tragica vicenda del rapimento e dell'assassinio di Aldo Moro. Presidente della DC, fautore del Centrosinistra prima, e dell'apertura al PCI, poi, Aldo Moro era uno dei "professorini" che avevano scritto materialmente la costituzione della repubblica. La sua uccisione per mano della Brigate rosse aveva perciò un alto valore simbolico Ciò rese più drammatico il dibattito sul problema della trattativa con le Brigate rosse. Il dibattito mise in campo due schieramenti: uno rappresentato dai "duri" i quali erano capitanati da Andreotti e Berlinguer; ierà prt ldmun altro rappresentato dai "molli" i quali erano capitanati dai socialisti di Bettino Craxi. Io trovavo il dibattito surreale. Le Brigate rosse non avevano infatti a mio modo di vedere rapito Moro per restituirlo vivo. Lo volevano morto perché, a loro modo di vedere, solo così avrebbero potuto infliggere allo stato italiano il colpo mortale. Non fu così. Lo stato italiano resistette. La repubblica nata dalla Resistenza sopravvisse all'affaire. Moro, come lo chiamò Leonardo Sciascia. A stroncare la repubblica fu la corruzione politica, furono i "faccendieri", furono le furbizie d'una classe politica che aveva identificato la politica con i propri interessi e s'era trasformata, nel migliore dei casi, in oligarchia; nel peggiore in casta. Oggi, ogni partito ha i propri oligarchi, ogni oligarca ha i propri clientes. Manca solo un Bertolt Brecht che scriva la versione italiana degli Affari del signor Giulio Cesare. *** Vita dura è quella dell'opinion maker, cioè di colui che è pagato, spesso profumatamente, per fare opinione. A scadenza fissa, spesso settimanale, egli deve consegnare al giornale per cui lavora, un pezzo su un argomento che si spera possa interessare l'opinione pubblica. Quella di opinion maker è una professione relativamente. Essa è nata infatti con la stampa quotidiana e con i quotidiani di opinione, da distinguersi dai quotidiani di partito. Il Corriere della sera di Luigi Albertini era un quotidiano di opinione. L'Avanti di Benito Mussolini era un quotidiano di partito. In realtà, il Corriere di Luigi Albertini dava voce agli interessi degli industriali milanesi. L'Avanti di Benito Mussolini dava voce ai lavoratori che si riconoscevano nel partito socialista italiano. Un giorno, Benito Mussolini, ruppe con il partito socialista italiano e sostenuto dagli industriali milanesi fondò una nuova organizzazione politica, i Fasci di Combattimento e pronunciò un discorso, noto come il discorso di piazza san Sepolcro, che fece epoca, in quanto egli in quel discorso disse le cose che molti italiani volevano sentirsi dire. A tale discorso, farà riferimento Palmiro Togliatti, leader dei comunisti italiani, nella sua famosa Lettera ai fratelli in camicia nera del 1936 in cui invitava i fascisti a ritornare al programma di piazza san Sepolcro. Palmiro Togliatti, otto anni dopo avrebbe fatto scoppiare quella che Pietro Nenni chiamò la "bomba Ercoli". Ercoli era il nick nane usato da Togliatti nella clandestinità e la bomba di cui aveva parlato Nenni era la cosiddetta svolta di Salerno, con la quale Togliatti aveva annunciato che i comunisti italiani non intendevano trasformare la guerra contro il fascismo in una guerra di classe per l'instaurazione del socialismo in Italia. Non solo, intendevano partecipare al nuovo governo assieme ai moderati e intendevano "sollevare la bandiera italiana dal fango in cui l'aveva gettata la monarchia". Ora, tenendo conto del fatto che nel mondo comunista non si muova foglia contro la volontà di Stalin, va da sé pensare che Togliatti avesse preso quell'iniziativa in accordo con lo stesso Stalin di cui era stato un fedele servitore nei suoi lunghi anni di esilio a Mosca. A Mosca i rappresentati dei "partiti comunisti fratelli" erano alloggiati all'hotel Luxor, da dove molti di essi furono portati via dalla polizia segreta e fatti sparire o alla Lubianka o in qualche campo di gioia e di lavoro del Gulag staliniano. I campi di concentramento staliniani si distinguevano da campi nazisti come Auschwitz-Birkenau che era un "campo di morte immediata". Essi erano campi di "morte differita", come la maggior parte dei campi di concentramento nazisti. La vita si svolgeva in quei campi nel modo raccontato da Alexander Solzenitsyn in La giornata di Ivan Denisovic, da Evghenija Ginzburg in Viaggio nella vertigine, da Valerian Salamov in Kolyma, dove egli narra la morte del poeta Osip Maldelstam. Togliatti aveva sempre saputo dell'esistenza dei suddetti campi di concentramento e aveva sempre saputo anche che molti comunisti italiani erano caduti nelle grinfie di Stalin e della sua polizia segreta, ma non mosse un dito per salvarli. Il primo a parlare di queste vittime nel dopoguerra fu Alfonso Leonetti in una serie di articoli pubblicati su Il mondo e successivamente raccolti in un volumetto dal titolo Comunisti italiani vittime dello stalinismo in Urss. Alfonso Leonetti era noto nel mondo comnista per essere stato uno dei tre espulsi dal Pci al tempo della "svolta del '30". Gli altri due furono Tresso e Ravazzoli. Nessun dirigente comunista ha mai osato criticare il comportamento di Togliatti. Anzi, esso venne giustificato affermando che in quel modo Togliatti aveva voluto salvaguardare il partito dalle epurazioni staliane. Sia come sia, l'argomento ritornò di attualità nel 1977. Allora, lavoravo in un quotidiano della "nuova sinistra" e mi venne affidato l'incarico di fare u pezzo sulle nuove rivelazioni inerenti il comportamento di Togliatti durante gli anni del suo esilio moscovita. Io, presi la mia agenda, e cominciai a fare una serie di telefonate a storici, politologi, sovietologi e tutti mi risposero alo stesso modo. Non si trattava di uno scoop, ma si trattava di cose sapute e risapute. La risposta pià simpatica mi venne data da Vittorio Foa il quale mi chiese quanti anni avessi. Perché? - chiesi, a mia volta. Perché tutti coloro che hanno la mia età, rispose Foa e hanno fatto politica a quel tempo, hanno sempre saputo dei comunisti italiani trucidati da Stalin. E aggiunse. Scrivi pure che te l'ho detto io. Ora, qualcuno potrebbe chiedermi, cosa c'entra tutto questo con il problema da cui siamo partiti. Apparentemente c'entra come i cavoli a colazione. In realtà, anche in cavoli possono essere presi in considerazione per una colazione fuori del comune: rognoni padellati. Alfonso Leonetti affidò le proprie memorie a libri come Un comunista e Il cammino di un ordinovista. *** Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto questa mattina al Quirinale il Presidente del Consiglio EnricoLetta, con il Ministro per le Riforme Quagliariello, e il Ministro per i Rapporti con il Parlamento Franceschini. Poi ha incontrato anche il vicepremier e segretario Pdl Alfano. Di ieri l'ultimo richiamo dal Quirinale ai partiti a fare le 'scelte urgenti', a non scivolare 'verso l'inconcludenzà. In 18 mesi le riforme devono essere fatte, spiega il ministro Zanonato, e sono quelle istituzionali che ci danno una legge elettoralediversa, che consenta al Paese di avere una governabilità certa'. Procedere a tappe serrate sul percorso delle riforme. Varare, forse già la prossima settimana e comunque prima del termine di fine giugno indicato dal Parlamento, il ddl costituzionale che disegnerà l'iter delle modifiche costituzionali. E' l'intenzione ribadita, secondo quanto si apprende, dal premier Enrico Letta e dai ministri Gaetano Quagliariello e Dario Franceschini nel colloquio di questa mattina al Quirinale con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nell'incontro al Quirinale si sarebbe parlato anche della commissione di esperti sulle riforme, che dovrebbe essere nominata con un decreto della presidenza del Consiglio già questa settimana. La composizione dell'organo, che avrà funzioni soltanto consultive, rientra nella piena discrezionalità del governo. L'orientamento espresso al capo dello Stato sarebbe al momento quello di invitare a farne parte venticinque 'teorici e pratici del diritto', tra i quali alcuni dei 'saggi' nominati dopo le elezioni da Napolitano. Il ddl costituzionale che disegnerà l'iter delle riforme dovrebbe approdare sul tavolo del Cdm già questa settimana, nel corso della riunione attesa per venerdì. E' quanto si apprende da fonti di governo, secondo le quali l'intenzione, anche in risposta alle sollecitazioni del Colle, é di varare il testo il prima possibile. *** "Sto girando la Sicilia inseguito dalle tv, dai cameraman: siete in onda su 'Piazza pulita'. Vanno in giro con truppettine" a cercare "qualcuno che odia il movimento e lo mandano in onda contro cinque stelle", ha detto Beppe Grillo a Leonforte, nell'Ennese, tornando ad attaccare la televisione, facendo 'circondare' un cameraman dai presenti perché, ha detto, "io ho il diritto di non essere ripreso". "Noi abbiamo un cartello e lo dobbiamo mettere davanti a quei signori davanti alla telecamera" ha aggiunto, durante un comizio per le comunali in Sicilia, davanti a diverse migliaia di persone. Poi ha chiesto a "'Vermigli' di fare un servizio sulla tua televisione, chi l'ha comprata, anche a chi l'hanno regalata...". "Il 'nano' va eliminato - ha proseguito Grillo - non lo fa la sinistra, lo faremo noi, con le prossime elezioni. Al prossimo voto ci saremo soltanto noi e Berlusconi, e vinceremo. Faremo come la Protezione civile, governeremo sulle macerie che hanno lasciato.... Hanno paura di noi, per questo mandano quei cessi a parlare di noi in televisione". "Piazza Pulita - ha scritto poi il leader M5S su Twitter - ha il diritto di riprenderci, noi di ricordargli che siamo al 57mo posto nel mondo per informazione". Beppe Grillo ha citato la scritta 'Informazione italiana 57esimo posto' che c'era sul cartello che ha fatto mettere davanti la telecamera di 'Piazza Pulita' che a Leonforte, nell'Ennese, stava riprendendo un comizio del leader del M5s. "Uno spazio pubblico diventa partito quando in qualche misura quella identità soggiacciono ad alcune regole che devono valere per tutti. Tre su tutte: il principio di maggioranza (si può decidere a maggioranza); leader forte sì ma organi collegiali in cui si discute e ci si guarda in faccia, avendo ascoltato tutti; senso di fraternità, Walter la chiama comunità, dove la passione o l'interesse del leader viene messa al servizio di un destino comune", così parlò Guglielmo Epifani alla presentazione dell'ultimo libro di Walter Veltroni. "Uno dei limiti profondi del nostro Paese è lo stato del sistema politico nella sua fragilità ma anche un sistema istituzionale in perenne transizione che non arriva mai in fondo". "Abbiamo un sistema istituzionale - ha aggiunto - che di volta in volta tenta di metter qualche aggiustatina". "Va bene un partito leggero, inclusivo, non burocratico, ma ci vuole un partito che abbia un'identità forte", ha spiegato Epifani. Questo, ha evidenziato, determina la "fragilità" del Pdemocrazia Ed Epifani lo ha paragonato ad un "fiume che vive dei suoi affluenti anche dopo che sono confluiti in esso". "In Italia tolto il Pd abbiamo una serie di partiti personali che, lo dico con rispetto nei confronti dei loro leader, sono i partiti più anti-democratici che esistono perché dipendono dai destini del leader". Epifani ha sottolineato come questo sia "preoccupante" perché si determina una asimmetria che non esiste in nessun altro Paese europeo. Ora, io avrei alcune osservazioni da fare a proposito dell'affermazione di Epifani circa il Pd che sarebbe l'unico partito democratico. A quel che si vede, esso è un partito di oligarchi. Le primarie sono una foglia di fico che servono a coprire le malefatte degli oligarchi, i quali hanno rifiutato di votare Rodotà, hanno bruciato Marini, hanno umiliato Prodi il quale era stato a sconfiggere Berlusconi in regolari elezioni politiche, che sono quelle le contano. Le primarie sono un vezzo americano che non risolve il problema vero che è quello della mancanza dì una classe politica degna di questo nome come la nomina di Epifani a segretario del Pd dimostra. Non sono riuscito a sentire ancora dai dirigenti del Pd un discorso politico nel senso vero e proprio della parola. Dalla loro bocca non è uscito ancora un progetto di società nel significato politico del termine, che non è quello di ragionare in astratto ma di porre dei paletti teorici. Non chiedo agli oligarchi del Pd di pronunciarsi su Rwals, Dworkin, Nozick, Dahl, Walzer, che per loro sono solo dei nomi di illustri sconosciuti. Chiedo loro di dire in modo chiaro e preciso cosa intendono fare del loro partito, quali progetti hanno per il nostro paese, perché essi non l'hanno ancora detto. L'occasione giusta per dirlo sarebbe stata la campagna elettorale, ma l'allora segretario del partito Pierluigi Bersani, troppo preoccupato a smacchiare il giaguaro, se l'è dimenticato. Un fatto comunque è certo. Nella crisi del Pd si riflette la crisi politica di un paese allo sbando, in balia degli eventi a difenderlo dai quali non basterà l'azione ai limiti della Costituzione di Giorgio Napolitano, il quale sembra avere fretta di passare lo scranno del Quirinale a Silvio Berlusconi, come si evince dai suoi ultimi interventi nei confronti del governo Letta, il quale sa di poter sempre contare sull'appoggio dello zio, braccio destro dello stesso Berlusconi. Se in Italia lo stato non funziona, non è colpa della Costituzione. Lo stato non funziona perché non ha mai funzionato. E non ha mai funzionato perché è sempre mancato agli italiani il senso dello stato, l'idea di appartenere ad uno stato; perché in Italia ha sempre prevalso e continua a prevalere l'attaccamento al "particulare". Perché il Risorgimento prima, la Resistenza poi, hanno mancato l'obiettivo di dare agli italiani una coscienza nazionale. *** Molti anni fa l'economista britannico Michael Kidron coniò l'espressione warfare capitalism per evidenziare il ruolo fondamentale che a suo dire aveva svolto la spesa militare nel miracolo economico capitalistico del secondo dopoguerra. Il primo, però, a porre il problema del complesso militare industriale fu nientemeno che il presidente degli Usa, John Dwight Eisenhower nel suo farewell speech con il quale passava le consegne a John Fitzgerald Kennedy. Nel corso degli anni, numerosi studiosi si sono occupati del problema e qualcuno di essi si chiese se non fosse il caso di cambiare nome al sistema economico e sociale esistente e di chiamarlo non più capitalismo, ma pentagonismo, da Pentagono, simbolo del potere militare Usa. Negli stessi anni, Harry Magdoff, della Monthly Review. la famosa rivista socialista americana fondata da Paul Sweezy e da Leo Huberman, pubblicò The Age of Imperialism, un saggio in cui dimostrava il ruolo fondamentale svolto nella politica americana dal suddetto complesso militare industriale. L'Italia non fu seconda. Essa era ed è uno dei maggiori produttori ed esportatori di armi, alla faccia della Costituzione che stabilisce che l'Italia aborre la guerra come strumento di offesa e mezzo per la soluzione delle controversie internazionali. Malgrado ciò, l'Italia partecipò alla prima guerra del Golfo, nel corso della quale si fece abbattere dagli iracheni l'uno aereo delle forze d'invasione che essi riuscirono ad abbattere. E, auspice il governo D'Alema, essa partecipò alla guerra contro la repubblica federativa di Jugoslavia. Il complesso militare industriale fu il promotore anche della seconda guerra del Golfo grazie all'azione dei suoi uomini presenti nel governo americano e non si trattava di due membri qualsiasi, ma si trattava del vicepresidente Dick Cheney, il quale aveva affermato che la guerra contro l'Iraq sarebbe stata "una passeggiata mangiando il gelato"; e del segretario alla difesa, Donald Rummy Rumsfled, inventore della flexible force strategy con la quale riformava la precedente overwhelming force strategy. elaborata da Colin Powell quando egli era, per dirla in italiano, capo di stato maggiore della difesa. In Italia, a parlare di queste cose, si rischia l'accusa fascista di vilipendio delle forze armate, laddove è chiaro come la luce del sole che le forze armate sono state, dai tempi della guerra di Troia, state al servizio del potere politico il quale agiva in nome e per conto del potere economico - circostanza questa che ha sempre impedito la possibilità di fare un discorso serio sulla conversione dell'industria bellica in industria civile. Chiarito ciò, passiamo alla cronaca. Con l'omaggio del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, alla tomba del Milite Ignoto al Vittoriano, sono cominciate le celebrazioni per la Festa nazionale della Repubblica. "Le Forze armate al servizio del Paese" è il tema della rassegna di quest'anno. Napolitano è giunto all'Altare della Patria accompagnato dal ministro della Difesa Mario Mauro e dal capo di Stato maggiore della Difesa Luigi Binelli Mantelli. Sulle scale del Vittoriano, a ricevere il capo dello Stato, tra gli altri, il presidente del Senato, Piero Grasso, quello della Camera, Laura Boldrini, il presidente del Consiglio, Enrico Letta, il sindaco di Roma Gianni Alemanno e il presidente della Regione Nicola Zingaretti. La banda dell'Esercito ha quindi intonato l'Inno nazionale. Dopo l'alzabandiera solenne e la deposizione di una corona d'alloro sul sacello del Milite Ignoto, Napolitano ha lasciato Piazza Venezia per passare in rassegna le truppe. Alla parata in circa 3.300, tra militari e civili, ma niente cavalli, aerei e neppure le Frecce Tricolori. Anche i mezzi ridotti all'osso, in un'ottica di sobrietà e di austerity. Un'edizione che ricalca grosso modo quella dell'anno scorso, quando motivi economici imposero di dimezzare i numeri della parata 2011. Come già successo il 25 aprile il presidente della Repubblica è rimasto alla base della scalea del Vittoriano, insieme alle altre autorità: solo i corazzieri sono saliti al sacello del milite ignoto per deporre la corona. E' quella che viene definita deposizione della corona "in forma staticà e che, secondo quanto si è appreso, verrà adottata d'ora in avanti. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, tra gli applausi della gente, ha raggiunto via del Fori Imperiali a bordo della Flaminia presidenziale scoperta, scortato dai corazzieri in motocicletta posto sul palco presidenziale dove sono presenti le massime autorità dello Stato. A rendergli gli onori un reparto di corazzieri che, anche per questa edizione della parata segnata dall'austerity, sono a piedi e non a cavallo. I costi sono stati stimati in un milione e mezzo di euro, contro i 2 milioni del 2012 e i 4 milioni e 400 mila del 2011. Qualcuno si ripara dal sole con un ombrellino, altri sventolano bandiere tricolori. I cittadini che stanno assistendo alla parata del 2 giugno su via dei Fori Imperiali sono uomini, donne, anziani e bambini. A chi chiede loro perché si trovano qui, molti rispondono "per passione". "Ero un militare - racconta Gianluca - e sono qui per la passione che ho per l'Esercito, per questa festa che vedo come mia. Bisogna onorarla tutti gli anni perché per questa bandiera sono morte persone. Bisogna onorarla tutti i giorni e soprattutto oggi". Gli fa eco Francesco, catanese d'origine: "Sono venuto a Roma per assistere a una bella manifestazione, per vedere un po' di popolo romano. La giornata è bella, l'unica cosa che non mi piace è questa austerità". Stefania, dietro le transenne di via dei Fori Imperiali spiega di essere qui per "una passione per i valori dello stato e il corpo militare". Il 2 giugno secondo lei "ha un significato di appartenenza allo Stato". "Circondati dall'affetto della popolazione, essi hanno sfilato in modo impeccabile, ben rappresentando, con la compostezza del portamento, un Paese orgoglioso della propria storia e della propria cultura e determinato a superare l'attuale difficile contingenza": così Napolitano in un messaggio al ministro Mauro sulla parata. "La tradizionale Parata militare ha consentito anche quest'anno di unire cittadini e istituzioni nella celebrazione della nascita della Repubblica", ha detto Napolitano sottolineando la "determinazione" dell'Italia ad uscire dalla "difficile contingenza". "In un contesto mondiale globalizzato, segnato da mutamenti profondi, da grandi progressi e insieme da nuove minacce nonchè dal permanere di antiche tensioni, le missioni di stabilizzazione intraprese dalle organizzazioni internazionali di cui l'Italia è parte attiva costituiscono un contributo essenziale alla causa della pace, del progresso sociale e della collaborazione fra i popoli". Lo scrive il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel messaggio inviato al Capo di Stato Maggiore della Difesa, Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, in occasione della Festa della Repubblica. "Rivolgo il mio pensiero deferente - dice Napolitano - alla memoria dei militari italiani che in ogni tempo e luogo hanno perso la vita al servizio della Patria: ieri, nel lungo e travagliato percorso che ha reso l'Italia una nazione libera e democratica; oggi, in paesi attraversati da conflitti e devastazioni, in aiuto a popolazioni sofferenti che nella presenza delle Forze armate italiane trovano motivo di speranza e di fiducia. Il prestigio dell'Italia nel consesso delle nazioni dipende in misura rilevante dall'operato sul campo - al servizio della comunità internazionale - dei nostri militari, cui sono unanimemente riconosciuti professionalità, impegno, umanità". "Alle grandi sfide emergenti - conclude il Presidente della Repubblica - le Forze armate italiane rispondono con concretezza e dinamismo, attraverso una radicale ed innovativa revisione dello strumento militare come quella di recente avviata,ispirata a criteri di qualificazione della spesa, razionalizzazione interforze e integrazione europea. Quest'ultima può e deve concorrere all'auspicata unità politica del continente. Ai soldati, marinai, avieri, carabinieri e finanzieri, di ogni ordine e grado ed in modo speciale a quanti in questo giorno di festa sono impegnati nei teatri operativi, giungano la gratitudine del popolo italiano e un fervido augurio. Viva le Forze armate, viva la Repubblica, viva l'Italia!" Il presidente Napolitano, conversando con i giornalisti nei giardini del Quirinale, ha espresso "apprezzamento per quello che hanno fatto le forze politiche", riferendosi alla decisione di formare un governo di larghe intese. "Una scelta che comporta sacrifici da parte dei singoli partiti, una scelta - ha aggiunto Napolitano - eccezionale e senza dubbio a termine". Il presidente della Repubblica ha ricordato infatti che quello delle riforme è "un processo molto complesso" e quindi è "importante tenere il ritmo". Il Capo dello Stato, rispondendo ai giornalisti, ha spiegato che quando ieri ha dato appuntamento al prossimo 2 giugno per avere un'Italia serena, non intendeva assolutamente fornire una tempistica alle riforme. Ciò detto, Napolitano si è detto sicuro che "da qui ad un anno si capirà a che punto siamo, e allora tra un anno sarà chiara che l'Italia si è data una prospettiva più serena e sicura. I partiti non devono essere più attaccati "alla propria bandiera, al proprio modello", di legge elettorale: "questa volta bisogna uscirne" e ciò non significa che si debba tornare per forza "ad un proporzionale puro", ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, parlando con i giornalisti. Non dirò nulla sul contenuto delle riforme istituzionali" e su questo tema, sia oggi che nel futuro, "resterò assolutamente neutrale ", ha aggiunto il presidente Napolitano dai Giardini del Quirinale. Resistendo alle diverse domande dei giornalisti sul tema del presidenzialismo, il Capo dello Stato ha preferito ricordare che "questa questione è all'ordine del giorno della Commissione che si sta costituendo e sarà discusso nel comitato di esperti". Solo allora, ha aggiunto il presidente, "si entrerà nel merito". Infatti il presidente ricorda a tutti che è quella la sede per affrontare il complesso tema delle riforme. A chi gli faceva osservare il segretario del Pdl, Angelino Alfano, ha rilanciato oggi il presidenzialismo, Giorgio Napolitano si è limitato a replicare: "ognuno ha le sue convinzioni". "Circondati dall'affetto della popolazione, essi hanno sfilato in modo impeccabile, ben rappresentando, con la compostezza del portamento, un Paese orgoglioso della propria storia e della propria cultura e determinato a superare l'attuale difficile contingenza": così Napolitano in un messaggio al ministro Mauro sulla parata. L'elezione diretta del capo dello Stato? "Noi ci abbiamo provato l'anno scorso e purtroppo siamo riusciti solo al senato e non alla Camera. Adesso penso che potremo farcela perché anche da parte del Pd si stanno aprendo significativi spiragli". Lo ha detto il vicepremier e Ministro dell'Interno Angelino Alfano rispondendo ai giornalisti al termine della parata per la festa della Repubblica. "Questa - ha proseguito - sarà anche un'ottima scelta per aumentare l'affetto dei cittadini nei confronti delle istituzioni". A chi gli chiedeva cosa ne pensasse dell'elezione diretta del capo dello Stato Alfano ha risposto: "Noi lo diciamo da tempo: siamo assolutamente d'accordo e nel 2012 abbiamo fatto una grande battaglia. La strada giusta - ha proseguito - è quella secondo cui i cittadini devono poter eleggere il presidente della repubblica. Se viene eletto direttamente dal popolo i cittadini potranno partecipare ad una grande gara democratica come succede in Francia e in America". Alfano ha sottolineato che "gli italiani già guardano con favore a quelle gare democratiche, quando si sceglie il presidente degli Usa o della Francia. Perché non consentirlo anche a loro?". Zero tasse agli imprenditori che assumono disoccupati; via l'Imu e non aumento dell'Iva; semplificazioni per chi vuole investire: "Se queste azioni funzioneranno noi potremmo avere una bella speranza per la seconda metà del 2013", ha detto il vicepremier Angelino Alfano. "Noi dobbiamo dare lavoro ai giovani - ha detto Alfano, parlando con i giornalisti al termine della parata per la festa della Republica e abbiamo una ricetta che può immediatamente offrire la possibilità che questo lavoro si crei, e cioé - ha spiegato - zero tasse per gli imprenditori che assumono giovani disoccupati. Chi assumerà questi ragazzi insomma non dovrà pagare quelle tasse che fin qui hanno rappresentato un disincentivo all'assunzione". Inoltre, ha proseguito Alfano: "Attraverso le politiche fiscali di detassazione, come nel caso dell'eliminazione dell'Imu, o di non appesantimento fiscale, come il non aumento dell'Iva, si può ambire ad una ripresa dei consumi che è capace a sua volta di generare nuova intrapresa". Infine, "terzo ambito su cui puntiamo molto - ha aggiunto il ministro dell'Interno - è quello delle semplificazioni. Chi ha degli euro in tasca e vuole investire deve poterlo fare immediatamente senza incorrere nei lacci e nei lacciuoli della burocrazia". "la nostra previsione è positiva", ha concluso il ministro: "Se queste azioni funzioneranno noi potremo avere una bela speranza per la seconda metà del 2013". Il Consiglio dei ministri ha fatto "una importante proposta che riguarda il finanziamento pubblico dei partiti e speriamo che il parlamento proceda rapidamente. Poi sarà il turno della legge elettorale, subito dopo le riforme costituzionali". Lo ha detto il vice premier Angelino Alfano, sottolineando che con la proposta del governo "abbiamo superato questi 20 anni di finanziamento pubblico per come sono stati conosciuti". Continuano i malumori nella maggioranza sulla proposta varata in consiglio dei ministri per l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. I renziani criticano apertamente la legge e il ministro Bonino arriva a ipotizzare un referendum. Le opposizioni continuano a gridare alla truffa, e Letta taglia corto: "Il finanziamento pubblico ai partiti è un tema su cui si deciderà. A chi non piace la proposta presentata ieri, ne faccia altre, ma il tema é da affrontare". La prima ad esprimere i suoi mal di pancia è il ministro degli Esteri. Sul finanziamento pubblico, dice Emma Bonino, c'é stato "l'inizio di un processo compromissorio, ma non sono così fiduciosa che l'arrivo del ddl in parlamento migliori o chiarisca la situazione... Credo che i radicali potrebbero lanciarsi in una nuova campagna referendaria" per abrogarlo. Nel governo, il ministro della Difesa Mario Mauro (Sc) chiede un tetto per le spese dei partiti, per evitare "l'avvento di una plutocrazia". Il collega Giampiero D'Alia chiede il tetto anche per le donazioni, oltre a una legge per le lobby (legge chiesta anche da Pino Pisicchio di Centro democratico). Matteo Renzi si tiene prudente: "Io sono un sostenitore dell'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti da una vita. Ma non commento ciò che fa il governo", perché "ogni volta succede un casino". I suoi parlamentari si sbilanciano di più. "Il meccanismo del 2 per mille mi sembra prefiguri una sorta di obbligatorità che non mi piace affatto", dice il senatore Pd Andrea Marcucci, e la collega Rosa Maria Di Giorgi ribadisce "devono scegliere i cittadini, non possono esserci automatismi". Scontata l'approvazione del deputato lettiano Francesco Boccia ("riforma coraggiosa e innovativa"). Ma il suo collega Daniele Marantelli osserva che "in decenni di attività politica non ho mai incrociato eserciti di benefattori privati disinteressati". Anche fra i parlamentari Pdl la proposta del governo suscita perplessità. Il capogruppo alla Camera Renato Brunetta propone che il 2x1000 "non optato" non vada ai partiti e che la stessa regola si applichi per l'8x1000 alle confessioni religiose. Il senatore Carlo Giovanardi reagisce stizzito, "non si possono confondere" le due cose, dice, ma Brunetta rimane della sua idea. "Legge dettata da una certa frenesia populista che non ci porterà da nessun parte", commenta il senatore Francesco Giro. Per la deputata Elena Centemero c'é il rischio di "rendere la politica esclusivo appannaggio di lobby e ricchi". All'opposizione, Beppe Grillo continua a sparare a zero: "Il finanziamento pubblico ai partiti è vivo e vegeto". Per Nichi Vendola quella del governo è "una riforma lontana dal'Europa e con elementi di sola propaganda", mentre per Luca Zaia "si abbia il coraggio" di abolire "subito" il finanziamento pubblico "e non si aspetti il 2016". Antonio Di Pietro parla di "mossa propagandistica", mentre il suo ex alleato Antonio Ingroia è l'unico all'opposizione a giudicare positivamente il disegno di legge: "E' un buon punto di partenza". "Ho fatto la Tv per 40 anni, la tv fa male non per quello che viene detto ma per quello che si vede. Noi non andremo in tv, noi la occuperemo". Lo ha detto Beppe Grillo ad un comizio a Marina di Ragusa, frazione di Ragusa, per le Comunali in Sicilia. "Napolitano, fatti in esame di coscienza, andavi da Roma a Bruxelles con un volo da 66 euro e te ne facevi rimborsare 800, non hai infranto la legge, ma l'etica si". Lo ha detto Beppe Grillo, intervenuto a Marina di Ragusa ad un comizio per le Comunali in Sicilia. "Sempre a dire che i grillini - aveva prima detto Grillo - sanno solo dire di no, noi da quando siamo in Parlamento abbiamo fatto le leggi ma la stampa non lo dice, ci hanno copiato il programma e poi volevano i voti dei nostri parlamentari per raggiungere il quorum. Se volevano mandare a a casa Berlusconi, dovevano votare Rodotà e Prodi, invece, hanno fatto altre scelte, eleggendo Napolitano che ormai solo vigila. Sono accusato di vilipendio perché lui, mentre si raddoppiava la carriera, ha dato mandato alla Cancellieri di andare a casa di 21 giovani per avere detto cose sgradevoli al presidente della Repubblica". "Lo Stato non sa più dove prendere i soldi e specula sulla povera gente, siamo dalla parte dei cittadini che vogliono togliere le macchinette del gioco d'azzardo dai centri commerciali. E' uno Stato che crea ansia, che ricatta e che manda la Guardia di Finanza a controllare i bed and breakfast mentre si fa scappare 21 miliardi dal Monte dei Paschi di Siena". Lo ha detto Beppe Grillo in una tappa del suo tour per le comunali a Marina di Ragusa. "Questo Paese sta esplodendo, è finito dal punto di vista economico e politico: siamo nelle macerie". Lo ha affermato Beppe Grillo in un comizio a Marina di Ragusa a sostegno del Movimento 5 stelle per le Comunali in Sicilia. Il leader del M5s è tornato ad attaccare il giornalisti, il Pd di avere voluto l'accordo col Pdl, a definire il presidente del Consiglio, Enrico Letta, "uno che per 20 anni è stato lì, a 10mila euro al mese, al fare il nipote di suo zio" Gianni. Grillo sta parlando davanti ad una platea di centinaia di persone. "Il governo fa solo proclami e si balocca con il presidenzialismo, la legge elettorale che verrà sotto gli occhi vigili di Napolitano, la presa per il culo del falso taglio al finanziamento dei partiti,la legge per eliminare M5S dal parlamento, la nuova Costituzione e altre amenità". Lo scrive Beppe Grillo, sottolineando che l'Italia è al collasso. Il titolo del post è "L'Italia è come un cammello", e scrive Grillo in conclusione, "il cammello Italia collasserà e gli italiani, ignari, lo verranno a sapere in prima serata, dopo la pubblicità e prima degli elicotteri". Per Grillo, infatti, "Capitan Findus Letta" fa parte dei "venditori di miraggi". "Il cuore dell'uomo - premette - è come un cammello che, se debilitato, può morire all'improvviso sotto sforzo, senza dar prima alcun segno. Il nostro cuore sopporta qualunque cosa, compensa ogni problema del corpo e poi cede di schianto. L'Italia è come un cammello. Nelle gobbe non ha più acqua e davanti un deserto che sembra non avere fine". "Secondo uno studio della Cgil - sottolinea - ci vogliono 13 anni per tornare al Pil del 2007 e 63 anni per avere lo stesso livello di occupati. Sessantatre anni? Sembra la marcia di Mosé nel deserto del Sur verso la Terra Promessa. La disoccupazione (ufficiale) è del 12,8% (in realtà considerando gli scoraggiati, chi il lavoro non lo cerca più, è intorno al 20%). La peggiore dal 1977. I giovani disoccupati sono il 40%. Il Sud è diventato terra di emigrazione come nell'Ottocento. Il debito pubblico batte ogni mese un record, a marzo è arrivato a 2034 miliardi di euro, un aumento di 6 miliardi da febbraio (2028 mil.). Gli interessi annui sul debito aumentano, hanno raggiunto circa 100 miliardi all'anno. Per Banca d'Italia il Pil del 2012 è stato inferiore del 7 per cento rispetto a quello del 2007, il reddito disponibile delle famiglie del 9 per cento, la produzione di un quarto. Chiude un'impresa al minuto, ma con l'aumento dell'Iva da luglio dal 21 al 22 per cento, che porterà in dote 200 euro di costi in più per famiglia (fonte Adusbef), la mortalità è destinata ad aumentare. Si comprerà di meno, si produrrà di meno, anche beni di prima necessità. L'Ocse ha tagliato le stime del nostro Pil a meno 1,8% il 2013, valutazione più che ottimistica. Tradotto in disoccupazione significa perdere circa un milione di posti di lavoro". "Le gobbe del cammello Italia sono aride, ma i venditori di miraggi si moltiplicano. Le oasi di Capitan Findus Letta: "La priorità assoluta è il lavoro, ridurre le tasse sul lavoro, poi ci sono altre priorità, come la casa... abbiamo lanciato un grande messaggio per dare lavoro alle imprese, per fare efficientamento energetico, per fare ripartire il settore dei mobili e dell'edilizia". Europa +33%, con Milano tra le migliori in aumento del 39% e mercati Usa leggermente meno forti (+29%). Le Borse sono ai massimi degli ultimi cinque anni anche se l'economia non riparte: la domanda è se possono continuare a tenere e la risposta degli operatori è quasi sempre positiva. Però sta arrivando l'estate, da sempre il momento delle grandi tempeste e la prossima settimana secondo gli analisti servirà a indirizzare i mesi più caldi, con appuntamenti cruciali quasi tutti i giorni. Anche perché l'ultima parte di maggio qualche temporale l'ha riservato, dopo un periodo abbastanza tranquillo in costante recupero. La settimana scorsa si è tra l'altro chiusa in un clima negativo, attenuato solo dal dato della fiducia negli Stati Uniti migliore delle stime, che ha permesso ai listini di contenere le perdite. Ma l'ottimismo - anche tra i pochi operatori di Piazza Affari rimasti nel week end a preparare l'apertura di settimana dei mercati - rimane, con l'attenzione rivolta ai molti segnali che sono in calendario per i prossimi giorni. Si apre subito con l'indice Pmi europeo e - più importante - con l'andamento del settore manifatturiero statunitense. Martedì toccherà alla bilancia commerciale Usa, ma la giornata clou sarà quella di mercoledì: tra i tanti dati macroeconomici cui guardano i mercati, ci sono anche quelli del Pil europeo e l'Ism non manifatturiero d'oltreoceano. Ma è probabile che rimangano tutti fermi fino a sera, quando la Federal reserve pubblicherà il suo 'beige book' con le indicazioni sulla politica monetaria. Anche perché fino a oggi la contraddizione è stata evidente: le Borse hanno temuto maggiormente dati economici positivi piuttosto che negativi, in quanto si prevede che la Fed possa ridurre le sue misure di sostegno alla liquidità non appena arrivi la prima ripresa. Ma non è finita: il giorno dopo il book della Federal reserve, toccherà a Mario Draghi, che giovedì a inizio pomeriggio, quindi a mercati aperti, terrà la conferenza stampa pre-estiva. Infine venerdì, con gli attesissimi dati dell'occupazione negli Usa: i senza lavoro al momento si tengono sul confortante livello del 7,5%, una quota che le stime pensano venga confermata. "Qualche turbolenza in più rispetto alle Borse la prevediamo nel mercato dei titoli di Stato, anche se per ora l'Italia ha tenuto bene", dice un operatore del comparto, che poco guarda alle improbabili decisioni della Bce di metà settimana sui tassi e più a un segnale "preoccupante": il maggior gruppo di investimento mondiale in titoli di Stato, la statunitense Pimco, starebbe analizzando ulteriori vendite di bond europei in quanto teme ulteriori downgrade dal parte delle agenzia di rating sul debito sovrano di diversi Paesi europei. Una volta si diceva che i salmi finivano in gloria. Oggi che, per parafrasare Hegel, la lettura dei listini di borsa ha sostituito le preghiere del mattino, potremo di che tutti i salmi finiscono con una lode al capitale finanziario, il quale, malgrado la crisi continua a fare profitti sulle spalle dell'economia reale grazie, fra l'altro, ai buoni uffici del complesso militare industriale la cui ddomanda di ben prodotti dall'industria bellica non mostra segni di cedimento. Come affermava il titolo di un vecchio film con Alberto Sordi, Finché c'è guerra c'è speranza. *** L'Italia non si piega alla crisi, alla quale deve reagire con uno sforzo comune con l'obiettivo di raggiungere una nuova prospettiva, 'piu' serena e sicurà, entro il prossimo anno. E' l'appello di Napolitano per il 2 giugno. Il Presidente invita ognuno a fare la sua parte per la crescita ed ai partiti rimarca: ho accettato il bis, ora tocca a loro confrontarsi. Poi avverte che vigilerà 'perche' non si scivoli verso rigidità e inconcludenze. Dal presidente sono anche venute parole sulla disoccupazione giovanile, 'in Ue problema numero 1', e apprezzamento sull'accordo sulla rappresentanza tra sindacati e confindustria. La priorità del governo è la "riduzione delle tasse sul lavoro per creare" nuovi posti. Lo ha detto il premier, Enrico Letta, intervenendo al Festival dell'economia. Il governo italiano si presenterà al vertice europeo del 27-28 giugno con "un piano di interventi" e la priorità "é la riduzione della disoccupazione giovanile sotto la soglia del 30%", ha detto Letta. "Vedo fondamentale la scadenza alle elezioni europee dell'anno prossimo, che saranno le più importanti della storia. Se non facciamo la svolta, avremo il Parlamento europeo più antieuropeo della storia". Ad affermarlo è stato il premier in un incontro con l'economista Tito Boeri. "O l'Europa - ha sottolineato - diventa in 18-24 mesi quello strumento di democrazia della globalizzazione, di sovranità condivisa, oppure non la tocchiamo più e resta in mano ad altri". "Vivo con una certa preoccupazione - ha aggiunto - questa fase della vita europea, perché vedo uno scollamento della percezione del cittadino europeo, italiano o portoghese che sia, e la percezione delle leadership europee nel dare risposte". "Le preoccupazioni sono enormi - ha proseguito - perché la crisi del 2009 è stata percepita prima dagli ambienti accademici, poi è entrata nella carne viva. E oggi, inerzialmente, la percezione dei nostri popoli è un misto tra rassegnazione tra un'Europa che non riesce a dare risposte e animosità. L'Europa non basta, anzi è foriera di brutte notizie. Si dice 'siamo usciti dalla procedura di deficit eccessivo e dov'é il vantaggio?'". "L'Europa è morta a Sarajevo, è morta a Srebrenica". Letta ha ricordato come l'Unione europea in questi anni "non sia riuscita ad affrontare certe situazioni e certi temi". Per questo il primo ministro auspica che l'Europa abbia "un proprio ministro degli esteri". "E' sbagliato dare tutta la colpa al rigore. Il tema è la non politica. Gli Stati Uniti sono un'architettura unitaria che ha preso decisioni in tempo reale, l'Europa no". Così il premier a proposito delle politiche di austerity in Europa. Unico esempio contrario la decisione della Banca centrale, "prima della quale ci furono 28 vertici europei, con relativi annunci: un'incapacità delle istituzioni di decidere". "I 18 mesi che ci siamo dati è il tempo giusto per completare l'iter di riforme", secondo il premer. "La riforma del Titolo V della Costituzione va cambiata. E' da rivedere. Lì dentro c'é qualcosa che non funziona". "Siamo qui e dico che non è più tempo di leggi ordinarie che si diano addosso una con l'altra. Se i Costituenti hanno pensato procedure complesse una ragione c'era. Andremo in quella direzione e il Trentino conosce bene i temi con la sua autonomia. Il presidente Napolitano - ha evidenziato - ha ribadito che serve andare in questa direzione". Questo "governo è eccezionale e non si ripeterà", ha spiegato il presidente del Consiglio. Anche se l'Italia intercetterà la ripresa ci vorranno 63 anni per recuperare i livelli occupazionali del 2007. Solo nel 2076, cioe', si tornerebbe alle 25.026.400 unita' di lavoro standard nel 2007. E' quanto risulta da uno studio dell' ufficio economico Cgil che prende come punto di partenza il contesto attuale. Nello studio della Cgil 'La ripresa dell'anno dopo - Serve un Piano del Lavoro per la crescita e l'occupazione", si simulano però alcune ipotesi di ripresa, nell'ambito delle attuali tendenze e senza che si prevedano modifiche significative di politica economica, sia nazionale che europea, per dimostrare la necessità di "un cambio di paradigma: partire dal lavoro per produrre crescita". Se quello delineato inizialmente è quindi lo scenario peggiore, lo studio Cgil prende in considerazione "ipotesi più ottimistiche" legate alla proiezione di un livello di crescita pari a quello medio registrato nel periodo 2000-2007, ovvero del +1,6%. In questo caso il risultato prevede che il livello del Pil, dell'occupazione e dei salari verrebbe ripristinato nel 2020 (7 anni dopo il 2013) mentre quello della produttività nel 2017 e il livello degli investimenti nel 2024 (12 anni dopo il 2013). Lo studio della Cgil calcola inoltre anche la perdita cumulata generata dalla crisi, cioé il livello potenziale di crescita che si sarebbe registrato nel caso in cui la crisi non ci fosse mai stata, e che è pari a 276 miliardi di euro di Pil (in termini nominali oltre 385 miliardi, circa il 20% del Pil). Uno studio, quindi, funzionale alla Cgil per rivendicare la centralità del lavoro. "Per uscire dalla crisi e recuperare la crescita potenziale occorre un cambio di paradigma", osserva il segretario confederale della Cgil, Danilo Barbi, secondo il quale "per non attendere che sia un'altra generazione ad assistere all'eventuale uscita da questa crisi, e ritrovare nel breve periodo la via della ripresa e della crescita occupazionale, occorre proprio partire dalla creazione di lavoro". Con la ripresa annunciata per il 2014 l'Italia impiegherà tredici anni per ritornare al livello del Pil del 2007, rivela lo studio dal titolo 'La ripresa dell'anno dopo - Serve un Piano del Lavoro per la crescita e l'occupazione'. La firma dell'accordo sulla rappresentanza tra la Confindustria e i sindacati "rappresenta un avvenimento di prima grandezza per il Paese. È un segno importante e incoraggiante di volontà costruttiva e di coesione sociale". Così il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sull'accordo raggiunto ieri. Cgil, Cisl e Uil e Confindustria hanno raggiunto l'accordo sulla rappresentanza e la democrazia sindacale. I leader dei sindacati Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti ed il presidente degli industriali, Giorgio Squinzi, hanno siglato l'intesa dopo 4 ore di confronto. Con l'accordo interconfederale si introducono nuove regole per misurare la rappresentativita' delle organizzazioni sindacali, certificare gli iscritti e il voto dei lavoratori e a dare certezza agli accordi sindacali, che una volta approvati e ratificati a maggioranza semplice varranno effettivamente per tutti.. ''E' un accordo storico'', commentano Camusso e Squinzi. ''un accordo che mette fine ad una lunga stagione di divisioni'', aggiunge il leader della Cgil.''Dopo 60 anni definiamo le regole per la rappresentanza, che ci permette di avere contratti nazionali pienamente esigibili'', sottolinea il presidente di Confindustria. Si prevedono infatti regole per ''l'esercizio del diritto di sciopero e sanzioni per mancato rispetto e le conseguenti violazioni'', sottolinea ancora Squinzi. "E' una svolta davvero importante nelle relazioni industriali", dice il leader della Cisl, Raffaele Bonanni. "La Cisl è molto contenta. Abbiamo perseguito con molta forza questo obiettivo" ."E' un accordo importante che regolerà i rapporti, le relazioni industriali in modo più chiaro e trasparente. La dimostrazione che le parti sociali sono capaci di autoregolarsi'', spiega il leader della Uil, Luigi Angeletti. Il plauso all'accordo arriva anche dal premier Enrico Letta che twitta: ''Una bella notizia l'accordo appena firmato Confindustria-sindacati: è il momento di unire, non di dividere per combattere la disoccupazione''. Con questo accordo si mettono nero su bianco le regole per certificare gli iscritti e il voto dei lavoratori, indicando la soglia del 5% per sedere al tavolo della contrattazione nazionale. Nel settore privato, come gia' accade da 20 anni nel pubblico impiego, la rappresentativita' verra' misurata attraverso l'incrocio, il mix tra numero degli iscritti e voto proporzionale delle Rsu (rappresentanze sindacali unitarie). L'intesa indica anche le regole per validare gli accordi, definiti dalle organizzazioni sindacali che rappresentano almeno il 50% piu' uno, cioe' la maggioranza semplice. La stessa maggioranza semplice richiesta per la consultazione certificata dei lavoratori, il voto a cui cioe' verranno sottoposti gli stessi accordi. Cosi' se un contratto nazionale e' sottoscritto dal 50% piu' uno della rappresentanza sindacale ''tutti -chiarisce Squinzi- sono tenuti a rispettare quanto stabilito da quel contratto'' Ora cosa dire di tutto ciò? Quello che si può dire di tutto ciò, esclusa la chiara provocazione della CGIL sul 2076, è che si tratta di preoccupazioni e accordi che sono condivisibili, ma che, ancora una volta il problema è un altro. Il problema, lo ripeterò alla nausea, è il denaro. Il problema sono le banche. Il problema è il debito pubblico finanziato dalle banche. Il problema è che, come scrisse Federico Caffè, ancora nel 1971, in Italia non s'è mai data la giusta importanza al problema del lavoro. Il problema del lavoro è oggi venuto al pettine e nessuno sa o non vuole sapere come risolverlo. *** Perché non riusciamo a risolvere i nostri problemi economici? Perché non riusciamo a uscire dalla crisi? Rispondere a queste domande non è facile. Molti sono infatti i motivi che ci impediscono di risolvere i nostri problemi economici. L'economista indiano R.Rajan ne ha parlato nel libro Terremoti finanziari. Qui, mi interessa trattare brevemente di uno di essi, di carattere prettamente teorico, anzi, per essere preciso, di filosofia dell'economia. Si tratta infatti della nozione di economico - un concetto la cui origine viene attribuita a Adam Smith il quale avrebbe fornito in Ricchezza delle nazioni le prove dell'autonomia dell'economico. In realtà, si può parlare di economia solo in riferimento alla società. L'economia è un fenomeno sociale per sua natura. Inoltre, esistono o sono esistite diverse forme di organizzazione economica: alcune basate sulla redistribuzione, altre sul dono, altre sulla reciprocità. Vedi le ricerche di M. Mauss e di K. Polany. Infine, non va dimenticato che la ricerca del massimo profitto non è l'unico scopo possibile dell'azione umana. Esiste, come ha spiegato T. Nagel, anche l'altruismo; esistono cioè delle motivazioni dell'azione umana che, come ha dimostrato B. Frey, escono dal quadro concettuale fissato da Adam Smith quando, in Ricchezza delle nazioni scrisse che “It is not from the benevolence of the butcher, the brewer, or the baker, that we can expect our dinner, but from their regard to their own interest”. Malgrado ciò, continuiamo a essere prigionieri di una visione economicistica dell'agire umano che ci impedisce di comprendere le cause della stessa crisi economica la quale affonda le sue radici nella distruzione operata dalla globalizzazione delle relazioni sociali tradizionali, al punto che il sociologo francese A. Touraine parlò a suo tempo di "fine del sociale". La migliore dimostrazione della correttezza di questa affermazione ci vene dalla crisi in cui versa il mercato del lavoro. Come spiegò a suo tempo R. Solow il mercato del lavoro è prima di tutto una istituzione sociale e il suo principio di funzionamento non può essere ridotto al principio della domanda e dell'offerta come si trattasse di un mercato qualsiasi. Noi, però, non teniamo conto di questo fatto e non possiamo perciò stupirci del fallimento dei nostri tentativi di riforma dello stesso mercato del lavoro. Questa affermazione ci riporta a quella che K. Polany chiamò la nostra obsoleta mentalità di mercato e, più in generale, a quelli che gli economisti chiamano fallimenti del mercato. la cui esistenza giustificherebbe a loro dire l'intervento dello stato al fine di garantire il buon funzionamento dello stesso mercato. Per renderci conto di questo fatto, possiamo pensare all'inquinamento ambientale prodotto dalle nostre attività economiche o, più in generale, possiamo pensare a quelle che gli economisti chiamano esternalità negative, fra le quali possiamo collocare il già ricordato inquinamento ambientale. Come dire che può aprirsi una contraddizione fra efficienza privata e efficienza pubblica nell'uso delle risorse. Questo problema, già evidenziato un secolo fa da C. Pigou in Economia del benessere, è divenuto sempre più pressante e sempre più vicina si fa minaccia di una catastrofe ecologica che renderebbe impossibile la vita sulla Terra. Ciò significa che dobbiamo rivedere tutti i nostri concetti economici, a cominciare da quello di reddito nazionale, ovvero di prodotto interno lordo, come G. Myrdal aveva suggerito ancora nel lontano 1974. Analoghe considerazioni possono essere fatte per quello che riguarda i problemi finanziari i quai non potranno essere risolti finché non cambieremo il nostro modo di vedere la relazione fra economia reale e economia finanziaria. Il nodo della questione risiede in un'errata concezione della cosiddetta speculazione finanziaria. La speculazione finanziaria è infatti, parte fondamentale dell'attività economica capitalistica. Non solo. Essa esplica una funzione fondamentale nel mantenimento del nostro welfare state assorbendo i titoli del debito pubblico senza i quali lo stato del benessere crollerebbe. In questo contesto diventa fondamentale una riconsiderazione del concetto di capitalismo monopolistico. Solo così potremmo cominciare a comprendere le cause profonde della crisi che continua a mettere a dura prova le nostre economie e tentare in questo modo di uscire dalla stessa. *** Volendo porre la questione nei suoi termini essenziali, possiamo dire che la storia della scienza è la storia della ricerca di che cosa tiene insieme il mondo. L'economia politica non fa eccezione. Secondo Adam Smith, il fondatore dell disciplina, ciò che tiene insieme il mondo è la predisposizione naturale dell'uomo allo scambio. Tale predisposizione favorisce la divisione del lavoro la quale favorisce, a sua volta, lo sviluppo economico. non a caso, per Smith, i paesi più sviluppati sono anche quelli dove è più sviluppata la divisione del lavoro che peerrmette d produrre un maggior numero di ben a prezzi inferiori a quelli che si avrebbero in sua assenza. Nelle parole dello stesso Smith, "Prendiamo dunque un esempio in una manifattura di poco conto dove la divisione del lavoro è stata molto spesso citata, quella, cioè, dello spillettaio; un operaio non educato in questa manifattura (che la divisione del lavoro ha reso uno speciale mestiere), non preparato all'uso del macchinario realizzato per questo (la cui invenzione probabilmente è stata resa possibile dalla stessa divisone), può a fatica, forse, con la sua laboriosità, produrre uno spillo al giorno, e di certo non può produrne 20. Dato il modo in cui viene svolto oggi questo compito, non solo tale lavoro nel suo complesso è divenuto mestiere particolare, diviso in un certo numero di specialità, la maggior parte delle quali sono anch'esse mestieri particolari. Un uomo trafila in metallo, un altro raddrizza il filo, il terzo lo taglia, un quarto gli fa la p nta, un quinto lo schiaccia l'estremità dove deve inserirsi la capocchia; fare la capocchia richiede due o tre operazioni distinte; inserirle in attività distinta, pulire gli spilli è un'altra, e persino il metterli nella carta un'altra occupazione se stante, sicché l'importante attività di fabbricare uno spillo viene divisa, in tal modo in circa 18 distinte operazioni che, in alcune manifatture, sono tutte compiute da mani diverse, sebbene si diano casi in cui la stessa persona ne compie due o tre. Io ho visto una piccola manifattura di questo tipo dove erano impiegati solo 10 uomini, e dove alcuni di essi di conseguenza compivano due o tre distinte operazioni. Ma sebbene loro fossero assai poveri, e perciò non disponessero molto delle macchine necessarie, potevano, quando si impegnavano a vicenda, fare all'incirca dodici libbre di spilli in un giorno. Una libbra contiene più di mille spilli di grandezza media. Quelle 10 persone, quindi, riuscivano a fare più di 0.000 spilli al giorno. Ciascuno di loro 10 dunque, facendo una decima parte di 48000 spilli, può essere considerato come se ne fabbricasse 4800 in un giorno. Se invece avessero lavorato tutti separatamente e indipendentemente senza che alcuno di loro fosse stato previamente addestrato a questo compito particolare, non avrebbero certamente potuto fabbricare neanche 20 spilli al giorno per ciascuno, forse neanche un solo spillo al giorno; cioè certamente non la duecentoquarantesima parte, e forse neanche la quattromilaottocentesima parte di quel che sono intanto capaci di compiere in conseguenza di una appropriata divisione e combinazione delle loro differenti operazioni. In tutte le altre arti e manifatture, gli effetti della divisione del lavoro sono analoghi a quelli che abbiamo riscontrato in quest'attività di modestissimo rilievo; sebbene, in molte di esse, il lavoro non possa essere suddiviso fino a questo punto, né ridotto a una tale semplicità di operazioni. La divisione del lavoro, comunque, nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni mestiere un aumento proporzionale delle capacità produttive del lavoro." Nell' Abbozzo, egli aveva già posto e quasi interamente sviluppato le basi concettuali dell'argomento: "Solo la divisione del lavoro, per la quale ciascun individuo si limita ad esercitare un'attività particolare, può fornirci una spiegazione di questa maggiore ricchezza che si produce nelle società evolute". Secondo Smith: "Questo grande aumento della quantità di lavoro che lo stesso numero di uomini è capace di compiere in conseguenza della divisione del lavoro si deve a tre diversecircostanze: in primo luogo l'aumento della destrezza, di ciascun operaio; in secondo luogo il risparmio del tempo che si perde comunemente nel passare da una specie di lavoro ad un'altra; infine, l'invenzione di un gran numero di macchine che facilitano ed abbreviano il lavoro e consentono ad un uomo di fare il lavoro di molti". La divisione del lavoro aumenta la destrezza del lavoratore e favorisce l'aumento della quantità prodotta. "In primo luogo il miglioramento della destrezza dell'operaio aumenta necessariamente la quantità di lavoro che egli può eseguire; e la divisione del lavoro, riducendo il mestiere di ciascun uomo ad una sola operazione semplice, e rendendo questa operazione l'unica occupazione della sua vita, necessariamente aumenta di molto la destrezza dell'operaio". "In secondo luogo, il vantaggio che si ottiene dal risparmio del tempo che si perde comunemente nel passare da una specie di lavoro ad un'altra, è molto maggiore di quello, che a prima vista si sarebbe indotti ad immaginare. È impossibile passare rapidamente da una specie di lavoro ad un'altra che si fa in un luogo diverso e con strumenti totalmente diversi". "In terzo e ultimo luogo, chiunque comprende facilmente come il lavoro venga molto abbreviato e facilitato dall'applicazione di adatto macchinario. Non è necessario darne esempio. Osserverò quindi soltanto che l'invenzione di tutte quelle macchine, mediante le quali il lavoro è tanto abbreviato e facilitato, sembra essere stata originariamente dovuta alla divisione del lavoro. Gli uomini sono molto maggiormente atti a scoprire metodi più facili e più pronti per raggiungere qualsiasi scopo quando tutta l'attenzione della loro mente è diretta verso quel singolo scopo, che quando è dissipata tra una grande varietà di oggetti. Ma, in conseguenza della divisione del lavoro, tutta l'attenzione di ciascun uomo viene naturalmente diretta verso qualche oggetto molto semplice". "Gran parte delle macchine che sono usate in quelle industrie in cui il lavoro è maggiormente suddiviso, furono originariamente invenzioni di operai comuni i quali, ciascuno di loro essendo addetto a qualche operazione semplicissima, volsero naturalmente la loro attenzione a trovare metodi più facili e più rapidi per eseguirla". La concezione smithiana è alla base delle teorie neo-liberiste sulla globalizzazione. Per esse, infatti, la globalizzazione è un fenomeno naturale come naturale è la predisposizione dell'uomo allo scambio. Tale concezione economica trova la sua giusitifcazione morale nel sentimento della simpatia. Come Smith scrisse infatti in Theory of moral sentiments, "How selfish soever man may be supposed, there are evidently some principles in his nature, which interest him in the fortune of others, and render their happiness necessary to him, though he derives nothing from it except the pleasure of seeing it. Of this kind is pity or compassion, the emotion which we feel for the misery of others, when we either see it, or are made to conceive it in a very lively manner. That we often derive sorrow from the sorrow of others, is a matter of fact too obvious to require any instances to prove it; for this sentiment, like all the other original passions of human nature, is by no means confined to the virtuous and humane, though they perhaps may feel it with the most exquisite sensibility. The greatest ruffian, the most hardened violator of the laws of society, is not altogether without it." In questo contesto si situa il discorso della invisible hand, la quale agisce in modo che ciascun individuo, perseguendo il proprio tornaconto non fa altro che collaborare al benessere di tutti. Secondo Smith, “It is not from the benevolence of the butcher, the brewer, or the baker, that we can expect our dinner, but from their regard to their own interest”. Questa affermazione di Smith è stata sempre causa di un fraintendimento del pensiero dello stesso Smith il quale, teorizzando il ruolo fondamentale svolto dal perseguimento del proprio tornaconto nel processo di sviluppo sociale, non intendeva certamente additare come individui degni d'ammirazione truffatori e avventurieri, speculatori e faccendieri. In altre parole, Adam Smith sarebbe stato il primo a criticare la subprime mania che è recentemente stata una delle cause deella più grave crisi finanziaria che abbia scosso il capitalismo dalla crrisi innescata con il Grande crollo del del 1929, a proposito del quale John K. Galbraaith scrissse, che nessuno può essere considerato responsabile di essa; nessuno condusse la gente al macello. La crisi fu il prodotto della libera scelta di migliaia di persone spinte dal desiderio di diventare ricche. In realtà, la crisi scoppiò, come ricordò Gordon in Crescita e ciclo dell'economia americana, dopo un periodo di grande espansione sia a livello di produzione industriale che d formazione del capitale e, come scrisse Overy, le imprese lucravano cospicui profitti emettendo grandi quantità di azioni che eccedevano le capacità di assorbimento del mercato. Il crollo di Wall Street si ripercosse sulla economia reale causando la chiusura d'un grande numero di aziende e un aumento drammatico della disoccupazione. Gli effetti negativi della crisi vennero aggravati dalla politica del governo americano, il quale, invece di porre in essere le necessarie misure anti-crisi, emanò una serie di provvedimenti che andavano in direzione affatto opposta. Il crollo Wall Street ebbe conseguenze negative anche in Europa. Come ricordava Aldcroft, alla metà del 1930 tutti i paesi europei erano caduti vittime della crisi. Il peggio, però, doveva ancora arrivare. Esso arrivò nell'estate del 1931 con il crack del viennese Credit Anstalt. Le ripercussioni negative del crollo di Wall Street si fecero sentire particolarmente in Germania che era ancora alle prese con le conseguenze economiche negative della Prima guerra mondiale e con le difficoltà create dal pagamento delle riparazioni di guerra, come Keynes aveva preveduto in Le conseguenze economiche della pace. Come scrisse infatti Keynes, coloro che trattarono con la Germania le condizioni della pace non erano preoccupati del futuro dell'Europa, ma erano unicamente interessati a punire la Germania imponendole una pace cartaginese. In termini generali, possiamo, comunque, dire, come disse Joseph Stigliz nella sua Nobel Prize Lecture, che l'esperienza insegna che la mano invisibile non esiste; o, se esiste, è palizzata. Inoltre, possiamo aggiungere che esiste anche l'altruismo, per lo meno nella forma di possibilità in quanto non esistono solo motivazioni economiche del comportamento umano. Esistono anche motivazioni non economiche, come i milioni di persone che lavorano nel settore noprofit dimostrano. In Marx, ciò che tiene insieme il mondo è il perseguimentto da parte della borghesia del proprio interesse di classe. Nel fare questo essa prepara la propria distruzione. Nelle parole di Marx, Manifesto dei comunisti, La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta. Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi. La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato. Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo popolo minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia. La scoperta dell'America, la circumnavigazione dell'Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, gli scambi con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all'industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all'elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione. L'esercizio dell'industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura. Il medio ceto industriale soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro fra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa. Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All'industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al ceto medio industriale subentrarono i milionari dell'industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni. La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch'era stato preparato dalla scoperta dell'America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull'espansione dell'industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo. Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa stessa il prodotto d'un lungo processo di sviluppo, d'una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico. Ognuno di questi stadi di sviluppo della borghesia era accompagnato da un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni armate ed autonome nel Comune, talvolta sotto la forma di repubblica municipale indipendente, talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all'epoca dell'industria manifatturiera, nella monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo dello Stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese. La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo "pagamento in contanti". Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illusioni religiose e politiche. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro. La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti. Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale. Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza. La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l'Oriente dall'Occidente. La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, legate quasi solo da vincoli federali, con interessi, leggi, governi e dazi differenti, vennero strette in una sola nazione, sotto un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale. Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d'interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo -quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive? Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendo la borghesia erano stati prodotti entro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate. Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi. Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. -Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse. A questo momento le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa. Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che la porteranno alla morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari. Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato. Con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l'operaio. Egli diviene un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un'operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima da imparare. Quindi le spese che causa l'operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della specie. Ma il prezzo di una merce, quindi anche quello del lavoro, è uguale ai suoi costi di produzione. Quindi il salario decresce nella stessa proporzione in cui aumenta il tedio del lavoro. Anzi, nella stessa proporzione dell'aumento dell'uso delle macchine e della divisione del lavoro, aumenta anche la massa del lavoro, sia attraverso l'aumento delle ore di lavoro, sia attraverso l'aumento del lavoro che si esige in una data unità di tempo, attraverso l'accresciuta celerità delle macchine, e così via. L'industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell'industria, sotto la sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi della classe dei borghesi, ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona. Questo dispotismo è tanto più meschino, odioso ed esasperante, quanto più apertamente esso proclama come fine ultimo il guadagno. Quanto meno il lavoro manuale esige abilità ed esplicazione di forza, cioè quanto più si sviluppa l'industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne [e dei fanciulli]. Per la classe operaia non han più valore sociale le differenze di sesso e di età. Ormai ci sono soltanto strumenti di lavoro che costano più o meno a seconda dell'età e del sesso. Quando lo sfruttamento dell'operaio da parte del padrone di fabbrica è terminato in quanto all'operaio viene pagato il suo salario in contanti, si gettano su di lui le altre parti della borghesia, il padron di casa, il bottegaio, il prestatore su pegno e così via. Quelli che fino a questo momento erano i piccoli ordini medi, cioè i piccoli industriali, i piccoli commercianti e coloro che vivevano di piccole rendite, gli artigiani e i contadini, tutte queste classi precipitano nel proletariato, in parte per il fatto che il loro piccolo capitale non è sufficiente per l'esercizio della grande industria e soccombe nella concorrenza con i capitalisti più forti, in parte per il fatto che la loro abilità viene svalutata da nuovi sistemi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione. Il proletariato passa attraverso vari gradi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia comincia con la sua esistenza. Da principio singoli operai, poi gli operai di una fabbrica, poi gli operai di una branca di lavoro in un dato luogo lottano contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente. Essi non dirigono i loro attacchi soltanto contro i rapporti borghesi di produzione, ma contro gli stessi strumenti di produzione; distruggono le merci straniere che fan loro concorrenza, fracassano le macchine, danno fuoco alle fabbriche, cercano di riconquistarsi la tramontata posizione del lavoratore medievale. In questo stadio gli operai costituiscono una massa disseminata per tutto il paese e dispersa a causa della concorrenza. La solidarietà di maggiori masse operaie non è ancora il risultato della loro propria unione, ma della unione della borghesia, la quale, per il raggiungimento dei propri fini politici, deve mettere in movimento tutto il proletariato, e per il momento può ancora farlo. Dunque, in questo stadio i proletari combattono non i propri nemici, ma i nemici dei propri nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Così tutto il movimento della storia è concentrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria raggiunta in questo modo è una vittoria della borghesia. Ma il proletariato, con lo sviluppo dell'industria, non solo si moltiplica; viene addensato in masse più grandi, la sua forza cresce, ed esso la sente di più. Gli interessi, le condizioni di esistenza all'interno del proletariato si vanno sempre più agguagliando man mano che le macchine cancellano le differenze del lavoro e fanno discendere quasi dappertutto il salario a un livello ugualmente basso. La crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai; l'incessante e sempre più rapido sviluppo del perfezionamento delle macchine rende sempre più incerto il complesso della loro esistenza; le collisioni fra il singolo operaio e il singolo borghese assumono sempre più il carattere di collisioni di due classi. Gli operai cominciano col formare coalizioni contro i borghesi, e si riuniscono per difendere il loro salario. Fondano perfino associazioni permanenti per approvvigionarsi in vista di quegli eventuali sollevamenti. Qua e là la lotta prorompe in sommosse. Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l'unione degli operai si estende sempre più. Essa è favorita dall'aumento dei mezzi di comunicazione, prodotti dalla grande industria, che mettono in collegamento gli operai delle diverse località. E basta questo collegamento per centralizzare in una lotta nazionale, in una lotta di classe, le molte lotte locali che hanno dappertutto uguale carattere. Ma ogni lotta di classi è lotta politica. E quella unione per la quale i cittadini del medioevo con le loro strade vicinali ebbero bisogno di secoli, i proletari moderni con le ferrovie la attuano in pochi anni. Questa organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico torna ad essere spezzata ogni momento dalla concorrenza fra gli operai stessi. Ma risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente. Essa impone il riconoscimento in forma di legge di singoli interessi degli operai, approfittando delle scissioni all'interno della borghesia. Così fu per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra. In genere, i conflitti insiti nella vecchia società promuovono in molte maniere il processo evolutivo del proletariato. La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l'aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto con il progresso dell'industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare appello al proletariato, a valersi del suo aiuto, e a trascinarlo così entro il movimento politico. Essa stessa dunque reca al proletariato i propri elementi di educazione, cioè armi contro se stessa. Inoltre, come abbiamo veduto, il progresso dell'industria precipita nel proletariato intere sezioni della classe dominante, o per lo meno ne minaccia le condizioni di esistenza. Anch'esse arrecano al proletariato una massa di elementi di educazione. Infine, in tempi nei quali la lotta delle classi si avvicina al momento decisivo, il processo di disgregazione all'interno della classe dominante, di tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si distacca da essa e si unisce alla classe rivoluzionaria, alla classe che tiene in mano l'avvenire. Quindi, come prima una parte della nobiltà era passata alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato; e specialmente una parte degli ideologi borghesi, che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme. Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto più specifico. Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l'artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia, per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini medi. Quindi non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché cercano di far girare all'indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari, sono tali in vista del loro imminente passaggio al proletariato, non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, e abbandonano il proprio punto di vista, per mettersi da quello del proletariato. Il sottoproletariato, questa putrefazione passiva degli infimi strati della società, che in seguito a una rivoluzione proletaria viene scagliato qua e là nel movimento, sarà più disposto, date tutte le sue condizioni di vita, a lasciarsi comprare per mene reazionarie. Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già annullate nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con moglie e figli non ha più nulla in comune con il rapporto familiare borghese; il lavoro industriale moderno, il soggiogamento moderno del capitale, identico in Inghilterra e in Francia, in America e in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Leggi, morale, religione sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi. Tutte le classi che si sono finora conquistato il potere hanno cercato di garantire la posizione di vita già acquisita, assoggettando l'intera società alle condizioni della loro acquisizione. I proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto abolendo il loro proprio sistema di appropriazione avuto sino a questo momento, e per ciò stesso l'intero sistema di appropriazione che c'è stato finora. I proletari non hanno da salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le assicurazioni private che ci sono state fin qui. Tutti i movimenti precedenti sono stati movimenti di minoranze, o avvenuti nell'interesse di minoranze. Il movimento proletario è il movimento indipendente della immensa maggioranza. Il proletariato, lo strato più basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza che salti per aria l'intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale. La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. E` naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia. Delineando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o meno latente all'interno della società attuale, fino al momento nel quale quella guerra erompe in aperta rivoluzione e nel quale il proletariato fonda il suo dominio attraverso il violento abbattimento della borghesia. Ogni società si è basata finora, come abbiam visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le debbono essere assicurate condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. Il servo della gleba, lavorando nel suo stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a membro del comune, come il cittadino minuto, lavorando sotto il giogo dell'assolutismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma l'operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l'industria progredisce, scende sempre più al disotto delle condizioni della sua propria classe. L'operaio diventa un povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l'esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società. La condizione più importante per l'esistenza e per il dominio della classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all'isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall'associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili. E' in questo contesto che va collocata l'elaborazione di Il capitale, l'opera di economia politica più discussa che mai sia stata pubblicata. Il capitale, infatti, è un'opera eivoluzionaria nel contenuto, nello scopo e nel metodo. Nello scopo, perché era intenzione di Marx fornire con essa al proletariato indusstriale, l'arma per combattere la borgheia sul piano della teoria. E' rivoluzionaria nel contenuto. perché Marx non parla dei capitalisti, ma del capitale inteso, prima di tutto, come rapporto sociale. Infine, è rivoluzionaria nel metodo perché è un'opera di critica dell'economia politica. Era inevitabile che ciò causasse una reazione a parte della borghesia che si trovava a vivere i suoi giorni migliori. Tale reazione prese la forma della teoria dell'equilibrio economico generale la quale dimostrava che l'economia di mercato, date certe condizioni, tendeva a raggiungere uno stato di equilibrio e che, una volta che essa si fosse allontanata da esso, sarebbbe comunqe riitornata in equilibrio grazie al fnzionamento dei meccanismi di mercato incentrati sul funzionamento della legge della domanda e offerta. La dimostrazione della correttezza della teoria si reggeva su di un imponente e, per i profani, intimidente, apparato matematico ispirato alla fisica newtoniana, e ciò avveniva, per ironia della sorte, proprio negli anni immediatamente precedent alla rivoluzonwe quantistica che avrebbe proposto na visione del mondo affatto diversa da quella newtoniana. Inoltre, va ricordato che i meccanismi automatici di aggiustamento di un'economia di mercato potevano funzionare solo in un'economia di concorrenza perfetta, la quale non aveva già allora alcuna attinenza con la realtà, se pensiamo che lo Sherman Act, che fu la prima e più famosa legge antimonopolio, è del 1890. Da allora è trasccorso un secolo e mezzo. L'economia capitalistica ha sempre più accentuato le sue tendenze monopolitiche; malgrado ciò, la teoria economica dominante continua a ispirarsi al modello elaborato da Jevons, Walras e Menger alla fne dell'Ottocendo. Affatto diversa era l'impostazione keynesiana. L'unverso keynesiano non aveva nulla in comune con l'unverso newtonano, o, per meglio dire, deterministico, di Walras. L'universo di Keynes era un universo di propensioni, di aspettative, di preferenze e l'economia reale si trovava costantemente in una stuazione di instabilità. Come Keynes scrisse in La fine del lasciar fare, It is not true that individuals possess a prescriptive 'natural liberty' in their economic activities. There is no 'compact' conferring perpetual rights on those who Have or on those who Acquire. The world is not so governed from above that private and social interest always coincide. It is not so managed here below that in practice they coincide. It is not a correct deduction from the principles of economics that enlightened self-interest always operates in the public interest. Nor is it true that self-interest generally is enlightened; more often individuals acting separately to promote their own ends are too ignorant or too weak to attain even these. Experience does not show that individuals, when they make up a social unit, are always less clear-sighted than when they act separately. *** Il problema della comunicazione politica ha molti aspetti. Qui, mi interessa ricordare che che tali problemi nascono, dal punto di vita giuridico, con la formazione di un dibattito pubblico libero e non manipolato. Nella storia del costituzionalismo moderno, infatti, l’opinione pubblica è sempre stata considerata una delle garanzie costituzionali più importanti. Se per i grandi teorici del costituzionalismo liberale, come J. Bentham e B. Constant, essa era la garanzia per eccellenza, la sua importanza non è venuta meno con l’affermarsi dello Stato democratico: basti pensare al fatto che uno dei massimi filosofi politici del XX secolo, Habermas, ha voluto dedicare la sua prima opera proprio ai mutamenti strutturali nell’ambito della sfera pubblica e alle sue potenzialità emancipative e che, in questi ultimi anni, si è parlato addirittura della discussa formazione di una «opinione pubblica mondiale». Allo stesso tempo, però, l’affermazione dello Stato democratico di massa, con l’enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, ha portato alcuni studiosi, come C. Schmitt, Marcuse, Adorno e Horkheimer, a ritenere che l’opinione pubblica possa essere manipolata, laddove per Bentham, invece, il «tribunale dell’opinione pubblica» poteva esser sì fallibile, ma mai corruttibile. In Italia, la materia della comunicazione politica, a partire dagli anni novanta del Novecento, è stata interessata dalla problematica della c.democrazia par condicio, cioè della parità di accesso ai mezzi di comunicazione di massa da parte dei diversi soggetti politici. Una prima disciplina organica in questo senso è stata posta in essere con la l. n. 515/1993, approvata in corrispondenza del più generale processo di riforma dei sistemi elettorali. Successivamente, però, l’uso abnorme della pubblicità televisiva da parte di alcuni candidati durante la campagna elettorale del 1994 ha portato un ulteriore irrigidimento della disciplina normativa, che è stato introdotto prima tramite il democrazial. n. 83/1995 (peraltro dichiarato parzialmente illegittimo dalla Corte costituzionale) e, successivamente, con una nuova legge di riforma organica della disciplina (l. n. 28/2000), – quest’ultima, invece, ritenuta non costituzionalmente illegittima – a sua volta parzialmente modificata con la l. n. 313/2003, riguardante il pluralismo nella programmazione delle emittenti radiofoniche e televisive locali. La l. n. 28/2000 disciplina separatamente la comunicazione politica radiotelevisiva e quella attraverso sui giornali, mentre non detta alcuna disciplina per altri strumenti di comunicazione quali internet, la telefonia cellulare ecc. Per quanto riguarda la comunicazione politica televisiva, è vietata la trasmissione di messaggi pubblicitari, essendo possibile solo la trasmissione di «messaggi politici autogestiti», in condizioni di parità, da parte delle diverse forze politiche. Tali «messaggi politici autogestiti» sono gratuiti, ma questa trasmissione, mentre è obbligatoria per la concessionaria pubblica (R.A.I.), è meramente facoltativa per le emittenti private, nel senso che queste possono anche decidere di non mettere a disposizione alcuno spazio. Disposizioni particolari vengono dettate per le emittenti radiofoniche e televisive locali. Per quanto riguarda il settore della radiotelevisione privata, sono previsti in capo all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, istituita con la l. n. 249/1997 (Autorità amministrative indipendenti), poteri di tipo normativo e sanzionatorio, mentre, per quanto riguarda la concessionaria pubblica, è competente la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Lo streaming dell'incontro fra Bersani e M5S ha creato una situazione affatto nuova. Le telecamere sono entrate in camera da letto, si sono infilate sotto le lenzuola; in altre parole, hanno portato all'estremo la spettacolarizzazione della politica, A questo punto, tutto è pronto per la creazione d'una orwelliana repubblica degli animali, dove tutti sono uguali, ma uno è più uguale degli altri*** Il principio della sovranità popolare, che rinviene nel popolo la fonte e la giustificazione della potestà politica, trova i suoi inizi nel concetto romano della lex come «ciò che il popolo ordina», e lo stesso potere imperiale è frutto di delega da parte del popolo (pactum subiectionis: il popolo pattuisce di sottomettersi al sovrano). Problema medievale, connesso con la lotta per le investiture e con la generale questione del primato del potere papale o imperiale, fu di stabilire se il pactum subiectionis implicasse la rinuncia da parte del popolo ai suoi diritti (alienatio) ovvero soltanto una concessione (cessio) revocabile ove, per es., il monarca non assolvesse più i suoi compiti e si trasformasse in tiranno, o, nel caso di conflitto con la Chiesa, in nemico della fede e dei canoni. Il rapporto tra popolo e re si analizzò in un complesso di diritti e doveri regolati dal patto intervenuto e dall’obbligazione reciproca di attuare la giustizia e di osservare la legge. L’Umanesimo e la Riforma determinarono un movimento per cui si giunse a una specificazione delle clausole del pactum attraverso la loro interpretazione alla luce del diritto privato; forte era ancora l’influenza delle teorie medievali. Subito dopo il concetto di popolo cominciò a trasformarsi; poi gli elementi elaborati da Calvino e dai monarcomachi confluirono nelle grandi crisi politiche inglesi dei sec. 16° e 17°, nelle quali il principio della s. popolare si affermò in modo nuovo (dopo la dissoluzione dei concetti giuridici medievali), sotto l’influenza delle dottrine del diritto naturale allora rinnovate da U. Grozio: nacque l’idea atomistica del popolo come composto dagli individui, liberi e sovrani prima ancora dell’ordinamento politico; la s. popolare era perciò concepita come garanzia dei diritti individuali dei singoli. Le nuove idee sulla s. popolare, depurate e ulteriormente elaborate da J. Milton, A. Sidney, J. Harrington, J. Locke, ebbero grande diffusione nelle colonie della Nuova Inghilterra (R. Williams, T. Hooker, W. Penn, J. Wise) e su di esse si fondarono poi i principi della Dichiarazione dei diritti e della Costituzione degli Stati Uniti d’America. La rivoluzione americana ebbe grande ripercussione in Francia, dove la filosofia politica del 18° sec. si era ispirata a questi stessi principi, collegandoli, attraverso il ginevrino J.-J. Rousseau, con quelli provenienti dal pensiero politico inglese; l’idea della s. popolare era alla base della ideologia rivoluzionaria. Nell’ambito del costituzionalismo moderno, la teoria della s. poplare si collegò strettamente al suffragio universale, come emerge in particolare nella Costituzione giacobina dell’anno I, là dove afferma che la s. risiede nel popolo (art. 25 Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1793) e che il popolo sovrano è costituito dall’universalità dei cittadini (art. 7 Cost. francese del 1793). Di contro, la Costituzione francese del 1791, che prevedeva un suffragio di tipo censitario (esplicitato nella distinzione tra citoyens actifs e citoyens passifs) parlava, non a caso, di s. della nazione. Nel corso del 19° sec., proprio per negare il fondamento filosofico-giuridico del voto universale e attenuarne la carica dirompente, alcuni studiosi non esitarono a parlare di una s. della Ragione (F. Guizot), o, addirittura di s. dello Stato (è il caso, per es. dei massimi esponenti del positivismo giuridico tedesco, come C.F. Gerber, P. Laband e G. Jellinek). Di s. popolare parlò, invece, il massimo esponente dei radical whigs inglesi, J. Bentham, nel suo testamento politicospirituale, il Constitutional Code (1830). Dal punto di vista dei testi costituzionali, anche se non mancano eccezioni già nel corso del 19° sec. (cfr. art. 1 Cost. francese del 1848), il principio della s. popolare trovò la sua definitiva consacrazione nelle carte costituzionali successive al primo dopoguerra. Nella Costituzione italiana la s. popolare è accolta e proclamata nell’art. 1, nel quale si afferma che la s. appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, cioè con un sistema di democrazia indiretta. *** Democrazia d’élite e democrazia di massa. Il processo di democratizzazione dei sistemi politici contemporanei si può descrivere essenzialmente nel passaggio dallo Stato liberale di democrazia ‘limitata’ (democrazia d’élite) allo Stato sociale di democrazia ‘diffusa’ (democrazia di massa). R. Dahl pone alla base di questo processo due tendenze: la liberalizzazione , ovvero il grado in cui sono ammessi il dissenso, l’opposizione e la competizione tra le diverse forze politiche o politicamente rilevanti; l’inclusività , ovvero la proporzione di cittadini che hanno titolo a partecipare in modo diretto o indiretto alle decisioni collettive. Le diverse possibilità di incrocio fra queste dimensioni danno modo di costruire una tipologia dei sistemi politici democratici, distinguendoli in oligarchie competitive, egemonie includenti e poliarchie. La sequenza storica di questi modelli si può rintracciare nel passaggio dalla democrazia di élite alla democrazia di massa, e questa transizione trova riscontro sia sul piano dei riferimenti teorici che dei referenti storici. Sul piano teorico si riflette nel contrasto fra elitismo e pluralismo. Le analisi che si rifanno agli assunti elitistici (G. Mosca, V. Pareto e R. Michels) ritengono che la sovranità popolare sia un ideale astratto che non può corrispondere a nessuna realtà di fatto, perché in ogni regime politico, quale che sia la sua formula, è sempre una minoranza quella che detiene il potere effettivo. Questa impostazione è in parte corretta da J. Schumpeter, secondo il quale vi è democrazia laddove vi sono diversi gruppi in concorrenza fra loro per la conquista del potere attraverso la competizione elettorale. All’estremo opposto le teorie pluraliste (R. Dahl, R. Dahrendorf) puntano piuttosto a ridefinire il concetto di leadership in termini democratici, innalzando il principio del pluralismo a dato costitutivo della struttura sociale. Al suo interno la democrazia si definisce in particolare come un sistema di istituzionalizzazione dei conflitti mediante precise regole del gioco. A proposito di questo insieme di regole formalizzate che caratterizzano le poliarchie reali si è parlato di in contrapposizione alla democrazia sostanziale (H. Kelsen). Sul piano delle generalizzazioni storiche il processo di democratizzazione si caratterizza per l’estensione dei diritti di cittadinanza e per il loro impatto sulla struttura sociale: più precisamente nella transizione da un regime di cittadinanza civile, nel quale ci si limita a garantire i diritti di libertà personale, a un regime di cittadinanza politica, che prevede l’istituzione del suffragio universale, fino al regime di cittadinanza sociale che postula l’uguaglianza delle opportunità (R. Bendix). *** Internet. Con tale espressione si intende designare, in informatica, la rete di elaboratori a estensione mondiale, mediante la quale le informazioni contenute in ciascun calcolatore possono essere messe a disposizione di altri utenti che possono accedere alla rete in qualsiasi località del mondo. I. rappresenta uno dei più potenti mezzi di raccolta e diffusione dell’informazione su scala globale. Ciascun calcolatore può essere connesso alla rete mediante una varietà di mezzi (fibre ottiche, cavi coassiali, collegamenti satellitari, doppino telefonico), anche se più spesso comunica con una rete locale (per es., la rete locale aziendale), che a sua volta è connessa a I. (di cui costituisce una sottorete); le organizzazioni che offrono servizi I. sono detti ISP (Internet service provider). La storia di I. ha inizio con quella dell’ente che più di ogni altro ha contribuito alla sua nascita: l’ARPA (Advanced Research Project Agency), creata nel 1957 (ha cambiato nome nel 1971, premettendo il termine Defense, e diventando così la DARPA) dal dipartimento della Difesa statunitense per finanziare i progetti di ricerca suscettibili di applicazioni militari. Qui nel 1967 L. Roberts, del Massachusetts Institute of Technology, pubblicò un piano per ARPANet , una rete per l’interconnessione e l’interlavoro di calcolatori di tipo diverso, distribuiti su distanze geografiche anche considerevoli. Le motivazioni del finanziamento erano di carattere prettamente militare: uno studio del 1962 di P. Baran, della RAND Corporation, aveva indicato una rete fortemente decentralizzata (in cui le informazioni non passano sempre da un medesimo calcolatore centrale che costituirebbe un punto nevralgico) e ridondante (in cui le informazioni possono arrivare alla medesima destinazione attraverso più percorsi) come un sistema capace di garantire le comunicazioni anche in caso di distruzione parziale della rete. Erano già presenti i principali concetti che avrebbero portato allo sviluppo di una rete globale facilmente accessibile a tutti. Nel giro di qualche anno infatti partì, a opera dell’ARPA, il progetto Internetworking Architecture che, per contrazione della denominazione, assunse la denominazione di Progetto Internetting, dando così origine al termine Internet. La prima rete ARPANet, costituita da quattro calcolatori, nacque nel 1969 presso la University of California di Los Angeles (UCLA). Tre anni più tardi, la rete era già cresciuta fino a comprenderne 40 e fu presentata in occasione della prima International Computer Communication Conference. Gli anni successivi furono dedicati alla messa a punto delle tecniche di interconnessione tra calcolatori eterogenei e, in particolare, alla definizione, a opera principalmente di V.G. Cerf e R.E. Kahn, della serie di protocolli TCP/IP (transmission control protocol/internet protocol), ufficialmente adottati nel 1983. Parallelamente, lo sforzo di elaborazione di uno standard di comunicazione universale era accompagnato dalla creazione di una struttura organizzativa per la gestione dell’evoluzione della rete Internet. Nel 1979 fu infatti istituito un organismo centrale di controllo, denominato Internet Configuration Control Board (ICCB), che quattro anni più tardi lasciò il posto a una struttura costituita dall’Internet Activities Board (IAB) e da un insieme di gruppi più agili detti task force. L’adozione di I. come rete globale di comunicazione non fu però immediata. Pur avendo dimostrato la fattibilità di una rete di calcolatori su vasta scala, la rete ARPANet fu affiancata da una miriade di reti create per comunità chiuse di utenti. Nell’aprile 1995 la National Science Foundation (NSF) abbandonò il ruolo di finanziatore pubblico di I., la cui struttura di trasporto su lunga distanza, denominata dorsale o backbone, è ora costituita da una molteplicità di reti, appartenenti sia a enti pubblici, come la stessa NSF e la NASA, sia a gestori di reti di telecomunicazioni come AT&T, MCI e SPRINT e ad altri operatori commerciali. Per gestire a livello globale l’evoluzione di I. è stata creata nel 1991 la Internet Society (ISOC), che rappresenta la principale struttura di ‘governo’ di I., a cui fanno capo la Internet Architecture Board (indicata ancora con la sigla IAB), la Internet Engineering Task Force (IETF), che definisce le normative tecniche, e la Internet Research Task Force (IRTF). Il messaggio informativo digitale, ossia una stringa di numeri, che un utente, tramite il proprio calcolatore, vuole inviare al calcolatore di un altro utente, viene suddiviso in porzioni più piccole, dette pacchetti (generalmente secondo la tecnica detta appunto di commutazione di pacchetto), i quali vengono inviati separatamente in rete e possono raggiungere la destinazione seguendo percorsi diversi; non esiste un percorso predestinato e identico per tutti i pacchetti. Ogni pacchetto, oltre al contenuto informativo, ha anche gli indirizzi numerici (definiti dai protocolli TCP/IP) del calcolatore che ha generato il messaggio e del calcolatore a cui è diretto. L’indirizzo di ogni calcolatore è detto indirizzo IP; a tali indirizzi corrispondono nomi, organizzati in gruppi gerarchici detti domini. L’indicazione dell’indirizzo dominio del calcolatore destinatario rende possibile l’instradamento del pacchetto attraverso le varie sottoreti che formano I., per opera di elaboratori dedicati, detti router. In contrapposizione, i calcolatori dotati di indirizzo I. che non possiedono le funzionalità di instradamento vengono detti host. Per agevolare l’uso di I. da parte degli utenti sono stati messi a punto opportuni software dotati di interfaccia grafica. Ottenuta la connessione a I., l’utente è in grado, con l’utilizzo di opportuni software installati sul proprio calcolatore, di usufruire di una serie di servizi di natura disparata. Tra i servizi più usati dagli utenti della rete, è il sistema che permette la condivisione di documenti ipertestuali multimediali, costituiti cioè da un insieme di contenuti testuali, visuali e audio/video. Per accedere al world wide web si utilizza un opportuno software, detto browser . I documenti, detti genericamente pagine web, sono memorizzati in opportune porzioni della memoria dei server e sono tipicamente raggruppati in insiemi detti siti; per essere accessibili, le pagine web vengono costruite mediante opportuni linguaggi descrittori, il più diffuso dei quali è l’HTML (hypertext markup language), che permette di specificare sia il contenuto delle pagine sia il loro formato di visualizzazione sul browser dell’utente. Il protocollo che regola le comunicazioni tra client e server e il trasferimento delle pagine web è l’HTTP (hypertext transfer protocol). Le singole risorse disponibili sulla rete sono individuate univocamente da una serie di caratteri, denominata URI (universal resource identifier). L’URI può essere del tipo URL (uniform resource locator) oppure del tipo URN (uniform resource name). La differenza tra i due tipi consiste nel fatto che nella modalità URL viene specificata la posizione del documento, mentre la modalità URN consente di specificarne semplicemente il nome (un programma si incarica poi di tradurre il nome in una locazione fisica). 3.2 E-mailServizio di rete di messaggistica asincrona che permette agli utenti di inviare e ricevere documenti di testo e file allegati; i provider offrono agli utenti tale servizio previa registrazione e assegnazione agli stessi di un indirizzo e-mail che li identifica univocamente. Il messaggio può essere costituito da un semplice testo oppure può contenere file allegati (in inglese attachments), il cui uso è regolato dal protocollo MIME (multipurpose Internet mail extensions, «estensioni multiuso di posta via I.»). Il servizio può essere usato tanto sulle intranet quanto su I. grazie ai protocolli SMTP (simple mail transfer protocol), per l’invio, e POP (post office protocol), per la ricezione. L’accesso remoto è un servizio che permette a un utente di accedere a un calcolatore (e quindi a tutti i file e a tutti i programmi ivi localizzati) connesso a I. da un altro punto della rete. Tale servizio può prevedere o meno sistemi di sicurezza per il controllo degli accessi. Il file sharing permette la condivisione di file tra più utenti, che può avvenire in diversi modi, per es. caricando i file da condividere su un server FTP (file transfer protocol) o accedendo a una rete peer-to-peer. Anche in questo caso l’accesso ai singoli file può essere controllato, per es. mediante codifica dei file o mediante meccanismi di autenticazione degli utenti che vi accedono. Il servizio di streaming consente la fruizione da parte dell’utente di contenuti multimediali, principalmente audio e video, in tempo reale. Tale servizio, un tempo molto limitato, si è assai diffuso grazie alla sempre crescente diffusione della banda larga. Il VOIP (voice over Internet protocol) permette comunicazioni audio real-time sfruttando la rete I. piuttosto che la tradizionale linea telefonica. L’ormai estesissima diffusione di I. ha dato luogo a una serie di profili rilevanti dal punto di vista civilistico. Innanzitutto, per poter navigare in I. occorre aver previamente stipulato un contratto con un access provider, che gestisce gli accessi e li concede ai suoi clienti. Oltre all’access provider si ha un service provider, che fornisce servizi connessi (ospitalità di siti, caselle di posta elettronica ecc.) e un content provider, che introduce in rete propri materiali (per es., notizie, racconti ecc.). Il nome a dominio (o domain name) è un segno di identificazione che individua materialmente uno spazio acquistabile in rete, cioè un sito Internet. È preceduto da un hostname (www) e può essere costituito da un nome di persona, uno pseudonimo, la denominazione di una ditta ecc. Il nome a dominio è ormai pacificamente considerato dalla dottrina e da una giurisprudenza pressoché unanime un segno distintivo al pari della ditta, dell’insegna (con la quale presenta analogie nella funzione di collegare un soggetto all’impresa attraverso una ‘localizzazione’) e del marchio. Tale qualificazione è stata normativamente riconosciuta con l’entrata in vigore del nuovo Codice sulla proprietà industriale (democrazia legisl. 30/2005) che consente di difendere il nome a dominio dagli atti di contraffazione e di usurpazione posti in essere da terzi mediante un giudizio ordinario, ovvero il ricorso alla tutela cautelare. Considerata la capillare diffusione di I. e soprattutto le potenzialità della rete a livello economico e commerciale, è divenuto particolarmente vantaggioso registrare domini per poi concederli a terzi o gestirne l’uso. È possibile concludere validamente contratti tramite I., attraverso l’incontro on line di proposta e accettazione, ma il legislatore ha dettato regole differenti a seconda che lo stipulante agisca nell’ambito della propria attività professionale (professionista) oppure no (consumatore). Notevole rilevanza hanno acquistato l’I. banking , ossia le attività svolte tramite I. da banche (essenzialmente la raccolta del risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito) o con le banche, e l’I. financing , cioè i servizi finanziari e creditizi prestati da intermediari non bancari a ciò abilitati. I. rappresenta uno spazio virtuale e delocalizzato, che pone complessi problemi di diritto internazionale privato e processuale, nella ricerca della giurisdizione e della legge applicabili ai contratti tra soggetti di paesi diversi, ai quali solo in parte è stato possibile trovare soluzione in regole di carattere sovranazionale. Analoghi problemi si pongono sotto il profilo tributario, sia in relazione all’applicazione dell’imposizione sui redditi, sia in relazione all’imposizione indiretta e segnatamente all’IVA. In particolare, individuare i luoghi in cui sono state commesse attività illecite, o in cui si sono prodotti gli effetti negativi di queste, e risalire quindi agli autori degli illeciti, è operazione talvolta complessa. Inoltre, natura, contenuti e intensità degli obblighi sussistenti in capo ai providers non sono stati ancora definiti in maniera chiara e completa. Tenuto anche conto della difficoltà di reagire contro eventuali reati informatici, l’uso di I. presenta quindi alcuni rischi, legati soprattutto alla possibile diffusione di dati, anche sensibili, in virtù del semplice collegamento a un sito presente in rete, ai pagamenti effettuati attraverso la firma digitale, all’accesso a distanza al proprio conto corrente, ovvero all’impiego della moneta elettronica. Un capitolo a parte è rappresentato dai profili penali connessi alla violazione degli altrui diritti di privativa, con particolare riferimento alle tecniche di riproduzione e diffusione delle opere dell’ingegno, nelle quali si configurano talvolta forme di pirateria informatica. La grande espansione di I. solleva una serie di problemi di carattere economico. Un numero crescente di economisti dedica sempre maggiore attenzione al fenomeno della ‘rete delle reti’, tanto che si è consolidata una branca dell’economia che va sotto il nome di Internet economics. Il principale e più immediato problema che si pone nell’affrontare il fenomeno di I. è l’individuazione di un sistema di prezzi efficiente, che sia cioè in grado di garantire la copertura di tutti i costi generati dall’uso della rete. A un livello più specifico, molta attenzione è anche dedicata all’e-commerce e all’impiego della cosiddetta moneta elettronica (e-money). Da un punto di vista economico, I. si caratterizza per l’esistenza di importanti ‘esternalità di rete’: l’utilità della rete, cioè, cresce con il crescere del numero degli utilizzatori, ma cresce anche la congestione. Tali esternalità possono essere positive (benefici) o negative (costi). In una certa situazione, gli utenti già connessi alla rete possono trarre benefici dal fatto che altri si connettano, per es., perché in tal modo crescono le possibilità di acquisire nuove informazioni o di raggiungere nuovi potenziali clienti. Le esternalità divengono negative quando l’incremento del traffico in una data situazione determina costi aggiuntivi per gli utenti. Se la rete diviene eccessivamente affollata (congestionata), si allungano i tempi di trasmissione dei dati e questi ritardi possono comportare peggioramenti sensibili nella qualità del servizio (per es., nel caso di trasmissione di dati audio e video in tempo reale). I. ha cambiato il volto della produzione e del consumo. Le imprese non sono altro, in un certo senso, che informazione organizzata a scopi produttivi, e I., in quanto espressione della rivoluzione telematica (informatica e telecomunicazioni) ha portato a una incredibile riduzione del costo dell’informazione, sia nella sua componente di costo di ottenimento sia in quella di trasporto. L’informazione costa poco e può essere resa disponibile ovunque a bassissimo costo. Questo ha portato a una generale riduzione di costi, man mano che i processi produttivi venivano riorganizzati; questa riduzione di costi ha preso anche la forma di un ‘subappalto’ (outsourcing) di parti dell’attività aziendale verso paesi emergenti che offrivano più bassi costi del lavoro. I. ha cambiato anche la domanda: molti consumatori usano I. per comprare beni e servizi, per incontrarsi, per scambiare beni e opinioni, e questa agorà elettronica genera a sua volta nuove offerte volte a sfruttare le enormi potenzialità della rete. I. ha quindi anche una dimensione sociale e politica: crea nuove forme di partecipazione e di democrazia, e rende più difficile la censura per i sistemi autoritari. D’altra parte, il carattere libertario (e secondo alcuni anarcoide) di I. rende più difficile anche la ‘censura buona’: rende più facile, cioè, l’accesso a siti di pornografia, pedofilia, e la propaganda in favore di terrorismo, eversione, razzismo. Come tutti i grandi cambiamenti, I. attira anche problemi: dai virus (programmi che danneggiano i computer e che vengono trasmessi dalla rete) alla spam (posta elettronica invadente, che riempie le caselle postali degli utenti). Una grossa parte delle risorse dedicate a I. è stata dirottata sulla sicurezza, e non è escluso che anche la tariffazione della posta elettronica cambi, e venga richiesto un piccolo pagamento (un ‘francobollo’) per inoltrare una e-mail, così da scoraggiare il fenomeno della spam. L’impatto fortissimo avuto dal web sulla comunicazione ha dischiuso opportunità prima inimmaginabili di contatto, d’informazione e di scambio. Attraverso i social network le popolazioni del pianeta hanno conquistato maggiori opportunità di incontrarsi e non solo virtualmente: in tutte le democrazie la partecipazione politica dal basso, su iniziativa dei cittadini, ha ricevuto nuovo impulso grazie alla Rete che ha permesso di promuovere iniziative di protesta, appelli, movimenti politici spontanei, azioni collettive su base locale o nazionale. L’ informazione libera e indipendente ha allargato i suoi confini, arricchita di contributi da ogni angolo del Pianeta messi a disposizione di tutti sul web. Nel giugno 2009, riprese da un telefono cellulare, hanno fatto il giro del mondo le immagini drammatiche che riprendevano gli ultimi istanti di vita di una giovane studentessa iraniana, Neda Agha Soltan, uccisa da un cecchino mentre marciava pacificamente nelle strade di Teheran per protestare contro il regime. Milioni e milioni di individui, via Internet, sono stati testimoni della sua morte, divenuta un bruciante atto d’accusa per il presidente Ahmadinejademocrazia Repressa brutalmente, la protesta dei giovani iraniani invase il web cercando di sfuggire all’oscuramento di Youtube e di molti siti dell’opposizione attuato dal regime: fu Twitter, in particolare, grazie all’estrema facilità e immediatezza di utilizzo, a raccogliere i disperati appelli di aiuto e a propagare le ragioni di quanti erano scesi nelle piazze. Da allora la sorveglianza del governo iraniano sulla rete si è fatta sempre più stretta e sofisticata: software di filtraggio per negare l’accesso ai siti indesiderati, rallentamenti dei social network, episodi circoscritti di oscuramento totale di Internet. Queste drastiche misure di controllo sono state adottate per periodi di tempo limitati, spesso in concomitanza con lo scoppio di manifestazioni di protesta o per evitare che la rete amplificasse il dissenso messo a tacere dalle autorità, in Nepal, Arabia Saudita, Yemen, Bahrein, Cuba. Altri regimi hanno optato per una censura preventiva, ostacolando la diffusione stessa di Internet nei loro territori, per esempio la Corea del Nord, Myanmar, il Turkmenistan, paesi dove di conseguenza la percentuale di popolazione che ha accesso alla rete è molto bassa. Un caso a sé, in questo panorama, è costituito dalla Cina dove il regime non solo non ha contrastato l’avvento di Internet ma lo ha promosso, considerandolo uno strumento al servizio dello sviluppo economico. Così, in brevissimo tempo, la popolazione cinese di utenti online ha raggiunto nel 2011 i 485 milioni, contro i 245 milioni degli Stati Uniti. Per sorvegliare un numero di utenti così alto è in funzione un sistema di controllo estremamente duttile, pervasivo ed efficace, in grado di imbrigliare la vivacità e l’inafferrabilità della rete nelle maglie della censura. È stato proprio il ruolo di primo piano ricoperto dallo Stato nella diffusione di Internet a facilitare la pianificazione di questo schema centralizzato di sorveglianza: gli utenti internet in Cina, infatti, si connettono alla rete attraverso alcuni cancelli di interconnessione organizzati da agenzie statali che censurano oltre 19.000 siti stranieri e oscurano selettivamente messaggi e parole - per esempio democrazia o diritti umani - sgraditi al regime. Sono trentamila i tecnici che controllano la rete riuscendo così a pilotare le ricerche dei cinesi sul web e a cancellare la memoria di avvenimenti drammatici come il massacro compiuto dall’esercito a Piazza Tian An Men a Pechino il 3 e 4 giugno 1989. Nel giugno 2009, in occasione del ventesimo anniversario di quegli avvenimenti, le autorità hanno stretto ancora di più le maglie della censura impedendo o rallentando anche l’accesso ai social network autorizzati, ai server fotografici e di posta elettronica e alle versioni in lingua cinese della Bbc e della Cnn. Aggirare il ‘great firewall’, come viene chiamato il sistema di censura cinese, non è impossibile, ma il rischio di essere scoperti e arrestati è altissimo. Nel 2004 una grande eco suscitò nel mondo l’arresto di un dissidente cinese colpevole di aver fatto circolare sul web una nota riservata del governo che invitava tutti i giornalisti al più totale silenzio sugli avvenimenti del 1989 e il cui nome fu rivelato alle autorità di polizia dagli uffici di Yahoo di Hong Kong. Alle imposizioni dell’apparato repressivo cinese si sono piegati in più occasioni anche gli altri colossi dell’informatica, come Google e Microsoft, preoccupati di venire estromessi da una fetta tanto appetibile e consistente del mercato. Nel 2011 i bloggers hanno assunto un ruolo di primo piano nelle rivoluzioni dei Paesi arabi svolgendo una duplice funzione: promuovere e coordinare la rivolta nei loro Paesi e tenere informato il mondo in tempo reale di quanto avveniva nelle strade e nelle piazze. Attivisti in piazza e sulla Rete, i bloggers egiziani, tunisini, siriani, yemeniti sono stati perseguitati, arrestati e uccisi, ma con la loro azione hanno mostrato la potenza inarrestabile della rete e gli usi molteplici cui questa si presta. Nei paesi arabi la rete è stato il medium che ha consentito la formazione di un’opinione pubblica non controllata dai regimi e la vivacità del dibattito politico sul web ha influenzato anche i media tradizionali che in molti casi hanno abbandonato la loro deferenza al regime appoggiando le rivoluzioni. Alcuni analisti hanno scritto che Facebook è stato un alleato prezioso per i rivoluzionari egiziani che lo hanno usato per diffondere date, luoghi e orari delle proteste. Inoltre, a differenza di quanto successo in Cina, i vertici del social network sembrano aver agito in questa occasione a tutela dei rivoltosi, attivando una protezione speciale per i profili degli attivisti. Non va dimenticato, tuttavia, che è stata la presenza di milioni di persone nelle strade e decretare il successo della rivoluzione in Tunisia e in Egitto: quando nella notte del 27 gennaio, con un’azione senza precedenti, il presidente egiziano Mubarak ordinava il blackout di Internet nel paese, riducendo quasi al silenzio la realtà virtuale della protesta, questa ha continuato a dilagare inarrestabile nelle strade fino al crollo del regime.Internet come diritto dell’umanitàLe rivoluzioni del 2011 in Africa dimostrano che più cresce l’importanza di Internet e la sua diffusione globale, più si mostrano prepotentemente gli interessi di controllo da parte dei grandi poteri economici e degli Stati nazionali. La tecnologia, d’altronde, è in grado di fornire sofisticati strumenti di controllo della rete e contestualmente le applicazioni in grado di aggirarli. Il dibattito su Internet e la censura, il diritto alla libertà di opinione e la manipolazione del consenso si arricchisce continuamente di nuovi argomenti coinvolgendo tutti gli attori internazionali. L’accesso a Internet come diritto di tutta l’umanità è quanto sostenuto in un rapporto del 16 maggio 2011 presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Report of the Special Rapporteur on the promotion and protection of the right to freedom of opinion and expression). Si legge nel documento che Internet si è rivelato uno strumento straordinario per promuovere lo sviluppo, combattere l’ineguaglianza e tutelare la libertà e la vita delle persone. Di conseguenza dovrebbe essere interesse prioritario degli Stati assicurare l’accesso universale a Internet, riducendo al minimo indispensabile le restrizioni al libero flusso dell’informazione e della comunicazione. Non possono non destare preoccupazione, dunque, denuncia il rapporto delle NU, gli interventi legislativi che tendono a impedire, limitare o pilotare l’accesso al web, in un clima generale che vede orientarsi in questa direzione anche alcuni paesi democratici. *** Democrazia diretta è quel genere di democrazia nel quale il popolo esercita in prima persona il potere. Democrazia rappresentative è quel genere di democrazia in cui il popolo esercita il potere attravers i propri rappresentanti in parlamento. Rappresentare politicamente, scrisse Gianfranco Pasquino, significa agire in nome, al posto e per conto di qualcuno in cariche dotate di potere politico decisionale. La rappresentanza politica deve essere correttamente interpretata come ‘delega’, con ampi spazi per il rappresentante di decidere i suoi comportamenti e di esprimere i suoi voti, piuttosto che come ‘mandato’ imperativo (vietato dall’art. 67 della Costituzione italiana) e vincolante. D’altronde, qualsiasi mandato imperativo in situazioni caratterizzate da alta complessità e imprevedibilità delle problematiche e degli avvenimenti, come si rileva già in questi primi anni del 21° secolo, finirebbe per irrigidire e paralizzare sia i procedimenti decisionali, sia la stessa capacità di rappresentare società che cambiano. Almeno su un punto sembra esservi concordanza di opinioni nel contrasto fra i molti sostenitori della delega e i relativamente pochi fautori del mandato. Rispetto agli inizi del 20° sec., i cittadini non soltanto delle democrazie sono in grado di esercitare un potere di pressione non indifferente nei confronti dei loro rappresentanti, comunicando informazioni e preferenze. Più problematico è stabilire quanto ascolto in realtà ottengano questi flussi di informazioni e pressioni. Tuttavia, le maggiori possibilità di partecipazione politica contribuiscono a ridisegnare limiti, compiti, attività ed effetti della rappresentanza politica stessa. Anzi, il ridisegno, ulteriormente influenzato dai processi della globalizzazione, è tuttora in corso. La rappresentanza che interessa maggiormente è quella che viene prodotta attraverso le competizioni elettorali. In generale, i rappresentanti, che in questa discussione considereremo essere gli eletti a cariche nelle assemblee politiche, possono sentirsi vincolati da una delega o da un mandato ricevuto oppure ritenersi i fiduciari dell’elettorato, loro o del loro partito, godendo di notevole discrezionalità. Più raramente, i rappresentanti saranno e si sentiranno ‘rappresentativi’ soltanto perché assomigliano al loro elettorato o gruppo di riferimento, ovvero perché ne condividono alcune o molte caratteristiche sociali e sociologiche. La rappresentanza come rispecchiamento non è conseguibile nelle democrazie che, costitutivamente, debbono affidarsi a procedure elettorali. Il rispecchiamento è praticamente impossibile in società che cambiano. La richiesta che il Parlamento sia lo ‘specchio’ del Paese, se intesa nel senso della rappresentatività sociologica, non può essere accolta. Se, invece, si riferisce al rispecchiarsi delle preferenze, delle esigenze, degli interessi di un Paese (quello ‘reale’) nel Parlamento (quello ‘legale’), potrà essere soddisfatta dai partiti che, nella competizione per ottenere consenso elettorale e cariche per i loro rappresentanti, dovrebbero mirare a una piena comprensione delle domande dell’elettorato e alla migliore rappresentanza possibile. Tuttavia, l’elemento quasi sicuramente più problematico della rappresentanza politica nelle democrazie contemporanee, compresa quella italiana, è dato proprio dal fatto che lo ‘specchio’ riflette una politica nella quale, tranne le ammirevoli eccezioni di alcuni Paesi e di alcuni partiti, le donne hanno un limitatissimo accesso alle assemblee dette rappresentative. Nonostante, spesso, altri gruppi minoritari risultino variamente sottorappresentati, dovrebbe essere palese che l’assenza del punto di vista delle donne inficia in maniera molto seria la possibilità di avere una visione complessiva dei problemi sociali, delle esigenze e delle preferenze da rappresentare. Affidato, come vuole la tradizione liberale, al puro esito delle competizioni elettorali, il problema della rappresentanza delle donne non ha finora trovato soluzione. Per questo si sono cercati correttivi sotto forma di ‘quote’, di percentuali predefinite, di obiettivi numerici da raggiungere, tutti discutibili e nessuno risolutivo. Ovviamente, se le donne elettrici volessero ‘rispecchiarsi’ nel loro Parlamento dovrebbero imporre candidature femminili e poi, che è quanto di rado avviene, preferire l’elezione in Parlamento delle donne invece degli uomini. Saggiamente, però, le elettrici non votano riflettendo una semplice appartenenza di genere, ma individuando chi sembra in grado di rappresentare le loro esigenze e le loro preferenze. In un certo senso, il voto delle donne è la migliore smentita della validità della richiesta di rispecchiamento come modalità di rappresentanza. La rappresentanza politica perseguita e conseguita attraverso procedimenti elettorali è strettamente collegata con la responsabilità, vale a dire che i rappresentanti dovranno rispondere dei loro comportamenti, delle loro azioni, inazioni e cattive azioni di fronte agli elettori nella successiva tornata elettorale. Pertanto, è nell’interesse dei rappresentanti stessi mantenere il contatto con le mutevoli preferenze della loro società poiché, in caso contrario, altri verranno premiati dal consenso degli elettori per la maggioranza dei quali, evidentemente, la problematica della rappresentanza delle donne non è ancora ritenuta essenziale. Potrebbe anche essere che gli interessi che i rappresentanti devono articolare e suscitare, conoscere e capire, aggregare e trasformare in decisioni non abbiano necessariamente un segno di genere e che, dunque, perseguire la rappresentanza di genere finisca per distorcere processi rappresentativi fondati su una o più concezioni di interessi generali, sociali, persino ‘di classe’. In sintesi, appare essenziale sottolineare e mantenere sempre nella più alta considerazione come la rappresentanza politica si esprima in decisioni prese con responsabilità dagli eletti che, tenendo conto delle preferenze dell’elettorato, intendono, per quanto possibile, rispondervi e soddisfarle. A lungo, nelle democrazie occidentali, Italia compresa, i partiti sono stati, ancorché non gli attori esclusivi, certo i protagonisti della rappresentanza politica. Tutte le democrazie sono diventate tali grazie alla capacità dei partiti di garantire competizione e possibilità di scelta fra programmi, idee e persone con l’obiettivo di rappresentare la società e, grazie al ruolo di governo affidato quasi esclusivamente agli esponenti di partito (party government), di guidarla lungo il percorso programmatico prescelto. Dal canto loro le società occidentali si sono a lungo sentite rappresentate in modo adeguato dai partiti e dai loro corrispondenti sistemi di partito anche grazie a una struttura relativamente semplice. Tuttavia, non va dimenticato che, se da un lato l’ideale della rappresentanza politica era costituito dalla competizione fra partiti e fra gruppi, ovvero dal pluralismo, dall’altro, in alcuni regimi democratici tutt’altro che irrilevanti, si era venuta affermando nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale una diversa, seppure non incompatibile con il pluralismo competitivo, modalità di rappresentanza degli interessi: il cosiddetto neocorporativismo. Comunque, non è venuto mai meno il tentativo di una pluralità di gruppi delle più varie tipologie di influenzare la rappresentanza politica esprimendo interessi specifici e facendo eleggere candidati che ne fossero portatori. Questo fenomeno, presentatosi in misura diversa nei vari sistemi politici, a seconda sia del grado di diversificazione socioeconomica, sia delle capacità associative, sia della legittimità accordata, è stato chiamato gruppi di interesse, gruppi di pressione (che segnalano la modalità con la quale i gruppi operano sui rappresentanti) e, più di recente, lobby. Le valutazioni sono divise per quel che concerne il rapporto fra rappresentanza politica e rappresentanza di interessi. Secondo alcuni studiosi, le attività dei gruppi e delle lobby frammentano la rappresentanza politica e rendono difficilissima la produzione di decisioni che rispondano a interessi generali, al cosiddetto bene comune. Secondo altri studiosi, i gruppi e le lobby sono non la causa, quanto piuttosto l’effetto della frammentazione sociale e le loro attività sono utili a integrare in maniera efficace e non altrimenti possibile la rappresentanza politica. Grazie all’espressione (in particolar modo quando è palese, trasparente, pubblica) delle domande di cui sono portatori, tutti i gruppi, in tal modo, danno il proprio contributo alla definizione condivisa e accettabile, ma pur sempre mutevole, del bene comune che è l’esito di un procedimento di ricomposizione della pluralità degli interessi più vicino alle preferenze complessive di qualsiasi società nella quale tutti i gruppi abbiano, al tempo stesso, la possibilità e il diritto di esprimersi liberamente. Nell’ambito della visione elaborata dal pluralismo competitivo sono presenti due varianti. La prima ritiene che tutti gli interessi esistenti in una determinata società abbiano regolarmente e sempre la possibilità di tradursi in gruppi e di influenzare così la rappresentanza e i processi decisionali; la seconda sostiene che in tutte le società alcuni gruppi godono di vantaggi associativi, politici, di legittimità per le loro azioni, mentre altri partono comunque svantaggiati, quando non vengono, addirittura, costantemente trascurati e ignorati. In realtà, anche i più avveduti tra gli studiosi del pluralismo hanno fin dall’inizio sottolineato come sia molto improbabile che qualsiasi rappresentanza degli interessi riesca a contemplare uguali punti di partenza, offrire uguali opportunità di accesso, garantire uguale influenza sugli esiti per ciascuno e per tutti i gruppi. È noto, inoltre, che nei sistemi economici di tipo capitalistico (gli unici nei quali si siano affermati regimi democratici e di libera competizione fra gruppi) esiste una propensione favorevole agli interessi degli imprenditori e dei produttori a scapito dei lavoratori che tenteranno di farsi rappresentare dai sindacati. Più di recente è emersa la consapevolezza che la linea distintiva rilevante corre fra interessi di natura socioeconomica – più facili da organizzare, far valere e rappresentare – e interessi definibili come diffusi, indubbiamente più difficili da organizzare e da rappresentare. Si tratta dei diritti, civili e umani, in particolare delle categorie più svantaggiate, a partire dai bambini, le donne, gli anziani, i profughi e, certamente, su un altro piano, dei diritti dei consumatori. Tuttavia, sono sorte diverse associazioni in difesa di questi diritti, ben determinate a portare avanti le loro battaglie nonostante i molti ostacoli che ne ritardano visibilità e influenza. Dal canto loro, gli studiosi del neocorporativismo non hanno avuto difficoltà a notare che in alcune democrazie solidamente strutturate, sia in termini istituzionali sia in termini partitici, aveva fatto la sua comparsa un modello di rappresentanza degli interessi che, pur non sovrapponendosi alla rappresentanza politica e non cancellandola, era riuscito a influenzarla nei suoi tessuti profondi e a ridefinirla in maniera significativa. Più precisamente, nei Paesi scandinavi, così come, per es., in Austria e in Svizzera, erano emersi triangoli virtuosi di rappresentanza degli interessi che comprendevano il partito al governo (generalmente di sinistra, socialdemocratico e molto rappresentativo politicamente), il sindacato (in prevalenza unitario, con un alto numero di iscritti) e le grandi associazioni imprenditoriali. Le più importanti decisioni venivano prese attraverso trattative all’interno di questo rapporto triangolare ed erano poi sottoposte all’approvazione dei rispettivi parlamenti nei quali il partito socialdemocratico godeva di una maggioranza oppure ne costituiva l’asse portante. Nella misura in cui quelle società erano solidamente organizzate entro grandi gruppi e in cui il processo decisionale partitico-parlamentare funzionava rispondendo alle esigenze e alle preferenze sociali, i modelli neo-corporativi sono stati in grado di garantire per lungo tempo un’efficace rappresentanza politica complessiva. Ciò ci riporta al nostro punto di partenza. La politica è un fenomeno istituzionale. Non c'è alternativa alla via istituzionale, se si vuole fare politica. Non si fa politica per via assembleare oppure per va referendaria. Allo stesso modo, non si fa politica rispondendo elettronicamente a una serie di quesiti cliccando con il mouse, al modo del Mi piace di Facebook *** La nascita dell'economia politica come scienza viene fatta normalmente coincidere dagli storici del pensiero economico con la pubblicazione nel 1776 di La ricchezza delle nazioni di Adam Smith che, per ironia della storia, coincise con la Dichiarazione americana di indipendenza. Questo fatto ha indotto gli storici della politica e gli storici delle idee a interrogarsi sul rapporto fra i due eventi e, in particolar modo, sul rapporto tra Adam Smith e Thomas Jefferson che, tradizione vuole, abbia steso materialmente il testo della Dichiarazione americana di indipendenza. In questa sede, credo meriti soltanto sottolineare che i padri fondatori degli Stati uniti d'America erano tutti dei proprietari di schiavi. (G. Vidal L'invenzione degli Stati uniti d'America, Fazi) Polemiche a parte, un fatto è certo. Con la pubblicazione dell'opera di Adam Smith nacque il moderno concetto di economico e con esso nacque una nuova visione del mondo che poneva al proprio centro il perseguimento dell'interesse individuale come fattore determinante il benessere della collettività. (L. Dumont Homo aequalis, Adelphi, idemocrazia Saggi sull'individualismo, Adelphi, A. Hirschman Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, G. B. McPherson Individuo e proprietà alle origini del pensiero borghese, Isedi) L'economia politica è stata spesso definita la dismal science, la scienza deprimente. Non fu sempre così. Non lo fu per Cantillon, per Smith, per l'abate Galiani. Il problema sorse quando l'economia politica cadde vittima delle "eroiche astrazioni" di David Ricardo che posero le condizioni per la sua successiva matematizzazione introdotta in modo onnipervasivo da Leon Walras e dalla "rivoluzione marginalista" del 1870. (A. Quadrio Curzio Sui momenti fondativi dell'economia politica. Il mulino). Ma andiamo con ordine. Una caratteristica del nuovo sistema, che venne alla luce sin dall'inizio, scrisse Stefano Zamagni, è la scomparsa dell'interesse per il fenomeno dello sviluppo economico, il grande tema delle teorie economiche di Smith, Ricardo, Marx e di tutti gli economisti classici. L'attenzione, invece, si concentrò sui problemi dell'allocazione di risorse date. Certo le idee fondamentali dei classici sul problema della crescita continuavano a esercitare la loro influenza. Nella 36 lezione degli Éléments, Walras esponeva una teoria dell'evoluzione economica che si può ancora considerare ricardiana. Lo stesso potrebbe dirsi, per fare un altro esempio, del processo di 'crescita della ricchezza' esposto da Marshall nei suoi Principles. Ma è un fatto che, malgrado la presenza, qua e là, di considerazioni sulla dinamica dei sistemi economici, il pensiero dei fondatori del sistema teorico neoclassico trascurò sostanzialmente il problema della individuazione delle forze che spiegano l'evoluzione nel tempo delle economie industriali. Argomento centrale della ricerca teorica in tale periodo fu lo studio di un sistema in equilibrio statico, cioè di una economia, come poi avrebbe detto Clark, "libera di cercare i livelli finali di equilibrio dettati dai fattori operanti in ogni dato momento del tempo". Al centro del sistema neoclassico sta il problema dell'allocazione di risorse date fra usi alternativi. Scriveva Jevons nella Theory: "Il problema economico può essere formulato come segue: dato: una certa popolazione con vari bisogni e poteri di produzione, in possesso di certe terre e di altre fonti di materia; da determinare: il modo di impiegare il lavoro meglio atto a rendere massima l'utilità del prodotto". Questa formulazione di Jevons diede l'impronta alla ricerca economica di tutta l'epoca. Nell'analisi delle condizioni che assicurano l'ottima allocazione di risorse date fra usi alternativi il pensiero neoclassico individuò un principio di validità universale, in grado, da solo, di abbracciare l'intera realtà economica. "Sul lato analitico - per dirlo con le parole di L. Robbins - l'economia dimostra di essere una serie di deduzioni dal concetto fondamentale di scarsità di tempo e di materiali. [...] Qui, allora, è l'unità dell'oggetto della scienza economica, le forme assunte dal comportamento umano nel disporre di mezzi scarsi" . La tendenza a estendere il modello di base a tutte le branche dell'indagine economica si rafforzerà nel corso di questo secolo fino a culminare nella tesi di P.A. Samuelson secondo cui ci sarebbe un principio semplice al cuore di ogni problema economico: una funzione matematica da massimizzare sotto vincoli. Un'altra caratteristica che accomuna i tre padri fondatori della teoria economica neoclassica, nota Zamagnj, e che resterà un pilastro del sistema teorico neoclassico, è la loro adesione all'approccio utilitarista, un approccio che annoverava tra i precursori Galiani, Beccaria, Bentham, Say, Senior, Bastiat, Cournot e, soprattutto, Gossen. In realtà il contributo teorico più importante di Jevons, Menger e Walras consisté, più ancora che in una riformulazione completa e coerente della teoria del valore-utilità e dell'ipotesi di utilità marginale decrescente, nel modo in cui essi modificarono le fondamenta utilitaristiche dell'economia politica. Il loro marginalismo accreditò una speciale versione della filosofia utilitaristica, quella per cui il comportamento umano è esclusivamente riducibile al calcolo razionale teso alla massimizzazione dell'utilità. A tale principio venne riconosciuta validità universale: da solo esso avrebbe consentito di comprendere l'intera realtà economica. In ciò soprattutto risiede l'aspetto rivoluzionario delle nuove teorie economiche e non tanto, come taluno ha sostenuto, nella tesi secondo cui i prezzi dei beni sarebbero determinati dall'utilità. Un terzo elemento distintivo riguarda il metodo. Il metodo neoclassico è basato sul principio delle variazioni delle proporzioni, il cosiddetto 'principio di sostituzione': è un metodo che non ha equivalenti nel pensiero classico. Nell'ambito della teoria del consumo si assume sostituibilità tra un paniere di beni e un altro; nell'ambito della teoria della produzione sostituibilità tra una combinazione di fattori e un'altra. L'analisi è condotta nei termini delle possibilità alternative tra cui i soggetti, siano essi consumatori o produttori, possono scegliere. E l'obiettivo è il medesimo: ricercare le condizioni sotto le quali si arriva a scegliere l'alternativa ottimale. Tale metodo presuppone che le alternative in gioco siano 'aperte' e che le decisioni prese siano reversibili; diversamente il principio di sostituzione non avrebbe ragione d'essere. Una quarta caratteristica distintiva dell'approccio neoclassico riguarda i soggetti economici. Se essi devono essere soggetti capaci di effettuare scelte razionali in vista della massimizzazione di un obiettivo individuale, quale l'utilità o il profitto, devono essere degli individui, al più degli aggregati sociali 'minimi', ma caratterizzati dall'individualità dell'unità decisionale, come le famiglie o le imprese. Così scompaiono di scena i soggetti collettivi, le classi sociali, i 'corpi politici', che invece i mercantilisti, i classici e Marx avevano posto al centro dei loro sistemi. Una quinta caratteristica del sistema neoclassico è rappresentata dal definitivo raggiungimento di un obiettivo cui molti classici avevano spesso aspirato, ma che nessuno aveva mai realizzato completamente: l'astoricità delle leggi economiche. Assimilata l'economia alle scienze naturali, e alla fisica in particolare, le leggi economiche vengono ad assumere finalmente quel carattere assoluto e obiettivo che si attribuisce alle leggi di natura. L'eternità stessa del problema economico posto dai neoclassici, il problema della scarsità, fonda la validità universale delle leggi economiche. Ma perché ciò abbia senso è necessario espungere dal dominio di studio dell'economia le relazioni sociali, esorcizzandole come una superstizione a un tempo inutile e non in linea con le nuove acquisizioni della scienza dell'epoca. Con la rivoluzione marginalista, sottolinea Zamagni, nacque quel progetto riduzionista del discorso economico che contraddistingue tutto il pensiero neoclassico successivo, un progetto in forza del quale all'economia non viene riconosciuto altro ambito di studio che quello delle relazioni tecniche (le relazioni tra uomo e natura). Così, mentre il riduzionismo individualista aveva portato all'eliminazione delle classi sociali, il riduzionismo anti-storicista portò all'eliminazione delle relazioni sociali; con il che, poi, perse ovviamente di rilevanza anche lo studio del loro cambiamento. Mentre nei classici e in Marx l'apparato analitico è costruito con esplicito riferimento al sistema capitalistico, del quale si vogliono indagare le leggi di movimento, il paradigma neoclassico aspira a una completa a-storicità. Naturalmente non è una cosa facile, spiega Zamagni. Persino Walras dovette servirsi di nozioni quali capitale, interesse, imprenditore, salario, ecc., nozioni che hanno un senso solo se riferite al sistema capitalistico. Infine un sesto importante elemento distintivo della teoria neoclassica consiste nella sostituzione di una teoria soggettivista del valore a quella oggettivista. Alla base del principio del valore soggettivo sta la tesi secondo cui tutti i valori sono individuali e soggettivi. Individuali significa che vanno intesi sempre come fini di particolari individui. Non esistono cioè valori collettivi esprimibili come fini di gruppi o di classi sociali in quanto tali. D'altro canto i valori sono soggettivi, nel senso che scaturiscono da un processo di scelta: un oggetto ha valore se è desiderato da un soggetto. L'elemento della soggettività indica che un valore è tale perché qualcuno lo sceglie in quanto fine; l'elemento dell'individualità postula invece che deve esserci un particolare soggetto cui imputare quel fine. Viceversa, nell'opposta concezione, quella del valore oggettivo, i valori esistono indipendentemente dalle scelte individuali. L'individuo può accogliere o respingere i valori, ma non rientra nelle sue facoltà fissarne la cogenza. Una conseguenza immediata e importante dell'approccio neoclassico alla questione del valore è che la teoria della distribuzione del reddito diventa un caso particolare della teoria del valore, un problema di determinazione dei prezzi dei servizi dei fattori produttivi piuttosto che di ripartizione del reddito tra classi sociali. I teorici neoclassici rifiutano infatti, spiega Emiliano Brancaccio, una analisi della società basata sulla divisione tra le classi. Ad essa contrappongono il cosiddetto individualismo metodologico. Questo metodo si basa sulla idea che qualsiasi aggregato sociale, inclusa la classe, è in realtà costituito da singoli individui. L’analisi scientifica della società deve sempre partire dall’analisi del comportamento del singolo. Inoltre, i neoclassici rifiutano l’idea di doversi occupare di uno specifico modo di produzione, e in particolare del capitalismo. Essi si propongono di elaborare una teoria molto più astratta e generale, che valga per ogni sistema di organizzazione dei rapporti sociali e per ogni periodo storico, e che valga anche per ogni individuo (indipendentemente dalla ricchezza che possiede o dalla funzione economica che svolge). In questo senso i neoclassici ritengono che il problema economico fondamentale di ogni individuo e di ogni società sia quello di impiegare al meglio i mezzi scarsi di cui dispone al fine di accrescere più che può il proprio benessere. Questo problema secondo i neoclassici è così importante che definisce in quanto tale l’oggetto stesso della scienza economica. Nel Saggio sulla natura e sul significato della scienza economica del 1932, l'economista neoclassico Lionel Robbins definì l’economia come quella scienza «che studia il comportamento umano come una relazione fra scopi classificabili in ordine d’importanza e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi». Pochi anni dopo un altro economista neoclassico fornì una descrizione ancor più sintetica della disciplina: nel suo celebre Fondamenti di analisi economica del 1947, Paul Samuelson definì il nucleo di ogni problema economico come «una funzione matematica da massimizzare sotto vincoli», dove i vincoli rappresentano le risorse scarse disponibili e la funzione da massimizzare in genere rappresenta il benessere individuale. Secondo i neoclassici tale benessere può esser misurato attraverso l’utilità, un concetto che essi adoperano molto spesso nelle loro analisi. Dunque, per i neoclassici, l’analisi basata sulla esistenza delle classi sociali, presente negli economisti classici, è inutile e per certi versi fuorviante, visto che il comportamento di ogni individuo, indipendentemente dalla classe di appartenenza, può essere esaminato come un problema di massimizzazione della utilità sotto il vincolo delle risorse scarse di cui egli dispone, e più specificamente come un problema risolvibile con il calcolo marginale. Il ruolo e il significato attribuiti all’utilità hanno subito profondi mutamenti nella storia del pensiero economico. Secondo gli economisti classici, come A. Smith e democrazia Ricardo, l’utilità (o valore d’uso) costituiva un semplice prerequisito del valore di scambio di un bene: solo una merce che soddisfi determinati bisogni o che sia desiderata da qualcuno (che sia cioè utile) può avere un valore di scambio positivo, ma quest’ultimo deve essere determinato sulla base di elementi diversi dal valore d’uso. Il valore di scambio di un bene, infatti, veniva fatto dipendere dai costi di produzione (calcolati in termini di ore di lavoro) misurabili e confrontabili quantitativamente, e non dall’utilità, che rappresentava invece una semplice qualità conferita dai singoli soggetti al bene in questione e dunque non suscettibile di espressione quantitativa. Con l’approccio marginalista, sviluppato a partire dalla prima metà dell’Ottocento, si verificò un mutamento di prospettiva e alla teoria oggettiva del valore propria dell’impostazione classica venne contrapposta una concezione soggettiva, secondo cui il valore dei beni nasce dal confronto tra la scarsità delle risorse e l’utilità attribuita ai beni dagli individui. Il passaggio analitico verso la nuova teoria fu reso possibile dalla distinzione tra utilità totale (derivante dal consumo di una determinata quantità di un bene) e utilità marginale (incremento dell’utilità totale dovuto all’aumento di una quantità piccola, ‘marginale’, del bene consumato), già conosciuta dagli economisti nel 19° sec., ed enunciata correttamente da W.F. Lloyd (1833) e N. Senior (1836). Alla base dei rapporti di scambio tra i beni andava infatti considerata non tanto l’utilità totale, quanto l’utilità marginale, riferita alla quantità disponibile dei beni. Tale distinzione consentiva di risolvere il famoso ‘paradosso del valore’ messo in luce da Smith: i diamanti, beni non utilissimi, valgono più dell’acqua, indispensabile alla sopravvivenza umana, perché la loro scarsità dà luogo a un grado relativo di utilità superiore a quello dell’abbondante acqua. Dal fatto che il valore di un bene fosse determinato in base alla sua utilità marginale discendeva l’importante principio secondo cui incrementi successivi della quantità disponibile di un bene assicurano incrementi di utilità via via minori (legge dell’utilità marginale decrescente). Si ponevano in tal modo le premesse per l’elaborazione di una compiuta teoria della domanda del consumatore, in quanto l’utilità di una merce dipendeva dal suo consumo. I primi contributi significativi in questo campo furono quelli dell’economista francese A.-J. Dupuit (1844), che si servì del principio dell’utilità marginale decrescente per elaborare il concetto di surplus del consumatore, e del tedesco H. Gossen (1854), che elaborò il principio di massimizzazione dell’utilità del consumatore in termini di uguaglianza delle utilità marginali dei singoli beni ponderate con i rispettivi prezzi. Il superamento definitivo della teoria classica del valore basata sui costi e l’affermazione del concetto di utilità come spiegazione del valore dei beni avvenne però solo intorno al 1870, con i contributi di quegli economisti che apportarono una radicale rielaborazione del pensiero economico, in seguito ribattezzata ‘rivoluzione marginalista’. In particolare, W.S. Jevons (1871) utilizzò le funzioni di utilità marginale dei soggetti coinvolti nello scambio per dedurre il rapporto di scambio di equilibrio tra due beni, mentre l’esponente della scuola austriaca C. Menger (1871) estese il principio dell’utilità marginale agli stessi costi di produzione. L. Walras (1874), invece, seguendo un approccio diverso da quello di Jevons, elaborò un modello di equilibrio economico generale comprendente più individui e più beni, nel quale il valore di equilibrio degli scambi veniva determinato dalle funzioni di utilità marginale in ciascun soggetto economico. Fu, tuttavia, con la pubblicazione dei Principles of economics di A. Marshall, nel 1890, che i diversi e ancora eterogenei contributi dei pionieri del marginalismo trovarono una definitiva sistemazione nella teoria dei prezzi di mercato, basata sull’analisi dell’offerta e dei costi e integrata da una coerente teoria del consumatore espressa in termini di utilità. L’approccio marginalistico dell’utilità fu sottoposto, agli inizi del Novecento, ad alcuni rilievi critici. In primo luogo, fu messo in discussione il criterio di massimizzazione dell’utilità basato sul confronto delle utilità marginali dei diversi beni. Infatti, tale confronto presupponeva che ciascun soggetto disponesse di una misura cardinale dell’utilità e che fosse quindi in grado di assegnare a ogni bene un numero rappresentante l’ammontare di utilità a esso associata. Ciò non poteva tuttavia ritenersi corretto, poiché gli individui possono al massimo confrontare le utilità ma, essendo le utilità elementi psicologici, non possono dare loro una misura. In tal senso fu sottoposta a critica anche la possibilità di confronto interpersonale delle utilità, che necessariamente deve intervenire quando dai problemi relativi al benessere personale si passa ai problemi di carattere collettivo. In particolare, non essendo possibile valutare se la perdita di utilità di un soggetto economico, derivante da una particolare azione di politica economica o di altro genere, sia compensata o meno dall’incremento di utilità di un altro soggetto, non si possono neanche stabilire gli effetti della suddetta azione sul benessere della collettività. A.C. Pigou (1912) cercò di aggirare il problema della misura dell’utilità collettiva ricorrendo al concetto di dividendo nazionale (o reddito reale aggregato) come controparte oggettiva del benessere nazionale. Il benessere sarebbe aumentato con il crescere del reddito reale e con una più equa distribuzione delle risorse. Tale soluzione lasciava tuttavia insoddisfatti i sostenitori di un approccio positivo dell’economia, libero da giudizi di valore riguardanti i problemi dell’equità e della distribuzione del reddito. Vilfredo Pareto riformulò invece la teoria marginalista adottando una concezione ordinale delle utilità in luogo di quella cardinale. Pareto, ricorrendo alla tecnica delle curve di indifferenza sviluppate da F.Y. Edge worth, fu in grado di stabilire, per ogni coppia di beni, se l’utilità derivante dal possesso di uno dei due beni sia minore, uguale o maggiore dell’utilità derivante dal possesso dell’altro bene. In tal modo era possibile stabilire un ordinamento delle preferenze di ciascun individuo rispetto a un paniere di beni basato su una scala ordinata anziché sulla misurabilità dell’utilità. La nuova impostazione di Pareto ebbe rilevanti conseguenze sulle successive teorie del consumatore, creando le premesse per lo sviluppo dell’approccio ordinalista dell’utilità di J.R. Hicks e R.G.democrazia Allen (1934) e della teoria delle preferenze rivelate di P.A. Samuelson (1938). Inoltre, la negazione della possibilità dei confronti intersoggettivi di utilità diede luogo a un nuovo filone interpretativo dell’analisi del benessere sociale (conosciuto come nuova economia del benessere in contrapposizione alla teoria utilitaristica di Pigou e Marshall) a opera di economisti come A. Bergson (1938), N. Kaldor (1939), J.R. Hicks (1939), T. Scitovsky(1941), Samuelson (1947) e K.J. Arrow (1951). Anche se tali sviluppi hanno progressivamente indebolito il riferimento all’utilità quale principio esplicativo delle scelte del consumatore, la teoria dell’utilità continua a rimanere uno dei punti di riferimento ineliminabili della teoria marginalista. Il concetto economico di utilità ha avuto nel corso del tempo numerose precisazioni matematiche, riferite in particolare a situazioni di certezza, di rischio, di incertezza. Per quanto riguarda le prime, sono prevalentemente utilizzate per la formulazione di gran parte delle funzioni di consumo in cui l’esito della decisione è noto e corrisponde al risultato della massimizzazione della funzione di utilità del consumatore sulla base delle sue preferenze. Le decisioni prese in condizioni di rischio si riferiscono invece a una situazione in cui a ogni evento alternativo che si può verificare corrisponde una probabilità. La precisazione matematica è in questo caso necessaria per la valutazione dell’utilità di un risultato aleatorio (per es., di una lotteria) e per la formulazione della posta da puntare che, nel caso di gioco equo, e secondo J. von Neumann e O. Morgenstern, corrisponde alla vincita media o speranza matematica. Prendendo in considerazione un bene esprimibile in termini quantitativi, l’utilità di una quantità x per una persona è una funzione u(x) che rispecchia l’ordinamento di preferenze della persona e tale che l’utilità di una quantità aleatoria x è uguale all’utilità della media di x. L’esistenza di una funzione che soddisfi tali proprietà viene dimostrata, purché si ammettano alcune ipotesi sull’ordinamento delle preferenze della persona considerata, tra cui è (comprensibilmente) essenziale che, date due quantità (certe e aleatorie), la persona possa discriminarle, dire cioè se la prima è preferibile, o equivalente, o meno preferibile, rispetto alla seconda. La dimostrazione è costruttiva: permette, in base alle risposte di una persona, di valutare la sua funzione di utilità, che però non è individuata in modo univoco, in quanto una sua trasformazione monotona rappresenta le stesse preferenze della funzione di partenza. L’utilità così definita risponde quindi a diverse delle condizioni poste dagli economisti, in particolare a quella di no bridge, che viene anche detta impossibilità del confronto interpersonale dell’utilità. A esse si aggiunge l’importante condizione riguardante la media, che permette ampi sviluppi della teoria dei giochi e della teoria delle decisioni statistiche. Sviluppi più recenti nelle formulazioni matematiche dell’utilità riguardano prevalentemente situazioni di incertezza in cui l’esito della decisione dipende da eventi non controllabili dagli agenti economici, come per es., nei giochi non cooperativi. In tali casi, numerosi contributi (di F.P. Ramsey, B. de Finetti, L.J. Savage) hanno introdotto un concetto soggettivo di probabilità secondo il quale, nella massimizzazione della funzione dell’utilità, vengono prese in considerazione le conoscenze di cui dispone l’agente economico in un determinato momento. Lo sviluppo di queste tematiche ha portato a un uso sempre più esteso della matematica aumentando in questo modo il disagio dei profani nei confronti dell'economia politica. La scuola matematica si distingue in due sottoscuole, quella degli equilibri economici parziali (A.-A. Cournot, W.S. Jevons, A. Marshall, F.Y. Edgeworth, M. Pantaleoni e altri), che considera ciascun settore del sistema separatamente, e quella degli equilibri economici generali (L. Walras, V. Pareto, I. Fisher, E. Barone e altri), che prende in considerazione tutti i settori simultaneamente; l’una e l’altra, determinati i vincoli ai quali, nelle condizioni ipotizzate, è subordinato il sistema economico, impostano un sistema di equazioni in cui i vincoli stessi sono i dati, mentre i prezzi, le quantità prodotte e consumate ecc. sono le incognite. Se i dati permettono di determinare la forma delle equazioni e se il sistema così costruito è determinato (il numero di equazioni indipendenti uguagliando in tal caso quello delle incognite), esso è risolubile e permette di individuare la sola posizione di equilibrio del mercato particolare o generale. La scuola matematica ha consentito notevoli progressi alla scienza economica, sostituendo al concetto di causa ed effetto tra i fenomeni economici quello di correlazione e mettendo in luce l’interdipendenza e la simultaneità dei fenomeni stessi, ma i suoi risultati sono stati a loro volta contestati da J.M. Keynes e dai suoi seguaci i quali, valendosi sempre dello strumento matematico, ritengono che i sistemi economici, una volta spostatisi dalla situazione di equilibrio, non tendano a tornarvi se non grazie a un intervento dei poteri pubblici. Critiche di fondo alla teoria dell’equilibrio economico generale sono state mosse anche da P. Sraffa e tentativi per dimostrare la possibilità di un equilibrio non di concorrenza sono stati fatti da J. Robinson ed E.H. Chamberlin; la teoria è stata poi ripresa e perfezionata al fine di determinare le condizioni di stabilità di un sistema da J.R. Hicks, O. Lange e P.A. Samuelson. Il crescente ricorso all’impiego della matematica ha consentito inoltre di studiare l’evoluzione nel tempo e l’elaborazione dei modelli macroeconomici di sviluppo. Di notevole importanza è anche l’econometria, corrente di pensiero che combina insieme analisi economica, statistica e matematica e ha consentito l’analisi delle interdipendenze settoriali, gli studi sulla programmazione lineare e una più rigorosa impostazione dei problemi relativi alla pianificazione. Tra i contributi più recenti all’economia m. vanno annoverati la teoria dei giochi e la matematica del caos. La prima analizza il comportamento di individui in situazione di interazione strategica e ne caratterizza gli equilibri. La seconda si rifà allo studio dei sistemi dinamici complessi ed evidenzia come l’economia possa essere governata da sistemi di equazioni non lineari che possiedono equilibri multipli dipendenti dai parametri e dalle condizioni iniziali; le traiettorie attuali sono quindi il risultato di scelte passate. In genere si ritiene che la nascita di una vera e propria scienza economica, scrive Emiliano Brancaccio sia avvenuta tra il 1760 e il 1830, ossia a cavallo di quella prima Rivoluzione industriale che in Inghilterra e in altri paesi creò le basi per la piena affermazione del modo di produzione capitalistico (cioè di un sistema nel quale la classe dei capitalisti detiene il controllo dei mezzi di produzione, mentre la classe dei lavoratori si presenta sul mercato offrendo ai capitalisti la propria forza lavoro in di un salario). Durante la prima Rivoluzione industriale si assiste a un grande processo di innovazione tecnologica, di allargamento dei mercati, di concentrazione dei capitali, di trasformazione di larghe masse di lavoratori in operai salariati e di aumento generalizzato della scala della produzione e della circolazione delle merci. Tali trasformazioni economiche sono accompagnate anche da importanti cambiamenti negli assetti sociali e politici. In questa fase si registra infatti il relativo declino politico della classe aristocratica dei proprietari terrieri e prende avvio l’ascesa sociale e politica di una nuova classe di soggetti, quella dei capitalisti proprietari delle moderne imprese agricole e industriali. Il successo dei capitalisti porta a una nuova concezione dello Stato: non più espressione degli interessi del sovrano e dell’aristocrazia fondiaria, l’autorità statale viene chiamata a favorire lo sviluppo del capitale. Nuovo scopo del potere politico è dunque di salvaguardare gli interessi della nuova classe capitalista emergente, in contrapposizione alle istanze provenienti dalla classe dei proprietari terrieri. E’ esattamente in questi scenari che avviene la pubblicazione delle fondamentali opere di due studiosi considerati i padri fondatori della scienza economica moderna: lo scozzese Adam Smith, autore della Ricchezza delle nazioni del 1776; e l’inglese David Ricardo, autore dei Principi di economia politica e della tassazione del 1817. Smith e Ricardo sono considerati i massimi esponenti della cosiddetta economia classica. Gli economisti classici risultano in larga parte sostenitori del cosiddetto liberismo, o “laissez-faire”. A grandi linee il liberismo, spiega Brancaccio, è quella dottrina politica che si situa alla base dell’idea che per favorire lo sviluppo economico e la crescita del benessere di tutti si debbano liberare le forze del mercato dai lacci dell’autorità statale, cioè si debba “lasciar fare” ai capitalisti privati. Sia pure seguendo ragionamenti molto articolati e con diversi accenti e sfumature, Smith e Ricardo in definitiva sostengono le tesi liberiste. Essi infatti ritengono che ci si dovrebbe affidare prevalentemente alle forze spontanee del mercato e della concorrenza tra le imprese private, senza inutili vincoli o intromissioni da parte dello Stato. A questo proposito, Smith elabora il cosiddetto “teorema della mano invisibile”. Secondo questo “teorema” gli individui agiscono nel libero mercato guidati dal loro egoismo personale, ma proprio seguendo i loro interessi particolari essi inconsapevolmente contribuiscono allo sviluppo economico complessivo, e quindi finiscono per servire l’interesse di tutti. Scrive Smith che «ciascuno è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non era parte delle proprie intenzioni». Le forze del mercato rappresentano cioè una “mano invisibile” che guida i singoli individui egoisti a compiere il bene comune dello sviluppo economico. In questo senso egli aggiunge che «non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci dobbiamo aspettare la cena, ma dal fatto che essi perseguono il proprio interesse». Il motivo per cui secondo Smith il “teorema” funziona è che i capitalisti proprietari delle imprese, in concorrenza tra loro, cercheranno di prevalere gli uni sugli altri producendo esattamente le merci che i consumatori desiderano. Inoltre, i capitalisti cercheranno di adottare i metodi produttivi più efficienti al fine di ridurre al minimo i costi, ed essere quindi più competitivi rispetto ai diretti concorrenti. La riduzione dei costi farà sì che le merci siano vendute ai prezzi più bassi possibili, il che garantirà sviluppo e benessere diffuso. A grandi linee, sono questi i motivi per cui secondo Smith è bene lasciare che le forze del mercato e della concorrenza siano tendenzialmente lasciate libere di operare. Una sorta di teorema della mano invisibile verrà in seguito applicato da David Ricardo anche al caso dei rapporti internazionali. Per Ricardo occorre infatti salvaguardare le libertà di mercato non soltanto quando si considerino i singoli capitalisti in concorrenza tra loro, ma anche quando si tratti di nazioni che competono negli scambi commerciali. Ricardo quindi era non soltanto un liberista ma anche un “liberoscambista”. Egli cioè non era semplicemente un fautore del liberismo economico tra le imprese e tra i singoli individui, ma sosteneva anche il libero scambio tra paesi. Egli elaborò in questo senso il famoso “teorema dei vantaggi comparati”. Questo teorema ci dice che il libero scambio di merci tra paesi è sempre vantaggioso per tutti. In quest’ottica, anche se un paese fosse più efficiente di un altro nella produzione di tutte le merci, al primo converrà comunque concentrarsi nella produzione delle merci in cui sia relativamente più efficiente, mentre potrà lasciare la produzione delle altre merci al secondo paese. In questo senso Ricardo sostenne che l’Inghilterra avrebbe dovuto specializzarsi nella produzione e nella esportazione di manufatti industriali, mentre avrebbe dovuto importare grano dagli altri paesi. Il consiglio che Ricardo dava all’Inghilterra era quindi di abbandonare il protezionismo commerciale, cioè di rinunciare ai dazi con i quali il paese cercava di proteggere l’agricoltura nazionale dalla importazione di grano proveniente dall’estero. I dazi erano sostenuti dai proprietari fondiari inglesi, che guadagnavano dalla produzione di grano sui loro terreni. Ma per Ricardo la classe dei proprietari terrieri rappresentava un ostacolo allo sviluppo economico. Il paese doveva quindi abbandonare le protezioni, specializzarsi nella manifattura e aprirsi agli scambi internazionali. Gli economisti classici offrivano quindi una interpretazione sostanzialmente positiva del capitalismo e delle leggi della concorrenza che lo governavano. Essi talvolta definivano “naturale” l’equilibrio concorrenziale determinato dalle forze del mercato. In tal modo sembravano voler dare l’idea che il capitalismo si sviluppasse secondo “leggi naturali”, ossia in un certo senso armoniche ed eterne. I classici tuttavia, nota Brancaccio, non nascondevano gli elementi di conflitto insiti nella società capitalista. Non a caso Smith e Ricardo ritenevano che la società fosse divisa in classi: i proprietari terrieri, i capitalisti e i lavoratori. In varie circostanze essi riconobbero che le classi sociali hanno interessi irriducibilmente contrapposti tra loro. Ricardo, in particolare, costruì una teoria secondo cui il profitto spettante ai capitalisti va concepito come un “residuo”, come un “surplus” che si ottiene una volta che da una data produzione totale siano state sottratte le merci spettanti ai proprietari terrieri a titolo di rendite e le merci spettanti ai lavoratori sotto forma di salari. Ma allora, se il profitto è un residuo, ciò significa che esso sarà tanto più grande quanto minori siano le rendite e i salari, il che mette chiaramente in luce i motivi di contrasto tra le classi sociali nella ripartizione della produzione. Al centro dell'economia politica classica, ha scritto Giorgio Lunghini, e successivamente della critica marxiana, sta il concetto di sovrappiù (la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith è del 1776; i Principî di David Ricardo sono del 1817-1821; gli scritti di Karl Marx qui rilevanti vanno dal 1835 al 1883). Il sovrappiù è quel che resta del prodotto sociale (tutto quanto viene prodotto in un'economia, in un dato periodo di tempo), una volta reintegrati i mezzi di consumo necessari per la riproduzione dei lavoratori, nonché i mezzi di produzione consumati o logorati nel processo produttivo. In generale il prodotto sociale sarà composto da beni eterogenei, mentre la determinazione quantitativa del sovrappiù richiede che i termini della somma algebrica da cui questo risulta siano espressi nella stessa unità di misura. La rappresentazione quantitativa del processo capitalistico di produzione e riproduzione economica e sociale richiederà dunque una teoria dei prezzi che consenta una contabilità adeguata delle diverse grandezze. Questa contabilità, che per il capitalismo è essenziale, è però premessa necessaria ma non sufficiente per la parte critica del discorso, per l'analisi della distribuzione del prodotto sociale tra le differenti classi della società. Questa analisi, che a maggior ragione non può non essere storicamente determinata, richiede non solo una teoria dei prezzi ma anche, e prima, un'indagine circa le cause della ricchezza e l'origine del valore. Per Smith "il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma" . All'origine del sovrappiù sta dunque la produttività del lavoro. A sua volta, la produttività del lavoro dipende dalla divisione del lavoro, e questa dalla tendenza propria della natura umana al baratto e allo scambio. Poiché il lavoro può essere produttivo di sovrappiù in tutti i settori dell'economia, per l'economia nel suo complesso il sovrappiù potrà essere determinato quantitativamente soltanto in termini di valore, e il lavoro potrà essere preso a "misura reale" del valore stesso. Normalmente il valore di scambio di una merce è espresso nei termini del denaro che se ne può avere in cambio, anziché in termini di lavoro o di un'altra merce. La moneta è però una unità di misura variabile. Anche il lavoro lo è, e tuttavia, a differenza della moneta e di qualsiasi merce, è preferibile come unità di misura poiché "in ogni tempo e luogo, uguali quantità di lavoro si può dire abbiano uguale valore per il lavoratore. Nel suo stato ordinario di salute, di forza e d'animo, al livello ordinario della sua arte e della sua destrezza, egli deve sacrificare sempre la stessa quantità del suo riposo, della sua libertà e della sua felicità. [...] Soltanto il lavoro dunque, non variando mai nel suo proprio valore, è l'ultima e reale misura con cui il valore di tutte le merci può essere stimato e paragonato in ogni tempo e luogo. È il loro prezzo reale; la moneta è solo il loro prezzo nominale". Se "il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita", sembrerebbe ragionevole dedurre che il valore di una merce dipende dal lavoro che vi è contenuto. Smith ritiene invece che ciò sia vero soltanto in quello stadio "rozzo e primitivo" della società nel quale tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore. Così, "se in un popolo di cacciatori uccidere un castoro costa di solito un lavoro doppio rispetto a quello che occorre per uccidere un cervo, un castoro si scambierà naturalmente per due cervi, ovvero avrà il valore di due cervi". Quando la produzione abbia modi e fini capitalistici, sia cioè produzione per il profitto anziché per l'uso, ricord Lunghini, questa semplice regola di determinazione dei prezzi relativi non vale più, poiché il prezzo di una merce dovrebbe pagare non soltanto il lavoro che vi è contenuto, ma anche profitti e rendite. In una situazione capitalistica il prodotto del lavoro non appartiene tutto al lavoratore: "Nella maggior parte dei casi egli dovrà spartirlo col proprietario dei capitali che lo occupano. E la quantità di lavoro comunemente impiegata nel procurarsi o nel produrre una merce non è più l'unica circostanza che può regolare la quantità di lavoro che essa dovrebbe comunemente comprare, o comandare o ricevere in cambio. È evidente che una quantità addizionale deve spettare ai profitti dei capitali che hanno anticipato i salari e fornito i materiali di quel lavoro. Non appena la terra di un paese diventa tutta proprietà privata, i proprietari della terra, come tutti gli altri uomini, amano mietere dove non hanno seminato ed esigono una rendita anche per il suo prodotto naturale". Di qui un paradosso, peraltro fecondo: se si assume che il valore di una merce corrisponde al lavoro che si può comperare ("comandare") con il ricavato della sua vendita, sembrerebbe che il lavoro comandato da una merce sia maggiore di quello che vi è contenuto. In verità Smith commette un errore, confondendo il lavoro contenuto con il salario pagato. L'ambigua conclusione smithiana è questa: "Il valore reale di tutte le diverse parti componenti del prezzo è misurato dalla quantità di lavoro che ognuna di esse può comprare o comandare. Il lavoro misura il valore non solo della parte del prezzo che si risolve in lavoro, ma anche di quella che si risolve in rendita e di quella che si risolve in profitto. In ogni società il prezzo di ogni merce si risolve, in definitiva, nell'una o nell'altra di queste parti o in tutte e tre, mentre in ogni società progredita tutte e tre entrano, poco o tanto, come componenti del prezzo della maggior parte delle merci" . Da un lato Smith pensa che salario, profitto e rendita siano il risultato della divisione di un valore che ha precedentemente avuto origine dal lavoro erogato dal lavoratore. Dall'altro egli accenna una teoria 'additiva' del valore, sostenendo che salario, profitto e rendita sono le fonti originarie di ogni reddito, così come di ogni valore di scambio. Da questa ambiguità hanno origine le due grandi linee di pensiero in tema di teoria del valore: da un lato vi è chi ritiene che salario, profitto e rendita siano parti di un valore a essi presupposto e che ha come sola origine il lavoro; dall'altro vi è chi ritiene che dietro a ciascuna forma di reddito vi sia un distinto 'fattore produttivo'. Nell'elaborazione della sua teoria del valore, che è parte iniziale ed essenziale della sua teoria della distribuzione del prodotto sociale, Ricardo muove da una critica della teoria smithiana e in particolare dalla confusione, nella teoria di Smith, fra la quantità di lavoro necessaria per produrre una data merce, e il prezzo del lavoro (il salario pagato). L'esito della critica ricardiana è l'affermazione della teoria del valore lavoro: "Che la quantità maggiore o minore di lavoro impiegata nella produzione delle merci sia l'unica causa possibile della modificazione del loro valore è del tutto chiaro, non appena si sia d'accordo che tutte le merci sono il prodotto del lavoro e non avrebbero alcun valore se non fosse per il lavoro speso nella loro produzione" Ricardo ammette che vi sono merci il cui valore è determinato esclusivamente dalla scarsità. Tuttavia, argomenta Ricardo, queste merci formano una piccolissima parte della massa di merci scambiate giornalmente sul mercato, mentre la parte di gran lunga maggiore delle merci che sono oggetto di desiderio è procurata dal lavoro: "Perciò, quando parliamo di merci, del loro valore di scambio e delle leggi che ne regolano i prezzi relativi, intendiamo sempre riferirci esclusivamente alle merci la cui quantità può venire accresciuta con l'impiego dell'operosità umana e sulla cui produzione la concorrenza agisce senza limitazione". Ricardo conviene anche, con Smith, che nei primi stadi della società il valore di scambio di queste merci dipende ("quasi esclusivamente") dalla relativa quantità di lavoro erogata per ciascuna. In Smith ci sarebbe però, secondo Ricardo, una confusione. Smith ammette che ogni incremento nella quantità di lavoro deve aumentare il valore della merce nella quale essa si manifesta, così come ogni diminuzione deve diminuirlo. Tuttavia, come unità di misura, egli prende non la quantità di lavoro erogata nella produzione di un dato oggetto, ma la quantità di lavoro che l'oggetto può comandare nel mercato: "come se queste due espressioni fossero equivalenti". Soltanto se il compenso del lavoratore fosse sempre proporzionato a ciò che egli produce, il lavoro erogato nella produzione di una merce e la quantità di lavoro che quella merce consentirebbe di acquistare sarebbero entrambe grandezze mediante le quali misurare accuratamente le variazioni delle altre cose. Queste grandezze, tuttavia, non sono eguali. L'errore di Smith sta nella confusione fra lavoro erogato e salario, nel non intendere che la differenza fra lavoro comandato e lavoro incorporato corrisponde al lavoro erogato ma non pagato. Secondo Ricardo è invece esatto affermare, come Smith aveva affermato in precedenza, che "il rapporto fra le quantità di lavoro necessarie a procurarsi diversi oggetti sembra sia la sola circostanza che possa offrire una qualche regola per scambiarli l'uno con l'altro" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 49). In altre parole: è la quantità relativa di merci che il lavoro produce, e non la quantità relativa di merci che sono date al lavoratore in cambio del suo lavoro, che ne determina il valore relativo. Se si mantiene anche per la situazione capitalistica la nozione di lavoro comandato da una merce quale lavoro contenuto nelle merci con cui essa si scambia, allora si conserva la conclusione che pareva limitata allo stadio "rozzo e primitivo": il lavoro contenuto determina il rapporto di scambio fra le merci, secondo rapporti che sono uguali ai rapporti fra le quantità di lavoro oggettivate nelle merci. L'unica differenza tra lo scambio semplice e lo scambio in condizioni capitalistiche sta nel fatto che nel primo caso tutto il valore che si forma nello scambio è percepito dal lavoratore, mentre nel secondo caso questo valore si suddivide tra le tre classi della società capitalistica. La tesi fondamentale di Ricardo è che il modo in cui il valore, una volta formatosi, si distribuisce, non ha nulla a che vedere col modo in cui esso si forma. Smith sostiene, continua Lunghini che: 1) l'intero prodotto annuo o, che è lo stesso, l'intero prezzo di questo prodotto si divide naturalmente in tre parti: rendita, salari e profitti; 2) in ogni società esistono dei saggi 'naturali' della rendita, del salario e del profitto, la cui somma determina il prezzo delle merci. Ricardo accetta la prima proposizione, mentre rifiuta la seconda (dalla quale seguirebbe che il prezzo naturale di una merce varia al variare dei saggi naturali delle sue parti componenti). La ragione per la quale Ricardo rifiuta la teoria additiva è da ricercare da un lato nella estensione a una situazione capitalistica della teoria del valore basata sul valore contenuto, dall'altro nella sua teoria del saggio dei profitti. Questo, per Ricardo, è determinato da due ordini di circostanze: dalle condizioni tecniche della produzione e dal saggio di salario. Date le prime, il prodotto sociale (netto di rendita) si distribuirà tra profitti e salari. Fra queste due grandezze vi è una relazione inversa, tale che se il saggio di salario è alto, il saggio dei profitti è basso: "Se il grano deve ripartirsi tra l'agricoltore e il lavoratore, quanto maggiore è la porzione che viene data a quest'ultimo, tanto minore sarà la porzione che rimane al primo". Mentre per Smith si tratta di una somma, per Ricardo si tratta di una divisione. Come noterà Karl Marx. "Se io determino in modo autonomo la grandezza di tre differenti linee rette e poi con queste tre linee come 'parti costitutive' formo una quarta linea retta di grandezza pari alla loro somma, non è affatto lo stesso procedimento che se, invece, ho davanti a me una data linea retta e per un qualunque scopo divido questa in tre segmenti differenti, in un certo qual senso la 'risolvo'. Nel primo caso la grandezza della linea cambia interamente con la grandezza delle tre linee, di cui costituisce la somma. Nel secondo caso la grandezza dei tre segmenti è limitata, già in precedenza, dal fatto che essi costituiscono parti di una linea di determinata grandezza. [...] Ricardo suddivide il prezzo della merce in queste parti costitutive. La grandezza di valore è dunque il prius. La somma delle parti costitutive è presupposta come grandezza data, si parte da essa, non come al contrario fa spesso Smith, il quale in contrasto con le proprie concezioni più giuste e più profonde, deriva la grandezza di valore post festum dall'addizione delle parti costitutive". La teoria ricardiana del valore, tuttavia, patisce delle eccezioni. Per Ricardo la teoria del valore è strumentale alla determinazione del saggio dei profitti (che è il rapporto tra profitti e capitale investito). Poiché il prodotto sociale consiste in merci eterogenee, per misurare i profitti occorre conoscere il prezzo delle diverse merci. Questi prezzi, per evitare ragionamenti in circolo, dovranno essere indipendenti dal saggio dei profitti. Per soddisfare tale requisito Ricardo adotta una teoria del valore contenuto, in quanto questo sembrerebbe dipendere solo dalle condizioni tecniche di produzione. Nei diversi settori dell'economia il saggio dei profitti non può essere diverso durevolmente, poiché il capitale si muove in cerca delle occasioni più profittevoli. Ora si può dimostrare che, affinché il saggio dei profitti risulti uniforme nell'economia, in equilibrio le merci dovrebbero scambiarsi secondo la quantità di lavoro che esse contengono. In realtà la determinazione dei prezzi sulla base del lavoro contenuto risulta invariante rispetto alla distribuzione del prodotto sociale soltanto se i periodi di produzione sono uguali nei diversi settori. Se sono diversi, l'uniformità dei saggi di profitto richiede che il profitto stesso sia commisurato al periodo di produzione: non sarebbe una situazione di equilibrio quella in cui un capitale impegnato per un anno e uno impegnato per due anni dessero lo stesso reddito. Perché i saggi di profitto siano uniformi bisognerà dunque tener conto dei periodi di produzione delle diverse merci. Se i periodi di produzione sono diversi, i prezzi delle merci verranno a dipendere non soltanto dal lavoro in esse contenuto, ma anche dal saggio dei profitti, e in tal caso i prezzi non risulteranno indipendenti dalla distribuzione del prodotto sociale. Analoghe eccezioni alla teoria del valore lavoro si manifestano quando i diversi settori impieghino quantità diverse di beni capitali. Ricardo è consapevole di questo limite di una teoria del valore lavoro, ma ritiene che essa consenta una approssimazione accettabile. Marx, al contrario, non potrà ignorare queste 'eccezioni', che sono all'origine del cosiddetto 'problema della trasformazione'. In Produzione di merci a mezzo di merci pubblicato nel 1960, Piero Srafa dimostra, come nota Stefano Lucarelli, l’impossibilità di concepire il capitale come una merce, di cui il profitto possa essere considerato il prezzo, essendo il capitale in realtà un insieme di mezzi di produzione eterogenei. Da ciò consegue che il capitale non può essere dato, cioè misurato in termini di valore, indipendentemente dalla determinazione dei valori delle merci che lo costituiscono e anteriormente ad essa. Se questo non è possibile, allora non è possibile nemmeno misurare il prodotto marginale del capitale, e nemmeno quello del lavoro. Pertanto non esiste la possibilità di risolvere il problema distributivo adottando l’impianto marginalista, che calcola il profitto e il salario d’equilibrio proprio sulla base dei prodotti marginali di capitale e lavoro. Ne deriva che la divina armonia distributiva sancita dai neoclassici non è dimostrabile: non esiste quindi nessun livello “naturale” del salario, e di conseguenza nessuna configurazione distributiva del prodotto sociale d’equilibrio. Esistono invece limiti alquanto ampi entro i quali le quote distributive possono variare, ed entro tali limiti la situazione viene determinata in primo luogo dalle influenze storiche esercitate gradualmente dalle forze sociali e politiche. In altre parole, Sraffa riporta l'economia politica in grembo alla politica dalla quale essa nacque nel 1776. *** Il principio di ragione afferma che le cose accadono perché qualcosa le fa accadere. Se oggi ci troviamo nella situazione possibile là perché il presidente Napolitano aveva voluto porre fine al governo Berlusconi e affidare il governo al professor Monti, nominato nel frattempo, senatore a vita, il quale ha portato avanti una politica economica sucida che ha messo in ginocchio il paese. Se fossimo andati al voto talora, oggi ci troveremmo a metà del guado. non è stato così e oggi lo stesso Napolitano non sa che pesci pigliare. Allora si parlò di democrazia bambina. di vulnus inferto alla democrazia italiana; in realtà. il presidente Napolitano manipolò il testo della costituzione con grande abilità - da autentico uomo delle istituzioni, come egi ama definirs. Tant'è che oggi si parla addirittura di governo del presidente. Esso sarebbe un nuovo errore Bersani deve andare davanti alle camere e presentare il proprio governo. Poi si vedrà. Molto dipenderà da ciò che decideranno di fare i grillini. Se essi dovessero rifiutare i loro appoggio a Bersani, la parola potrebbe passare ad un nuovo governo tecnico, ovvero, un governo di autorevolezza nazionale. nel senso di Hannah Arendt. Tale governo non potrebbe esser comunque altro che un governo ponte perché in democrazia il potere appartatene al popolo che lo gestisce tramite i suoi rappresentanti. e sarebbe un grave errore ripetere l'esperienza del illlinigoverno Monti. se così non fosse, l'intero parlamento potrebbe cadere in mano ai grillini, con l conseguenza di accelerare il crollo della democrazia. *** L'assemblea della Camera ha approvato con 436 voti a favore, 134 no e otto astenuti la mozione della maggioranza che indica il percorso per le riforme costituzionali. Con 400 no e 139 sì la Camera ha respinto la mozione presentata da Roberto Giachetti che chiedeva l'immediata abolizione del Porcellum e il ritorno al sistema elettorale del Mattarellum. Gli astenuti sono stati nove. Roberto Giachetti mantiene la sua mozione per abolire il Porcellum e tornare al Mattarellum ma è cosciente che il voto di oggi segnerà una sua sconfitta sul tema. "Do la mia piena adesione alla maggioranza ma riproverò ad abolire il Porcellum magari con maggior fantasia di oggi". Con le precisazioni che erano state chieste in sede di replica dal presidente del Consiglio, Enrico Letta, la Camera ha approvato con 441 sì, 138 no e un astenuto, la mozione della Lega Nord sul percorso di riforma della Costituzione. La Camera, in due distinte votazioni, ha respinto le mozioni di Sel e del M5S sul percorso per le riforme costituzionali. Il documento di Sel è stato respinto con 547 no e 33 sì. Quello del Movimento 5 Stelle, che era in parte precluso, ha raccolto 476 no e 103 sì. Al percorso di riforme costituzionali "si lega la vita di questa legislatura". Così il premier Enrico Letta, durante il suo intervento in Aula. "Ha avuto inizio oggi nelle aule del Parlamento un percorso di modernizzazione della nostra democrazia". Lo dichiara il ministro per le Riforme costituzionali Gaetano Quagliariello. "Il governo - prosegue - onorerà il mandato ricevuto dalla Camera e dal Senato per quanto di propria competenza, e sosterrà con convinzione il lavoro delle Camere per dare all'Italia istituzioni più autorevoli e più efficienti. Ciò in ossequio al testimone che i padri costituenti lasciarono alle successive generazioni, e con la consapevolezza - conclude Quagliariello - che uno Stato che funziona è il primo antidoto alla crisi economica e di sovranità in cui versa il nostro Paese". "Il Pd, tutto il Pd non vuole più tornare a votare con questa legge elettorale". Lo ha detto il segretario del Pd, Guglielmo Epifani, nelle dichiarazioni di voto alla Camera sulle mozioni riguardanti le riforme. "Le parole non cancellano i fatti - ha ammonito Epifani - che vanno avanti per loro conto. Solo le scelte orientano i processi e solo attraverso essi ricostruiscono il rapporto tra cittadini e istituzioni. Questo - ha concluso - è un impegno di serietà di fronte a Paese". Falso problema. Se la politica italiana è in crisi; se la classe politica ha perso credibilità nei confronti degli elettori, non è a causa del bicamenralismo o degli elevati appannaggi dei parlamentari; tanto meno è a causa del loro numero. Il numero non fa la qualità. Oggi quello che manca alla politica italiana è infatti la qualità. Meglio ancora, manca la cultura. Non solo la cultura politica, ma la cultura tout court. Lo si evince dal linguaggio usato: un linguaggio culturalmente povero che ridonda di tecnicismi, di luoghi comuni; quando non arriva alla boutade, all'insulto. Il vero problema è che la politica italiana manca sia di ésprit de finesse che di ésprit de géometrie. In altre parole, manca dei "fondamentali", per usare un termine preso a prestito dalla finanza. Ne deriva che, se le cose stanno così, non sarà facile trovare una soluzione alla crisi della politica. Tale soluzione non richiederà i diciotto mesi pronosticati dal presidente del consiglio, Enrico Letta; ma richiederà degli anni. I nostri politici dovranno rtornare a scuola a imparare nuovamente a legge e scrivere. La stessa cosa dovrà essere fatta per risolvere i problemi economici del paese. Anche in questo campo, i nostri politici mostrano di mancare non solo d "visione", come direbbe Joseph Schumpeter, ma dei "fondamentali", delle conoscenze di base, dei modelli su cui si sono formate generazioni di economisti. L'economia politica è una disciplina difficile, lo so. Ma è anche affascinante. Oggi viene trattata dai nostri come una semplice tecnica di taglia e cuci. Non è così. Il problema vero della nostra economia non è quello di tagliare e cucire, ma di fare in modo che le banche scucino i soldi che custodiscono in cassaforte al fine di rimettere in moto l'economia secondo il classico schema D-M-M'-D' dove D sta per denaro, M sta per materie prime, energia, forza lavoro, M' sta per prodotti finiti, D' sta per ricavi conseguiti dalla vendita dei prodotti. Quindi, due sono gli elementi fondamentali d'un processo economico: il denaro senza il quale bo è possibile l'investimento e il consumo senza il quale non vi è incentivo all'investimento. Il problema è tutto qui. *** Eravamo a un passo dal baratro. Ma c'eravamo salvati e poteva partire la fase dedicata alla crescita: liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro, da approvare con tempi «piuttosto veloci». Era pronto anche lo slogan, che aveva il copyright del presidente del consiglio: dopo il decreto «salva-Italia», arrivano le misure «cresci-Italia». (Stampa.it, 29 dicembre 201). Lavoro, scuola, strade, territorio, urbanistica: al Pirellone lo chiamano progetto di legge cresci Lombardia, come il cresci Italia. Era il provvedimento che avrebbe dovuto ridare benzina al motore economico italiano. (Corriere della sera, 3 aprile 2012). Non fu così. L'economia continua a sprofondare nella recessione. L'occupazione continua a diminuire, mentre continua ad aumentare Con il termine occupazione di Insieme degli individui che, in base alle rilevazioni dell’ISTAT sulla forza lavoro, risultano occupati in un determinato periodo come dipendenti o come indipendenti. Lo stato di o., pertanto, implica uno scambio in atto fra prestazione lavorativa e reddito che avviene sul mercato del lavoro e richiede la realizzazione contemporanea di due condizioni: la decisione di partecipazione del lavoratore, e quella di impiego del datore di lavoro lavoro, domanda di). Insieme agli individui disoccupati, l’o. costituisce la forza lavoro. Fanno parte dell’o. anche i cosiddetti sottoccupati, ossia coloro che svolgono un impiego effettivo di qualità più scadente (per livello di retribuzione, stabilità ecc.) rispetto a quello abituale, oppure che lavorano per un numero di ore inferiore a quello desiderato. Un sottoinsieme dell’o. è rappresentato dalla manodopera, termine con il quale si fa generalmente riferimento al complesso delle persone che prestano lavoro subordinato (normalmente come operai) in uno o più settori di attività produttiva. La piena occupazione e le diverse scuole di pensiero. Si ha piena o. quando tutti coloro che desiderano lavorare alle condizioni di mercato sono occupati; in questo caso, coloro che non lavorano sono considerati disoccupati volontari. La teoria economica ha elaborato diverse teorie dell’occupazione. La scuola classica classica, economia) era giunta alla conclusione che, in condizioni di equilibrio e di perfetta flessibilità di tutti i prezzi, non dovesse esserci disoccupazione e che il mercato tendesse automaticamente all’equilibrio di piena o. attraverso aumenti e diminuzioni dei salari reali. Nel modello neoclassico la sostituibilità dei fattori produttivi e la perfetta flessibilità dei loro prezzi fanno sì che il sistema economico si muova nel lungo periodo sempre verso il pieno impiego. J.M. Keynes ha messo in luce come possa invece riscontrarsi disoccupazione involontaria anche in situazione di equilibrio a causa della rigidità dei salari monetari e reali, e ha sottolineato la dipendenza del volume dell’o. dal livello della domanda effettiva di beni e servizi. Le nuove teorie e le strategie intraprese. Le due principali teorie dell’o. sono, da una parte, quella dei nuovi economisti classici (noti anche come economisti delle aspettative razionali; dall’altra, quella dei cosiddetti neokeynesiani. I primi affermano che la disoccupazione deriva dalla prevalenza e persistenza sul mercato del lavoro di salari reali e monetari più elevati di quelli che la domanda delle imprese sia disposta ad accettare. I secondi affermano che la mancanza di piena o. risulta da un livello di equilibrio del prodotto nazionale insufficiente a richiedere i servizi produttivi del totale dell’offerta di lavoro. Il raggiungimento della piena o. rappresenta uno dei 3 nuovi grandi obiettivi stabiliti dalla strategia europea per l’o, in seguito alla sua revisione attuata nel 2003. L’ulteriore revisione del 2005 ha individuato gli orientamenti per l’o. e li ha integrati con quelli economici, confluendo negli Orientamenti Integrati per la Crescita e l’Occupazione (OICO). Gli orientamenti relativi all’o. sono, per es., l’attuazione di strategie volte alla piena o., al miglioramento della qualità e della produttività sul posto di lavoro e al potenziamento della coesione sociale e territoriale, o la creazione di mercati del lavoro inclusivi, rendendo l’attività lavorativa più attraente e proficua per quanti sono alla ricerca di impiego e per le persone meno favorite e inattive. In Italia, la normativa volta al sostegno dell’occupazione è stata oggetto, a partire dagli anni 1990, di una riforma strutturale che ha coinvolto diversi aspetti, tra cui l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, le pari opportunità, i servizi per l’impiego. Dal punto di vista della competenza istituzionale, la gestione dei servizi offerti ai cittadini e l’individuazione delle misure di politica attiva sono stati delegati, nel rispetto del principio di sussidiarietà, alle Regioni e agli enti territoriali, al fine di meglio rispondere alle esigenze effettive del territorio. Con il dlgs. n. 276/2003, attuativo della legge delega 30/2003, il legislatore ha perseguito l’obiettivo di rendere più flessibile il mercato del lavoro, migliorandone l’efficienza, sostenendo politiche attive per il lavoro e favorendo la diminuzione del tasso di disoccupazione. Una delle innovazioni più rilevanti, che hanno riguardato sia l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, sia i servizi per l’impiego, è consistita nel riconoscimento di nuovi soggetti di intermediazione: le agenzie per il lavoro. L’attività di intermediazione può essere svolta anche da università, pubbliche e private, e da fondazioni universitarie, alle quali l’autorizzazione è concessa ope legis, nonché da Comuni e Camere di commercio, scuole di secondo grado, associazioni sindacali a livello nazionale, enti bilaterali, associazioni private riconosciute ecc., che possono ottenere le autorizzazioni sulla base di requisiti ridotti. Il democrazia lgs. n. 276/2003 ha così reso operativa la riforma dei servizi per l’impiego, delineando un nuovo mercato del lavoro nel quale i tradizionali operatori pubblici (i centri per l’impiego) e i soggetti privati autorizzati svolgono la propria attività in regime di competizione e di concorrenza. Anche le norme sul collocamento ordinario e obbligatorio sono state oggetto di innovazione. In particolare, il democrazia lgs. n. 469/1997 ha conferito alle Regioni e alle Province le funzioni e i compiti relativi al collocamento e alle politiche attive del lavoro, mentre il democraziap.r. n. 442/2000 e il democrazia lgs. n. 181/2000 hanno semplificato le procedure sul collocamento (vedi: collocamento diritto del lavoro). Con riferimento al collocamento obbligatorio, la l. 68/1999 si è inoltre preoccupata di attuare la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone diversamente abili (Disabili. Diritto del lavoro). Il democrazia lgs. n. 276/2003 (con successive modifiche e integrazioni) ha altresì previsto e valorizzato nuove forme contrattuali volte a favorire l’occupazione attraverso l’introduzione di strumenti di flessibilità del lavoro. In particolare, sono state introdotte o riformate alcune tipologie contrattuali, quali la somministrazione di lavoro, l’appalto di servizi, il contratto a orario modulato, il contratto a tempo parziale, il lavoro ripartito e intermittente; il contratto di inserimento, che sostituisce il contratto di formazione e lavoro e si rivolge soprattutto alle donne delle aree svantaggiate e ai lavoratori più anziani. È stata poi riformata la disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative, mediante la previsione della riconducibilità delle stesse a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa. Con più specifico riferimento all’occupazione giovanile particolare rilievo assume il nuovo ruolo attribuito dal democrazia lgs. n. 276/2003 al contratto di apprendistato. Ulteriori misure sono state introdotte, in questa materia, dal democrazial. n. 185 /2008 (l. n. 2/2009), che ha previsto, tra le varie misure straordinarie volte a fronteggiare la disoccupazione, l’istituzione di un Fondo di sostegno per l’occupazione e l’imprenditoria giovanile. Infine, nell’ambito degli interventi volti a promuovere le pari opportunità, la l. n. 53/2000 ha recato disposizioni a sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città, mirando, tra l’altro, a consentire ai genitori una reale distribuzione dei compiti di cura dei figli, con un sistema di tutele molto più ampio di quello previsto dalle norme preesistenti. Siamo così arrivati alla legge Fornero, la quale avrebbe dovuto flessibilizzare il mercato del lavoro e aumentare le opportunità lavorative. Non è stato così. Il mercato del lavoro non è un mercato come gli altri, E' un'istituzione sociale: Ciò che si vende e che si compera non è un bene econiomico qualsiasi; è la vita della gente, il modo di vivere delle famiglie, il futuro dei nostri giovani. Ciò crea una situazione che non è matematizzabile all'interno di un classico modello di crescita economica. Con tale espressione si intende l’insieme degli aspetti quantitativi dello sviluppo, misurati attraverso le principali grandezze macroeconomiche (reddito nazionale, investimenti ecc.). Si ha c. economica equilibrata in un processo di sviluppo, in cui tutte le principali grandezze macroeconomiche crescono allo stesso tasso percentuale costante. Si ha c. zero nella situazione in cui l’economia non si sviluppa, rimanendo stazionaria. In economia, si studia la teoria della c. con modelli che rappresentano, a diversi livelli di aggregazione, l’andamento nel tempo di variabili cruciali quali il reddito, il risparmio, gli investimenti ecc. I modelli di c. possono essere formulati anche con equazioni dinamiche in un contesto di equilibrio generale, come nel modello anticipatore elaborato nel 1937 dal fisico J.L. von Neumann. La teoria della c. si distingue dall’economia dello sviluppo per l’attenzione esclusiva agli aspetti quantitativi e alla formalizzazione, a discapito dello studio degli aspetti istituzionali, storici, etici, antropologici che condizionano i processi di sviluppo nelle diverse regioni del mondo. Nei modelli neoclassici di c. elaborati negli anni 1950 e 1960, a partire dal contributo di R.M. Solow, il tasso di c. del prodotto lordo pro capite era spiegato da tre variabili, esplicitate in una funzione aggregata di produzione: il tasso di c. dello stock di capitale, quello del fattore lavoro impiegato e il progresso tecnico. Il progresso tecnico era considerato esogenamente dato, cioè non spiegato da altre variabili del modello. Su questa base, ci si dovrebbe attendere che nel lungo periodo i tassi di c. di tutti i paesi tendano a convergere. Se il progresso tecnico è esogeno, tutti i paesi dovrebbero godere uniformemente dei suoi benefici ed eventuali differenze iniziali sarebbero eliminate nel corso del tempo, perché si può dimostrare che, nell’impianto teorico di tali modelli, i paesi con un più basso livello di capitale pro capite crescono più velocemente di quelli con un più elevato livello di capitale pro capite. La convergenza predetta dalla teoria non si verifica nell’esperienza storica. I divari di c. tra i paesi sono stati ampi e persistenti. La discrepanza fra teoria e realtà ha contribuito, soprattutto negli anni 1980 e 1990, allo sviluppo di una nuova classe di modelli di c., noti come modelli di c. endogena . Contributi importanti in questo campo sono quelli di R. Lucas, P.M. Romer e R.J. Barro. Nei modelli di c. endogena il tasso di c. del prodotto pro capite dipende da variabili endogene, il cui andamento è spiegato in seno al modello. Tra le variabili che spiegano la c. del sistema economico, particolare attenzione è stata dedicata al capitale umano inteso come il risultato d’investimenti nella formazione e nell’istruzione. La quantità di capitale umano impiegata nella produzione è una variabile endogena: dipende dalle decisioni degli individui sulla quantità di risorse da dedicare appunto alla formazione di capitale umano. Il progresso tecnico è considerato endogeno, perché dipende dal tasso di accumulazione, se si suppone che il veicolo attraverso il quale le imprese introducono innovazioni tecnologiche sia l’investimento in beni capitali. Il capitale umano può non essere liberamente trasferibile da un paese all’altro e la specializzazione di un paese nella produzione di certi beni può determinare un più alto o più basso tasso di c., secondo il maggiore o minore grado di progresso tecnico incorporato nei mezzi di produzione, che le diverse specializzazioni favoriscono. Nei modelli di c. endogena, in sintesi, la convergenza dei tassi di c. nel lungo periodo non è più necessariamente vera. I modelli di c. endogena hanno rappresentato un significativo avanzamento rispetto ai modelli di c. neoclassici tradizionali. Altre impostazioni teoriche, d’ispirazione classica, postkeynesiana, austriaca o evoluzionista, hanno concentrato l’attenzione su modelli di crescita. Si possono considerare come fattori che promuovono processi di c. endogena, la spesa pubblica e le politiche economiche, o la specializzazione produttiva a livello internazionale. Fattori endogeni e cumulativi della c. sono stati posti in evidenza da N. Kaldor con riferimento alla specializzazione di un paese nelle esportazioni manifatturiere.