La Notte di Caravaggio

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La Notte di Caravaggio
La Notte di Caravaggio Schede delle opere esposte alla Galleria Borghese 17|18 Luglio 2010 Ragazzo con canestro di frutta, 1593‐1594 olio su tela, 70 x 67 cm Roma, Galleria Borghese La tela, proveniente dal sequestro dei quadri presenti nella bottega del Cavalier d’Arpino nel 1607 e confluita nella collezione del cardinale Scipione Borghese, è considerata opera giovanile di Caravaggio. La datazione si colloca nel primissimo periodo romano, cioè tra il 1593 e il 1594. In questo dipinto compaiono in nuce alcuni tratti peculiari dello stile dell’artista, in seguito sviluppati e approfonditi nel corso della sua produzione successiva: la sorgente di luce proviene da sinistra, da una fonte fuori campo, e illumina il lato destro del giovane in modo che le zone contrastanti di luce e d’ombra conferiscono al soggetto un particolare effetto di verità, la visione reale di un giovane che vende frutta nei mercati rionali. La cesta di frutta è la prima natura morta dipinta da Caravaggio e conserva, nella ricchezza cromatica, il retaggio lombardo dell’artista. Il giovane, in atteggiamento di languido abbandono, offre una ricca quantità di frutti in un canestro di vimini decorato di foglie; il taglio è a mezza figura, con una spalla sfrontatamente nuda, le labbra socchiuse e un appeal decisamente sensuale; la sua ombra si proietta sul fondo di una parete vuota e la scena è tutta risolta in primo piano. La scelta del soggetto concorda con un’indicazione del biografo Bellori: il Cavalier d’Arpino, presso cui il giovane artista, da poco giunto a Roma dalla Lombardia, fu preso a bottega, avrebbe affidato a Michelangelo il compito di “dipingere fiori e frutti”. Il soggetto della natura morta non era molto frequente nella pittura romana di fine Cinquecento, ma aveva precedenti illustri nell’area lombarda da cui proveniva Caravaggio. Qui, forse per la prima volta, siamo di fronte a quella dialettica nell’uso della luce cui Caravaggio rimane legato tutta la vita: la luce non è più quella “universale”, priva di una direzione precisa, inesistente in natura, che fino a quel momento era stata utilizzata dai pittori della sua epoca; al contrario, la fonte di luce solare proviene da una sorgente ben precisa, la finestra fuori campo in lato a sinistra, che illumina in pieno il lato destro del giovane e in parte lo sfondo, e attraverso il contrasto con le zone d’ombra mette in risalto gli oggetti, rendendoli quasi tangibili. Dal punto di vista della simbologia, l’ipotesi più convincente è che il Ragazzo con canestro di frutta possa ricordare la tradizione latina degli Xenia, omaggi di frutta e ortaggi che venivano offerti agli ospiti della casa in segno di benvenuto, o addirittura richiamarsi all’antico dio romano Vertumno, protettore dei giardini, dei frutteti e del mutare delle stagioni. 1
Bacchino malato (Autoritratto in veste di Bacco), circa 1593 olio su tela, 67 x 53 cm Roma, Galleria Borghese Il Bacchino malato, così detto per l’incarnato pallido del volto, proviene dal sequestro dei dipinti che il pittore Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino, teneva nel 1607 presso la sua bottega romana, frequentata per qualche tempo dal giovane Caravaggio, appena arrivato a Roma. È considerata una delle prime tele da lui dipinte nella città papale, quando poverissimo, lacero e affamato accettava per sopravvivere qualsiasi lavoretto gli venisse offerto. L’identificazione del Bacchino come autoritratto di Caravaggio, ormai unanimemente accettata dalla critica, è stata proposta da Longhi, che lo ritiene eseguito durante la convalescenza trascorsa dall’artista nell’Ospedale della Consolazione di Roma, dopo una misteriosa malattia di cui il colorito pallido del volto sarebbe indizio. Secondo la preziosa testimonianza del pittore e biografo Giovanni Baglione, è questo il primo dei “quadretti da lui nello specchio ritratti”, cioè dipinti utilizzando uno specchio: siamo quindi di fronte alla prima immagine, quasi una fotografia, del giovane pittore, che doveva avere all’epoca circa ventidue o ventitrè anni. Quello del Bacchino è un volto singolare, crudo e spietato, ma che sembra ben corrispondere nei particolarissimi tratti somatici ai vari autoritratti presenti nelle opere più tarde e al ritratto che ci ha lasciato il suo amico Ottavio Leoni. Il biografo Bellori ci indica indirettamente la ragione del ricorso a questo artificio: Caravaggio non poteva permettersi di pagare un modello per dipingere ed evidentemente si arrangiava ritraendo se stesso con l’aiuto di uno specchio. Un’abitudine questa che permane anche successivamente, visto il grande numero di autoritratti (quasi una firma) presenti nei suoi quadri. Nella tela compaiono in nuce tutte le novità stilistiche e compositive che rivoluzioneranno la storia della pittura italiana e non solo. La grandezza “al naturale” della figura posta in primo piano, con lo sguardo ironico e penetrante rivolto, come anche il mesto sorriso, verso colui che guarda; lo sfondo scuro che spinge in avanti il giovane Bacco e il fascio di luce proveniente da un punto preciso in alto a destra che squarcia il buio illuminando violentemente la scena. La luce, tuttavia, si sofferma a evidenziare solo alcuni particolari della composizione, scelti con cura da Caravaggio: i prestanti e provocanti muscoli della schiena e del braccio del giovane, il piano nudo su cui poggia l’uva nera e i pomi, l’uva bianca nella mano, il nastro che cinge il panneggio bianco di cui è vestito e, infine, alcune foglie della corona d’edera che raccoglie i capelli ricciuti. È stato notato che la posa del busto rimanda a puntuali citazioni della scultura antica, a Raffaello (Parnaso), al suo maestro milanese Peterzano e al Cavalier d’Arpino. Nella splendida ed essenziale raffigurazione dei frutti sparsi sul tavolo è evidente l’attenzione per le nature morte che sarà elaborata più volte nei quadri successivi, fino alla meravigliosa Canestra di frutta della Biblioteca Ambrosiana di Milano. Tra le diverse interpretazioni della critica, vi è quella che accosta il Bacchino ad una rappresentazione di Cristo (Calvesi): 2
Bacco, il dio che muore e rinasce, è rappresentato con l’uva, simbolo paleocristiano del Cristo stesso, che ricorda la morte, nella sua varietà nera, e la vita, in quella bianca. Il dio poggia su una pietra, il sepolcro, simbolo mortifero su cui poggiano i pomi gialli del trapasso. L’edera del capo è l’Immortalità, che segue la Resurrezione. Il vino è il sangue del sacrificio, che si ripete ogni volta nell’eucarestia. Caravaggio intreccia al messaggio cristiano di salvezza universale le proprie vicende personali, legate alla malattia, causa del ricovero all’ospedale della Consolazione, a cui allude il colorito esangue del volto, e alla guarigione. San Gerolamo scrivente, 1605‐1606 olio su tela, 112 x 157 cm Roma, Galleria Borghese Citato da Manilli (1650) e da Bellori (1672) come opera eseguita per il cardinale Scipione Borghese, il San Girolamo compare negli inventari Borghese fin dal 1693. È stato ipotizzato che Caravaggio ne avesse fatto dono al cardinale, che aveva avuto un ruolo fondamentale nella conclusione pacifica della controversia con il notaio Pasqualone, il quale aveva denunciato il pittore nel 1605 dopo un’aggressione. Il dipinto viene attribuito all’ultimo periodo romano. Il santo, che conformemente alla tradizione iconografica ha le sembianze di un uomo in età avanzata, con l’aureola, è rappresentato mentre lavora all’opera più importante della sua vita, la traduzione in latino della Bibbia: mentre con la mano sinistra tiene davanti a sé il testo sacro, su cui sta riflettendo, la mano destra, poggiata sullo scrittoio, impugna la penna pronta a scrivere. Lo scrittoio reca gli elementi e il disordine tipici dello studioso: sul libro aperto, quello da scrivere, è poggiato un teschio, di cui è stata rilevata la somiglianza con la testa del santo, per il quale Caravaggio avrebbe usato lo stesso modello dell’Abramo del Sacrificio d’Isacco (Hibbard). L’intera scena è stata letta come Memento mori, vicina alle rappresentazioni d’area lombarda, mentre l’ispirazione ai precetti espressi dal cardinale Carlo Borromeo sul modo più corretto di raffigurare i santi sarebbe evidente, a detta di alcuni critici, nella connotazione eremitica. Un’altra lettura mette l’accento sul manto purpureo che avvolge il santo come una veste cardinalizia: questo particolare è stato interpretato in funzione antiluterana, poiché san Girolamo aveva definito san Pietro il primo vescovo di Roma, o addirittura in relazione al committente, il cardinale Scipione Borghese, come segno di omaggio. La gamma cromatica del dipinto è impostata sui toni bianchi e quelli bruni; il tratto affrettato e alcune parti non del tutto “risolte” (nella barba, nei libri, nel manto), lasciano supporre che l’opera non sia stata terminata dall’artista. 3
Madonna dei Palafrenieri, 1605‐1606 olio su tela, 292 x 211 cm Roma, Galleria Borghese Il 31 ottobre 1605 Caravaggio viene contattato dalla congregazione della Reverenda Fabbrica di San Pietro per un prestigioso incarico: un dipinto per l’altare della compagnia dei Palafrenieri in San Pietro in Vaticano che, in seguito allo spostamento dalla navata al transetto destro della basilica, necessitava di una nuova pala. Il lavoro va avanti dal primo dicembre 1605 al1’8 aprile 1606. Tuttavia, una volta consegnata, la tela rimane esposta nella basilica solo una settimana, fino al 16 aprile, data in cui viene rimossa dall’altare e collocata nella vicina chiesa di Sant’Anna dei Palafrenieri. Poco tempo dopo, il 16 giugno 1606, Scipione Borghese, cardinal nepote del pontefice Paolo V avido e appassionato collezionista d’arte e grande ammiratore di Caravaggio, acquista la tela al prezzo di soli 100 scudi dalla confraternita dei Palafrenieri. Irrisolta la questione del rifiuto: sulle motivazioni i critici hanno azzardato varie ipotesi, la più macchinosa delle quali vorrebbe che il pontefice abbia disposto il ritiro del quadro per consentire al nipote Scipione Borghese d’impadronirsene per una cifra irrisoria. Fondata invece su ragioni ideologiche è la teoria che spiega il rifiuto della tela con l’insofferenza, da parte di alcuni membri della Curia, della visione pauperistica della Chiesa propugnata da Caravaggio, vicina alle istanze dell’ordine religioso degli oratoriani. Altro motivo di biasimo potrebbe essere l’uso, inappropriato, di una donna reale, la famosa “Lena”, come modella per questa Vergine, a cui il seno prosperoso e la gonna sconvenientemente sollevata danno una connotazione di intensa carnalità. Un’ulteriore considerazione viene dai fatti contingenti della vita dell’artista: è in quello stesso arco di tempo, il 28 maggio 1606, che Caravaggio si macchia del delitto che lo costringerà alla fuga da Roma. Della scena, apparentemente semplice, sono state rilevate le profonde e complesse implicazioni teologiche. La Vergine schiaccia col piede nudo il serpente, aiutata dal Bambino che, essendo forse ancora troppo piccolo per reggersi in piedi da solo, sovrappone il suo piede a quello della madre, sopra la testa del serpente. In linea con il dogma cattolico era la rappresentazione della sconfitta del peccato, simboleggiata dallo schiacciamento del Maligno, a opera della Vergine, simbolo della Chiesa cattolica. Qui era aperto ed evidente il conflitto con il Luteranesimo, che negava l’importanza della Chiesa, di cui Maria è figura fondamentale, attribuendo al solo Gesù il ruolo salvifico. L’azione si svolge sotto lo sguardo di sant’Anna che, un po’ distaccata dalla scena, osserva meditabonda e sorpresa, con le mani intrecciate in grembo: la santa, il cui nome significa “Grazia”, potrebbe esprimere il rafforzamento della sconfitta del peccato, ma il suo solitario distacco è inconsueto rispetto all’iconografia tradizionale. Secondo alcuni critici proprio qui potrebbe nascondersi un motivo del rifiuto del quadro: la Vergine col Bambino e sant’Anna apparivano come due nuclei separati, così come apparivano distanti i significati delle loro azioni e figure: da una parte l’azione della Vergine e del Bambino, la sconfitta del Male e la redenzione dell’umanità a opera della Chiesa e di Cristo insieme, dall’altra quella solitaria della Grazia rappresentata da Sant’Anna. 4
Davide con la testa di Golia, 1609 olio su tela, 125 x 101 cm Roma, Galleria Borghese Questo dipinto, dalle forti implicazioni personali, fu eseguito da Caravaggio per il cardinale Scipione Borghese, forse come appello disperato per ottenere il perdono e la revoca della condanna a morte seguita all’uccisione di Ranuccio Tomassoni. Oltre a essere menzionato da Manilli e da Bellori, è registrato per la prima volta nel 1613 nella collezione Borghese. In seguito, nel 1902, è pervenuto allo Stato italiano. Il dipinto viene datato dalla maggior parte dei critici al secondo soggiorno napoletano (1609‐1610), come già ipotizzava Longhi, o più precisamente alla fine del 1609, in stretta relazione con la domanda di grazia rivolta a Paolo V: il Davide con la testa mozzata corrisponde a un modello iconografico più comune nell’ambito lombardo che in quello romano. Il gesto del braccio alzato, che tiene sospesa la testa di Golia ancora grondante sangue, potrebbe essere ispirato da statue classiche come l’Apoxyomenos. La scena, in parte coperta da tendaggi che mettono in ombra il corpo di Davide, potrebbe rappresentare la tenda di Saul, descritta nel testo biblico (Samuele 1, 57). Le lettere maiuscole visibili lungo lo sguscio della spada sono state interpretate come M A C O, acrostico di Michaeli Angeli Caravaggio Opus oppure come H AS S, acrostico del motto agostiniano Humilitas Occidit Superbiam. Già Bellori indicava nell’orrida testa di Golia, certamente ripresa da una vera decapitazione, un autoritratto di Caravaggio: l’artista si ritrae come Male assoluto mentre Davide è notoriamente figura che allude a quella di Cristo. Calvesi sottolinea che all’epoca i banditi ‐ e Caravaggio, colpevole di omicidio, lo era ‐ potevano essere raffigurati come già giustiziati: Caravaggio lo avrebbe fatto con la sua stessa immagine. Il Davide‐Cristo, invece, volge uno sguardo compassionevole verso colui che si dichiara peccatore: se davvero il dipinto era destinato al pontefice, non è fuori luogo pensare che contenesse un’invocazione al perdono. Narciso, circa 1599 olio su tela, 113,3 x 95 cm Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini Ammirato, dibattuto, lodato, discusso, il Narciso è e resta un capolavoro assoluto, uno dei quadri più suggestivi e ammalianti della pittura italiana di tutti i tempi. L’eccezionale invenzione della sua struttura compositiva affascina fin dal primo sguardo, attrae e imprigiona nel cerchio quasi perfetto tracciato dalle due figure speculari. Il dipinto, che è citato come opera di Caravaggio in un documento di esportazione del 1645, raffigura Narciso, punito dagli dei per aver respinto la ninfa Eco, che si specchia alla fonte in cui annegherà, rapito dalla bellezza della sua stessa immagine. Il soggetto è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, un tema particolarmente diffuso nella letteratura del Cinquecento e 5
del Seicento come allegoria dell’inganno dell’immagine. L’originalità compositiva della figura è stata più volte sottolineata dagli studiosi, soprattutto per l’eccezionale invenzione della doppia figura “a carta da gioco” di cui è fulcro ideale il ginocchio in piena luce. Del tutto nuova è anche la concezione generale dell’opera, che eliminando i particolari descrittivi (il paesaggio, la ninfa Eco, gli attributi iconografici di Narciso) concentra qui l’attenzione sul dramma del protagonista, confermando il carattere astratto e concettuale del dipinto. Per la realizzazione della figura, Caravaggio ha seguito il suggestivo testo ovidiano delle Metamorfosi e, in particolare, sembra aver fissato sulla tela il momento più drammatico del racconto di Narciso: il giovane cacciatore, attratto in maniera irresistibile dalla sua immagine riflessa, cerca di accostarsi a essa per abbracciarla e baciarla un attimo prima di cadere nell’acqua. La particolare raffigurazione delle labbra, evidentemente protese e socchiuse per baciare la sua immagine, e la mano sinistra chiaramente stesa nell’acqua (ben visibile nella radiografia del quadro) rappresentano il tentativo di abbracciare il riflesso. Il Narciso è un’opera che appartiene pienamente ai caratteri stilistici e formali di Caravaggio ed è riconducibile agli ultimi anni del Cinquecento, quando il grande pittore lombardo predilige le atmosfere magiche, sospese, introspettive e ancora fortemente influenzate dalla pittura lombarda, ma in cui sonda le infinite possibilità del rapporto luce‐
ombra. Giuditta che taglia la testa a Oloferne, 1599 olio su tela, 145 x 195 cm Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini Ricordata da Baglione come opera dipinta da Caravaggio “per li Signori Costi”, Giuditta che taglia la testa a Oloferne, datata al 1599, è citata nel 1632 nel testamento del banchiere ligure Ottavio Costa. La grande scritta “C.O.C” sul retro della tela originale, da interpretare come le iniziali del proprietario, “Comites Ottavio Costa”, conferma la notizia di Baglione. Ricomparso a Roma, il dipinto fu esposto per volontà di Roberto Longhi nella storica mostra del 1951 su Caravaggio e i caravaggeschi nel Palazzo Reale di Milano, e infine acquistato dallo Stato nel 1971. Giuditta è l’eroica vedova di Betulia che seduce e coraggiosamente decapita il nemico Oloferne, generale del re Nabucodonosor, per salvare il suo popolo stremato da un lungo assedio. La scena è tutta giocata su forti contrasti ed esaltati e potenti chiaroscuri: in piena luce Giuditta, bellissima e delicata, dall’ovale perfetto e l’acconciatura accurata, vestita e ornata a festa, immerge la pesante scimitarra nel collo del nemico. Dall’altro lato, mentre balenano nella luce i muscoli contratti del corpo poderoso, Oloferne alza al cielo lo sguardo disperato: nella penombra s’apre l’orrenda ferita da cui sgorga il sangue a fiotti. Nell’angolo destro, il volto e gli occhi spiritati della vecchia, pronta ad accogliere nella sua bisaccia il capo reciso, esprimono tutto l’orrore per quanto sta succedendo, ma l’algida eroina aggrotta solo lievemente la fronte. La forza divina anima le bianche braccia, rigide e ferme, che tengono il più possibile lontano il corpo agonizzante di Oloferne. A prestare il 6
volto a Giuditta fu la prostituta Fillide Melandroni, amante del pittore, che appare anche nella Santa Caterina Thyssen‐Bornemisza e nella Maddalena di Detroit. Alcuni studiosi hanno collegato il crudo realismo della decapitazione alla possibilità che Michelangelo abbia assistito alla clamorosa esecuzione di Petronia e Beatrice Cenci, avvenuta a Roma 1’11 settembre 1599. Caravaggio ha seguito il testo della Bibbia Clementina edita pochi anni prima (Venezia 1592) da cui riprende una serie di particolari: Giuditta che afferra Oloferne per i capelli, la particolare evidenza data ai tendaggi rossi, divelti da Giuditta dopo l’uccisione, la pettinatura con la riga centrale che divide i capelli di’ Giuditta e gli orecchini, citati nel racconto tra i gioielli con cui si adorna. Secondo il testo, l’eroina prega Dio, “con il movimento delle labbra in silenzio”, di darle la forza per compiere il suo gesto: è questo che sembrano voler indicare le sue labbra protese e socchiuse. Il momento scelto è quello del trapasso tra la vita e la morte. Il gigantesco Oloferne, infatti, non è più vivo, come indicano gli occhi rovesciati all’indietro, ma non è ancora morto, dal momento che la sua bocca urla e il corpo si contrae. È senza dubbio nella drammatica rappresentazione di questo scontro apparentemente impari che Caravaggio è riuscito a rendere perfettamente non solo il racconto veterotestamentario, ma anche l’ideologia controriformista che dominava ai suoi tempi: la potenza divina, che attraverso una sua creatura, in questo caso Giuditta, vince contro il Male, sia esso Oloferne, il demonio o l’eresia luterana. Dalla violenza di questo contrasto emana a mio avviso il fascino straordinario che incantò Ottavio Costa e, ancora oggi, seduce tutti coloro che si accostano a questo capolavoro assoluto. San Giovanni Battista, 1602‐1603 olio su tela, 94 x 131 cm Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini Si deve a Roberto Longhi il riconoscimento dell’autenticità di questa versione del San Giovanni Battista (la prima è quella conservata a Kansas City), che Caravaggio eseguì negli stessi anni o pochissimo tempo dopo la prima, come portano a ritenere gli studi più recenti. Il dipinto s’incontra, per la prima volta con certezza, nell’inventario della raccolta Corsini del 1808. La luce crepuscolare della scena illumina, oltre al Battista, a torso nudo e avvolto in un ampio panneggio rosso, la splendida natura morta che ha accanto, sullo sfondo, un bosco di cipressi, mentre la canna in mano al santo sfiora, come di consueto, il limite del quadro. L’impianto a tre quarti, anticlassico, e il contrasto tra l’incarnato compatto e la definizione degli oggetti sembrano collocare l’opera in un momento successivo al San Giovanni di Kansas City: pur essendo legato al primo da una stretta affinità compositiva, questo San Giovannino denota una maggiore rapidità esecutiva, tecnica, che secondo Mina Gregori caratterizza sempre più spiccatamente, soprattutto a partire dal primo periodo napoletano, l’arte di Caravaggio, fino a diventare “il suo solo modo di dipingere”. L’analisi del dipinto rivela una tecnica fatta di pennellate assai ampie, con una serie di “riduzioni” in corso d’opera: nel ginocchio destro, nella spalla destra, nel gomito e nel braccio sinistri. Al viso già completato venne sovrapposta, come in altri dipinti, la ciocca di capelli. Una 7
possibile reminiscenza classica, per la posa del Battista, è stata individuata nel Galata morente, rinvenuto a Roma negli scavi di palazzo Madama e sicuramente noto a Caravaggio. San Giovanni Battista, 1601‐1602 olio su tela, 129 x 94 cm Roma, Pinacoteca Capitolina Su questo quadro abbiamo le testimonianze coeve di Baglione e di Celio, che lo chiama “pastor friso”. Relativi alla tela sono due pagamenti del 1602, riportati nei registri di Ciriaco Mattei. Dalla famiglia Mattei, il San Giovanni Battista arriva per vie ereditarie al cardinale Del Monte, come attesta un inventario del 1627, mentre nel 1628 è acquistato dai Pio. Il San Giovanni capitolino è riconosciuto oggi come quello autenticamente proveniente dai Mattei, mentre la versione che in passato era da alcuni ritenuta quella autentica, il San Giovanni Battista della Galleria Doria Pamphilj in Roma, si è rivelata una copia di altissima qualità. Nonostante il quadro sia esplicitamente indicato come “San Giovanni Battista” nei documenti coevi, alcuni critici hanno continuato a difendere l’interpretazione mitologica del soggetto come “pastor friso” (di Frigia), associandolo al segno zodiacale dell’ariete. La composizione della scena è semplice: un giovane nudo e ricciuto, adagiato su una pelle di animale e stoffe drappeggiate, tiene abbracciato un candido ariete, volgendo allo spettatore uno sguardo sorridente. Nel fogliame ai suoi piedi spicca la pianta del tasso barbasso, nel quale è rintracciabile il significato di morte e resurrezione, mentre il dettaglio dei pampini sullo sfondo allude al tema della Vita Eterna (Calvesi). Sul piano iconologico il tema centrale è individuato nell’opposizione tra giovinezza e sacrificio violento, oppure nella rappresentazione dell’Amor divinus. Tra le fonti, il San Giovanni si mette in relazione con uno degl’ignudi michelangioleschi che appare nella scena del Sacrificio di Noè della volta della Sistina: al Buonarroti si riconduce anche il carattere decisamente sensuale di questo soggetto. 8