“Risparmio, tassazione e libertà dei capitali” Luigi Zingales, Il Sole

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“Risparmio, tassazione e libertà dei capitali” Luigi Zingales, Il Sole
“Risparmio, tassazione e libertà dei capitali”
Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore
24 March 2006
Visto dagli Stati Uniti, il dibattito sulla cosiddetta tassazione delle rendite finanziarie sembra una commedia
dell'assurdo. Innanzitutto, il termine usato, oltre che improprio, è carico di valenze politiche di sapore marxista.
Tecnicamente la rendita è la remunerazione per un fattore produttivo fisso e scarso. Ma chi investe i risparmi in azioni
e obbligazioni non gode di una rendita, bensì di un compenso per aver posticipato il consumo e aver assunto un rischio.
Non è pura semantica. Il termine «rendita» evoca il concetto di guadagno ottenuto senza sforzo, che può e deve essere
tassato pesantemente. Invece, risparmiare, come tutti sappiamo, comporta un sacrificio, una rinuncia, e maggiori
tasse sui rendimenti delle attività finanziarie si tradurranno in un'inevitabile riduzione del risparmio. Chiamiamola
quindi tassazione del risparmio e non delle rendite finanziarie.
All'opposto, in forte contrasto con la retorica di sapore marxista è l'idea diffusa che sia inconcepibile l'applicazione del
principio della progressività alla tassazione del risparmio. Eppure negli Stati Uniti, un Paese che non può certo essere
accusato di simpatie marxiste, tutti i redditi da capitale concorrono a formare il reddito individuale, cui viene imposta
la stessa aliquota. Solo i capital gain sono tassati a un'aliquota differenziata, che varia dal 15% al 20% a seconda della
durata della detenzione dei titoli stessi.
In realtà, l'equiparazione fiscale di tutti i redditi da capitale corrisponde sia a criteri di efficienza sia a criteri di
equità. Una tassazione differenziata distorce le scelte di allocazione del risparmio, con conseguenze negative sulla
crescita economica di un Paese. Favorisce anche l'evasione e l'elusione di imposta. Perché un manager che riceve una
retribuzione di un milione di euro deve lasciarne 421.390 all'Erario, mentre se viene remunerato con stock-option che
generano un guadagno dello stesso importo ne deve pagare solo 125mila?
Possiamo infine argomentare sull'opportunità economica della progressività fiscale. In Italia questo principio è sancito
dalla Costituzione. Perché dunque applicarla solo al reddito da lavoro e non al reddito da capitale? Non pochi lettori a
questo punto saranno già saltati sulla sedia.
Per molti di loro, l'introduzione del sistema americano vorrebbe dire un'aliquota marginale del 43% sui redditi dai
investimenti. Com'è proponibile? Non porterebbe a una fuga dai titoli del debito pubblico, che costringerebbe lo Stato
a dichiarare bancarotta?
La risposta alla seconda domanda è un chiaro no. Quasi la metà del debito pubblico è oggi detenuto da operatori
esteri, non soggetti alla tassazione italiana. Un lieve aumento dei rendimenti, eventualmente causato dall'inasprimento
fiscale, renderebbe i nostri titoli ancora più appetibili e gli investitori stranieri si affretterebbero a comprarli,
fintantoché il bilancio dello Stato italiano rimane solido. Una riforma complessiva della tassazione aumenterebbe, non
ridurrebbe, la solidità dei conti statali. Lo spettro del default, opportunamente usato in passato per proteggere
privilegi fiscali, oggi nell'era dell'euro non funziona più. Se vogliamo ragionare contro l'innalzamento della tassazione
dei redditi da capitale, dobbiamo trovare argomentazioni migliori. Che non mancano.
Innanzitutto c'è un fatto pratico. Il capitale è più mobile del lavoro. È più facile per un ricco possidente spostare i
propri capitali in un paradiso fiscale ed evadere le tasse che per un lavoratore emigrare per sottrarsi alla morsa del
fisco italiano. In parte, si tratta di un problema strutturale, in parte è contingente. Il nostro sistema di rilevazione dei
movimenti finanziari è antiquato e non è in grado di monitorare l'uscita di capitali. Ma questa carenza è temporanea e
può essere risolta. Se ci riescono gli Stati Uniti perché non potremmo un giorno non troppo lontano farcela anche noi?
L'obiezione più seria è che un'aliquota marginale del 43% sui rendimenti finanziari avrebbe effetti enormi sulla
propensione al risparmio del nostro Paese, proprio perché a venir tassato è il risparmio e non una rendita. Ben venga
questa obiezione. Una riforma seria può emergere solo da un vero dibattito economico sui suoi costi e benefici. Un
dibattito libero sia da pregiudizi marxisti sia da pseudo argomentazioni scientifiche a difesa di vecchi privilegi fiscali.
Al primo punto di tale dibattito c'è la considerazione che una tassazione del 43% è eccessiva non solo sul risparmio, ma
anche sul reddito da lavoro. Una riforma fiscale seria, aumentando la base imponibile, potrebbe facilmente abbassare
tutte le aliquote, come nel 1986 fece Reagan, anche lui difficilmente etichettabile come marxista.
Al secondo punto c'è il fatto che una buona parte del rendimento finanziario non è reddito ma ricostituzione del
capitale eroso dall'inflazione. In presenza di un tasso di inflazione del 2%, un rendimento nominale del 3% è per due
terzi restituzione del capitale e solo per un terzo rendimento reale. Tassare la prima componente è iniquo oltre che
distorsivo. La scure fiscale dovrebbe quindi limitarsi solo alla parte reale del rendimento.
Al terzo punto c'è che i rendimenti azionari vengono già pesantemente tassati con le imposte in capo alle società,
perché quindi sovraccaricarli con un'ulteriore imposizione? Questa è la ragione, usata anche negli Stati Uniti, a favore
di una ridotta tassazione dei guadagni borsistici. Ricordiamoci, però, che questo sistema penalizza i piccoli
risparmiatori (che subiscono a monte comunque un prelievo Ires del 33% sulla quota dei profitti societari che
possiedono) e avvantaggia i ricchi (che subiscono una tassazione solo al 33% sulla loro quota di profitti). Anche in
questo caso una riforma fiscale seria potrebbe ridurre l'imposta sulle società, in cambio di un aumento della tassazione
sui guadagni in conto capitale.
Il punto più importante è come minimizzare gli effetti negativi sul risparmio di una tale riforma della tassazione. Un
metodo, seguito negli Stati Uniti e in buona parte anche in Italia con le recenti norme sul Tfr, è di posticipare il
prelievo per il risparmio investito in fondi pensione. Non solo questo ridurrebbe gli effetti negativi di un'equiparazione
della tassazione dei redditi da capitale, ma favorirebbe lo sviluppo di intermediari cruciali per lo sviluppo dei mercati
finanziari del nostro Paese.